Capitolo primo

Diritto

Tre concezioni del diritto.

Finora, nel Prologo, abbiamo parlato del diritto in rapporto con la società. Che cosa si possa intendere per “società” potrebbe essere il tema di un intero gruppo di lezioni, tante ne possono essere le concezioni, le esemplificazioni, le critiche che a partire dalle une si rivolgono alle altre. Ma ciò non rientra nel nostro piano e, tanto meno, nelle mie competenze. Qui, possiamo accontentarci di una nozione intuitiva come per esempio questa: un insieme ordinato di coesistenze che formano una convivenza stabile nel tempo. La distinzione coesistenze-convivenza è ricca di significati su cui si potrebbe esercitare la nostra riflessione. Ma dobbiamo lasciarla in sospeso perché, invece, qui ci tocca domandarci in che cosa consiste quell’oggetto della scienza che è la scienza giuridica, cioè il diritto. La risposta non è unica, ma triplice, a seconda che lo si guardi dal punto di vista delle norme naturali, delle norme storico-sociali, delle norme statuite dal legislatore. Dai tre punti di vista anzidetti nascono tre grandi “scuole” della scienza giuridica: il giusnaturalismo, la scuola sociologica e il positivismo giuridico. Ognuna di esse colloca le “fonti del diritto” in qualcosa di diverso, cioè “ha le sue fonti”: la natura, i rapporti sociali, la legge.

I. Giusnaturalismo.

1. Diritto naturale.

Il diritto naturale di cui si occupa quella corrente di pensiero che chiamiamo giusnaturalismo è indubbiamente una risorsa cui spesso si ricorre per appagare il bisogno di sicurezza (si noti: stiamo parlando non di diritti umani o diritti naturali, cioè di di quelli che i giuristi chiamano «diritti soggettivi», ma di «diritto oggettivo», cioè delle norme giuridiche). Di fronte a veri o presunti arbitrî e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti in nome delle tradizioni sociali o, piú spesso, con l’avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è piú rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la legge che vediamo impressa in quella realtà esterna in cui siamo immersi, la legge di natura, per l’appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento, se non al rischio del loro stesso male? Che cosa c’è di piú confortante, ma anche de-responsabilizzante, che il poter dire: non dipende da me, da noi; dipende dalla natura ch’io, tu, nemmeno noi tutti insieme possiamo cambiare? Deresponsabilizzante perché esonera dall’assumersi il compito e il peso di cercare che cosa sia piú o meno giusto per noi, ma massimamente obbligante nei confronti della ferrea legge di natura che non è lecito cambiare. Diffusa è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi. Questa contrapposizione sembra formare la struttura mentale originaria degli esseri umani che condiziona il rapporto tra loro e il mondo. Ciò che sta fuori è fermo, intero, vero, giusto. Ciò che sta in noi è variabile, parziale, fallace, sempre a rischio d’ingiustizia. La natura non sbaglia mai; è negli artifici degli esseri umani che s’annida l’errore.

La filosofia, tuttavia, ha distrutto la possibilità di ragionare cosí semplicemente, anzi semplicisticamente. Già in Aristotele c’è l’affermazione che la natura dell’uomo è l’artificio. Ma piú della filosofia, è il tempo attuale, il tempo in cui la “natura” e perfino la natura dell’essere umano può essere il prodotto del suo “artificio” – potenza della genetica; il tempo in cui il dentro e il fuori di noi, il soggetto e l’oggetto insieme si confondono; il tempo in cui la sopravvivenza della natura richiede la mobilitazione di tante energie artificiali a sua difesa e rende vana quella distinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare cosí: anzi, ci aggrappiamo ancor di piú a quella distinzione, come a un’assicurazione. Forse, ne abbiamo un bisogno “naturale”, per non cadere preda della vertigine di un soggetto – l’essere umano – che, al tempo stesso, è o sta diventando oggetto di se stesso; un soggetto avvolto e sprofondato cosí in un circolo vizioso esistenziale. Il pensiero religioso vede in ciò la bestemmia dell’uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare l’unico che, secondo un’interpretazione del libro dell’Esodo (3,1-6), può dire di «essere colui che è», in forza solo della potenza della sua essenza. Colui che vuol essere quello che è in forza di se stesso è l’uomo-dio, cosí ben rappresentato dal tragico e paradossale ingegner Kirillov in I demoni di Fëdor Dostoevskij, il quale, per dare prova di totale libertà intesa come signoria sulla propria esistenza, si faceva padrone della sua vita e della sua morte suicidandosi1.

