Capitolo decimo

Il diritto e i suoi limiti

1. Modestia e presunzione della legge.

Iniziamo ora a considerare l’estensione del campo giuridico e i suoi limiti, dal doppio punto di vista di ciò che può starci dentro e di ciò che non si riesce a farci stare dentro. Inclusione ed esclusione.

Prendiamo spunto da un’espressione che è diventata addirittura proverbiale, attribuita a un ammiratore della costituzione inglese che abbiamo già incontrato, Jean-Louis De Lolme, il quale pubblicò nel 1771 un’opera a suo tempo famosa, Constitution de l’Angleterre. È un’espressione «grottesca»1, corrente tra i giuristi inglesi del tempo successivo al Bill of Rights del 1689: il Parlamento [la legge del Parlamento] può fare qualsiasi cosa, salvo che trasformare un uomo in donna (e una donna in uomo)2. Era un modo di banalizzare il principio della Sovereignty of the Parliament. Si voleva dire con una boutade che la legge non poteva ignorare le leggi della natura ma, per il resto, cioè in tutto ciò che dipende dall’opera dell’uomo, poteva estendersi liberamente; cioè poteva operare senza limiti di materie e di persone.

Dal punto di vista giuridico, quel detto è perfettamente sbagliato: la legge, infatti, può tranquillamente operare quella trasformazione, cioè può imporre di considerare e di trattare l’uomo come donna e viceversa, oppure trattarli indipendentemente dal sesso o come soggetti asessuati, salvo verificare la ragionevolezza del trattamento (cosa che i fautori della naturalità della divisione sessuale, infatti, contestano citando quella frase, per esempio a proposito della legalizzazione delle unioni omosessuali). Non interessa qui il rapporto tra “verità legali” e “verità naturali”, cioè il significato del “può” e del “non può”. Ammettiamo che “possa”, nel senso anzidetto di “essere capace di”. Ci interroghiamo, invece, sul “può” e “non può” in altro senso: nel senso di “essere autorizzato” a travolgere tutti i limiti che vuole e a ricondurre al diritto ogni diversa sfera di relazioni sociali (economiche, culturali, sentimentali, ecc.) subordinando a sé ed eventualmente annullando le ragioni che valgono in quelle sfere. Il discorso sugli spazi e sui limiti della legge riguarda la sua tendenza all’espansione: necessaria, forse, o, forse, eccessiva e omnipervasiva e, per cosí dire, onnivora dal punto di vista della complessità e della spontaneità delle relazioni sociali. Tante leggi, ma utili e necessarie, oppure inutili e inopportune?

Per dare un ordine alle prossime considerazioni, seguiremo questa traccia, trattando dell’estensione della legge con riguardo al suo spazio rispetto agli artifici di cui sono capaci gli esseri umani, alle relazioni sociali ch’essi stabiliscono tra di loro e alle loro convinzioni morali. Rispetto agli artifici, alle relazioni sociali e alle convinzioni morali i confini del diritto sono storicamente variabili ma, tuttavia, esistono. Se li si ignora, la conseguenza è l’inconcludenza o la perturbazione delle esistenze.

2. Espansione del campo giuridico.

Lo spazio del diritto sono le opere degli uomini: «nulla di ciò che è umano può essere considerato estraneo al diritto»3. Rispetto al tempo della frase sopra citata di De Lolme, e anche a quella assai piú recente appena ricordata, le opere degli uomini si sono grandemente estese e hanno eroso progressivamente il dominio della natura. l’“artificiale” insidia il “naturale”. La vita degli esseri umani dipende (nel bene o nel male) sempre piú dalle loro scienze e tecniche che riguardano ormai non solo la vita del soma, ma anche quella della psiche, che inizia a diventare dominio delle neuroscienze e delle neuro-pratiche. Ma, anche la vita di quel tale, straordinariamente complesso, essere vivente che è la terra oggi dipende (nel bene o nel male) dalle opere dei suoi figli. Tradizionalmente, il “naturale” si concepiva come il dato primario, come ciò che viene prima dell’“artificiale”. La strada su cui siamo incamminati ci fa intravedere, invece, un mondo in cui ci sarà posto solo piú per l’artificio o, meglio, un mondo in cui sarà l’artificio a rendere possibile quella che una volta era la vita naturale. Se fosse vero – come s’è detto – che «la natura umana è l’artificio», l’artificialità dell’esistenza umana in entrambe le sue dimensioni, somatica e psichica, finirebbe per confondersi con la sua totale artificialità. La stessa riduzione varrebbe per la vita del cosmo nella quale siamo immersi. Cosí, l’umanità tecnologicamente sviluppata si è assunta il compito immane di reggere da sola il mondo che, in passato, poggiava su indiscusse sue proprie “leggi”. Il che, ragionando sulla distinzione aristotelica natura-artificio4, piú che un paradosso, è un parossismo che ci deve mettere all’erta: anche l’intelligenza artificiale, capace di espandersi, fecondarsi e riprodursi sempre piú potentemente, tale da assorbire e annichilire la povera intelligenza degli uomini, sarebbe ancora “natura”? Non proviamo inquietudine al solo pensiero?

Queste sono «considerazioni morali». Dal punto di vista giuridico, la grande espansione della scienza e della tecnica significa che sono cadute e stanno cadendo molte delle barriere che un tempo costringevano a riconoscere che, di fronte alle dure leggi della natura, «non c’è niente da fare». Oggi, invece, c’è sempre piú da fare. Le leggi della natura retrocedono di fronte all’artificio che, per non vagare insensatamente, dev’essere assoggettato anch’esso a una legge: non potendo essere la legge naturale, dovrà essere la legge artificiale, cioè la legge giuridica: artificiale come artificiali sono le opere degli uomini ch’essa si dispone a regolare. Di fronte alla legge si spalancano campi un tempo inimmaginabili.

3. Saturazione dello spazio fisico, sociale e morale.

Quella anzidetta è l’espansione degli spazi a disposizione delle leggi giuridiche, a danno delle leggi naturali. A essa si associa l’occupazione dello spazio sociale. Espansione e occupazione operano congiuntamente provocando un’esplosione delle leggi quale mai finora si era verificata. Il mondo contemporaneo è saturo di leggi.

Che cosa intendiamo per saturazione? Innanzitutto, un concetto spaziale: il demografo Massimo Livi Bacci5 ha mostrato, dati alla mano, che a causa dell’aumento della popolazione mondiale, il pianeta si è ristretto di mille volte negli ultimi diecimila anni, i contatti e i traffici tra gli esseri umani sono migliaia di volte piú veloci, il consumo delle risorse energetiche si è moltiplicato fino al punto di insidiare gli equilibri ecologici. Quando si parla di «globalizzazione», questo ne è uno degli aspetti salienti. Contro la prima apparenza, il mondo globalizzato non è un vasto mondo; è un mondo piccolo, chiuso, che sta stretto: anzi, sta sempre piú stretto a causa delle crisi per sovrapopolazione e per esplosioni demografiche in vaste parti del pianeta (a meno che, come di tempo in tempo è annunciato, non ci si rivelino realisticamente nuove frontiere in spazi siderali abitabili, dove sia possibile trasportare, esportare o deportare le masse d’individui in sovrappiú, e cosí aprirsi a un nuovo «nuovo mondo»). La società mondiale globalizzata occupa tutto lo spazio e, non essendocene altro, è avvolta, stretta e costretta. La celebre distinzione di Karl Popper tra società aperte e società chiuse6 ha certamente a che vedere con visioni del mondo, ma è innanzitutto una distinzione tra opzioni ideologiche possibili solo a condizione che gli spazi disponibili alla vita delle società siano a loro volta aperti. In mancanza, le società si chiudono inesorabilmente, assegnando a ciascuno posti fissi, nemici della libertà naturale. Appartiene alla nostra preistoria il tempo in cui si poteva cercare la propria felicità in spazi vuoti come quelli «all’Ovest» che nell’Ottocento si offrivano ai coloni americani. La Dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie britanniche sulla costa orientale dell’America del Nord poteva proclamare il «diritto alla libera ricerca della felicità» perché alle loro spalle si estendeva un vastissimo territorio considerato vuoto. Quella ricerca – pensavano – non dava fastidio a nessuno perché c’era posto per tutti (a parte la popolazione indigena, vittima di uno dei tanti genocidi che segnano le storie dei popoli sulla terra). Dove si potrebbe riproporre oggi un analogo «mito della frontiera»7?

Il concetto spaziale deve, però, essere integrato da un aspetto qualitativo che si allaccia alle osservazioni precedenti circa la potenza delle opere degli uomini, generata dalla scienza e dalla tecnica, oggi potentemente alimentate dall’economia e dall’ideologia dello sviluppo. Difficilmente possiamo immaginare ai nostri giorni opere degli uomini che non producano effetti e risonanze sugli altri uomini o, addirittura, sull’umanità tutta intera che vive oggi e che (forse) vivrà in futuro. Occorre regolarne le interferenze, renderle compatibili le une con le altre, impedire le prevaricazioni, premunirsi contro i disastri collettivi o globali. Secondo la teoria moderna della libertà, alla libertà individuale era consentito di espandersi fino a quando non interferisse con quella altrui. La libertà, dice la Costituzione rivoluzionaria del 1791, consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri, e questa definizione è confermata nella Costituzione giacobina del 1793. Cosí, la libertà, sintesi di tutti i diritti, si basava sull’isolamento di ciascun soggetto da ciascun altro e, alla fine, dalla società stessa. Era il diritto all’isolamento, il diritto dell’individuo che operava limitatamente a se stesso. La funzione della legge, secondo questa concezione che, come sappiamo, si trova elaborata in Kant, è espressa nell’articolo 5 della Déclaration del 1789, in questi termini: «la legge non è che il diritto di vietare le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non impone».

La legge, secondo questa concezione, dovrebbe dunque essere soltanto «norma di collisione» che garantisce la libertà tra i diversi ambiti di autorealizzazione, cioè impedisce la sovrapposizione della libertà dell’uno sulla libertà dell’altro. Questa concezione presuppone che esistano “spazi aperti” alla signoria della volontà particolare: “aperti” in quanto non siano da temere collisioni con la libertà altrui. Perciò, si poteva ben sostenere come principio generale che ciò che non è vietato dalla legge è per definizione permesso, ossia rientra nella libertà naturale dei soggetti che agiscono alla ricerca della propria felicità, una ricerca che non danneggia nessuno. La legge era un’eccezione; era l’eccezione alla libertà. Il legislatore, per potere pretendere di limitare legittimamente la libertà naturale, doveva poter dimostrare che questa, lasciata a se stessa, avrebbe nuociuto a qualcun altro o a tutti gli altri.

