Capitolo nono

Interpretazione e applicazione del diritto

1. Realtà duplice.

Volgiamoci ora al diritto nel suo aspetto pratico, cioè nel momento in cui il diritto è «applicato»: parola che – come vedremo – contiene già una certa concezione di che cosa significa il diritto in azione. L’applicazione è compito del giudice (i soggetti al diritto «ubbidiscono»; gli amministratori lo «eseguono»; solo i giudici lo «applicano»). Un diritto senza giudice, cioè senza applicazione, non sarebbe diritto; sarebbe letteratura.

Che nel diritto non vi sia applicazione senza interpretazione può apparire chiaro, fino alla banalità; meno chiaro, ma altrettanto vero, è però anche l’inverso: che non c’è interpretazione senza applicazione. L’essenza del diritto è in questo nesso, nel quale si manifesta il suo valore pratico. Che cosa significhi, al di là della prima impressione, l’aggettivo “pratico” riferito al diritto, si cercherà di precisare piú in là. Qui, questo accenno è sufficiente per giustificare l’attenzione concentrata sul «momento giudiziario» del diritto, il momento in cui il diritto vale a risolvere concrete controversie.

Nell’uso giudiziario del diritto, l’applicazione è in funzione dell’interpretazione e l’interpretazione è in funzione dell’applicazione. Poiché l’interpretazione riguarda il diritto e l’applicazione riguarda i fatti della vita, la proposizione che precede – l’essere l’interpretazione e l’applicazione mutuamente intrecciate – significa che qualunque teoria del diritto e del suo uso giudiziario deve prenderle in considerazione entrambe, per riconoscere il posto che loro compete, e significa anche che, di conseguenza, l’ignoranza dell’una rispetto all’altra produce risultati monchi.

2. Concezioni unilaterali dell’interpretazione giuridica.

Nelle concezioni correnti dell’uso giudiziario del diritto, l’applicazione quasi scompare dietro la presenza assorbente dell’interpretazione. Tutto ciò che fa problema si concentra nel momento dell’interpretazione, mentre l’applicazione finisce per ridursi a una semplice operazione di logica conseguenziale. Posta l’ovvia premessa che, per esercitare una concreta funzione regolatrice, qualunque norma giuridica deve essere determinata nel suo significato, secondo il modo di vedere abituale l’interpretazione essa è concepita come un processo intellettivo che, dall’esame delle formule linguistiche rinvenute negli atti normativi, perviene alla determinazione del loro contenuto: dai significanti (gli enunciati, o, secondo altra terminologia, le disposizioni) ai significati (le norme)1. Quando si parla di interpretazione, “interpretare” significa attribuire significato – senso-importanza-rilevanza – a un qualche frammento di linguaggio (vocaboli, locuzioni, enunciati)2.

Detto altrimenti, secondo una terminologia entrata nell’uso, l’atto normativo si manifesta in disposizioni. Nelle disposizioni, per mezzo di enunciati idonei a essere compresi in generale dai soggetti cui esse si rivolgono, è impresso un certo contenuto normativo. Le disposizioni, cosí create e immesse nel mondo oggettivo del diritto, devono poi, a loro volta, esprimere il loro significato con riguardo a coloro cui spetta il compito di applicarle. A ciò varrebbe l’interpretazione, mezzo di espressione delle norme impresse nelle disposizioni. L’interpretazione sarebbe, per esprimerci in breve in altro modo, l’attività, di competenza dei soggetti cui spetta l’applicazione, di trasformazione delle disposizioni in norme. Le norme che scaturiscono dalle disposizioni interpretate o, piú semplicemente, le interpretazioni delle disposizioni, secondo questo punto di vista, sono il diritto nel suo significato pratico-concreto. L’insieme delle disposizioni, come tali, cioè in assenza di interpretazioni, sarebbe invece solo un numero indefinito di potenzialità interpretative, cioè un coacervo astratto di norme che potrebbero essere tratte in vita, ma che, per il momento, non lo sono e, a questo fine, attendono qualcuno – l’interprete, appunto – che svolga questa funzione “maieutica”, lavorando esclusivamente sul «materiale normativo» di cui dispone. In questo lavoro di ex pressione della «norma» che è racchiusa nella «disposizione», tutto si compirebbe, in un rapporto diretto ed esclusivo dell’interprete con l’oggetto dell’interpretazione: l’interpretazione sarebbe un vis à vis dell’interprete con le «prestazioni linguistiche» del legislatore.

3. Cognizione e volizione.

«Attribuire significato» è un atto di conoscenza o di rispecchiamento, oppure, almeno in parte, un atto di volontà creatrice, cioè un’attribuzione, un “far dire” alla legge ciò che di per sé non dice o non dice ancora, o non dice in modo univoco.

Secondo un modo di vedere, l’interpretazione è un processo conoscitivo del contenuto delle disposizioni le quali, una volta conosciute, si trasformerebbero in norme. L’interprete fedele sarebbe quello che non toglie e non aggiunge nulla a ciò che già sta nella legge per giungere all’esatta esplicitazione del suo contenuto, sia che tale contenuto corrisponda a ciò che il legislatore, soggettivamente, ha voluto disporre – secondo l’idea del diritto come atto di comando personale di chi comanda rivolto a chi è comandato3 –, sia che la disposizione si consideri nella sua oggettività, per quello che essa, indipendentemente dalla intenzione soggettiva del legislatore, sta a significare. In entrambi i casi, l’interprete fedele deve andar cercando significati che stanno fuori di lui e che gli si rivelano tramite la legge: la volontà soggettiva del legislatore, oppure il contenuto oggettivo dell’ordinamento giuridico. Sono due diversi modi d’intendere l’interpretazione ma, entrambi, si possono dire «cognitivisti»: il diritto è quello che è, e l’interprete deve rispettarne la realtà, la “verità”.

Dalle concezioni cognitiviste dell’interpretazione devono distinguersi le concezioni che, per differenza, si possono definire volontariste. Queste ultime riconoscono l’esistenza, nella attività interpretativa, di fattori esterni alle disposizioni da interpretare, messi in moto nell’attività di interpretazione. Le concezioni volontaristiche sono numerose. Esse si distinguono tra di loro a seconda del tipo e del grado di “discrezionalità” che viene riconosciuto all’interprete.

4. Difetti e limiti della legislazione.

Alla discrezionalità corrisponde un certo grado di creatività. Spesso si dice che la discrezionalità è una deviazione da quella che dovrebbe essere la retta e pura interpretazione e la si fa risalire ai difetti della legislazione, difetti che sono esperienza quotidiana di chi esercita qualunque professione giuridica. L’imperfezione della legge alimenta il risentimento nei confronti del legislatore che esercita male il suo compito, e promuove l’invocazione di leggi chiare, di cui l’interprete possa essere solo lo specchio fedele. Sarebbe cosí dunque il “cattivo legislatore” a impedire all’interprete (il giudice, per esempio) di essere un “buon interprete”, fedele conoscitore e applicatore della legge. Per essere tale, egli dovrebbe poter maneggiare “buone leggi”; in mancanza, invece, è costretto dalla necessità a fare una parte che non dovrebbe competergli, ricercando criteri d’interpretazione integrativi della legge, correttivi e perfino sostitutivi.

Fin qui, il senso comune. La scienza del diritto non è su questa linea. Essa concorda con la pratica, circa l’impossibilità di una giurisprudenza solo “riflettente” il diritto posto dal legislatore – non per una ragione empirica (la cattiva qualità della legislazione), ma per una ragione strutturale. Gli studi sulla natura del discorso normativo, le indagini sul linguaggio e i concetti del legislatore e la giurisprudenza analitica hanno anche in Italia superato l’idea del positivismo delle origini: l’idea cioè del diritto come insieme di atti di volontà, perduranti nel tempo, di un legislatore personale o di un ordinamento impersonale. Fermo il postulato del diritto come dato oggettivo, la giurisprudenza teorica ha rigettato, ha anzi ridicolizzato l’idea del giudizio giuridico come esclusiva applicazione della legge per quella che essa è, tramite “deduzioni” relative a fatti “sussunti” nella descrizione normativa. Lo schema logico del sillogismo normativo non è affatto abbandonato, ma da gran tempo ormai si è fatta strada l’idea che la premessa maggiore (la norma da applicare) non sia quasi mai integralmente determinata dalla legge e che quindi, per la parte carente, le decisioni dei giudici contengano elementi creativi che dipendono dalla sua scelta, cioè dalla sua volontà discrezionale. Tale “discrezionalità” è ammessa in linea di principio e non soltanto come conseguenza del deplorevole stato in cui versa la legislazione. Queste teorie dell’interpretazione giuridica si richiamano per lo piú a due punti di riferimento del positivismo giuridico, Hans Kelsen e Herbert Hart, rimanendo perciò in quell’ambito, sebbene il loro positivismo sia non ingenuo ma, come si dice, «critico».