C’è il paradosso per nulla stupefacente che, proprio quando è diventato insostenibile a causa della caduta dei confini reciproci, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioni umane, una norma che assegna al “naturale” il primato sull’“artificiale”, sinonimo di inganno, abuso, adulterazione. Tale primato, tuttavia, ha bisogno d’una fondazione; deve rispondere a un “perché?” Perché ciò che è naturale vale piú di ciò che è artificiale? La risposta è una sola: perché la natura è il regno dell’ordine giusto e l’ordine è giusto perché è voluto dagli dèi o da Dio, o è esso stesso dio, come credono coloro che si ispirano allo spinoziano deus sive natura. Il diritto naturale, cosí concepito, è un atto d’umiltà dell’essere umano nei confronti del sovrumano. Il sovrumano è stato per secoli il terreno delle religioni che si facevano interpreti della volontà divina nell’ordine delle cose umane. A partire dal Seicento, tuttavia, l’autorità delle Chiese è stata contestata come cattiva interprete dell’ordine delle cose e combattuta in nome del deismo e del razionalismo: l’ordine predicato dagli ecclesiastici che sostituiscono alla parola di Dio la loro o, semplicemente, la rivestono arbitrariamente dell’autorevolezza ch’essi pretendono per sé da una loro presunta investitura divina, fu considerato un raggiro, un inganno al servizio dell’ignoranza e dell’oscurantismo. Il culmine della denuncia fu raggiunto quando diversi testi di larga circolazione (e d’incerta attribuzione) denunciarono Mosè, Gesú il Cristo e Maometto, insieme ai loro epigoni, come colpevoli di «impostura»2.

Non si trattò, peraltro, dell’abbandono dell’idea del carattere naturale del diritto. Si trattò della contestazione dell’autorità che da questa nozione derivava. Si trattò non d’una distruzione, ma d’una usurpazione a favore dello spirito laico e della ragione illuminata degli esseri umani, affrancati dai dogmi chiesastici. Il diritto naturale diventò cosí «diritto di ragione», insofferente nei confronti della tradizione e basato sulla sovranità non piú di Dio, ma del pensiero critico di cui soprattutto i filosofi si riservano il deposito: la filosofia al posto della teologia. Immanuel Kant, con il suo «sapere aude» tratto dalla prima Epistola di Orazio e rivolto a tutti gli appartenenti al genere umano, può essere il nome di riferimento.

Il nucleo essenziale comune d’ogni giusnaturalismo è l’esistenza d’un ordine giusto nelle cose umane, ma l’autorità di chi se ne assume la rappresentanza può cambiare ed effettivamente allora cambiò sede: dai concili e dai sinodi ecclesiastici alle società filosofiche. I “lumi” presero il posto dei “dogmi”.

2. Rinascita del diritto naturale.

La storia del «diritto naturale» è fatta di corsi e ricorsi3. Per lunghi periodi può essere dato per morto, ma è sempre una morte apparente. Dopo i totalitarismi del secolo scorso, “dopo Auschwitz”, se ne è avuta una “rinascita”. Dei loro orrori non si ritenne indenne il diritto. Gli si imputò d’essere diventato il servizievole strumento nelle mani di autocrati mossi da ideologie disumane. Disancorato da un fondamento oggettivo, lo Stato totalitario aveva travolto lo Stato di diritto e l’aveva trasformato – come si disse – in «Stato di delitto». La tesi fondamentale del giusnaturalismo è che il diritto legale (cioè artificiale) deve arretrare di fronte alla giustizia naturale: le tragedie politiche del XX secolo avevano dimostrato quanta importanza deve essere riconosciuta a questa scala di valore e quanto necessario fosse ripristinarla4.