È ancora cosí? Faremo tra poco qualche esempio, ma fin d’ora possiamo essere sicuri nel dire che, nella società odierna nella quale l’artificio umano opera con potenza mai conosciuta nel passato, le attività che non provocano ripercussioni sulla vita di altri o di tutti si riducono progressivamente e, quindi, cresce la necessità di regolare le “collisioni delle libertà”. Questa è la condizione che può definirsi come saturazione. La saturazione è la condizione in cui la massa di elementi interdipendenti compresi e compressi in un ambiente chiuso sta in equilibrio precario, costantemente minacciato dal caos o dal collasso derivante da qualche sommovimento imprevisto. Ecco il punto: quanto piú ci avviciniamo a quella condizione, tanto piú cresce il bisogno di leggi, “leggi di collisione”. Per evitare l’esplosione dello spazio saturo, abbiamo l’esplosione delle leggi. Poiché i fattori della saturazione sono sovranazionali, le “leggi” di cui si parla non sono solo quelle prodotte dagli Stati, ma anche e sempre di piú quelle elaborate in ambito internazionale (trattati e convenzioni).

4. Esempi.

Se cerchiamo una rappresentazione evidente, impressiva, non realistica ma tragicamente reale di che cosa significa la saturazione degli spazi, rivolgiamoci innanzitutto alle centinaia di migliaia di persone che, mosse dalla necessità di sopravvivenza ed espulse dai loro Paesi, si accalcano ai confini d’altri Paesi in masse che non sanno dove andare e sopravvivono in condizioni subumane. Quasi una nazione informe, respinta ma non riconsegnata ai Paesi di partenza, e quindi sospesa in non-luoghi come stazioni ferroviarie, giardini pubblici, centri provvisori di transito, non si sa per quanto tempo e per quale destinazione, baracche e tendopoli provvisorie sorte nel fango o nella calura, in attesa di smantellamento. In questi casi, si creano spazi per queste masse di esseri umani, ma non sono spazi liberi: sono piuttosto campi di concentramento. Qui si vedono gli effetti globali delle azioni umane: sfruttamento intensivo di porzioni della terra, guerre, inquinamenti e rottura degli equilibri ambientali, mutamenti climatici; a questi, seguono spostamenti di parti dell’umanità in spazi chiusi o che si chiudono; tensioni crescenti, politiche che si esprimono in leggi nazionali e internazionali per contenerne gli effetti esplosivi.

Dagli anni Ottanta del secolo scorso si è sviluppata una tecnologia informatica di raccolta dati e di comunicazione dalla potenza che pare illimitata. Un prodigio della scienza e della tecnica digitale che ha avvolto il mondo. Nel 1964, lo studioso delle comunicazioni di massa Marshall McLuhan aveva parlato di «villaggio globale» e sembrava una profezia, ed ora eccolo qua. Il mondo si è ristretto: le notizie, le comunicazioni, le immagini, i suoni fanno ogni giorno migliaia di volte il giro del mondo, come se fossimo, a casa nostra, tutti nella stessa cameretta. Ora noi sappiamo quante “collisioni” questo strumento è in grado di produrre: raccolta di dati intimi e privati intercettati per ragioni di sicurezza o di sfruttamento commerciale e politico, operazioni di speculazione e di terrorismo finanziarie compiute in frazioni di secondo, accesso alle comunicazioni e spionaggio nei sistemi di sicurezza di Stati e imprese, connessioni in rete di strutture globali criminali e terroristiche, ecc. Non c’è solo la possibilità di accedere a Wikipedia, di acquistare col computer biglietti aerei o fare pagamenti per acquisti on-line. Sono in gioco equilibri mondiali. Il diritto annaspa, a dimostrazione di come gli sviluppi di tecnologia ed economia corrono piú veloci della politica e delle sue leggi, che peraltro si moltiplicano creando «autorità indipendenti», a loro volta produttrici di norme regolatrici in un campo dove un tempo valeva esclusivamente la libertà di comunicazione cartacea e poi telefonica, che già sembrava un miracolo.

Possiamo infine rivolgerci, come ultimo tra gli innumerevoli esempi possibili, ai momenti che paiono a prima vista riguardare solo le decisioni piú intime e singolari dell’esistenza, i momenti che scandiscono la vita degli individui, dall’inizio alla fine. Per millenni il concepimento, l’esistenza e le malattie, le fasi conclusive della vita erano lasciate prevalentemente alle leggi naturali: «prevalentemente», poiché da sempre le tecniche hanno cercato di ridurre i rischi e i dolori, e di prolungare l’esistenza o di accorciarla, a seconda delle esigenze, personali, sociali o politiche. Tuttavia, oggi viviamo in un tempo diverso. Tecnicamente sono possibili interventi di programmazione dell’essere umano un tempo inimmaginabili: fecondazioni programmate in laboratorio, interventi sul genoma, innesti di cellule staminali, gestazioni separate dal concepimento e fuori dal corpo materno, sviluppi di embrioni in vitro, trapianti di organi e “produzione” di esseri umani in vista di espianti di organi, clonazioni, progettazione di esseri super- e sub-umani o dotati di aggressività accresciuta o diminuita, produzione di tessuti giovani per sostituzione di quelli vecchi, ecc. L’orizzonte dell’immortalità, coltivato follemente nei secoli, oggi non pare piú essere fuori dell’orizzonte del possibile, appartenere alla fantascienza, soprattutto per le possibilità dovute ai trapianti di organi (oggi si è avanzata perfino l’ipotesi del trapianto del cervello, con il problema della identità del soggetto che potrebbe derivarne). D’altra parte, le tecniche di mantenimento in funzione di organi vitali attraverso macchine di sostegno pongono domande circa la liceità del proseguimento artificiale dell’esistenza. Questi sviluppi, tuttavia, coinvolgono fondamentali problemi etici, sociali e giuridici che non possono non essere affrontati da un punto di vista generale, con riguardo cioè al futuro degli esseri umani e delle loro società. Gli esseri umani (almeno quelli che ne possono sostenere i costi) sembrano poter infrangere il confine della morte o essere costretti a procedere oltre anche contro la loro volontà. Da qui i gravi problemi connessi all’accanimento terapeutico, al diritto di lasciarsi morire e dei suoi limiti, all’eutanasia, al cosiddetto testamento biologico, ecc. Un tempo, la natura faceva il suo corso e quando appariva necessario agevolarlo nel giungere al suo esito, le comunità facevano appello a tradizioni inveterate. Un libro istruttivo di Michela Murgia8 racconta di come fino a qualche tempo fa – o forse ancora adesso – in certi paesi del centro della Sardegna, quando in famiglia c’era un malato terminale, secondo una consuetudine che non interpellava la sfera del diritto ma la sfera della cultura tradizionale, il morente veniva steso su un giaciglio al pianterreno della casa, si lasciava la porta aperta e una persona, l’accabadora, entrava e con un colpo di martello metteva fine alle sofferenze. Gli indiani dell’epoca precolombiana, di fronte ad analoghe necessità, prendevano i vecchi, li portavano in capanne nel bosco, li denudavano, li ricoprivano di miele, e li lasciavano lí la notte; il mattino passavano a ritirare lo scheletro ripulito dalle termiti. Noi non ammetteremmo queste pratiche e, per questo, il diritto è entrato nella casa o nella capanna a far valere le sue ragioni.

La “natura” è sempre di nuovo convocata nella discussione, per trarre argomenti utili a tracciare un confine rispetto a ciò che si dice essere «contro natura». La “natura” è convocata nei termini di qualcosa che oggi siamo capaci d’insidiare e, dunque, ci interroghiamo su quanto e come debba essere protetto. Abbiamo iniziato il nostro discorso sui limiti del diritto rispetto alle leggi della natura, citando quella frase di De Lolme: ora, però, i termini della questione sono addirittura rovesciati. Questo è un punto d’importanza capitale che ci rende consapevoli del mutamento dei tempi. Allora le leggi della natura erano intoccabili “per natura” e, dunque, non ci potevano essere leggi umane che potessero contraddirle; alla natura repelleva il diritto. Oggi è il contrario. La natura è insidiata dall’artificio e gli spazi che l’artificio ha conquistato ai suoi danni consentono, anzi chiedono, l’intervento delle leggi degli uomini: leggi e norme deontologiche sulla sperimentazione in organismi viventi, sul consenso informato, sulla ricerca della paternità e maternità naturale, sul trapianto degli organi, sui cosiddetti «fine vita», «dolce morte», eutanasia, ecc. Il diritto sembra ormai potere tutto: al cosiddetto «biodiritto», oggetto di una vastissima letteratura e di pratiche corrispondenti, si chiede di definire addirittura che cosa è la vita (per esempio, in materia di interruzione volontaria della gravidanza, alias aborto, si discute da quale momento dal concepimento si può parlare di essere umano vivente) e che cosa è la morte (per esempio, in materia di espianto di organi, si discute di morte come arresto cardio-circolatorio o di arresto irreversibile delle funzioni cerebrali, a partire dal «Rapporto di Harvard» del 1968 che ha proposto questo secondo criterio, poi adottato non senza contrasti da molte legislazioni). Può sembrare che il diritto stia celebrando il suo trionfo nel momento in cui è chiamato a sostituirsi alle leggi della natura. La realtà è che è la tecnica quella che celebra la sua strapotenza, mentre il diritto è chiamato a porre limiti in nome non della natura, ma dell’etica e della prudenza rispetto a sviluppi possibili e inquietanti. Con la parola “natura” usiamo un termine sorpassato per indicare preoccupazioni ed esigenze nuove e chiamiamo il diritto al compito di provvedervi.

5. Giuridificazione del sociale.

Oltre all’espansione del diritto nel campo delle tecniche, è impressionante quanto si sia estesa la presenza del diritto nell’ambito delle relazioni sociali che un tempo erano dominio o della pura e semplice spontaneità oppure di norme di condotta diverse da quelle giuridiche. Questa estensione è dovuta, innanzitutto, alla perdita di efficacia delle strutture sociali tradizionali che si reggevano su poteri, autorità e rapporti gerarchici riconosciuti, accettati o subiti; su abitudini inveterate; su credenze religiose e perfino su superstizioni; in breve, su ruoli sociali indiscussi: nelle relazioni tra i sessi, nella famiglia, nella scuola, nei rapporti di lavoro, ecc. Cadute queste strutture sociali organiche, le norme che ne scaturivano “naturalmente” e quasi tacitamente garantivano una qualche, anzi una qualunque stabilità (non è da dirsi se frutto e produttrice di giustizia o d’ingiustizia) sono cadute anch’esse e hanno dovuto essere sostituite per necessità con norme artificiali, di cui quelle giuridiche erano e sono l’archetipo. La crisi della società tradizionale – un effetto di lunghi e profondi processi storico-culturali ed economici che si è manifestato con prepotenza al tempo dello sconvolgimento sociale della prima guerra mondiale, sconvolgimento che il fascismo in Europa ha tentato di contrastare con un nuovo e impotente organicismo imposto – è stata accompagnata dall’esplosione della legislazione in tanti settori nei quali il diritto non era fino ad allora penetrato ed erano dominio di comportamenti sociali “comunicativi”.