Per Kelsen4, ogni attuazione del diritto è, al tempo stesso, in parte applicazione vincolata di norme esistenti e, in altra parte, creazione discrezionale di norme nuove. Nello sviluppo “a gradi” dell’ordine giuridico, il vincolo inizialmente generico derivante dai principî della costituzione si fa via via piú stringente, fino alla determinazione, in tutto e per tutto cogente, dell’ordine contenuto nella sentenza del giudice o nel provvedimento dell’amministrazione. Le norme giuridiche diventano progressivamente vieppiú dettagliate e la discrezionalità dell’interprete si riduce parallelamente, fino a scomparire, mano a mano che dal vertice dell’ordinamento ci si avvicina all’applicazione al caso concreto. Il carattere creativo della giurisprudenza, secondo questo modo di vedere, dipende dal linguaggio utilizzato nei diversi “gradi di sviluppo” dell’ordinamento giuridico: dipende cioè strutturalmente dal diritto stesso. Struttura del diritto e discrezionalità del giudice si tengono l’una con l’altra. Presso i filosofi del diritto di impronta analitica, particolarmente interessati ai problemi del linguaggio normativo, la spiegazione della discrezionalità del giudice piú popolare è invece quella di Hart5. La radice della discrezionalità starebbe in «ragioni comunicative» connesse alla naturale open texture del linguaggio, in generale, e del linguaggio giuridico, in particolare. Quest’ultimo, essendo costruito da nozioni di genere, presenterebbe, attorno a un nucleo linguistico compatto al quale l’interprete non può sfuggire, un «alone di incertezza ai margini»: sarebbe il prezzo da pagare all’uso di termini classificatori generali e astratti, un uso inevitabile in ogni forma di comunicazione normativa riguardante questioni relative a fatti considerati come classi e non come eventi particolari, storicamente individuati. L’incertezza del linguaggio deriverebbe dunque dalla varietà dei casi della vita che sfuggono alle maglie delle formule legislative.

5. Visioni riduttive.

Possiamo lasciare per ora da parte questi problemi, che verranno presi in considerazione piú avanti, a proposito dei metodi dell’interpretazione finalizzati a colmare le cosiddette lacune del diritto. Qui interessa notare che, in ogni concezione unilaterale dell’interpretazione giuridica, il lato pratico del diritto, cioè il suo legame con la realtà della vita da regolare, è semplicemente ignorato. L’interpretazione del diritto è funzionale al solo diritto; l’applicazione non sarà altro, poi, che il suo “calare” sul fatto. Questa visione, tipica negli studi sull’interpretazione giuridica di matrice positivistica, orienta verso una visione parziale e riduttiva del compito del giudice, una visione che risulta, alla fine, fondamentalmente inesatta, perché inidonea a rispecchiare la realtà pratica del diritto. Essa rappresenta una vera e propria falsa coscienza6, che si autoalimenta nell’autocomprensione degli «operatori giuridici» ed è avvalorata dall’educazione che, per lo piú, viene impartita negli studi di giurisprudenza.

La difesa ostinata e la straordinaria forza di sopravvivenza di quella concezione unilaterale dell’interpretazione, e quindi della funzione del giudice quale esperto di norme e spregiatore dei casi pratici che cadono sotto il suo giudizio, è un dato di fatto di dimensione universale, almeno nei Paesi di tradizione di diritto legislativo – un dato di fatto che meriterebbe di per sé uno studio di sociologia delle professioni giuridiche. Di solito, si dice che questa concezione, per quanto falsa, vale a difendere la giurisprudenza come scienza, l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, insieme al loro ruolo sociale di esperti in una scienza riservata, separata e non turbata dai fatti della vita. È in gioco l’immagine del giudice che si vuole non “sporcata” dal coinvolgimento nella bassura dell’esperienza sociale, un’immagine che, per quanto falsa, avrebbe effetti socialmente utili, offrendo argomenti contro le mire di altri poteri e le pretese di altre scienze sociali7.

Si può dubitare dell’utilità di questa finzione. Non si tratta solo dei rischi e delle conseguenze negative che ogni mascheramento della realtà, prima o poi, produce, non fosse altro perché impedisce ai problemi di mostrarsi per essere affrontati nella loro giusta luce. Gli anzidetti «effetti socialmente utili» potevano forse ipotizzarsi con riferimento a sistemi giuridici diversi dall’attuale e in contesti sociali autoritari oggi superati. L’effetto odierno è, per esempio, di non riconoscere le giuste ragioni delle contraddizioni della giurisprudenza, in cause diverse su casi simili o addirittura nel medesimo processo tra i suoi diversi gradi, oppure di alimentare l’idea ch’esse siano necessariamente effetto di errori o leggerezze, se non di parzialità, arbitrio, partito preso o perfino corruzione: mentre spesso esse non sono che l’onesto sforzo di ricercare le soluzioni piú conformi al diritto, al di là delle carenze della legge. Si forniscono cosí argomenti per alimentare campagne contro i giudici e la loro indipendenza. Insistendo su una falsa rappresentazione della loro funzione, si privano i giudici dell’argomento difensivo piú forte a loro disposizione: la vera essenza del giudicare secondo diritto.

6. ”Inter-praestatio”.

Si consideri la struttura composta delle parole inter-prete, inter-pretazione, inter-praes, inter-praestatio.

Alla radice praes (da cui il francese prêter) si collegano molti derivati, cui ha “prestato” la sua attenzione Émile Benvéniste, nel suo grande studio sulla lingua delle istituzioni indoeuropee8, ricostruendo, anche in questo caso, la vita affascinante di una parola. L’avverbio praesto, riferito a esse – stare al cospetto, a disposizione – si collega alla voce verbale praestare – stare davanti, ma anche assicurare, garantire (da praes: garanzia)9. Ma praesto può essere anche collegato a facere, da cui praestare nel senso di essere pronto o mettere a disposizione, fare in modo che si possa contare su qualcosa; da cui, per estensione, farsi garante, rispondere di qualcosa presso qualcuno e, per ulteriore estensione, manifestare, offrire: da cui l’odierno “prestare”, come dazione di un bene in vista della restituzione.

Alla polisemia dei sostantivi praes o praestatio (garanzia o prestazione generica), si accompagna però la certezza circa il valore della preposizione inter, indicante una situazione o un’attività mediana o mediatrice, un’attività di intermediazione. L’interprete – si pensi all’interprete da una lingua a un’altra – sta in mezzo e fa da tramite, da collegamento fra parti diverse che devono o vogliono entrare in rapporto. L’interpretazione non è dunque un rapporto a due, tra chi interpreta e ciò che è interpretato, come si ritiene entro le visioni semplificate del diritto come sola legge, le quali immaginano un movimento semplice di estrazione, ricerca, determinazione o assegnazione di senso, a partire da un “segno”. È invece un rapporto a tre lati, fra ciò che è interpretato, chi interpreta e il destinatario dell’interpretazione, che può essere un pubblico terzo o può frequentemente essere lo stesso interprete che, in certo senso, si sdoppia in quanto autore e in quanto ricettore dell’interpretazione. L’interpretazione implica dunque un “essere in rapporto” e in tensione, in posizione intermedia entro un campo determinato da ciò che è oggetto di interpretazione e chi è destinatario dell’interpretazione. Si perde il senso complesso della parola quando si trascura il valore del suo prefisso o lo si sostituisce con un altro: nella lingua tedesca, che pure conosce l’espressione Interpretation, la parola Auslegung – interpretazione come ex posizione – elude, con l’uso di aus, il carattere relazionale, espresso invece in modo cosí pregnante da inter.

Possiamo guardare i problemi dell’interpretazione dicendo che essa è come un ponte gettato tra le parole e le cose del diritto, e che l’interprete è il pontiere. Per differenza, pensiamo al tempo mitologico in cui le parole e le cose erano le une compenetrate nelle altre (nomen omen, ancor oggi si dice). La parola di Dio era la cosa che veniva a esistere appena pronunciata, all’inizio del Libro della Genesi. La parola dell’oracolo era una premonizione di avvenimenti messi in moto da quella stessa parola. Dabar, in ebraico, è parola produttiva di accadimenti, parole divine. Nel Sefer Hakmoni, commento al Sefer Yetzirah o Libro della creazione, o della Formazione, appartenente alla letteratura teologico-cosmogonica ebraica, si racconta di Elohím che si trastulla con le lettere dell’alfabeto creando l’universo:

Durante i duemila anni che precedettero la creazione del mondo, il Santo, sia Egli benedetto, si dilettò con la scienza delle lettere. Le metteva insieme, le faceva ruotare, le combinava in un’unica frase, le girava tutte e ventidue avanti e indietro. Le componeva in frasi complete, mezze frasi, un terzo di frase. Rovesciava le frasi, le univa, le separava, trasformandole tanto nelle lettere quanto nella puntazione vocalica. Ne contava il numero sino a completarlo. Queste erano le operazioni del Santo, sia Egli benedetto, quando decise di creare il mondo con la propria parola e con l’espressione del proprio Nome grande e terribile10.