Nei decenni successivi, il diritto naturale perse la sua presa diretta, essendo mediato dalle tante dichiarazioni internazionali come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e dalle numerose norme poste dalle costituzioni nazionali a protezione della dignità e dell’uguaglianza degli esseri umani. Questi testi incorporavano contenuti che si possono ritenere propri anche del diritto naturale, secondo concezioni dominanti in quel periodo di tempo, ma erano testi di diritto positivo frutto di scelte determinate dalla volontà di legislatori: non erano diritto naturale. Volendo si può anche dire cosí: erano la positivizzazione di contenuti di diritto naturale, ma questo, per valere, era trasferito in un atto “artificiale” di legislazione. Cosí, del diritto naturale si continuò a trattare, ma piú nella sfera del discorso etico e religioso che in quella del discorso politico e giuridico. Perfino Joseph Ratzinger, nel celebre dialogo con Jürgen Habermas su «Ragione e fede» svoltosi il 19 gennaio 2004 presso la Katholische Akademie in Bayern, lo ha definito uno «strumento purtroppo spuntato»5.

Ora, siamo di nuovo in un momento di rinascita6: quando la legge fatta dagli uomini secondo le loro mutevoli imposizioni e convenzioni appare ingiusta, le si contrappone la legge obbiettiva della natura, che nessuno può alterare. Cosí si fa soprattutto da parte della Chiesa cattolica, per contrastare i cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, ricerca e sperimentazione scientifica, manipolazioni genetiche, ecc.; e per ritornare all’antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto. Piú di recente, anche i temi della difesa dell’ambiente e dell’ecosistema sono stati attratti nel magistero della Chiesa, in nome, si potrebbe dire, dell’intoccabile “natura della natura”. In questo modo, essa viene a proporsi come grande rassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo – si dice – moralmente sfibrato dal famigerato “relativismo”, sinonimo di puro edonismo, scetticismo antirazionalista, sfruttamento dei deboli da parte dei forti, nascosto sotto i panni accattivanti della tolleranza. Il relativismo etico troverebbe nelle mutevoli maggioranze parlamentari e nei lassi costumi diffusi nella società il modo di tradursi in diritto e cosí attenterebbe alla stabilità della vita e del suo naturale diritto a essere preservata.

3. Il conforto della natura.

Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Dà alle nostre esigenze di giustizia un fondamento che sta oltre le nostre propensioni individuali, le “oggettivizza”. Sennonché, proprio qui incominciano le difficoltà. Il diritto naturale non è affatto il terreno del consenso che abbraccia l’umanità intera in nome di una giustizia universalmente riconosciuta. Basterebbe ricorrere a quel grande resoconto di viaggi che sono le Storie di Erodoto per sapere come cambia il concetto di natura e di naturale a seconda dei popoli e dei loro costumi; oppure alla infinita varietà dell’esperienza propria degli esseri umani di cui parla Michel de Montaigne7. È facile che le differenze che si vogliano fondare su qualcosa di duro come la natura si trasformino in inimicizie, quando si trovano a dover coesistere nel medesimo spazio di vita. Esse, cosí, possono alimentare i piú radicali conflitti, soprattutto quando le rispettive convinzioni non sono – come oggi si dice – negoziabili. La natura, certamente, non è negoziabile.

Innanzitutto, che cosa è la “natura” alla quale ci appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è opera del demonio. I primi ameranno la natura, cosí come Dio ha amato le sue creature (Gen 1,31: «E Dio vide che era cosa buona, molto»), e trarranno la convinzione di dover rispettarla intatta; i secondi la odieranno come cosa corrotta e demoniaca, e faranno di tutto per non farsi prendere dalla sua bassezza. Indipendentemente da Dio e dal demonio, per alcuni la natura è madre benefica e per altri matrigna malefica. La visione dell’illuminismo protoromantico era quella dell’armonia della vita naturale, guastata dalla civiltà (il mito del buon selvaggio), ma Giacomo Leopardi nutriva ogni genere di disperazione verso quella che «per costume e per istinto è carnefice impassibile e indifferente della sua propria famiglia, de’ suoi figliuoli e, per cosí dire, del suo sangue». «È funesto a chi nasce il dí natale», canta alla luna il pastore errante dell’Asia: e chi, nella sua vita, non ha mai avuto occasione di pensare cosí8?