A ciò si deve aggiungere il progressivo aumento delle funzioni dello Stato. Il cosiddetto Stato sociale, per effetto della democratizzazione delle sue strutture e dell’ingresso in esse di strati sociali portatori di domande di uguaglianza e protezione il cui soddisfacimento andava al di là delle libere dinamiche sociali, si è caricato progressivamente di nuovi compiti. Essi hanno richiesto non solo regolazione e limitazioni delle attività private come quelle economiche incidenti sulla libertà del mercato e sulla protezione di beni collettivi come la salute e l’ambiente, ma anche interventi diretti attraverso apparati pubblici, operanti nel campo economico (lo «Stato imprenditore»), nel campo scolastico (lo «Stato educatore»), nel campo previdenziale (lo «Stato provvidenza»), nel campo sanitario (lo «Stato assistenziale»), ecc. Questo enorme sviluppo delle funzioni statali si doveva svolgere sotto il principio di legalità (si veda supra, par. V.I.5), un principio che in origine era nato per contenere entro limiti giuridici l’invasione dell’amministrazione dello Stato nella sfera delle libertà sociali e che, nella nuova condizione, è diventato l’opposto, cioè il volano per la produzione intensiva di norme giuridiche.

6. Esempi.

Chiunque può facilmente darsi esempi di regressione di norme sociali e, correlativamente, di espansione di leggi rivolte a colmare i vuoti lasciati. Né risultano campi in cui si sia verificato o si verifichi il fenomeno opposto, cioè la liberazione da norme giuridiche a vantaggio di norme sociali.

Un esempio particolarmente significativo è rappresentato dal cosiddetto stalking e dal cosiddetto «femminicidio». Lo stalker è colui che sottopone un’altra persona ad atti molesti di qualunque tipo, atti che non costituiscono reati di per sé, quali sono invece le violenze fisiche, le minacce, le aggressioni, ecc., ma danno comunque luogo a una pressione morale che incide sulla altrui libertà di condotta nella vita quotidiana, sia domestica che extradomestica. Si tratta di comportamenti che si verificano non solo, ma principalmente, ai danni di persone con le quali si sia, si sia stati o si voglia essere legati da rapporti sentimentali e sessuali esclusivi, quasi sempre dovuti al partner maschile a danno di quello femminile. Il femminicidio è il proseguimento di questa condizione di soggezione fino alle estreme conseguenze, quando di fronte alla dominanza maschile, spesso alimentata da incontenibile gelosia, si manifestano desideri di liberazione della parte femminile del rapporto di coppia. Si tratta di fenomeni, in entrambi i casi, che hanno radici in strutture mentali tradizionali che resistono all’idea dell’uguaglianza di diritti tra i due sessi e non accettano il diritto di autodeterminazione sentimentale e sessuale della donna, considerata piuttosto oggetto che soggetto di desiderio. Ora, la dissoluzione progressiva di quel mondo sta provocando situazioni di anomia nelle quali si libera e si rende visibile quella violenza che in passato era come celata e istituzionalizzata dalla diffusa accettazione della subordinazione senza ribellione dell’universo femminile a quello maschile. Cosí, a partire dal primo decennio di questo secolo, si sono prodotte leggi e sentenze nazionali e internazionali per contenere e reprimere queste manifestazioni di violenza cosiddetta «di genere».

Perfino i rapporti interni a quella «cellula della società» che per secoli si è considerata refrattaria all’ingresso del diritto, dovendo appartenere essenzialmente alla sfera della “eticità” che produce da sé le sue norme9, è stata ormai invasa dal diritto ed è diventata materia giudiziale: diritto di famiglia insegnato nelle università, avvocati e giudici, assistenti sociali specializzati in materia. Eppure, fino a pochi decenni fa si poteva parlare enfaticamente da parte di un maestro del diritto, Arturo Carlo Jemolo, di «un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto»: «la famiglia è la rocca sull’onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto»10. Oggi, chi ripeterebbe simili affermazioni, se non qualche sognatore d’epoche che non esistono piú, né come constatazione effettuale, né come accettazione morale? Dov’è finita la «famiglia tradizionale» o «naturale» (come si esprime l’art. 29 della Costituzione), patriarcale, eterosessuale, monogamica, duratura fino alla morte, incentrata sull’autorità paterna e sulla soggezione della moglie e dei figli? Non sarebbe, del resto, nemmeno accettabile alla stregua della uguaglianza, della dignità e del rispetto reciproco, valori che hanno invaso l’isola della famiglia portando con sé una sequela di leggi, trattati giuridici, sentenze di giudici. La preoccupazione di Jemolo riguardava le ingerenze totalitarie che si manifestarono sotto il fascismo, quando la famiglia era concepita come struttura primordiale dello Stato totalitario; oggi, le ingerenze sono state e sono dovute precisamente per la ragione opposta, cioè per ragioni di libertà e dignità individuale. La cristallizzazione della «famiglia tradizionale» comporterebbe, infatti, violazioni di diritti fondamentali dei componenti di quella che oggi si considera «cellula della società», non dello Stato. Dunque: no all’intervento della legge totalitaria; sí alla legge liberatrice. L’esempio della famiglia bene mostra non essere vero ciò che tanto superficialmente spesso si dice: che quante piú leggi esistono, tanta meno libertà sussiste. Ciò vale rispetto alle leggi oppressive, ma rispetto alle leggi liberatrici vale il contrario.

Questa linea di pensiero potrebbe essere sviluppata in numerosi altri campi in cui la legge è penetrata per svolgere un compito di riforma di assetti sociali oppressivi, non piú accettabili per ragioni sociali, morali, politiche. Il diritto del lavoro, per esempio, non è sempre esistito: esso si è sviluppato a partire dalla metà del XIX secolo, nelle maglie del principio della pari libertà contrattuale dei datori di lavoro e dei lavoratori, prima come eccezione a favore del contraente debole (il lavoratore), poi come formazione di un corpus autonomo di norme regolatrici riguardante il diritto sindacale, le relazioni industriali, la contrattazione collettiva, i diritti dei lavoratori nelle organizzazioni aziendali. Oggi, la tendenza si è invertita a favore di un ritorno all’antico, cioè alla contrattazione tra le due parti vis à vis e sullo stesso piano, attraverso l’abolizione o la riduzione delle tutele collettive e individuali della parte debole. Ma anche questo risultato non è un obbiettivo perseguibile abolendo leggi, bensí sostituendole, cioè moltiplicandole. Perfino la cosiddetta e sempre velleitaria semplificazione legislativa che, ogni tanto, viene messa in campo, produce per l’intanto ulteriori complicazioni legislative: addirittura la creazione, qualche tempo fa, di un ministero ad hoc il cui unico prodotto visibile è stato un falò dimostrativo di pagine di leggi organizzato da chi crede che le leggi si abroghino bruciando i fogli su cui sono scritte.

Questo può bastare. Chiunque è in grado di fornire esempi in abbondanza della progressiva invasione da parte della legge nei piú diversi ambiti della vita sociale. Poiché siamo qui a trattare questi temi in una sede scolastica e universitaria, tutti noi siamo perfettamente consapevoli del diluvio incessante di leggi, regolamenti, circolari, linee guida che affligge la nostra esistenza: moltiplicazione delle norme inizialmente orientata a diffondere la democrazia, a proteggere la libertà degli studenti, a circoscrivere l’arbitrio degli insegnanti – cioè, in origine giustificata in un senso e poi rovinata nel suo contrario.

7. La rete delle leggi e l’“homo legalis”.

Quanti giuristi e, soprattutto, non-giuristi credono che il diritto sia come una grande rete o ragnatela di regole valide in sé e per sé, collocate in una propria sfera di esistenza oggettiva, tese sulla società e pronte ad acciuffare i fatti della vita e i loro autori, non appena vi sia un uccellatore – fuor di metafora, un giudice – che fa scattare la trappola? La saggezza popolare parla, per l’appunto, delle leggi in questi termini, aggiungendo cinicamente il riferimento alle differenze sociali: la rete o la ragnatela vale per i piccoli, non per i grandi: «La legge è come una ragnatela: se la mosca ci casca dentro è finita; ma se casca un moscone, ci fa un bucone»11. Ciò vale in generale, ma tanto piú quando le maglie della legge siano numerose e omnipervasive.

Il viluppo legale implica una generalizzata trasformazione d’atteggiamento nei confronti del diritto, cioè la trasformazio-ne dei soggetti di diritto gelosi della propria libertà contro le altrui prevaricazioni, secondo la concezione kantiana della legge come «regola di collisioni sociali, in oggetti conformati giuridicamente». Si assiste al passaggio dalla libertà regolata sui confini esterni tracciati dalla legge, alla legge che plasma dall’interno la personalità dei soggetti. Per sopravvivere in uno spazio sempre piú occupato da leggi esteriori, ci si conformerà alla legge come atteggiamento a priori, a meno che si sia quel moscone di cui s’è detto che può farsi beffe del diritto e vivere in uno spazio suo proprio dove vige l’arbitrio. Quando l’esistenza individuale è saturata dalle leggi il motto ciceroniano «legum omnes servi sumus ut liberi esse possimus»12 diventa un patetico mascheramento di una realtà in cui la libertà sociale si spegne progressivamente e i «soggetti di diritto» si trasformano in «soggetti plasmati dal diritto», in homines legales, in «osservanti», secondo il titolo di un vasto studio sugli atteggiamenti passivi di fronte alle norme di condotta cui si sottopongono gli esseri umani13.

Tutti noi abbiamo esempi a volontà di questa trasformazione in corso. Le leggi, le direttive, le guidelines ministeriali hanno progressivamente avviluppato la vita scolastica e universitaria in una rete di adempimenti burocratici in vista di concorsi, finanziamenti, orari, trasferimenti, ecc., che mirano, anche se involontariamente, a fare dei professori degli «osservanti» la cui libertà accademica diventa una chimera. Per ottenere un supporto finanziario a una tua ricerca, non importa la genialità della proposta, ma la coerenza con standard modulistici la cui osservanza è a pena di nullità della domanda. Per riempirli come richiesti, devi inventare rapporti, collaborazioni nazionali e internazionali, équipe di ricerca che sai benissimo che in gran parte resteranno sulla carta.

In tutt’altro settore della vita, si è richiamato alla memoria un film di diversi anni fa (1979) che riscosse un certo successo, Kramer contro Kramer14. Vi si illustra la patologia sociale insita nella legge intesa non come limite negativo alla libertà, ma come conformazione positiva ai modelli di comportamento pretesi dalla legge e dai suoi apparati applicativi. Si narra di una controversia relativa all’affido del figlio in una causa di divorzio e dei tentativi patetici, contro la natura dei sentimenti e dei comportamenti spontanei del padre, fino alla perdita della dignità, per adeguarsi alle aspettative dei giudici, degli assistenti sociali, in genere della opinione pubblica, circa la pertinenza d’una decisione a lui favorevole. Alla fine, la figura paterna si era trasformata in una grottesca figura giuridica, spogliata della sua umanità.