Potremmo dire cosí: quelle erano lettere, parole, frasi concrete che non avevano bisogno di interpretazione per raggiungere il loro oggetto: tra “dire la parola” e “fare la parola” non c’era spazio intermedio. Erano, quelle, parole che, oggi, si dicono «performative»: parole che fanno cose11, parole non separate dall’essere. Le nostre parole non sono creative nel senso anzidetto, ma sono allusive a ciò che è o a ciò che può essere o a ciò che deve essere, e l’allusione richiede d’essere decrittata. Per raggiungere il suo scopo, cioè per creare conoscenza, offrire possibilità o trasmettere valori, cioè per arrivare alle cose che il linguaggio indica, occorre che si riempia lo spazio vuoto dal quale il parlare e l’essere sono separati. L’inter e la praestatio sono il riempitivo.

Si è accennato poco sopra al linguaggio performativo. Si può aggiungere che l’odierno «performativo» è molto distante da quello originario: le nostre parole, per creare cose, necessitano di una qualche convenzione superiore che attribuisca loro quella potenza: ad esempio, il «sí» pronunciato in una cerimonia nuziale crea il coniugio solo perché una norma precedente gli attribuisce quella capacità. E qui entra in gioco l’interpretazione.

7. Caratteri comuni di ogni interpretazione.

I problemi dell’interpretazione sono, nella loro struttura fondamentale, comuni a ogni campo nel quale questa parola ricorre. Lasciando da parte l’“interpretazione” di fatti naturali, assunti come messaggi divini, diretti agli uomini in circostanze eccezionali (ad esempio, nell’imminenza di una battaglia) e “interpretati” da sacerdoti, auguri e aruspici in contesti dominati dalla magia e da credenze irrazionali, si parla di interpretazione biblica, letteraria, artistico-figurativa, storica, musicale, ecc. Sono possibili teorie generali dell’interpretazione, che abbracciano l’insieme di queste esperienze12. Chi è l’interprete e qual è la sua funzione, per esempio, nell’interpretazione musicale? Prendiamo, ad esempio, un Preludio e fuga di Johann Sebastian Bach: l’interpretazione che se ne dava in epoca barocca era certamente molto diversa da quella di un interprete di epoca romantica, e ancora diversa dalle interpretazioni “postmoderne” di oggi, in cui non esiste canone accettato e tutto è possibile, compresa l’esecuzione su strumenti elettronici e sintetizzatori. Prendiamo ancora l’Antigone di Sofocle: gli attori del V secolo a.C. l’interpretavano in modo a noi totalmente sconosciuto, tra canti, balli e coinvolgimenti orgiastici del pubblico; l’interpretazione antinazista, che identificava Creonte con Hitler e Antigone con gli eroi della resistenza al despota (nella Antigone di Jean Anouilh, ad esempio), è lontanissima dall’interpretazione odierna che vede in Creonte la dolente figura dell’uomo di governo che, per le sue responsabilità politiche, deve far tacere quella voce del cuore che lo avvicinerebbe ad Antigone.

Qual è la posizione dell’interprete? È quella di colui che fa da mediatore tra un autore che ha consegnato il suo messaggio a un testo destinato a sopravvivergli, e un pubblico che ne riceve il contenuto. L’interprete è vincolato al testo, ma è gravato anche da un altro vincolo, che gli proviene dai destinatari del messaggio: deve essere comprensibile, anzi, convincente. Ciò significa il dover “tenere in conto” il contesto culturale in cui si svolge la ricezione. Qualunque interprete consapevole del suo compito, in qualsivoglia campo dell’interpretazione, si interroga inevitabilmente sul suo rapporto con i ricettori delle sue interpretazioni; sa perfettamente che questo lato dell’interpretazione è altrettanto importante di quello che lo lega al documento, al testo da interpretare. Egli deve dunque assegnare rilevanza anche al suo pubblico, non necessariamente per adularlo o assecondarlo conformisticamente, quanto per provocarlo, incalzarlo, perfino irritarlo o terrorizzarlo. È questa la radice delle sue “scelte interpretative” e tutto ciò è compreso nel “tenere in conto”. Non è buon interprete né quello che sforza il testo per superficiale narcisismo o per altri suoi fini personali, né quello che gli si incolla con un filologismo cosí esasperato (ad esempio, le esecuzioni musicali su lamentosi strumenti d’epoca) da rendersi, lui stesso, estraneo al suo tempo, e da rendere il testo muto nei confronti di un pubblico indifferente.

L’interpretazione, cosí, è al centro di due flussi di influenza, che convergono da opposte direzioni, provenienti dal testo e dai destinatari del testo. E qui opera il fattore tempo. L’interprete è colui che congiunge il passato (il tempo del testo) al presente (il tempo dell’interpretazione), o magari al futuro (il tempo in cui l’interpretazione, oggi non ancora convincente, lo diventerà). La posizione inter-pretativa è fonte di tutte le difficoltà, ma anche di tutte le potenzialità dell’interpretazione, potenzialità che si manifestano nell’essere sempre aperte a nuove domande e nuove risposte, pur fermi restando i dati testuali da interpretare. La mutevolezza delle interpretazioni è la manifestazione del flusso di influenza che i destinatari, nel tempo culturale che è il loro, esercitano sull’interprete, introducendolo all’ininterrotto procedere verso sempre nuove mete interpretative. L’influenza del presente sul “dato” che viene dal passato, quale che ne sia la natura: un testo letterario, musicale, giuridico, ecc., è particolarmente visibile nella interpretazione degli eventi della storia. Quando si ripete il celebre detto «ogni storia è sempre storia contemporanea»13, anche quando tratta di vicende risalenti a secoli o millenni precedenti, si dice precisamente questo: che è l’ambiente culturale e politico presente, con le sue incertezze e i suoi conflitti attuali, a porre le domande e a sollecitare risposte. Ogni re-interpretazione storica è la risposta alle domande nuove che sorgono non dal passato, ma dal presente.

8. Presente, passato, futuro.

Ritorniamo al diritto e diamo l’importanza che merita, anche per la teoria, all’ordinario e necessario svolgersi delle cose. Da qui, soltanto, può nascere la possibilità di una teoria adeguata alla realtà. Il giudice, come qualunque interprete e applicatore del diritto, ha necessariamente di fronte a sé un fatto o caso della vita, da regolare giuridicamente e prospettato con l’azione in giudizio. Da mihi factum, dabo tibi ius, dice l’antico e solo apparentemente banale adagio14 che, in origine, esprimeva la posizione del pretore di fronte all’esposizione di un caso al quale non corrispondeva ancora un’azione legale, e che oggi assume, nelle regole del diritto processuale che escludono l’agire ex officio del giudice, un significato di sintesi dell’essenza del giudicare.

Il dato di fatto o caso è dunque la molla dell’interpretazione15. Questo dato è il presente. L’interprete procede da questo punto dello svolgersi del tempo, per rivolgersi all’indietro, alla norma che è stata posta in un tempo anteriore, ma deve guardare al tempo a venire affinché la sua interpretazione sia storicamente feconda. Ecco il campo di tensione: il fatto o caso al centro, il diritto all’inizio, la ricezione del diritto alla fine. Il giudice sta nel mezzo per stabilire un collegamento tra l’inizio e la fine.

Il punto intermedio è essenziale. Che l’interpretazione sia mossa indietro e avanti dal caso da decidere è di solito l’elemento dell’interpretazione che viene trascurato e proprio per questo occorre sottolinearlo particolarmente. Precisamente da ciò che si trascura si sviluppa il “senso”, come significato e come direzione, dell’interpretazione. Rivolgendosi al diritto, si prenderanno in considerazione le norme che possono apparire conferenti (sguardo all’indietro). “Conferenti” significa adeguate a risolvere il caso in coerenza con le aspettative che si ripongono nella risoluzione (sguardo in avanti). Dopo di che si ritornerà al caso, per precisarlo nei suoi contorni, eventualmente anche attraverso un’attività probatoria sui fatti, un’attività che non è mai rivolta, alla cieca, a determinare tutte le infinite caratteristiche oggettive del fatto stesso ma è mirata ad accertare nel concreto la presenza o l’assenza degli elementi significativi rispetto alla norma ipoteticamente individuata come idonea alla decisione (sguardo all’indietro). Se da tale individuazione deriveranno conseguenze inaccettabili (sguardo in avanti), si andrà alla ricerca di altri elementi di fatto che possono rilevare alla stregua di una norma diversa; da questa ulteriore determinazione, si ritornerà al diritto, perché forse le norme che, in un primo tempo, apparivano rilevanti, non lo sono piú e altre devono essere prese in considerazione. Queste sono le operazioni che chi si trova ad applicare il diritto compie abitualmente, per lo piú senza pensarci su.