4. Natura e confusione delle idee.

Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli stoici, il regno dell’uguaglianza e della dignità umana. I Padri della Chiesa svilupparono questa visione nell’idea di uguaglianza e fratellanza dei figli di Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D’altra parte, Aristotele considerava la schiavitú conforme alla natura. Per i sofisti Gorgia e Trasimaco, secondo Platone, «la natura vuole padroni e servi», la giustizia naturale essendo «l’utile del piú forte». Con una pretesa ferrea legge di natura divenuta ideologia corrente da un secolo e mezzo, il «darwinismo sociale», si giustificò la politica coloniale europea, la soppressione per fini eugenetici dei soggetti deboli e ammalati, le guerre di conquista di “grandi spazi” a favore delle nazioni piú potenti. Cioè si giustificarono senza battere ciglio ecatombi di centinaia di milioni di esseri umani in tutto il mondo su cui il “nostro mondo” preferisce sorvolare9. Herbert Spencer, il filosofo del cosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando affermava che solo la natura assicura i necessari «ricambi», e se lo Stato interviene a favore dei bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solo sopravvivere – a danno della collettività che li deve poi mantenere – i soggetti piú deboli della razza umana, i «parassiti». Questa idea, applicata non agli uomini ma alle razze, ha permesso di affermare che i veri difensori del diritto naturale sono i razzisti.

Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con evidenza che non esiste una natura da tutti riconoscibile. Anzi: la natura è di per sé neutra, né buona né cattiva. Dipende da noi considerarla in un modo o nell’altro, e questa considerazione cambia a seconda dei tempi, delle circostanze della vita e delle visioni che ne abbiamo. Diritto naturale è concetto molto disponibile. Si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall’interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni appartengono alle culture, non alla natura. Possono perciò essere differenti, spesso antitetici. Si discute da sempre di aborto e, di questi tempi, di eutanasia: inizio e fine della vita. Il magistero della Chiesa ripete instancabilmente la sua convinzione: nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore, senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principî che regolano il giudizio etico relativo alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale. La natura umana è vincolante. Una massima famosa che la Chiesa ha fatto propria, «si vero in aliquo, a lege naturali discordet, iam non erit lex sed legis corruptio»10. Ma, leggiamo che cosa diceva un altro documento che fa anch’esso appello al «diritto naturale», un opuscolo nazista del 1940 dal titolo «Tu e il tuo popolo»11, sul tema dell’«annientamento dei malriusciti» (Vernichtung der Mißratenen) e delle «razze decadenti» (der verfallenden Rassen), destinato agli adolescenti, considerati facilmente influenzabili e capaci, a loro volta, di essere veicoli di diffusione ideologica attraverso i loro legami familiari e sociali e quindi considerati efficaci strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica e della comunità medica tedesca chiamata a partecipare alle politiche di eugenetica nazista:

Dovunque la natura [la natura, dunque!] sia lasciata a se stessa, le creature che non possono competere con i loro prossimi piú forti sono eliminate dal flusso della vita. Nella lotta per l’esistenza questi individui sono distrutti e non possono riprodursi. Questo è chiamato selezione naturale. Gli allevatori e gli orticoltori che desiderano particolari peculiarità eliminano sistematicamente i soggetti con caratteristiche indesiderate, e “allevano” quelle creature che dispongono dei geni desiderati. L’allevamento non è diverso da una selezione artificiale. Nel caso degli esseri umani il completo rifiuto della selezione ha condotto a risultati indesiderabili e inaspettati. Un esempio particolarmente chiaro è l’incremento delle malattie genetiche. In Germania nel 1930 c’erano circa 150 000 persone in istituti psichiatrici e circa 70 000 criminali in carceri e prigioni. Essi erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale di handicappati. Il loro numero è stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedono un’enorme spesa da parte della società.