8. Persona giuridica in azione.

A quella che un tempo si chiamava persona naturalis (per distinguerla dalla persona moralis, indicante soggetti fittizi: associazioni, società, fondazioni, fino allo Stato) si sovrappone un’idea di persona giuridica per la quale sono calzanti le definizioni date da Hans Kelsen:

[la personalità giuridica] consiste soltanto nel fatto che l’ordinamento giuridico impone doveri o accorda diritti agli uomini, cioè nel fatto che il comportamento degli uomini viene elevato a contenuto dei doveri e dei diritti. “Essere persona” o “avere la personalità giuridica” coincide con l’avere doveri giuridici o diritti soggettivi. La persona titolare di doveri giuridici o di diritti soggettivi non è qualcosa di diverso dai doveri giuridici e dai diritti soggettivi di cui la persona viene rappresentata come titolare15.

Piú sinteticamente, la persona dal punto di vista giuridico non è altro che un «punto di riferimento di diritti e di doveri»16. La validità di queste elaborazioni concettuali dipende dal fatto che la realtà è guardata come se fosse solo giuridica. In tal caso esse non sono prive di attendibilità.

Tuttavia, quando la persona come tale inizia a considerarsi in quel certo modo facendo prevalere il suo essere persona giuridica sul suo essere persona umana, qui inizia la perversione. Il suo fine diventa la corrispondenza dei suoi atti alle fattispecie legali. Quando ciò si realizzasse completamente, invece che un essere umano avremmo di fronte a noi un automa legale o magari, come scrive Stefano Rodotà riportando un’espressione di Joseph Roth, una serie di «canaglie giuridiche»17. Al limite estremo, la società si perderebbe in una folla di fantasmi che agiscono armati della loro corazza legale e che, non appena qualcosa va storto, si rivolgono al giudice per chiedergli d’imporre autoritativamente a un’altra persona giuridica la riparazione del torto subíto. Cosí, va persa la dimensione orizzontale dei legami tra persone fisiche in cui consiste propriamente la vita in società. Questa è una vera e propria patologia determinata dalla dissennata espansione della legge, causa ed effetto, al tempo stesso, della caduta dei legami sociali, cioè pre-giuridici. Esagerazioni, si dirà. Ma qui stiamo parlando di tendenze e la tendenza assume talora caratteri preoccupanti per ciò che annuncia. Per esempio, tra giugno e luglio 2017, si è discusso accanitamente del caso di un bimbo di dieci mesi, di nome Charlie Gard, affetto da una gravissima malattia inguaribile, che sopravviveva artificialmente in stato d’incoscienza: nell’incapacità di relazione costruttiva tra i medici e i genitori, questi ultimi si sono persuasi a percorrere la strada della giustizia che li ha condotti fino alla Corte europea dei diritti di Strasburgo. E i commentatori, senza neppure ben conoscere i dati umani grezzi della questione, si sono dati a discutere e a litigare sugli astratti princi-pî giuridici ch’essi hanno ricavato da altrettanto astratti principî morali. Cosí, un caso umano concreto si è trasformato in una questione giuridica dove si sono scontrati principî, dottrine, ideologie riguardanti diritti e doveri dei medici e dei genitori, sulla testa del povero bambino.

Il ricorso alla legge e al giudice, «l’andar per avvocati» come siamo abituati a dire e fare a ogni piè sospinto, anche in casi assai meno drammatici di quello appena indicato, è il prodotto della patologica assolutizzazione del lato giuridico della propria personalità. Mentre la composizione dei conflitti nella dimensione discorsiva porta alla tolleranza e al riconoscimento dei diversi lati dai quali essi possono essere guardati, il ricorso alla legge amplifica l’autoreferenzialità dei soggetti e l’uso aggressivo e vendicativo dello strumentario giudiziario, uso che non rifugge da possibili esiti catastrofici: se la legge mi dà ragione, bisogna andare fino in fondo e i fallimenti parziali in cui si può incorrere nel corso della controversia legale non fanno che accrescere l’accanimento: ciò che, a un certo punto, interessa davvero è l’avere ragione a ogni costo – costo emotivo e finanziario – dell’avversario; l’oggetto della controversia passa in secondo piano, può perfino diventare progressivamente indifferente. In questione è un dato non negoziabile, cioè il prestigio che conferisce la sentenza che ti riconosce dalla parte della ragione; per converso, è l’umiliazione inferta a colui dal quale hai ritenuto di avere subíto il torto.

La letteratura ha spesso trattato di queste “maschere giuridiche”, contagiate dal diritto e dal processo. Ad esempio, in Casa desolata (1853) di Dickens18. Il racconto Michael Kohlhaas (1810) di Heinrich von Kleist è un apologo circa le conseguenze dell’accanimento giudiziario. All’inizio c’è una pur giustificata reazione a un piccolo torto subíto (l’ingiustificato sequestro di due cavalli), che poi, di fronte alle progressive frustrazioni dell’ansia di giustizia, s’accresce e si allarga fino a diventare una voragine di sventure: alla fine, essa ingoia lo stesso protagonista della prima iniziativa giudiziaria, che aveva come antagonista un signorotto locale ma si sviluppa fino a coinvolgere il principe di Sassonia, provocando brigantaggi, sommosse e repressioni. Aveva pur avuto ragione all’inizio, ma finirà impiccato, soddisfatto perché anche il suo nemico farà analoga brutta fine.

9. Giustizia retributiva e riconciliativa: il “ryb”.

L’homo legalis di cui s’è detto ha nel suo profondo un’idea della giustizia come vendetta ritualizzata e, quindi, solenne, simbolica, giusta. È la «giustizia vendicativa»: mi hai fatto del male, devi subire un male almeno equivalente affinché la mia dignità violata sia ripristinata. In breve: devi “darmi soddisfazione”; io sono al centro della vicenda processuale e devo essere riabilitato; tu conti solo come strumento della mia riabilitazione, dopo di che sparisci, ché non ho alcun interesse a mantenere vivo un qualsivoglia rapporto con te. A questa idea si contrappone quella della giustizia come riconciliazione, ricostituzione o restaurazione (restorative justice), altrettanto antica della giustizia vendicativa, ma progressivamente andata dissolvendosi di fronte agli effetti che l’estensione dell’intervento legislativo comporta nelle relazioni sociali, riducendone il valore alla conformità o difformità rispetto ad astratte fattispecie legali. L’aspirazione fondamentale della giustizia riparativa, cioè la ricomposizione delle fratture sociali, ha suscitato molto interesse e ha portato a qualche realizzazione concreta; ma ha comportato altresí riserve a proposito della capacità di questa concezione della giustizia, perseguita nel confronto diretto tra le parti, di rispettare le esigenze di parità procedimentale e di uguaglianza sostanziale, quando nella controversia si affrontino “potenze sociali” non equivalenti. In fondo, lo schema del giudizio triadico – due parti e al di sopra il giudice che divide i torti e le ragioni in astratto – sembra soffrire meno l’influenza delle disuguaglianze sociali, in quanto il giudizio è condotto dal punto di vista “freddo” della legge19.

Per chiarire il concetto di giustizia restaurativa, possiamo fare riferimento a due esempi, tratti l’uno dal mondo antico, l’altro a noi contemporaneo.

Nell’antico diritto ebraico, esistevano due procedure per riparare i torti. La prima, il nišpat o giudizio, era una procedura a tre, analoga al processo che conosciamo: l’offeso conduce l’offensore, per ottenerne la condanna, davanti a un giudice, terzo imparziale. Questa giustizia valeva tra due nemici o, almeno, tra due estranei. Dove invece i contendenti erano legati da un rapporto vitale non accidentale (padre e figlio, marito e moglie, fratello e fratello, Dio e Abramo, Dio e il popolo eletto o il popolo dei credenti) si apriva soltanto la possibilità di una disputa a due, il ryb, il litigio. Il ricorso a un soggetto estraneo, in questi casi, infatti, sarebbe stato impossibile, inimmaginabile20.

Il ryb è uno scontro il cui scopo non è la punizione del colpevole ma il componimento della lite attraverso il riconoscimento del torto compiuto, il perdono e quindi la riconciliazione e la pace. È l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare e su questa si vuol influire, perché si è interessati prima di tutto a questo scopo. L’obbiettivo non è dunque la vendetta: cioè il ripianamento del torto tramite “soddisfazione”. È invece il ristabilimento di una comunanza, incrinata o infranta dal torto commesso e subíto. L’immagine non è la superbia del vincitore della giustizia vendicativa, né l’occhio per occhio di quell’altra idea di giustizia che si denomina retributiva. È il nodo da riallacciare. Per reintegrare il diritto e quindi il rapporto, l’offeso assume il ruolo di accusatore ma, in un certo senso, anche di giudice, perché la sua azione contro l’altra parte non si ferma finché quest’ultima giunga a riconoscere il torto commesso, manifesti l’interesse a ristabilire con l’offeso il legame vitale infranto e si disponga per l’avvenire a una condotta conseguente. L’eventuale risarcimento non è propriamente un’umiliazione, una sanzione, ma è l’ovvia conseguenza dell’ammissione di colpa. I due contendenti vedranno cosí ristabiliti i legami originari, rinnovati e persino resi piú forti.

C’è una traccia di questa concezione della giustizia in Matteo (5,25): «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario, mentre sei per la via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione» (idem in Lc 12,58). In ogni caso, per le controversie che strutturalmente non possono avere un essere umano quale giudice al di sopra delle parti – ad esempio quelle in cui sono implicati i re (Saul contro Davide) o un profeta e un re (Samuele e Saul, Elia e Acab) oppure, nell’ambito dell’Alleanza, per le controversie dove c’è di mezzo Dio stesso, come parte offesa (nei casi piú frequenti) o anche come offensore (come nel caso di Giobbe) – il ryb resta l’unica procedura concepibile. Perfino il processo di Gesú può essere visto in questa luce e i suoi silenzi di fronte alle accuse (la pecora muta di Isaia, 53,7) possono facilmente apparire come una pressione morale sugli accusatori affinché riconoscano il loro torto e aprano l’animo alla riconciliazione.

Il rito è aperto dall’iniziativa della vittima offesa. L’accusa è di tradimento, di ingratitudine, di rottura di un patto, di un rapporto, di una confidenza. I fatti specifici non sono che un segno, talora di piccola importanza, di queste colpe piú gravi. Alla contestazione seguono accuse sempre piú violente, “improperi” del tipo di quelli del Venerdí santo («Popolo mio, che cosa ti ho fatto…»), scoppi di collera (l’ira di Dio veterotestamentaria: Ez, 20,33: «Com’è vero ch’io vivo – parola del Signore Dio –, io regnerò sopra voi con mano forte, con braccio possente e rovesciando la mia ira») e perfino violenze fisiche e pressioni morali, come il pianto che induce al pentimento o il silenzio del giusto che mette in azione il senso di colpa del malvagio. La sofferenza, secondo la tradizione, è una «bontà nascosta». Ma il dolore dell’offensore non vale come punizione o sanzione. Vale come percorso necessario in vista del ravvedimento. E quindi anche la piú dura delle misure impiegata per questo fine rappresenta un agire non soltanto secondo giustizia, ma anche secondo amore per l’altro. Come dice la Scrittura: «Chi risparmia il bastone odia suo figlio; ma chi lo ama è pronto a correggerlo» (Pr, 3,11-12; 13,24).