L’interpretazione giuridica sta, dunque, tra due poli: uno retrospettivo e l’altro prospettivo. Il polo retrospettivo è la norma da interpretare; il polo prospettivo è l’impatto dell’interpretazione sull’avvenire. Il caso che promuove l’interpretazione sta in mezzo, e con il caso anche l’interprete: ecco che cosa significa l’inter dell’interpretazione. Il fatto non può comprendersi giuridicamente se non in riferimento alla norma e questa non ha significato se non in riferimento a quello, poiché il fatto deve orientarsi alla norma e la norma deve orientarsi al fatto16. L’interpretazione è l’attività che mira a congiungere l’uno all’altra, fino a farli «combaciare» in un risultato appagante su entrambi i lati. Ma l’“appagamento” ha un significato solo in quanto il presente sia rivolto all’avvenire, proiettato nell’avvenire. L’interpretazione – si potrebbe dire a questo punto – è il medium che collega passato e futuro nel presente.

9. Interpretazione scientifica.

Solo nell’interpretazione scientifica, quella che si compie a tavolino dagli studiosi, l’attività interpretativa procede all’inverso, prendendo in considerazione innanzitutto la legge. Ciò modifica l’ordine di priorità dei fattori, ma non i caratteri formativi dell’interpretazione stessa: il fatto alla cui regolazione la norma è destinata non sarà un dato storico concreto – come nell’interpretazione giudiziaria – ma sarà la sua concettualizzazione ipotetica, operata dall’interprete. Non si può guardare alla norma se non ipotizzando fattispecie particolari cui applicarla. La «interpretazione in astratto», che escluda la considerazione di fatti, non è possibile. Anche chi ritiene ammissibile una «interpretazione solo in astratto», contrapposta alla «interpretazione in concreto», non può non concedere che «non si può identificare una norma se non identificando al tempo stesso almeno i casi paradigmatici ai quali essa è applicabile»17, il che smentisce l’assunto generale circa la possibilità di un’interpretazione totalmente rivolta al diritto. Se non ci fosse questo processo di interrogazione pratica della norma, a partire dalla realtà o a partire da congetture, l’interpretazione si ridurrebbe, infatti, in una semplice e vuota parafrasi della legge. Ciò è tanto piú vero quanto piú le norme si esprimono attraverso «principî». «Il principio astratto non è un principio»18 che serva a qualcosa: può solo produrre parole su parole. Esso incomincia a valere come norma solo a contatto con la concretezza dei fatti della vita, a partire dai quali il principio è sollecitato a dire qualcosa di utile.

La stessa cosa accade tutte le volte in cui nasce un dubbio. Esso rappresenta l’alimento dell’interpretazione cui si dedica la scienza del diritto. Il dubbio interpretativo si presenta quando e perché ci si pone dal punto di vista di un fatto nuovo oppure tale da meritare di essere considerato in modo nuovo. Da questa base di partenza nasce l’interrogazione sul significato della norma. L’interpretazione scientifica, in breve, non procede altrimenti che attraverso domande circa la possibilità di inclusione o di esclusione nella previsione normativa di determinate fattispecie concrete, solo formulate in ipotesi. Da questa inversione dei fattori deriva, come conseguenza, un atteggiamento della dottrina meno fantasioso della giurisprudenza, poiché la ricchezza dei «casi della vita» supera l’astratta immaginazione dei giuristi che, sui testi, formulano i loro cosiddetti «casi di scuola».

10. L’interpretazione come esperienza di risoluzione di problemi.

Quanto si è venuti fin qui dicendo può sintetizzarsi qualificando l’interpretazione giuridica come attività mossa da finalità essenzialmente pratiche, poiché essa si giustifica con l’esistenza di fatti concreti da regolare ed è finalizzata non alla conoscenza ma all’azione, cioè all’applicazione tramite decisione19. Se non esistessero problemi pratici da risolvere, nessuno si rivolgerebbe al diritto; se non ci fosse nulla da giudicare, non ci sarebbe il diritto. In questo orientamento problematico, si è detto20, consiste il carattere del diritto come esperienza, una formula forse oscura a prima vista, che potrebbe far pensare ad atteggiamenti esistenzialisti, ma che semplicemente significa che la scienza del diritto è «conoscenza applicata» e «condizionata dalla concretezza del fine». «La controversia è produttiva di diritto»21, è stato detto giustamente, e lo spazio della controversia è, per l’appunto, quello in cui si genera l’interpretazione.

11. I fatti come casi.

L’interpretazione giuridica può cosí essere definita – salva la necessità di vari successivi chiarimenti – come ricerca della norma regolatrice adeguata sia al caso che al diritto. È necessario insistere sull’importanza del «caso», che ora dobbiamo distinguere dal «fatto» di cui, genericamente, abbiamo parlato finora.

Tutte le concezioni unilaterali, esclusivamente legalistiche, dell’interpretazione, quali che ne siano le tante e piú o meno elaborate varianti, trattano l’attività di applicazione del diritto come quella che consiste in una semplice operazione deduttiva: dalla norma individuata a priori, valida in generale e in astratto, alla sentenza ricavata a posteriori, cioè al precetto individuale e concreto riguardante il fatto sub iudice e contenente qualificazioni giuridiche (liceità, illiceità, validità, invalidità, doverosità, facoltatività, ecc.) ed eventualmente misure conseguenti (sanzioni, risarcimenti, annullamenti, ecc.). Un’actio simplex dal mondo delle norme – la parte attiva – a quello dei fatti – la parte passiva – tramite l’opera del giudice che «applica», cioè appoggia le prime, «facendole discendere»22 sui secondi. I «casi» di cui queste teorie parlano sono infatti niente piú che fatti inanimati, da ricomprendere in schemi normativi. Il «caso», secondo queste concezioni, consisterebbe nel rapporto norma-fatto, cioè si risolverebbe integralmente nell’applicazione del diritto al fatto: sarebbe – si potrebbe dire – «operazione giuridica» o, anche, operazione di chirurgia giuridica sui fatti della vita.

In questa linea di pensiero, si ritiene di perseguire un apprezzabile duplice fine, l’uno di ordine teorico, l’altro pratico: preservare innanzitutto la sfera delle norme dalle “perturbazioni” dei fatti, mantenendo ferma la grande dicotomia mondo del dover essere - mondo dell’essere; configurare, inoltre, la risoluzione giuridica dei casi alla stregua dell’applicazione rigorosa di una regola, secondo ciò che si ritiene sia la risoluzione dei problemi secondo le leggi delle scienze teoretiche, come la matematica o la geometria. Abbiamo già incontrato in precedenza (si veda supra, par. I.5) il giudice-matematico o il giudice-geometra, quello che piú si avvicina all’idea della formalizzazione della giurisprudenza e all’ideale della scienza del diritto come scienza esatta, con quel che segue quanto a prevedibilità, stabilità, certezza delle sue soluzioni: un ideale effettivamente coltivato, soprattutto dal razionalismo giuridico del Seicento e Settecento.

Il diritto come geometria o matematica sociale rimanda alla nozione di scienza o ragione teoretica. Aristotele, nel libro VI dell’Etica nicomachea, distingue scienza teoretica e scienza pratica in questi termini: la prima (epistéme) riguarda le entità che esistono di per sé, indipendentemente da noi (gli universali, le cose che esistono necessariamente, ciò che è oggetto di conoscenza dimostrativa); la seconda (phrónesis) le cose che non esistono indipendentemente da noi e, come tali, richiedono un atteggiamento non solo speculativo (rispecchiare ciò che c’è fuori di noi) ma anche autoriflessivo (valutare noi e il nostro agire rispetto a ciò che c’è fuori di noi). Nella scienza pratica, inevitabilmente essere e dover essere, oggettivo e soggettivo, realtà e norma, si misurano e compongono “dialetticamente”. L’esempio sommo di scienza teoretica è la teologia, posto che esista un’incommensurabile distanza che separa Dio da noi e lo fa essere quello che è indipendentemente da noi (a meno che, con Ludwig Feuerbach23, non si ritenga il contrario, che proprio Dio sia il piú chiaro esempio di creazione a opera degli uomini, proiettata in una sfera ultramondana dove essi cercano soddisfazione alle loro domande e angosce ultime, derivanti dalla loro finitezza esistenziale). Ma altri esempi sono, per l’appunto, la geometria e la matematica, le cui regole e proporzioni si considerano vere anche se nessuno di noi se ne occupa. Esempi di scienza pratica possono essere la politica e l’economia, le quali, nel momento in cui formulano le proprie proposizioni o «leggi», orientano l’azione e cosí contribuiscono a formare il proprio oggetto e dunque, in certo senso, lo “vogliono” o lo “fanno essere” quello che è.