Si procedeva cosí alla quantificazione della spesa:

4 RM [Reichsmark] al giorno per un malato mentale, 3,5 RM per un criminale, 5-6 RM per un mutilato o un sordomuto. All’opposto un lavoratore non specializzato guadagna 2,5 RM al giorno, un impiegato 3,5 RM e un impiegato statale di basso livello 4 RM […]. Precedentemente, coloro che erano affetti da tali handicap, se non collocati in istituzioni, erano liberi di riprodursi e in particolare nel caso di alcolisti e handicappati mentali il numero di figli era spesso molto elevato. Una singola alcolista nata nel 1810 aveva 890 discendenti nel 1939. Metà era mentalmente ritardata, 181 erano prostitute, 146 mendicanti, 76 criminali, 7 assassini, 40 erano in ospizio. La donna è costata allo stato 5 milioni di marchi, che sono stati pagati dalla gente in buona salute. Ciò ha alzato le tasse e ridotto le opportunità per gli altri.

Questa perorazione a favore della «naturale esigenza» di «allevamento» dei migliori e di soppressione degli individui «malriusciti» o appartenenti a «razze inferiori» avrebbe potuto trovare precedenti illustri nell’eugenetica sostenuta nel libro V della Repubblica di Platone o nella Città del sole di Tommaso Campanella. L’opuscolo nazista si concludeva in bellezza: «questo mostra la saggezza delle parole di Goethe: “l’intelletto diviene un’assurdità, la carità una piaga”».

5. La natura come concetto della cultura.

Noi leggiamo con orrore queste espressioni che si sono riportate per esteso per mostrare fin dove può giungere l’attaccamento alle presunte «leggi di natura» alle quali ci si è voluti aggrappare. I critici del diritto naturale hanno qualche ragione nel domandare: l’orrore viene dalla natura tradita o non, invece, dalla cultura, cioè dalla politica basata su certe idee di civiltà, di umanità o di religione? Si tratta di aspetti della coscienza che non hanno a che vedere con la natura, intesa nella sua dura e obbiettiva realtà, cioè come “cieca natura” e necessità di natura, ma appartengono al campo della libertà.

Che sia cosí – che la natura possa essere apprezzata solo dal punto di vista di qualche visione del mondo, dell’essere umano nel mondo, della sua relazione con il mondo metafisico, e non dal punto di vista di una pretesa essenza meramente esistenziale dell’essere umano – è un punto fermo nella dottrina cattolica del diritto naturale quando non si rifà, per cosí dire, a un’idea bruta di natura, una natura che del resto, per questa dottrina, oltre all’impronta divina, cioè la sua «immagine e somiglianza», porta il segno di una “natura corrotta” dal peccato originale. Joseph Ratzinger cosí definisce la “natura” cui la teologia morale della Chiesa si attiene:

Se qui si parla di natura, essa non è […] semplicemente intesa come un sistema di ritmi biologici. Piuttosto, viene detto che prima di ogni forma di ordinamento esistono dei diritti dell’uomo stesso, a partire dalla sua natura. L’idea dei diritti dell’uomo è, in questo senso, anzitutto un’idea rivoluzionaria: essa si pone contro l’assolutismo dello Stato, contro l’arbitrio della legislazione positiva. Ma è anche un’idea metafisica: nell’essere stesso si fonda una pretesa etica e giuridica. Non è la cieca materialità, che si possa poi modificare secondo la mera convenienza. La natura reca in sé uno spirito, porta in se stessa ethos e dignità e costituisce cosí il diritto alla nostra liberazione e ne è insieme la misura12.

Se si conviene su queste proposizioni, che, in verità, per molti secoli sono state contraddette dalla dottrina e dalla pratica della stessa Chiesa che oggi le proclama, non è però perché si concordi su verità di natura. Ammesso che si concordi, ciò è per ragioni non di natura ma di cultura e la cultura è un mondo labile, vario, variabile, tante e profonde sono le premesse che essa dà per assodate e che potrebbero e, in effetti sono, contraddette, nell’ambito del pluralismo culturale di cui l’umanità si è nutrita, si nutre e si nutrirà.