10. Giustizia punitiva e riconciliativa: le commissioni per la verità e la riconciliazione.

Esempi di giustizia restaurativa nel mondo contemporaneo sono dati dalle numerose Commissioni per la verità e la riconciliazione istituite in Paesi del Sud America e del Nord Africa usciti da guerre civili, violenze e sopraffazioni di parti della società su altre parti. La principale, presa a modello, è quella istituita in Sud Africa nel dicembre 1995 con il compito di condurre la società multietnica sudafricana fuori dall’odio e dalla violenza generati dalla precedente politica dell’apartheid e di aprire a un Paese dilacerato la strada della pacifica convivenza. Il fondamento morale di questa istituzione fu – secondo il vescovo anglicano, premio Nobel per la pace, Desmond Tutu, presidente della Commissione, che ha scritto un libro di testimonianza21 – l’appello allo spirito africano tradizionale dell’ubuntu. È un termine pieno di significato, comparso nel preambolo della Costituzione provvisoria sudafricana del 1993, che ha attirato l’attenzione anche di giuristi e antropologi europei. Secondo le parole di Desmond Tutu, esso distingue l’idea della giustizia europea, piuttosto orientata alla vendetta o anche alla «giustizia del vincitore», dallo spirito della giustizia africana, piuttosto orientata alla riconciliazione, alla reciproca accettazione, al riconoscimento dell’umanità delle persone, per farla riemergere quando è stata umiliata dal crimine non solo patito ma anche commesso. A noi fa pensare a una forma di spirito comunitario, inteso in senso benevolo, comprensivo, pacificatore. Una persona è tale attraverso altre persone. La persona, cosí, non è concepita nei termini «esisto, quindi ho diritti e pretese», ma nei termini: io sono un essere umano perché faccio parte di una cerchia di persone che riconoscono reciprocamente il loro valore, che non sono minacciate dalla reciproca concorrenza e che hanno una giusta, non smodata, stima di se stessi e degli altri. Per questo, si sentono sminuiti quando altri vengono umiliati, torturati e oppressi, o trattati come esseri inferiori. Il fare giustizia diventa allora un processo salvifico tanto di chi ha subíto il torto quanto di chi lo ha commesso. Richiede di risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricomporre le fratture e riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, anch’essi degradati nella loro umanità.

Secondo la legge istitutiva della Commissione, il riconoscimento pieno delle responsabilità e delle colpe dei criminali dava luogo all’applicazione dell’amnistia. Il riconoscimento di responsabilità avveniva spontaneamente e pubblicamente di fronte alla Commissione, e ciò costituiva un alleggerimento, al tempo stesso, della coscienza dei criminali e della pena della vittima. Il conseguente esonero da sanzioni, sia penali che civili, non comportava oblio, rimozione, come è invece secondo la nostra nozione di amnistia, ma, al contrario, memoria ed elaborazione del male commesso e subíto. Non si trattava di transazioni private della giustizia, poiché le procedure e le decisioni facevano capo a organi dello Stato (le Commissioni) e le misure di riparazione, quando possibili, erano assunte anch’esse a carico dello Stato, cioè della collettività, interessata alla pacificazione, e altresí a carico dei colpevoli, come naturale conseguenza del riconoscimento di colpa. Non era propriamente un risarcimento del danno, poiché non vi è denaro che possa ripianare il dolore, ma consistevano, ad esempio, in borse di studio a favore dei figli delle vittime, in programmi di recupero tramite l’addestramento professionale, nell’accollo delle spese per interventi medici, nell’assegnazione di abitazioni, o anche nel recupero e nell’identificazione dei cadaveri e nella loro inumazione con onore. L’effetto cui si mirava era la catarsi sociale.

Pur non richiedendosi il perdono individuale da parte delle vittime, è chiaro che una generale disponibilità al perdono, in nome di qualcosa di piú elevato del sentimento di vendetta – cioè in nome della concordia –, è richiesta da questo tipo di giustizia. Altrimenti le vittime, private della condanna dei loro carnefici, si sarebbero potute ritenere vittime di un’ingiustizia supplementare. Il miracolo sudafricano – peraltro incompiuto, dati gli enormi problemi di giustizia sociale che residuano – è qui: in quella disponibilità che ha reso possibile la pacificazione e ha evitato nuove e opposte violenze, ha impedito che l’ingiustizia producesse nuova ingiustizia, ha pacificato gli animi una volta che le colpe sono state riconosciute. A differenza di altri falliti tentativi di superare le fratture sociali attraverso strumenti analoghi, in Sud Africa verità, giustizia e pace – le tre cose che reggono il mondo – sono state rese possibili dallo spirito del perdono, in una misura che ha almeno evitato ulteriori, piú gravi violenze e ingiustizie. Questa esperienza rappresenta un modello che ha attirato lo sguardo del mondo intero e indicato una prospettiva che si è cercato di percorrere, con alterni risultati, anche altrove22.

Una pallida imitazione della giustizia conciliativa si è avuta recentemente in Italia. Nell’intento di deflazionare la litigiosità giudiziaria che, nel nostro Paese, ha raggiunto livelli insostenibili dalle strutture giudiziarie esistenti, con l’accumulo di un arretrato imponente e con la durata eccessiva dei processi, nel 2010 è stata approvata una legge sulla «mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali», apparentemente ispirata all’idea della giustizia riconciliativa di cui si è detto poc’anzi. Si tratta di procedure che si svolgono senza particolari formalità davanti a un «organismo pubblico» (ad esempio le Camere di commercio) che ha il compito non di giudicare ma di «facilitare» un accordo tra le parti. L’avvenuta conciliazione, evidentemente, esclude l’apertura di un processo vero e proprio. Questa legge e le procedure complesse che sono previste sono state oggetto di molte critiche, soprattutto da parte degli ambienti forensi. Malgrado gli incentivi previsti, come i minori costi e i tempi ridotti, non pare avere raggiunto gli obbiettivi che il legislatore si era proposti. La deflazione auspicata non pare essersi realizzata. Il successo avrebbe dovuto presupporre l’esistenza di una «cultura del confronto», cioè un atteggiamento discorsivo fra le parti, disposte a riconoscersi reciprocamente come interlocutori aventi, ciascuna, qualche buona ragione da far valere e unite dall’intento di trovare un punto d’incontro fra le rispettive ragioni. Se le parti, invece, si presentano l’una di fronte all’altra corazzate da «persone giuridiche» nel senso kelseniano di cui s’è detto, è chiaro che le premesse per una mediazione vengono meno e la mediazione non ha prospettive di successo. Si potrebbe dire cosí: il nostro contesto culturale manca di ubuntu.

11. Riconciliazione: sempre meglio della punizione?

La giustizia riconciliativa vale di piú di quella punitiva? Sembrerebbe di sí: ricostruire il legame sociale, distrutto dall’ingiustizia, dovrebbe essere il fine ultimo della giustizia. La giustizia riconciliativa sembra stare su un gradino della scala etica piú alto di quella punitiva poiché è associata ai piú elevati sentimenti degli esseri umani: la solidarietà o la fraternità, la benevolenza, la pietà. Tuttavia, c’è qualche motivo per andare cauti nel salire su questo gradino e lo possiamo trarre dalla “tentazione riconciliativa” che troviamo al tempo della tragica conclusione della parabola del nazismo e del suo progetto di sterminio delle «razze inferiori». Anche le cose piú belle possono contenere qualche dose di veleno. Al Reichsführer-SS Heinrich Himmler (suicidatosi al momento della cattura) e al capo del Deutsche Arbeitsfront Robert Ley (suicidatosi a Norimberga), due sinistri figuri, sarebbe piaciuto – si racconta – creare un «comitato di riconciliazione» costituito da nazisti responsabili dei massacri e da ebrei sopravvissuti23. Adolf Eichmann aveva a sua volta condiviso questa idea, un’idea certamente insolente e repulsiva. Osserva Hannah Arendt che probabilmente coloro cui era venuta in mente quest’idea di riconciliazione si confortassero per la loro «grandezza d’animo». Noi rimaniamo sbalorditi. Ci sembra un’oscenità. Altro che giustizia. Se ci chiediamo il perché, forse saremmo d’accordo nel dire che una società che si proponesse procedure per giungere a perdonarsi di delitti tanto mostruosi perderebbe definitivamente il suo onore, la rispettabilità verso se stessa. La punizione e la pena sono qualche volta, al di là di tutte le discussioni sulla loro giustificazione e sulla loro funzione, una questione fondamentale di autostima. Come potrebbe una società vivere in pace con se stessa avendo rinunciato a punire il male estremo che alligna nelle sue pieghe, ch’essa ha prodotto e poi decide di tollerare? La pena, prima di tutto, non è un male contro un altro; è una presa di posizione rispetto a se stessi. È una forma di riscatto. Ciò che nell’episodio riferito appare repulsivo è che la mano tesa venisse dagli aguzzini, nel momento prossimo alla loro fine. Molto diverso sarebbe stato se fosse venuta dalle vittime, nel momento del loro riscatto. Ma anche allora, da un popolo che non avesse rinunciato al proprio onore, ci si sarebbe potuto aspettare che al confronto con le vittime si arrivasse non scansando la pena, ma accettandola come via per diventare degni della riconciliazione.

12. Ideologia del legalismo e convinzioni etiche.

Per «legalismo» intendiamo una particolare ideologia giuridica (le parole che terminano in -ismo indicano ideologie, cioè fondazioni etiche di concetti politici): precisamente, intendiamo la pretesa della legge di incontrare ubbidienza incondizionata al di là ed eventualmente contro le convinzioni morali di coloro ai quali si indirizza. La «forza della legge» è tale che nessuna obiezione contro di essa è ammissibile fintanto che è in vigore: obéissance préalable, abbiamo già detto ad altro proposito (si veda supra, par. VIII.5). Anche se l’ubbidienza alla legge porta alla catastrofe e la disubbidienza alla salvezza, per i legalisti la prima opzione schiaccia la seconda e chi agisce al contrario deve essere punito, perfino con la morte, come è detto da Heinrich von Kleist nel suo capolavoro Il principe di Homburg. Secondo tale ideologia, ci si deve accontentare di dire: questa azione è conforme alla legge e quindi è giusta, e non si deve pretendere di porsi il problema se la legge stessa sia giusta. Per chi adotta tale punto di vista, l’ubbidienza alla legge lo solleva da ogni problema di coscienza. Il «legalista» è uno che, per cosí dire, consegna la sua coscienza al legislatore e dice: io ubbidisco alla legge non perché è giusta, ma perché è legge. Subditi legum, dicono i giuristi alludendo alla passività che il legislatore pretende da coloro che devono seguire i suoi precetti, fino a quando il legislatore stesso, secondo i suoi intenti, non si disponga a cambiare la legge vecchia a favore di una legge nuova, rispetto alla quale varrà poi la stessa pretesa d’incondizionata ubbidienza.