12. Interpretazione-applicazione come sola “quaestio iuris”: sillogismo e sussunzione.

I problemi propriamente giuridici che il giudice deve porsi finirebbero cosí per essere solo quelli relativi alla ricognizione del contenuto delle norme, relativi cioè alla determinazione di fattispecie giuridiche attraverso le quali, come attraverso una lente, i fatti della vita vengono osservati. La determinazione di questi ultimi rappresenterebbe una semplice quaestio facti, e tra quaestio facti e quaestio iuris non vi sarebbe alcun rapporto di reciproco condizionamento. E quanto piú la determinazione delle fattispecie legali è «pura», scevra cioè da influenze di fattori ch’essi ritengono non normativi, tanto piú questi giuristi si ritengono soddisfatti e credono che la loro sia una buona interpretazione. Per questo, massima è l’attenzione dedicata ai temi dell’interpretazione (come essi l’intendono); minima o addirittura inesistente è invece la riflessione sui casi e sul ruolo che essi assumono nell’interpretazione stessa e nell’applicazione del diritto24. Una volta determinata la norma, la sua applicazione al caso – tramite sussunzione o deduzione sillogistica – sarebbe «uno scherzo da bambini»25. Sussunzione e deduzione esprimono punti di vista opposti, la prima dal fatto alla norma e la seconda dalla norma al fatto; ma non cambia la separazione tra norma e fatto che entrambe implicano. Sempre solo la norma è viva e il fatto è come un corpo morto che deve essere soltanto conformato alla norma. Solo la norma è esigente; il fatto è totalmente amorfo e attende solo di essere rapportato alla norma. Che si parta dalla norma o dal fatto, non cambia la concezione dell’una e dell’altro e dei reciproci rapporti. Questa è la posizione di quelli che possiamo chiamare gli unilateralisti.

13. Quando l’interpretazione può dirsi riuscita?

Tutto ciò trascura la circostanza – il nocciolo di tutta la questione – che nel processo interpretativo davanti al giudice il fatto o, meglio – come ora si dirà –, il caso, è la molla che lo mette in moto e dà la direzione. Muovendo da esso, ci si rivolge al diritto, per interrogarlo e avere una risposta. Dal caso, l’interprete procede e a esso ritorna, in un andamento circolare (il «circolo interpretativo») di riconduzione bipolare che trova la sua pace nel momento in cui si compongono nel modo piú soddisfacente possibile le esigenze del caso e quelle del diritto26. Quando il risultato interpretativo non fa violenza né all’uno né all’altro (o fa la violenza minore possibile), allora l’interpretazione potrà dirsi «riuscita». Ove vi sia conflitto insanabile, non soccorrerà piú l’interpretazione ma si dovrà mettere in discussione la norma stessa, sotto il profilo della sua inadeguatezza, irragionevolezza, arbitrarietà, eccessiva rigidità dei suoi automatismi. L’esistenza di questi canoni di giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi dimostra un’essenziale novità nei caratteri fondamentali del diritto, nella situazione spirituale del nostro tempo: nel conflitto del diritto con il caso, cioè con le esigenze del caso, l’ordinamento sceglie queste ultime. Per ragioni di diritto vigente (non per il capriccio dell’interprete che vuole ergersi al di sopra del legislatore), la massima centrale del positivismo acritico, dura lex sed lex, o ita lex, non vale piú.

14. Il dualismo come separazione di fatti e norme.

Il dualismo di cui si è detto postula l’esistenza di un rapporto di tensione tra fatti o casi, da un lato, e norme, dall’altro: postula cioè la possibilità di un collegamento e di un reciproco condizionamento; che dal mondo della realtà, di “ciò che è”, nasca un’aspettativa normativa, un’aspettativa di “ciò che deve essere”. Questa aspettativa contraddice quanto la ragione mostra essere impossibile: tra i due mondi, considerati ciascuno per sé, non c’è infatti collegamento. A partire dalla realtà, si può solo dire che una cosa è o non è; si possono enunciare solo asserzioni. A partire dalle norme, si può solo dire che una cosa deve essere o non deve essere; si possono enunciare solo prescrizioni. In ogni caso: che una cosa “sia” non significa che “debba essere”; che una cosa “debba essere”, non significa che “sia”. Questo dualismo non ammette contaminazioni tra due piani che obbediscono a logiche del tutto indipendenti. Su questo punto, che si riassume nella «legge di Hume», ci siamo già intrattenuti (si veda supra, par. VII.1). A quanto detto, aggiungiamo solo che l’accettazione di questa «legge» implica la sconfessione dell’idea della «ragion pratica» che, invece, è fondamentale nella concezione dualista dell’interpretazione. Il sostantivo e l’aggettivo sarebbero in contraddizione, come dice con chiarezza Hans Kelsen:

Noi definiamo ragione la funzione conoscitiva dell’uomo. Ma la statuizione di norme, la legislazione, non è una funzione conoscitiva. Con la statuizione di una norma non si conosce com’è un certo oggetto già dato, ma si richiede qualcosa che deve essere. In questo senso la statuizione di una norma è una funzione del volere non del conoscere. Una ragione che statuisca norme è una ragione che conosce e al tempo stesso vuole, è cioè conoscere e volere a un tempo. È il contraddittorio concetto di ragion pratica27.

Tuttavia, il nostro tempo conosce una rinascita della aristotelica «ragion pratica», anche con riferimento al diritto28. Questa rinascita è collegata, in generale, alla grande e mai conclusa controversia sulla pretesa di a-valutatività delle scienze umane, segnata dal nome di Max Weber29. Con riguardo al diritto, questa rinascita è funzionale ai caratteri delle costituzioni odierne che, come si vedrà tra poco, con le loro disposizioni di principio e le loro opzioni di valore orientano, prima ancora che l’interpretazione del diritto, l’atteggiamento valutativo da assumere di fronte ai fatti30.

15. Superamento della separazione: l’essere delle cose non come fatti, ma come casi.

Dato il rapporto di radicale separazione tra la realtà di cose-che-sono e la pretesa di cose-che-siano, la definizione di interpretazione che si è data sopra (p. 307) – ricerca della norma regolatrice adeguata sia al caso che al diritto – risulterebbe insensata. Il caso, inteso come fatto, non esprimerebbe infatti alcuna richiesta, non potrebbe esigere alcuna regolazione adeguata a sé medesimo: la norma sarebbe la norma e l’interprete dovrebbe agire per un solo fine di adeguatezza: l’adeguatezza alla norma. Sennonché, la «legge di Hume» e le conseguenze che ne derivano presuppongono che si abbia a che fare con «meri fatti», ciò che, nella giurisprudenza, è smentito dal piú forte degli argomenti, l’esperienza. Nel campo del diritto non si ha a che fare con «meri fatti», come possono essere quelli oggetto di osservazione delle scienze naturali o delle scienze sociali descrittive (come la sociologia nella sua forma piú elementare, la conoscenza statistica), fatti analizzabili in termini quantitativi e comprensibili, quando si è in grado di comprenderli, alla stregua delle leggi di causalità: il diritto ha a che fare con «fatti umani», comprensibili in tutt’altro modo, cioè secondo categorie di senso e di valore. I «fatti umani» intesi nel loro senso e nel loro valore forniscono all’interprete del diritto i «casi» da regolare giuridicamente e questi «casi», come si dirà nel paragrafo che segue, sono densi di aspettative normative. Con riguardo alla giurisprudenza, il limite della «legge di Hume» e delle conseguenze che se ne traggono, sta in questo: essa parla di fatti, ma nel giudizio giuridico non si hanno fatti, bensí casi, e tra fatti e casi occorre ora – dopo averne finora parlato in modo pre-analitico – stabilire la differenza.