La natura umana non è, dunque, un concetto biologico o sociologico bensí metafisico. Che cosa è l’essere umano secondo la dottrina della Chiesa cattolica, dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un’intuizione metafisica delle finalità dell’esistenza dell’essere umano e del suo mondo. Dovrebbe essere un’intuizione di fede, possibile solo come dono: «la realizzazione pratica dell’ethos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia». Fides et gratia, dunque, come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c’è di piú “innaturale” di questa visione della natura, dal punto di vista di chi legittimamente non è credente in quella stessa fede?

6. Un concetto sopraffattore.

Dal punto di vista politico, ogni dottrina del diritto naturale, cioè del fondamento nella natura delle concezioni della giustizia, appare essere una maschera ideologica della sopraffazione: chi è privo di fede e grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da convertire con l’aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione. Al piú – povero lui – per il suo bene gli si potrà proporre, cieco com’è di fronte all’autentica natura umana, la peregrina e umiliante idea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, piú precisamente, secondo ciò che la Chiesa stessa, con la sua autorità, in fin dei conti dice di Dio. Senza ch’egli “naturalmente”, con le sue sole forze, ne sia davvero capace, privo come è di grazia e di fede.

I critici del diritto naturale concordano nel ritenere che non c’è nulla di meno produttivo e di piú pericoloso che collocare cosí i drammatici problemi dell’esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. Evocare il diritto naturale nelle nostre società, dove convivono valori, concezioni della vita e del bene comune diverse, significa lanciare un grido di guerra civile. Non siamo a questo, ma non ci siamo molto distanti quando si incita a disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della convivenza civile sotto il diritto. Questo incitamento, per quanto nobili a taluno possano sembrarne le motivazioni, è sovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l’ardire di porsi unilateralmente al di sopra delle leggi e della costituzione. La democrazia è sempre aperta alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concede questo potere a tutti, e quindi a nessuno in particolare e unilateralmente.

S’è detto nel Prologo che ogni nozione di diritto porta in sé il germe della forza che s’impone e, imponendosi, crea “differenziazioni”, cioè, con un linguaggio piú schietto, imposizioni. Il diritto naturale sembra a prima vista immune dalla violenza e, invece, ne è il piú intriso perché mette in campo valori, principî, regole che si vorrebbero sottrarre alla libera discussione ponendoli sotto l’egida di un feticcio che chiunque disponga del potere può brandire per i suoi fini.

7. Perché la rinascita attuale?

La rinascita odierna del diritto naturale, tuttavia, corrisponde a un’esigenza sulla quale molti, credenti e non credenti, possono concordare con facilità: che non tutto ciò che è tecnologicamente possibile di fatto sia anche moralmente lecito. Questo, in fondo, è il carattere dei tentativi odierni di orientarsi eticamente in un mondo che deve fare i conti con una potenza quale mai fu conosciuta, una potenza che sembra portatrice d’illimitata libertà e, invece, avvinghia in un movimento che annuncia distruzioni, dal quale sembra non esserci scampo. Siamo in un mondo nuovo, con forze nuove, potenti e difficili da contrastare. La tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come travolta dalla sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. Perfino l’essere umano sta diventando un prodotto artificiale: cosí «l’uomo è giunto alla sorgente del potere, nel luogo di origine della propria stessa esistenza»13. L’epoca dei robot che si preannuncia fa intravedere la nascita non dell’uomo-macchina di cui si incominciò a parlare dal tempo di Cartesio, ma della macchina-uomo che potrà soppiantare, assoggettare o gareggiare con la biologia dell’essere umano che, per millenni, si è considerata un prodotto autentico e inviolabile della natura. Che sarà di ciò? Sarà relegato in un mondo dove l’artificiale si espanderà, nel bene e nel male, dappertutto?