Questa pretesa ha dalla sua, a sua volta, buone ragioni etiche, prima fra tutte il bisogno di ordine che solo la legge è in grado di garantire al di là e al di sopra del caos delle opinioni personali. Ma ci sono dei limiti alla costrizione etica che la costrizione giuridica può invocare a suo favore, limiti che la legge deve rispettare poiché al di là corre il rischio concreto d’essere contraddetta dalla coscienza degli esseri umani che fa valere le sue ragioni a costo di infrangere l’ordine legale. È il caso della legge ingiusta (su cui ci soffermeremo anche nell’ultimo capitolo, con riguardo alla posizione del giurista). Non credo che si possa voler vivere rinunciando a una parte importante di sé, cioè al primordiale diritto di distinguere il bene dal male e al diritto-dovere di agire di conseguenza. Queste rinunce erano il progetto politico dell’Inquisitore di Dostoevskij, modello di ogni potere totalizzante che per raggiungere il suo scopo usa l’addormentamento e la seduzione delle coscienze24. Un progetto del genere – una massa di meri «osservanti» – è semplicemente una distopia, cioè una utopia al rovescio. Ogni ordinamento giuridico deve temere l’assolutizzazione della legge, perché il mancato riconoscimento del limite conduce non alla forza della legge, ma alla sua fragilità.

Nei capitoli precedenti, in particolare quelli sul costituzionalismo e sulla giustizia costituzionale – si è trattato dei modi escogitati per contrastare l’arbitrio delle leggi, cioè la contraddizione con i sentimenti morali di coloro ai quali si rivolgono per ottenerne l’ubbidienza. Per quanto importanti siano, quella contraddizione non può mai del tutto escludersi, quali e quanti siano i rimedi giuridici consentiti. Ecco, allora che fanno la loro comparsa i limiti etici del diritto.

13. L’obiezione di coscienza.

L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea fa riferimento al diritto di obiezione di coscienza, rinviando peraltro alle legislazioni nazionali il compito di prevederne casi e modi. È come se si dicesse: questa è l’obbligazione legale che vale per tutti, salvo che si abbiano validi motivi morali, religiosi o filosofici in contrario (motivi sulla serietà dei quali lo Stato può esercitare un controllo). La legge, allora, si rende “cedevole” o, se si vuol dire cosí, “si arrende” di fronte alle buone ragioni che possono esserle opposte e ch’essa stessa riconosce come valide. Si tratta d’un compromesso tra eteronomia (della legge) e autonomia (della coscienza). L’obiezione di coscienza legale è, per cosí dire, l’espressione del convincimento del legislatore di non poter tirare troppo la corda quando si verte nel campo delle cosiddette materie «eticamente sensibili». Il legislatore, in certo senso, prende atto che esistono limiti etici che è prudente non tentare di valicare, limiti oltre i quali non si può pretendere l’ubbidienza senza pregiudicare la propria stessa autorevolezza.

Talora, la legalizzazione segue a fenomeni di obiezione di coscienza contra legem, cioè di violazione intenzionale e conclamata della legge avente lo scopo di denunciarne l’ingiustizia e promuoverne la modifica. Ciò è accaduto rispetto al servizio militare di leva che entrava in conflitto con le convinzioni etiche di appartenenti a certe confessioni religiose (Testimoni di Geova, Valdesi, Cattolici, che prendevano sul serio il precetto evangelico «non uccidere»), oppure di persone che laicamente rifiutavano la violenza e le macchine burocratiche che l’organizzano. Il rifiuto di «portare le armi» diede luogo a numerosi processi penali per renitenza alla leva o diserzione, con conseguenti condanne che si ripetevano a catena quando, scontata la pena, si ricominciava da capo con una nuova chiamata, cui seguiva la nuova condanna. Una situazione aberrante denunciata da campagne d’opinione pubblica. Due testi particolarmente influenti furono scritti da don Lorenzo Milani nel 1965, raccolti sotto il titolo L’obbedienza non è piú una virtú25. Il legislatore raccolse quelle istanze in una legge del 1972 che, a certe stringenti condizioni e controlli sull’autenticità e sincerità dei motivi di coscienza, riconobbe la possibilità d’essere addetti a servizi civili sostitutivi (oggi, la questione è superata dall’abolizione del servizio militare obbligatorio «di leva», a meno che non si decida – come da qualche parte si propone – di reintrodurlo). Il diritto positivo si adattò a qualcosa di pre-positivo. Si legge nel testo appena citato:

a Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito: l’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca26.

Il riconoscimento del diritto all’obiezione per motivi di coscienza è un dato importante che induce a riflettere sui limiti della legge nei confronti delle concezioni etiche entro le quali essa opera. Fino a qualche decennio fa non se ne parlava neppure. L’obiezione era un fatto individuale di ribellione alla legge, punito come tale. Da qualche decennio, invece, i casi di obiezione come diritto secundum legem crescono, a dimostrazione di una sensibilità nuova rispetto agli obblighi legali. Sono tutti casi in cui, per legge, non si è chiamati a ubbidire alla legge perché è legge, ma solo perché è giusta. Una legge del 1993 ha introdotto l’obiezione a proposito della «sperimentazione animale», a favore di tutti coloro che abbiano a che fare con le relative attività (medici, ricercatori, personale sanitario, studenti universitari) e che ritengano tali pratiche contrarie alle proprie concezioni etiche. La legge sulla «procreazione medicalmente assistita» del 2004 ha previsto anch’essa il diritto di obiettare a favore del personale medico coinvolto e lo stesso dovrebbe valere, quando sarà il momento d’una legge in materia, in tema di esecuzione delle «disposizioni anticipate di trattamento sanitario» (il cosiddetto biotestamento). I casi sono probabilmente destinati ad aumentare. È possibile che, se si arriverà mai alla legalizzazione di qualche ipotesi di eutanasia – anche in conseguenza della crescita di un’opinione pubblica che inizia a manifestarsi in favore della cosiddetta «buona morte» o «morte dignitosa» –, anche lí, allora, farà la sua comparsa il diritto all’obiezione di coscienza per consentire a coloro che, per ragioni professionali, vi dovrebbero avere parte attiva e si ispirano però a una qualche concezione assoluta del valore della vita, di far prevalere la propria visione su quella della legge.

Ma il caso attuale piú noto (non si dovrebbe dire piú importante: in materia di coscienza non si possono fare graduatorie) riguarda l’interruzione volontaria della gravidanza. La legge del 1978 (la celebre e contestata legge n. 174) riconosce il diritto all’obiezione di coscienza dei medici e del personale paramedico che operano nelle strutture pubbliche della sanità, le quali sono pur tuttavia tenute a dare seguito alla decisione della donna di abortire, alle condizioni previste dalla legge. Si comprende, a partire da questo esempio, come l’obiezione di coscienza all’osservanza dei doveri legali implichi talora conseguenze non sempre facili da gestire, quando a fronte di tali doveri stanno diritti di altre persone. In effetti, vi sono situazioni in cui l’alto numero di «obiettori» rende problematico e incerto l’esercizio del diritto pur riconosciuto alle donne, le quali sono costrette dalla necessità a ricorrere (contro le finalità della legge) a pratiche di privati che operano clandestinamente, oppure ad affrontare spostamenti in altri luoghi. Difficoltà che, nel 2016, hanno indotto il Consiglio d’Europa di Strasburgo a denunciare la possibile violazione di fatto d’un diritto della donna in conseguenza dell’obiezione in massa da parte del personale ospedaliero.

Anche tenendo conto di quanto or ora detto, e sebbene la tendenza a introdurre, per cosí dire, delle parentesi nelle leggi generali a favore dei diritti della coscienza sia di solito considerata con favore, ci si deve tuttavia interrogare sui limiti di tale tendenza. La legge uguale per tutti è una garanzia di tenuta d’unità della vita sociale e la proliferazione delle obiezioni di coscienza attenua o vanifica questa garanzia. Si pensi, come esempio-limite, alla pretesa dei giudici di rifiutare l’applicazione della legge. È il caso del giudice e dei suoi drammi di coscienza davanti alla legge ingiusta, di cui parleremo nel capitolo seguente. C’è stato un tentativo di contestare il principio della soggezione del giudice alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione), ancora in materia di aborto. La legge prevede, per le ragazze minorenni, che in taluni casi il giudice tutelare sia chiamato a convalidare o non convalidare la loro volontà di abortire, quando non si possa coinvolgere nella decisione i parenti piú prossimi. Può succedere che il giudice, per ragioni sue, sia contrario all’aborto. È lecito ch’egli possa rifiutarsi di partecipare alla procedura autorizzativa? La questione è stata portata alla Corte costituzionale la quale, prevedibilmente, non ha dato accesso alla pretesa di quel giudice. Egli può dimettersi, ma non può pretendere d’essere giudice e, contemporaneamente, di porsi al di sopra della legge.

14. Il diritto di resistenza.

Su una scala piú ampia che riguarda non questa o quella legge, ma le leggi nel loro complesso e il rispetto del limite di tollerabilità etico-politica dei comandi legislativi, si pone la questione del cosiddetto «diritto di resistenza». Se la resistenza è riconosciuta come diritto, l’intero ordinamento giuridico è posto, come dicono i giuristi, sotto una «condizione risolutiva» dell’obbligazione politica, cioè sotto la clausola: l’ordinamento giuridico gravemente ingiusto non obbliga a rispettarlo. Quando si verifica questa condizione, cioè quando le leggi non coincidono con un minimo etico-politico, la ribellione alla legge cessa di essere un comportamento antigiuridico per diventare, al contrario, il comportamento piú altamente giuridico, per riportare la legge al diritto, la legge di Creonte al nómos di Antigone (si veda supra, par. II.4).

La resistenza nei confronti del diritto ingiusto è prima di tutto un fatto. Se ha successo, si avrà la fondazione di un nuovo ordinamento e il nuovo ordinamento legittimerà gli atti di insubordinazione compiuti in precedenza. In altri termini, il criterio di legittimità di questi atti non è il diritto vigente (il diritto ingiusto) al momento in cui sono stati commessi, ma il loro successo. Chi partecipa a una ribellione sa di agire a proprio rischio e pericolo. I poteri costituiti, tanto piú in quanto ingiusti, agiranno per soffocarla e, se ci riusciranno, i ribelli saranno trattati non come coloro che hanno agito nel nome di un diritto (il diritto di resistenza), ma come coloro che hanno compiuto un delitto, violando il fondamentale dovere di fedeltà allo Stato e di ubbidienza al suo diritto.

C’è dunque un’aporia: la resistenza in sé, dal punto di vista giuridico, non è né un diritto né un delitto: il giudizio dipende da un fattore esterno ed ex post factum, il successo o l’insuccesso, esattamente come il tirannicidio: un tema classico della letteratura politica dall’antichità classica a oggi (Armodio e Aristogitone, uccisori dei Pisistrati; Bruto, uccisore di Cesare; Claus Philipp Graf von Stauffenberg, attentatore di Hitler, ecc.). Si potrebbe concludere che la resistenza non è un tema da trattare dal punto di vista del diritto positivo, ma solo eticamente. Eppure, non mancano i riconoscimenti della resistenza come diritto e, talora, come dovere civico, contenuti in testi di natura costituzionale. Per esempio, nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 si legge:

Noi riteniamo che […] tutti gli uomini sono stati creati uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti […] che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo modificarla o l’abolirla, istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principî […]. Allorché una lunga serie di abusi e di torti […] rende manifesto il disegno di ridurre l’umanità a uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo.