16. Interpretazione come “actio duplex”.

La «ricerca della norma regolatrice, adeguata sia al caso che al diritto» è una definizione dell’interpretazione nella quale l’actio simplex del positivismo normativo è sostituita con un’actio duplex. La scienza del diritto, in quanto scienza pratica, non si occupa di regole che si giustificano integralmente in e da se stesse, regole che hanno in sé la propria giustificazione. Il valore delle norme giuridiche si misura guardando fuori di loro, nella capacità di regolamentazione adeguata alle aspettative che la dinamica dei rapporti sociali propone, in relazione ai casi che sono espressione di tale dinamica. In presenza di certi casi, varranno certe norme; mutando i casi, si manifesterà la tendenza – indipendentemente dal fatto che il legislatore provveda a cambiare la legge – a ricercarne nell’ordinamento di nuove, diverse da quelle anteriori, regolatrici di casi ormai superati. Anzi, come è stato notato in relazione alla massima in claris non fit interpretatio, «un testo, che sulla carta o alla luce della esperienza applicativa precedente sembra chiaro, può oscurarsi di fronte alla provocazione di un nuovo caso»31, ove per «nuovo» deve intendersi sia ciò che finora mai si è verificato, sia ciò che, pur già verificatosi nella sua materialità, appare ora sotto una nuova luce problematica.

I principî morali non falliscono il loro scopo né entrano in crisi perché l’evoluzione delle aspettative sociali li contraddice: essi esprimono valori assoluti ed è perciò comprensibile che valgano indipendentemente dai casi. A meno che la morale relativizzata si giuridifichi anch’essa snaturandosi32, la percezione del valore delle sue norme aumenta, anzi, in proporzione diretta con l’allontanamento della vita sociale. Tanto piú ci si allontana, tanto piú se ne avverte la forza moralmente cogente. Le condizioni sociali potranno, se mai, influire sulle modalità di attuazione dei principî della morale, non sul loro contenuto. La regola giuridica, invece, si caratterizza precisamente in questo: nel non aspirare a un’astratta e immobile giustizia, ma alla composizione nel modo piú adeguato possibile (adeguato a che cosa, è altro e successivo problema) della convivenza umana.

17. Interpretazione evolutiva.

Quando il diritto, per come anteriormente interpretato, non risulta piú idoneo a questo fine, il caso nuovo preme attraverso l’interpretazione, affinché nell’ordinamento si ricerchi una norma nuova e piú adeguata. In questo senso, si può parlare di «produttività del caso concreto»33, produttività che è alla base e spiega la cosiddetta interpretazione evolutiva.

Solo nelle situazioni storiche statiche questa pressione svolta dal caso sulle norme giuridiche può non essere avvertita, riscontrandosi allora un arresto del flusso innovatore delle interpretazioni, arresto che deriva dalla staticità delle esigenze cui il diritto deve provvedere; solo allora l’interpretazione può scambiarsi per un’attività unilaterale, concentrata unicamente sul diritto. Ma nemmeno in queste situazioni vi sarebbe irrilevanza del caso, ai fini dell’interpretazione. Semplicemente, esso, non sollevando in quel momento problemi inediti, farebbe passare sotto silenzio, nasconderebbe il giudizio di senso e di valore che lo riguarda. Ma chi pretendesse di fermare l’interpretazione di fronte alle trasformazioni sociali, chiudendola in un gioco intellettivo puramente interno all’insieme delle norme, pretenderebbe in realtà che tali trasformazioni si fermassero, assegnando al diritto una funzione di blocco che esso non ha mai potuto svolgere e che sarebbe assurdo pretendere che svolgesse.

18. Casi vivi.

I casi premono dunque sul diritto34. Ma che cosa è, propriamente, il caso che pretende di cadere sotto una regola adeguata? Di nessuna norma, di per sé, può dirsi ch’essa sia adeguata o inadeguata a un caso; né di un caso può dirsi ch’esso pretenda una norma adeguata, finché esso sia inteso come mera situazione di fatto. Il mero fatto, come si è visto in precedenza, è muto, morto, non avanza pretese. Il punto cruciale dell’interpretazione giuridica è che il «caso» non è puro accadimento ma «accadimento problematico». Cosí considerato, esso solleva interrogativi: precisamente gli interrogativi che devono risolversi attraverso una risposta giuridica. Il nudo fatto incomincia a porre domande quando ha di fronte a sé qualcuno che a esso deve «reagire» e questo «qualcuno» lo comprende (nel senso in cui tale parola indica un’attività irriducibile a quella dello “spiegare”, secondo sequenze di cause ed effetti che legano i fatti) attribuendogli un «senso» o significato, per mezzo delle proprie categorie di significato, e un «valore», per mezzo delle sue categorie di valore. Il fatto, allora, diventa «caso» attraverso l’inevitabile comprensione di significato e valore da parte di colui che è chiamato a dare risposte in termini di diritto.

La comprensione di senso o di significato consiste nella percezione di ciò che il mero fatto rappresenta dal punto di vista della vita sociale. Ogni individuo e ogni società dispongono di categorie in cui gli avvenimenti che li riguardano vengono inquadrati per essere compresi, affinché si possa rispondere alla domanda: non semplicemente, che cosa sta accadendo? ma che significa ciò che sta accadendo? Nessun individuo, nessuna società umana può esistere se non ha risposte a questa seconda domanda. La mancata risposta e l’incapacità di decifrare gli avvenimenti sono causa di disorientamento, angoscia e terrore, come di fronte all’inatteso e all’enigmatico. L’esistenza degli esseri umani e delle loro società è una perenne attribuzione di senso e di valore alle cose e alle azioni o, detto altrimenti, è un’incessante operazione di astrazione e generalizzazione di significanza dalle cose e dalle azioni.

Questa operazione, che in una vita individuale e collettiva solidamente strutturata dà normalmente risultati convergenti, in momenti instabili o critici può dar luogo a risultati diversi e, addirittura, confliggenti. Uno stesso fatto, prima ancora di introdurre i valori nel giudizio, può essere inteso in sensi profondamente diversi, generando con ciò un conflitto interpretativo. Il senso dell’atto può essere dunque problematico. Non sempre e non tutti gli atti, gli avvenimenti, si prestano a essere intesi in un solo e univoco senso. Anzi, in una società aperta, i sensi o significati delle cose sono anch’essi aperti al multi-intendimento e, dunque, al fra-intendimento.

19. Il senso come significato sociale: esempi.

Per “senso” o “significato” si deve intendere qui la connessione tra un’azione, una parola, un’espressione e il loro prodotto sociale. La comprensione del senso o significato oggettivo di un’azione, cioè della sua «logica sociale»35, si ha sempre solo in connessione con ciò che essa è idonea a determinare nella sfera plurisoggettiva che la riceve. Questa connessione non è determinata dal diritto, ma è presupposta: è una condicio sine qua non dell’applicabilità delle norme che sfugge alla capacità regolatrice del diritto. Le norme giuridiche rispecchiano necessariamente l’assunzione di un determinato significato sociale dei fatti ch’esse prevedono ma, per l’appunto, lo assumono e non lo determinano. Quando si crea uno scarto o una contraddizione tra l’assunzione di senso da parte del legislatore e il significato di cui il fatto è dotato socialmente, questa è l’ipotesi di una legge inadeguata al caso, nel linguaggio della nostra Corte costituzionale: è un caso di manifesta irragionevolezza. Le categorizzazioni di senso del legislatore cedono dunque di fronte a quelle che vigono nella sfera sociale.

Lo stesso fatto materiale della morte procurata può essere inteso in molti differenti significati: come mezzo rivolto contro la vita altrui (omicidio), oppure contro le sofferenze altrui (eutanasia); contro la degenerazione della specie umana (eugenetica) oppure come strumento o prezzo, anche non voluto («effetto collaterale»), della guerra; oppure come difesa di un bene primario proprio o altrui (legittima difesa), o come sanzione di un delitto (pena capitale), o ancora come prezzo della sperimentazione medica su esseri umani per il bene futuro di altri esseri umani; oppure come misura di contenimento della sovra-popolazione o come interruzione volontaria della gravidanza a tutela dei diritti della donna o come soppressione d’una vita in fieri; infine, come via obbligata per l’espianto di organi utilizzabili per trapianti, quando l’attività cardiocircolatoria ancora non è interrotta.

Nella seconda metà del mese di gennaio 1998 si compí la tragedia di Gabriele, un bimbo nato senza cervello che i genitori, nella certezza ch’egli non sarebbe sopravvissuto, vollero ugualmente che venisse alla luce per poter donare i suoi organi ad altri bambini in attesa di trapianto. Il 28, dopo due settimane di vita artificiale, si arrestarono i supporti tecnologici che lo mantenevano alla sua vita vegetativa, e si provvide all’espianto del cuore che viene impiantato nel piccolo Maurizio, appena nato con una letale malformazione cardiaca. Che cosa fu: un atto d’amore o un’efferata crudeltà, la produzione di “materiale organico” per mezzo di un essere umano ridotto a “materia prima”?