A sua volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta liscia su cui tecnologia ed economia vogliono scorrere senza incontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle coscienze, di nichilismo e conformismo, affinché la sola logica del mercato possa affermarsi. Il diritto naturale può sembrare un benefico ostacolo a questa tendenza livellatrice. Ma, per i critici del diritto naturale non è la natura l’àncora di salvezza di cui abbiamo bisogno. Esso è una risposta falsa, ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, dovrebbe consistere la comune natura umana. La legge naturale che ne potrebbe derivare è che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro propria: una legge dalla quale le antiche e venerande dottrine del diritto naturale sembrano allontanarsi vistosamente, quando ripropongono visioni della natura che sollevano sí dalla responsabilità, ma accentuano il potere di chi si appella a essa, a scapito della libertà.

Si può concludere questo paragrafo con la citazione che segue:

Ciò che rinasce continuamente è il bisogno di libertà contro l’oppressione, di uguaglianza contro la disuguaglianza, di pace contro la guerra. Ma questo bisogno nasce indipendentemente da ciò che i dotti pensano sulla natura dell’uomo. Piú che di una rinascita del giusnaturalismo, dunque, si dovrebbe parlare del ritorno di quei valori che rendono la vita umana degna di essere vissuta, e che i filosofi rivelano, proclamano e alla fine cercano di giustificare, secondo i tempi e le condizioni storiche, con argomenti tratti dalla concezione generale del mondo, prevalente nella cultura di un’epoca. Di questi argomenti il giusnaturalismo è stata una durevole manifestazione: ma non è stata la sola. E non sembra oggi, teoricamente, la piú accettabile14.

II. Il diritto sociale.

1. Il diritto sociale.

Per il giusnaturalismo esiste la verità nel diritto. Le norme che gli uomini si danno sono “vere” se e in quanto corrispondono all’“essere”: se c’è questa corrispondenza si può dire che esse, secondo la formula della Scolastica, oltre a essere vere sono anche giuste e belle (ens verum iustum et pulchrum convertuntur in unum). Le leggi naturali sono dunque il modello dal quale le leggi prodotte dagli uomini possono discostarsi solo producendo sgorbi che non meritano nemmeno il nome di leggi. Il modello si chiama “natura”, natura idealizzata e quindi metafisica. Questa concezione del “vero diritto” è rovesciata nelle concezioni del diritto sociale. Il diritto, secondo la concezione che ne colloca la radice nella società storicamente concreta, è lo specchio della sua identità che si forma spontaneamente nella concretezza delle relazioni tra i suoi membri quando sono posti di fronte a problemi esistenziali da risolvere praticamente in rapporto gli uni con gli altri. La risoluzione, quando si afferma con generale soddisfazione o almeno con accettazione preferita all’incertezza, al caos e alla momentanea sopraffazione del prepotente, si cristallizza in norme di comportamento, spesso piú solide di quelle che si vogliano radicare in un’astratta nozione di natura o, come vedremo, in imposizioni legislative autoritarie.

Il diritto sociale si dice essere un «diritto spontaneo», poiché nasce senza che vi sia qualcuno che lo pone. Sarebbe un diritto paritario, figlio del libero gioco delle forze sociali che si stabilizzano in norme che esse rispettano senza subire costrizioni esteriori. Questa è una idealizzazione che potrebbe valere solo se nella società vi fosse perfetta uguaglianza. Poiché cosí può essere solo nella testa di qualche sognatore o di qualche astratto teorizzatore di modelli ideali; poiché le società reali sono fatte di una miriade di rapporti di potere che pone alcuni piú in alto e altri piú in basso (la «microfisica del potere», secondo la felice espressione di Michel Foucault)15, le norme sociali esprimono o, si potrebbe dire, fotografano queste disuguaglianze. Dietro il diritto sociale non c’è un idillio; dietro ogni norma sociale possiamo facilmente scorgere il regno delle imposizioni, il regno della macro- e della microfisica del potere. Un esempio: le norme che assegnavano al paterfamilias un diritto eminente, perfino di vita e di morte, sulla donna convivente, sui figli e sui servi, si sono formate nel tempo remoto (e in parte si sono conservate fino in tempi recenti) sulla disuguaglianza di forza fisica e di potere economico nel rapporto tra i sessi, e sui bisogni di protezione del nucleo familiare in vista della riproduzione della vita. La stessa cosa per la donna, nelle società matriarcali. Non c’era bisogno di norme imposte per configurare tali rapporti. Se mai, le norme imposte sono venute dopo, a sancire ciò che la società spontaneamente aveva già configurato: spontaneamente non vuol dire ugualitariamente, liberamente. Ci può essere molta violenza anche nella spontaneità. Le teorie elaborate a proposito del diritto spontaneo, cioè del diritto sociale, spesso trascurano questo aspetto e parlano di simmetria dei rapporti, il che fa pensare a ideali società dell’uguaglianza. Non ci si deve lasciar ingannare da queste rappresentazioni. La simmetria riguarda le aspettative di ciò che ci si può attendere nei rapporti sociali. Tuttavia, non tutti, necessariamente, possono attendersi qualcosa di ugualmente buono. Dipende dalle posizioni sociali. Onde, ciò che si dice subito dopo circa la “nascita spontanea” delle istituzioni e delle loro norme giuridiche deve intendersi con le anzidette precisazioni.