La Rivoluzione francese ha fatto proprio questo concetto: l’articolo 2 della Déclaration des droits del 1789, fra i diritti «naturali e imprescrittibili» dell’uomo, pone la «resistenza all’oppressione», e la Costituzione giacobina del 1793 affermava che «la resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo» (art. 33) e che «quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo il piú sacro dei diritti e il piú indispensabile dei doveri» (art. 35). Dopo la caduta dei regimi totalitari del secolo scorso, si comprende che questo tema si sia riproposto e, infatti, la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca (art. 20, quarto comma) stabilisce che «tutti i tedeschi hanno il diritto di resistenza contro chiunque metta in opera azioni rivolte a rimuovere l’ordinamento vigente, se non è possibile alcun altro rimedio». Tuttavia, in generale, nei confronti della resistenza come diritto, le costituzioni tengono un atteggiamento sospettoso e se ne comprende la ragione: la costituzione fonda la legittimità del potere, e come potrebbe facilmente ammettere che qualcuno possa agire contro? D’altra parte, le costituzioni prevedono esse stesse rimedi e garanzie per impedire le involuzioni autoritarie dei poteri ch’esse stesse istituiscono.

All’Assemblea Costituente italiana fu discussa un proposta (di Giuseppe Dossetti) che si allacciava alla tradizione della resistenza al tiranno e che diceva: «Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». La proposta non ebbe seguito. Si ritenne che una simile statuizione avrebbe in qualche misura delegittimata la stessa Costituzione. L’articolo 1 della Costituzione stabilisce, infatti, che al popolo appartiene la sovranità, ma che questa deve essere esercitata «nelle forme e nei limiti» della Costituzione, mentre la resistenza è tipicamente una forza che non conosce né forme né limiti. Il silenzio costituzionale sul diritto di resistenza, tuttavia, significa semplicemente ch’esso non ha una base nel diritto (costituzionale) positivo, ma non significa anche che non abbia un fondamento in uno strato di diritto piú profondo del diritto positivo, e precisamente nella sovranità popolare che è il corollario della democrazia e preesiste alla stessa proclamazione dell’articolo 1 della Costituzione che la circonda delle cautele sopra dette.

Nei momenti costituzionali eccezionali alla legalità si sovrappone la legittimità e in democrazia la legittimità deriva non dalla legge positiva ma dalla corrispondenza alla norma prepositiva che sta nella forza fattuale di cui dispongono le forze della «costituzione materiale» (sul cui concetto si veda supra, par. VI.4). La costituzione materiale sorge da un campo di battaglia in cui si incontrano e si scontrano potenze e forze storiche: quella è la sede della resistenza e della repressione della resistenza. John Locke usa l’immagine dell’«appello al cielo»: quando non ci sono autorità costituite che proteggono dal potere tirannico, quando queste autorità sono addirittura esse stesse sedi di tirannia, quando non v’è giudice sulla terra, ogni cittadino deve fare appello al cielo, cioè alla sua libertà e alla sua coscienza «di cui dovrà rispondere nel gran giorno, davanti al giudice supremo di tutti gli uomini»27. A differenza dei regimi autocratici dell’Ancien Régime, quando l’appello al cielo si poteva risolvere soltanto nella preghiera a Dio affinché egli illuminasse la mente del principe (si veda supra, par. IV.2), l’appello al cielo in democrazia è un appello ai diritti e ai doveri del popolo verso se stesso. Che l’appello al cielo sia l’oggetto di un diritto giuridico o di un diritto originario pre-giuridico, in fondo, interessa poco. In ogni caso, si tratta di riconoscere che la legge positiva non può tutto e che incontra limiti, superando i quali mette a rischio la sua stessa sopravvivenza.

15. Il diritto al di là della legge.

Il positivismo giuridico alimenta la presunzione della legge di esaurire il diritto. Tocchiamo qui l’aspetto piú inquietante di tutta la dottrina del diritto fondata sull’idea che la legge positiva definisce lo spazio del diritto e che fuori di quello spazio non vi sia diritto. L’obiezione di coscienza e la resistenza riguardano situazioni in cui la legge, per il suo contenuto o singolare o complessivo, si scontra con le concezioni etico-politiche di coloro ai quali si vorrebbe applicarla. Qui, parliamo di qualcosa di diverso: precisamente del fatto che il diritto positivo, per la sua stessa essenza e in particolari circostanze, è superato da un’altra, piú ampia e profonda, idea del diritto. Superato, ma non contraddetto nei suoi contenuti particolari o generali; o, meglio, è superata la pretesa che la legge circoscriva l’area del “giuridico”. Il carattere piú evidente di tale superamento, che vuole non essere una contraddizione, consiste in ciò che, della civiltà giuridica in cui la legge dovrebbe radicarsi, si cerca di mantenere qualcosa di essenziale, per quanto è possibile. In sintesi: l’obiezione di coscienza e la resistenza sono delitti dal punto di vista della legge vigente che si legittimano invocando il diritto violato dalla legge vigente. Alla violazione del diritto si reagisce violando la legge. Il doppio strato in cui muove il mondo giuridico (lex et ius) non potrebbe mostrarsi con maggiore evidenza.

Alla fine della seconda guerra mondiale, quando si è alzato il velo sulle aberrazioni dei regimi fascisti, sono venuti alla luce quelli che si sono detti «crimini fino ad allora sconosciuti». Alcuni furono giudicati a Norimberga, Tokyo e Gerusalemme. Tali processi, non sfuggiva a nessuno che rappresentassero eventi straordinari che non potevano essere ricondotti nelle forme procedimentali ordinarie. Infatti, i legalisti ne contestarono la legittimità. Ma, l’enormità dei delitti ha determinato le norme giuridiche. Qui, nel caso estremo, s’è visto con chiarezza che non è vero che è la legge a far sorgere il delitto (si veda supra, par. VII.5), ma qualche volta è il delitto che fa nascere la legge. Il positivismo estremo, quello che per l’appunto afferma che se non c’è la legge non c’è il delitto, non teme l’assurdo. I suoi giuristi hanno protestato, ma hanno dovuto rassegnarsi di fronte all’evidenza (a meno di dire che Hitler, Göring, Himmler, Frank, Ribbentrop, Eichmann e i loro camerati erano perfettamente innocenti, avendo essi obbedito alla legge che, peraltro, era stata fatta da loro stessi per se stessi).

I processi si svolsero di fronte a Tribunali istituiti ex post facta, contro il principio generalmente vigente del «giudice precostituito per legge», e creati ad hoc dalle potenze vincitrici nella seconda guerra mondiale (Norimberga e Tokyo) o dallo Stato che aveva assunto la rappresentanza morale dei milioni di vittime della Shoah e delle sofferenze patite nei secoli dal popolo ebraico (Gerusalemme); la legge applicata non era quella in vigore negli Stati al tempo dei fatti, contro il principio di irretroattività della legge penale, ma era quella scritta negli atti istitutivi di quelle giurisdizioni straordinarie, o in leggi successive approvate da altri legislatori oppure, addirittura, in proclami dell’autorità militare che aveva vinto la guerra (come quello del generale MacArthur, comandante delle forze americane operanti in Estremo Oriente). Per conseguenza, furono considerati criminali atti che quando erano stati commessi erano addirittura doverosi secondo la legge del tempo e del luogo. I critici di queste terribili vicende parlarono di «giustizia dei vincitori», cioè di regolamento dei conti e di vendetta in forma giudiziaria: una perversione della giustizia i cui riti, secondo concetto, dovrebbero svolgersi davanti a giudici imparziali chiamati a giudicare secondo la legge vigente al tempo dei fatti commessi. Rispetto alla giustizia penale dei tempi ordinari ci furono certamente delle forzature, che in tempi normali non sarebbero state accettate. I giuristi si arrovellarono per trovare soluzioni e superare obiezioni.

La letteratura in materia è sterminata. Il testo piú famoso (e piú controverso), dedicato al processo di Gerusalemme, è certamente il già citato La banalità del male, che tratta anche di questioni già presentatesi al tempo di Norimberga. Partendo dalle concezioni normali del processo valide per i tempi normali, vi si svolge una requisitoria contro le finalità improprie di tali processi: in entrambi i casi, tracciare un quadro del regime hitleriano destinato a passare alla storia; nel 1946, altresí legittimare sul piano etico gli Alleati che l’avevano sconfitto; nel 1961, anche cementare l’identità dello Stato d’Israele come soggetto portatore storico del riscatto del popolo ebraico, secondo l’intendimento del capo del governo Ben Gurion. La punizione dei criminali, secondo questa visione, sarebbe passata in secondo piano, pur dovendo essere la funzione primaria, anzi la funzione unica, della giustizia penale. Cosí fu detto esplicitamente e cosí furono percepiti dall’opinione pubblica mondiale quei tre grandi riti della giustizia politica.

Non possiamo ripercorrere qui, analiticamente, tali questioni. Ai nostri fini è interessante notare che si fece di tutto per velare i caratteri di «giustizia dei vincitori», che è quella in cui difficilmente a favore degli sconfitti può valere la presunzione di non colpevolezza che nei Paesi civili assiste sempre gli imputati nei processi penali fino alla sentenza definitiva; in cui, anzi, vale l’opposta presunzione di colpevolezza. Il diritto dell’accusato di richiedere l’audizione di testimoni a suo favore è sempre grandemente indebolito dal fatto che tali ipotetici testimoni correrebbero il rischio d’essere incriminati a loro volta. Che Eichmann fosse un colpevole a priori era indubitabile: chi mai avrebbe potuto immaginare ch’egli a Gerusalemme potesse essere assolto? Non c’è giudizio se la condanna è già scritta prima. Solo sulla base dell’assunzione indiscutibile della colpevolezza si poté sostenere davanti all’opinione pubblica mondiale la non arbitrarietà del suo rapimento in Argentina e del suo trasporto in stato di cattività a Gerusalemme. Sulla questione decisiva della legge retroattiva, si discusse se già si fossero formate in precedenza norme del diritto internazionale generale, uno ius gentium sui delitti contro l’umanità e contro la pace tra i popoli (il Trattato di pace di Versailles del 1919 aveva previsto norme – che non furono applicate – per mettere sotto processo davanti a un tribunale speciale il Kaiser Guglielmo II Hohenzollern, come responsabile di una guerra d’aggressione). Si era discusso al tempo di Norimberga se fosse accettabile incorporare tra i delitti contro l’umanità il delitto di genocidio, una nozione specifica che comprende omicidi, stermini, distruzione fisica e mentale, sterilizzazioni e interruzioni delle gravidanze «con l’intenzione di distruggere una stirpe umana» nel suo insieme28. Questo delitto fece la sua apparizione nel mondo giuridico solo nel 1948, con la Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ed entrò nella giurisprudenza per la prima volta solo col processo Eichmann (a Norimberga, esso non faceva parte dei capi d’accusa, pur essendosi aperta una discussione in proposito: i magistrati chiamati a svolgere le loro funzioni avrebbero potuto essere messi in difficoltà dal fatto che anche i loro Paesi avrebbero potuto incappare nella medesima accusa)29. Si discusse la norma secondo la quale l’ubbidienza all’ordine superiore giustifica il compimento di atti che sarebbero altrimenti crimini di guerra e si mise in discussione il principio dell’insindacabilità degli «atti di Stato», cioè compiuti dalle piú alte autorità politiche. Questa grande interrogazione sullo stato del diritto internazionale umanitario, quale si presentava già prima dell’avvento del nazismo, fu promossa dall’intento di ricondurre quei singolari processi nell’alveo del diritto ordinario vigente già prima del tempo in cui furono celebrati. I giudici stessi erano in una condizione imbarazzante e fecero molto per scrollarsi di dosso l’accusa di essere di parte, di essere prevenuti nei confronti degli imputati. Il giudice Landau, presidente del Tribunale di Gerusalemme, rispose cosí al difensore dell’imputato che aveva sostenuto che nessun ebreo avrebbe potuto essere giudice degli esecutori della «soluzione finale» perché certamente non sarebbe stato imparziale:

Noi siamo giudici di professione, avvezzi a soppesare gli elementi che ci vengono sottoposti e a svolgere il nostro lavoro sotto gli occhi del pubblico, esposti alle critiche del pubblico […]. Quando una Corte siede in giudizio, i giudici che la compongono sono esseri umani, sono persone in carne e ossa, dotate di sensi e sentimenti, ma dalla legge sono obbligati a reprimere questi sensi e sentimenti. Altrimenti, non si potrebbe mai trovare un giudice per giudicare un crimine che suscita orrore. Non si può negare che il ricordo dell’Olocausto turba ogni ebreo, ma finché questa causa sarà dibattuta dinanzi a noi, sarà nostro dovere reprimere questi sentimenti, e noi rispetteremo questo dovere.

Nobili parole, ma sufficienti? Certamente insufficienti se si fosse trattato di processi ordinari nei quali devono valere le leggi ordinarie. Ma erano processi ordinari? Si disse anche che in quei processi avesse fatta la sua riapparizione l’antica e venerabile figura del diritto naturale, un diritto che di tutte le garanzie artificiali del diritto legale può facilmente fare a meno. Ma, allora, il diritto naturale si dimostra essere talora, come in questo caso, una comoda copertura di argomenti, pretese e interessi eterogenei. Diciamo, piuttosto, che in casi come questi la dea Giustizia brandisce la spada e non sa che farsene della bilancia (si veda infra, par. XI.5). Quando ciò accade di fronte a «crimini finora sconosciuti», siamo di fronte al summum ius o alla summa iniuria?

Da allora molto è cambiato. I principî affermati con riguardo ai crimini nazisti si sono estesi ad altri casi; altri Tribunali internazionali sono stati istituiti per giudicare i grandi crimini commessi nel corso di conflitti politici ed etnici: nella ex Iugoslavia (1993), in Ruanda (1994). Altri tribunali, detti «misti» o «internazionalizzati», sono stati previsti in base alla collaborazione tra uno Stato e le Nazioni Unite, per esempio per giudicare i crimini commessi in Sierra Leone, Timor Est, Cambogia e Libano. A poco a poco la natura di «giustizia dei vincitori» si è stemperata nella giustizia esercitabile nei confronti dei delitti commessi da tutte le parti in conflitto. Finalmente, con l’accordo internazionale stipulato (non da tutti gli Stati: anzi, non dai piú potenti o da quelli piú a rischio d’incriminazione) nel 1998, entrato in vigore nel 2002, è stata creata una Corte penale internazionale, con sede all’Aja, il cui Statuto supera molte delle critiche rivolte in passato alle Corti create ad hoc ed ex post facta per decisione delle potenze vincitrici in conflitto. La strada è lunga, incontra difficoltà e ripensamenti soprattutto da parte dei Paesi che dispongono o credono di disporre della potenza di farsi giustizia da sé e non accettano di sottoporsi ad autorità terze, ma la direzione è chiara: la «positivizzazione» giuridica di istanze che, all’inizio, apparivano appartenere a una sfera prepositiva. Il diritto, su queste questioni supreme, conduce una lotta per trasformare la legittimità in legalità.

16. ”Lex contra ius”.

Dopo avere esaminato in questo capitolo il posto della legge nei confronti delle conquiste della tecnica, delle strutture pre-giuridiche della convivenza sociale e delle aspirazioni morali ed etiche; dopo avere esaminato le tortuosità e le aporie che apre il conflitto tra la legittimità e la legalità, la domanda è che fine fa l’idea che coltivano i giuristi circa la capacità della legge di porsi come «l’istanza normativa d’ultima istanza». Davvero la legge positiva può pretendere ubbidienza cieca e ci si deve rassegnare a perseguire comportamenti tuttavia eticamente validi o, al contrario, a lasciare impuniti comportamenti ripugnanti, fino a quando il legislatore non provveda a modificare la legge? In altri termini, lo ius ha o non ha una sua autonomia vitale rispetto alla lex? Ne dipende totalmente?

Ritorniamo alla giustizia penale internazionale. In nome dell’insufficienza della legge positiva, si sarebbe dovuto lasciare impuniti delitti quali non si erano mai constatati nella civilissima Europa, a causa dell’impossibilità di formare Corti imparziali, della carenza di leggi punitive non retroattive, o dell’effetto giustificante dell’ubbidienza all’ordine ricevuto? Oppure, come si disse anche, si sarebbe potuto e dovuto passare per le armi i responsabili direttamente senza processo, come avvenne per Bin Laden, o lasciarli nelle mani della folla inferocita, come avvenne per Gheddafi? Oppure, ancora, avremmo preferito una resa dei conti senza tante complicazioni all’orribile farsa del processo messo in scena a Baghdad contro Saddam Hussein? Queste, in fondo, sarebbero state le alternative. Che cosa preferire? È in corso un movimento per la «giustizia globale» che inevitabilmente si scontra con grandi difficoltà. Come può la giustizia valere quando sono in campo soggetti che sono mossi secondo la logica della potenza e della pre-potenza, e quando questa stessa logica piega a sé la giustizia e le sue opere30?

Mi pare molto significativa la conclusione, «la sentenza» cui perviene Hannah Arendt in La banalità del male, dopo avere lungo le pagine precedenti portato argomenti a favore d’un processo «legale» e contro determinati aspetti illegali del processo di Gerusalemme. Rivolgendosi idealmente ad Eichmann, ella cosí si pronuncia:

Tu hai ammesso che il crimine commesso contro il popolo ebraico nell’ultima guerra è stato il piú grande crimine della storia, ed hai ammesso di avervi partecipato. Ma tu hai detto di non avere mai agito per bassi motivi, di non avere mai avuto tendenze omicide, di non avere mai odiato gli ebrei, e tuttavia hai sostenuto che non potevi agire diversamente e che non ti senti colpevole. A nostro avviso è difficile, anche se non impossibile del tutto, credere alle tue parole; in questo campo di motivi e di coscienza vi sono contro di te alcuni elementi, anche se non molti, che possono essere provati al di là di ogni ragionevole dubbio. Tu hai anche detto che la parte da te avuta nella soluzione finale fu casuale e che, piú o meno, chiunque avrebbe potuto prendere il tuo posto; sicché quasi tutti i tedeschi sarebbero ugualmente colpevoli, potenzialmente. Ma il senso del tuo discorso era che dove tutti o quasi tutti sono colpevoli, nessuno lo è. Questa è in verità un’idea molto comune, ma noi non siamo disposti ad accettarla. E se tu non comprendi le nostre obiezioni, vorremmo ricordarti la storia di Sodoma e di Gomorra, di cui parla la Bibbia: due città vicine che furono distrutte da una pioggia di fuoco perché gli abitanti erano ugualmente colpevoli. Tutto questo, sia detto per inciso, non ha nulla a che vedere con la nuova idea della “colpa collettiva”, secondo la quale gli individui sono o si sentono colpevoli di cose fatte in loro nome ma non da loro, cose a cui non hanno partecipato e da cui non hanno tratto alcun profitto. In altre parole, colpa e innocenza dinanzi alla legge sono due realtà oggettive, e quand’anche ottanta milioni di tedeschi avessero fatto come te, non per questo tu potresti essere scusato. […] Tu stesso hai affermato che solo in potenza i cittadini di uno Stato che aveva eretto i crimini piú inauditi a sua principale finalità politica erano tutti ugualmente colpevoli, non in realtà. E quali che siano stati gli accidenti esterni o interiori che ti spinsero a diventare criminale, c’è un abisso tra ciò che hai fatto tu realmente e ciò che altri potevano fare, tra l’attuale e il potenziale. Noi qui ci occupiamo soltanto di ciò che tu hai fatto e non dell’eventuale non-criminalità della tua vita interiore e dei tuoi motivi, o della potenziale criminalità di coloro che ti circondavano. Tu ci hai narrato la tua storia presentandola come la storia di un uomo sfortunato e noi, conoscendo le circostanze, siamo disposti fino a un certo punto ad ammettere che in circostanze piú favorevoli ben difficilmente tu saresti comparso dinanzi a noi o dinanzi a qualsiasi altro tribunale. Ma anche supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento di sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica di sterminio. La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra) noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato31.

Questo punto d’arrivo è comprensibile ma sconcertante. Dopo avere cercato le buone ragioni legali del processo di Gerusalemme e aver dubitato d’averle trovate, si finisce per ricorrere allo stato di natura e al piú fondamentale diritto naturale: il diritto all’autoconservazione che precede la stessa fondazione della società civile. Ma, quando si apre un conflitto che ha come posta l’autoconservazione è inevitabile arrivare a giustificare il diritto del piú forte, cioè del vincitore, lo stesso diritto al quale si appellava anche Hitler quando si rifaceva alla brutale legge di Darwin, dominatrice della natura delle relazioni in tutto il mondo dei viventi: vivere e sopravvivere a spese dei piú deboli.

La conclusione è una sola: quando si aprono conflitti ultimi, come quelli che riguardano la sopravvivenza fisica e morale delle parti in causa, il diritto positivo regredisce di fronte alla forza, cioè alla violenza che cerca di presentarsi in vesti giuridiche. Il compito delle leggi che si danno gli uomini per vivere gli uni con gli altri in pace è un compito, per cosí dire, penultimo: precisamente intervenire prima che quel momento supremo si manifesti in tutta la sua violenza e impedire che quando, ex post facto, si mette in moto la giustizia, questa non si mostri nella sua forma piú selvaggia, per esempio travolgendo le regole che distinguono la giustizia dalla vendetta che riporta in onore perfino la piú disumana di tutte le punizioni legali, la pena di morte.