L’acquisto di minori, figli di genitori indigenti, può essere considerato un commercio di bambini, oppure atto benefico rivolto a migliorarne le condizioni di vita, oppure ancora la soddisfazione di un’esigenza affettiva degli adulti acquirenti che se la possono permettere36?

La costrizione fisica e psichica di un tossicodipendente può essere vista come mezzo di sopraffazione della sua libertà o come mezzo per liberarlo da un’altra e piú profonda sopraffazione. La questione fu discussa a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, a proposito del «caso di San Patrignano»37.

Il crocifisso esposto in un luogo pubblico può essere inteso come riferimento a una tradizione politico-religiosa; come simbolo della predominanza di una fede sulle altre; come richiamo del messaggio di conciliazione e amore tra gli esseri umani contenuto nel Vangelo di Gesú Cristo e persino come rappresentazione sintetica dell’insieme dei valori sui quali l’ordinamento costituzionale si basa38. Oppure, si può pensare a un «simbolo muto» o «vuoto» che, di per sé, non dice nulla, cosicché tutti quelli che lo guardano lo possono intendere a modo loro, anche solo come la riproduzione di un uomo che pende da una croce39.

Il velo islamico indossato in Occidente può essere considerato un segno di identità e appartenenza, a difesa delle donne di cultura islamica contro l’omologazione nella cultura dominante; oppure un segno dell’oppressione maschile sul mondo femminile in quella cultura; oppure, ancora, una dichiarazione di ostilità, portatrice di provocazione ideologica e poi forse di violenza materiale, contro i modi di vivere delle società occidentali.

Qualche tempo fa, la storia d’amore tra un giovanissimo studente e la sua matura professoressa si considerava simile a un plagio. Oggi (maggio 2017), un presidente di una Repubblica vicina a noi ha fatto di questa storia un argomento a suo favore nella campagna che ha portato alla sua elezione.

Eccetera, eccetera, eccetera. Qualunque lettore potrebbe portare altri esempi ed è anzi esortato a farlo. Si accorgerebbe come sono variabili i modi d’intendere i fatti della vita. Del resto, già Erodoto di Alicarnasso, nei suoi resoconti di viaggio raccolti sotto il titolo di Storie, ci aveva mostrato l’infinita varietà e relatività dei costumi degli uomini, e Michel de Montaigne, nei suoi Essais (1589-92), ha magistralmente documentato come gli stessi fatti possono essere intesi diversamente dagli uomini, per il semplice fatto di abitare al di qua o al di là d’un fiume o di una catena montuosa.

20. Attribuzioni di senso e limiti della legge.

Sulle controversie di senso intervengono il legislatore quando intende stabilire una norma ad hoc, e il giudice quando occorre dirimere una controversia. Questo legislatore o questo giudice non determinano il senso e non lo possono imporre, ma semplicemente lo prescelgono, tra quelli che si contendono il campo delle interpretazioni dei fatti sociali e che continuano a contenderselo, anche dopo che la norma è posta o la sentenza è pronunciata. Le contese di senso non sono affatto fermate definitivamente, poiché esse vivono di ragioni proprie, la cui natura precede il diritto, e sono di natura essenzialmente culturale, tali che da nessuna legge e da nessuna sentenza, in una società libera, potranno mai essere fermate (potranno forse essere soffocate, ma in società illiberali, oppressive). Rispetto alla legge, le perduranti contese sul senso, una volta che il legislatore abbia legiferato, si trasformano da controversie sulla legge in controversie sull’interpretazione della legge, secondo la concezione di questa come ricerca della norma adeguata al caso e alla percezione del suo senso.

Il positivismo legalista, che riduce la vita concreta del diritto alla meccanica sussunzione del fatto nello schema legale o nella deduzione sillogistica della conseguenza concreta dalla previsione legale astratta, ignora o, meglio, intende spegnere tutto ciò che s’è ora detto. La fattispecie concreta sarebbe infatti solo un insieme di bruti dati di fatto, deprivati di ogni significato culturale, da confrontare con la fattispecie legale. Ma che l’interprete operi cosí ciecamente è una pretesa semplicemente impossibile, perché contro la natura del giudizio rimesso a esseri umani facenti parte di comunità che sono necessariamente comunità-di-senso. Il giudice e, in generale, il giurista, per non dire ogni “essere umano riflessivo”, sono costantemente e inevitabilmente immersi in contesti di senso: ogni atto o fatto di fronte al quale vengano a trovarsi e ogni situazione su cui devono portare il loro giudizio appaiono sempre e necessariamente sotto l’aspetto di significato della cosa e della situazione, e non come cosa e situazione in- o a-sensate. Poiché l’interpretazione del diritto è attività umana, e fino a tanto che tale sarà, in attesa che qualcuno riproponga qualche macchina giudicante, secondo un’idea da folli che ogni tanto riemerge, la pretesa del positivismo legalista di considerare i fatti come «meri fatti», oltre che arbitraria è anche impossibile.

21. Dal senso al valore.

La comprensione del senso conduce e condiziona la comprensione di valore, in vista del giudizio. Si tratta di due momenti logicamente distinti ma collegati. Innanzitutto, la categorizzazione di significato mette in azione certi valori e non altri. Non è indifferente, rispetto al valore, che, per riprendere un esempio già fatto, la soppressione di una vita sia intesa come puro e semplice atto contro la vita stessa, o come mezzo di controllo e limitazione delle nascite, o come mezzo per impedire la prosecuzione di sofferenze insensate, o come atto di autodifesa, oppure come operazione eugenetica. La valutazione secondo il valore e la comprensione di senso sono dunque due momenti collegati. Tuttavia, sono separabili e da tenere distinti concettualmente. Lo si può constatare osservando che, in ipotesi assumendo concordemente – ad esempio – che la soppressione della vita del feto sia un mezzo per contrastare l’esplosione demografica; oppure che la sospensione di trattamenti medici sia la fine di sofferenze senza speranza; oppure ancora che l’eliminazione di esseri umani portatori di malattie genetiche riproducibili nel succedersi delle generazioni sia una profilassi preventiva; accade tuttavia che uno consideri il controllo delle nascite o la politica per il miglioramento della specie umana o la sospensione, in certi casi di sofferenza, dei trattamenti medici senza alcuna prognosi favorevole, buona e necessaria cosa, e un altro cattiva e pericolosa, cioè un beneficio a favore dell’umanità, o una bestemmia contro Dio o contro l’umanità. Dunque, si può fissare questo punto: la comprensione del significato è la premessa dell’attribuzione del valore, pur trattandosi di due momenti logicamente distinti. Senso e valore, quindi, sono cose diverse, ma s’intrecciano indissolubilmente.

Logicamente distinti, dunque, ma inestricabilmente legati e condizionantisi reciprocamente. Restiamo, ai fini dell’esemplificazione, al tema della vita e della morte. Chi assume la vita umana come valore sommo in tutte le sue manifestazioni, anche in quelle meramente biologiche, non farà differenze di senso, di fronte alla morte procurata, quale che siano le situazioni: sempre omicidio sarà, sia che si tratti di uccisione di un nemico o di un estraneo in guerra; di esecuzione di una condanna alla pena capitale; di distacco dalla vita di un essere senza speranza, privo di coscienza e sofferente; di soppressione di un embrione umano, ecc. Al contrario, l’adesione a valori diversi comporterà l’adozione di diverse categorie di senso. La difesa della libertà, dell’indipendenza o la potenza della patria, come valori preminenti, faranno sí che il fatto dell’uccisione in esecuzione di attività belliche sarà considerata cosa diversa dall’omicidio comune, perfino come atto di eroismo; la difesa della società dal crimine, come bene supremo, comporterà la distinzione di senso e valore tra l’omicidio di strada e la sedia elettrica o l’iniezione letale per il condannato a morte; la pietà verso i sofferenti senza speranza, come valore prevalente, comporterà anch’essa che la morte procurata si consideri non come omicidio, ma come eutanasia, ecc.

Si noti che i conflitti sull’attribuzione di senso e di valore conducono spesso a utilizzare termini diversi per indicare i medesimi fatti, cioè promuovono usi partigiani del linguaggio: non hanno lo stesso contenuto valutativo parole come aborto o interruzione volontaria della gravidanza; soppressione di malati terminali o eutanasia; giustiziare o uccidere un condannato a morte, ecc. Da qui, l’avvertimento: ogni qual volta verifichiamo che i medesimi fatti materiali, nel linguaggio comune, sono indicati con termini diversi, lí è probabile che si nasconda un conflitto; lí la saldezza del diritto legislativo è messa in forse.

22. Il caso come fatto interpretato.

In un certo senso, dunque, anche il caso deve essere interpretato40, in quanto deve attribuirglisi un significato e un valore. La «categorizzazione di senso e di valore» dei fatti è quanto muove l’interpretazione del diritto, poiché da essa scaturiscono le domande alle quali l’interprete deve dare risposte in termini giuridici, ricavandole cioè dall’ordinamento giuridico. Questa categorizzazione è quanto si denomina «precomprensione», per indicare anticipazioni e attese che richiedono di essere confermate in termini di diritto. L’anticipazione e l’attesa racchiuse nel caso valgono a indicare in linea di massima e provvisoriamente il tipo di soluzione che nella situazione specifica si richiede, un’anticipazione e un’attesa che necessitano di conferme al di là della prima comprensione soggettiva, che indicano soltanto la direzione della ricerca che deve essere compiuta. Si potrà dire, con Luis Borges41, che, stando cosí le cose, lo sguardo dell’interprete che si rivolge al diritto non è puro, ma è pregiudicato: «qualcuno osserverà che le conclusioni precedettero senza dubbio le “prove”. Ma chi si rassegnerebbe a cercare prove di cose che già non creda e di cui non gli importi?» Questa è la risposta che si può dare a coloro che, seguendo la legge di Hume, insistessero nel ridurre i casi della vita a meri fatti inerti e a ritenere conseguentemente insensata la definizione dell’interpretazione come adeguazione reciproca di casi e norme.

Quanto precede significa aprire la strada all’arbitrio? Significa che ciascuno è autorizzato a procedere secondo le proprie categorie a quella comprensione preliminare che, come abbiamo visto, orienta l’attività dell’interprete? Se fosse cosí, che fine farebbero le attese di certezza, oggettività, prevedibilità, stabilità, ecc., che da sempre sono associate al diritto e che le concezioni unilaterali dell’interpretazione promettono di assicurare nella misura maggiore possibile? La domanda apre allo sguardo problemi difficili, ma non li si risolve semplicemente ignorandoli, come fanno coloro che, per allontanare i pensieri spiacevoli e le crepe che la semplice osservazione della pratica apre nelle loro costruzioni, tutto pensano di poter ridurre alla oggettività della norma e nulla concedere alla soggettività della percezione dei casi. Questa è semplicemente falsa coscienza, come dimostra il fatto che anche l’appello alla piú rigorosa interpretazione della legge, l’interpretazione esclusivamente letterale, può nascondere (ma con una menzogna) la piú impellente ragione sostanziale che muove nella considerazione del caso da regolare. Anzi: la lettera stretta della legge può essere l’occasione del piú spudorato “cavillo” (a fin di bene o a fin di male, non è questo il problema), come mostra il giudizio di Porzia nell’affare Shylock-Antonio nel Mercante di Venezia di William Shakespeare.

23. Soggettività e tipi diversi d’interpretazione.

La comprensione di significato e valore può appartenere alla sfera esclusivamente soggettiva, ad esempio, nella creazione artistica, dove l’artista è pienamente abilitato – è anzi chiamato dalla sua arte – a non riposarsi sulla routine dei canoni estetici ricevuti, nella comprensione del senso e del valore dell’oggetto della sua creazione artistica. Egli è chiamato a sempre nuove ricerche e provocazioni, se non vuol passare per uno privo di personalità. Ma un simile atteggiamento non può appartenere al mondo del diritto che dal soggettivismo interpretativo sarebbe puramente e semplicemente distrutto. La libertà di comprensione di senso e valore non è compatibile con l’ordine giuridico delle società. Esso deve necessariamente appoggiarsi su visioni obbiettive comuni dei fatti sociali. In assenza, si determinerebbe solo la contrapposizione di orientamenti, tutti ugualmente soggettivi, e il caos prenderebbe piede nel diritto che, da luogo di composizione delle controversie, diverrebbe terreno di coltura di conflitti.

Ciò che piú conta, nell’interpretazione dei testi giuridici, è il contesto culturale. Non c’è società senza cultura, cioè senza comunanza di visioni di senso e di valore dei fatti che la investono e richiedono di essere compresi; non c’è, al contrario, cultura senza società, cioè senza una struttura sociale capace di sviluppare comprensioni collettive dei medesimi fatti42.

Se a determinati fatti o eventi consegue un’identica comprensione di senso e di valore, saremo in una società monoculturale; se, nell’ambito di una medesima visione del mondo, esistono diverse comprensioni degli stessi fatti ed eventi, saremo in una società pluralista; se, infine, si confrontano diverse visioni del mondo, saremo in una società multiculturale. La coincidenza delle valutazioni anticipatorie che muovono l’interpretazione sarà massima nel primo caso, assente nel terzo. Nel primo caso, anzi, mancherà la stessa consapevolezza di queste valutazioni, a causa del loro carattere irriflessivo, automatico. Negli altri casi, invece, la consapevolezza sarà imposta dalle forze predominanti nel contesto culturale disomogeneo pervaso da tensioni che raggiungeranno il punto massimo quando interi sistemi culturali si contrappongono. La giurisprudenza sta dentro questi contesti, come è dimostrato dai conflitti cui l’interpretazione e l’applicazione del diritto danno sempre piú spesso motivo per esplodere nel tempo attuale. Si considera “buona giurisprudenza” quella che si colloca in ciò che è stato denominato «orizzonte di attesa» (Erwartungshorizont) culturale. Non si tratta di alimentare e giustificare gli atteggiamenti conformistici dei giuristi. La considerazione di tale orizzonte è, invece, «un momento essenziale di comunicazione e di controllo dei motivi della decisione»43 secondo parametri non effimeri, capaci di radicarsi e quindi, in certo senso, oggettivi. La cattiva giurisprudenza, invece, è quella che ne sta fuori solitariamente, come se non ne avesse bisogno44. Il contesto culturale, se unitario, favorisce l’uniformità delle interpretazioni e permette, in caso di divergenza, di distinguere tra di loro quelle accettabili e quelle che i giuristi denominano significativamente «ab-erranti» (cosa diversa dalle interpretazioni semplicemente «erronee»). I giuristi non amano riconoscere che, quando però il contesto è percorso da conflitti, la loro giurisprudenza ne è inevitabilmente coinvolta.

24. Domande.

Questo ricorso alla cultura in quanto contesto del diritto significa, in certo modo, immettere le attese sociali nell’interpretazione giuridica. Ma se il contesto culturale non è univoco, se non uno, ma numerosi «orizzonti d’attesa» sono all’opera con le loro aspettative, le loro lusinghe e forse anche i loro ricatti, non dovremmo rassegnarci alla frantumazione della giurisprudenza e, con essa, alla dissoluzione del diritto come ordinamento? Non dovremmo rassegnarci a subire le assunzioni soggettive di senso e di valore dei giudici, privati dalla garanzia di saperci partecipi del medesimo contesto di cultura? Se non possiamo contare sulla garanzia di strutture comuni di senso e di valore che si formano e si trasformano attraverso esperienze, lezioni e tempi lunghi della storia, siamo forse condannati a sottostare a qualunque imprevedibile alzata d’ingegno “creativo”, che si oppone al contesto, magari in nome di rispettabilissimi valori morali, ma con effetti soltanto polemici; oppure, al contrario, dobbiamo rassegnarci al triste conformismo d’una giurisprudenza che si fa forte del «senso comune» piú influente e riduce la sua funzione a «un indecoroso guardare con la coda dell’occhio il favore del pubblico»45 o il consenso dei piú forti? Perduto il terreno comune, siamo condannati a subire questa alternativa: l’improvvisazione o il servilismo? Come potremo ancora credere alla giurisprudenza e alla sua funzione di garanzia obbiettiva del diritto (il contrario dell’improvvisazione) e di protezione dei diritti (il contrario del servilismo)?

Sono domande destinate a rimanere senza risposta da parte dei giuristi. Qui, però, entra in gioco la costituzione. Come s’è detto in precedenza, essa, soprattutto attraverso le sue norme di principio e di valore, è il quadro culturale entro il quale deve stare l’interpretazione sia dei casi che del diritto. Anch’essa, tuttavia, è oggetto d’interpretazione e, dunque, il terreno d’unificazione culturale ch’essa offre è anch’esso sottoposto alle tensioni che derivano dall’evoluzione della cultura e dalle fratture che in essa storicamente si verificano. Non è dunque la soluzione definitiva, ma è già qualcosa, sempre che la costituzione sia presa dagli interpreti come una cosa seria.