2. Il fondamento.

Le norme di cui si tratta non si fondano sulla verità o su un’autorità. Si fondano sulla reciprocità degli interessi e sulla simmetria delle aspettative16. Sono denominate convenzioni nel linguaggio di David Hume:

osservo che è nel mio interesse lasciare a un altro il possesso dei suoi beni purché egli agisca nello stesso modo nei miei confronti. Anche l’altro è consapevole di un analogo interesse a regolare la sua condotta. Quando si manifesta reciprocamente questa consapevolezza dell’interesse comune, cosí che essa risulti nota a entrambi, allora essa produce una risoluzione e un comportamento adeguato. E questo, di certo, può chiamarsi abbastanza propriamente una convenzione o un accordo tra di noi, anche se manca qualsiasi promessa, dato che le azioni di ciascuno di noi sono in rapporto con quelle altrui e le compiamo in base alla supposizione che l’altro dovrà compierne certe altre17.

Gli esseri umani, dunque, agiscono in un certo modo per soddisfare propri bisogni individuali (dunque volontariamente e intenzionalmente rispetto a questi) e, cosí facendo, entrano in contatto con altri esseri umani mossi da analoghi bisogni. Se le loro azioni sono complementari, cioè se uno può ricevere vantaggio dall’azione dell’altro, esse si coordinano spontaneamente. Generando aspettative reciproche, tendono a ripetersi, adattarsi e consolidarsi. Ancora, con le parole di Hume a proposito della nascita della norma che protegge il possessore dallo spossessamento e, poi, delle piú importanti istituzioni sociali:

La regola della stabilità del possesso non solo deriva da accordi tra gli uomini, ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtú di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono a trasgredirla. Questa esperienza, anzi, ci dà ulteriori assicurazioni che la consapevolezza del reciproco interesse è divenuta comune a tutti i nostri compagni e ci dà fiducia sulla futura regolarità della loro condotta: solo su questa aspettativa si fondano la nostra moderazione e la nostra astensione dai beni altrui. Analogamente, anche le lingue si sono gradualmente stabilite grazie a delle convenzioni umane e senza alcuna promessa; e analogamente l’oro e l’argento sono diventati le comuni misure di scambio, e sono considerati pagamento sufficiente per ciò che vale cento volte il loro valore. Dopo che si è consolidata questa convenzione relativa alla astensione dai beni altrui, e dopo che ognuno ha raggiunto la stabilità dei beni che possiede, sorgono immediatamente le idee di giustizia e di ingiustizia, cosí come quelle di proprietà, diritto e obbligo. Queste ultime sono completamente inintelleggibili se non si comprendono le prime18.

A questo genere di spiegazione elementare circa la nascita spontanea delle norme sociali si rifà spesso la scienza economica quando idealizza il mercato dove si svolgono gli scambi di beni economici. Ecco un esempio:

In un villaggio di pescatori sulla costa dello Yorkshire era in uso una regola non scritta a proposito della raccolta del legname portato dalla deriva dopo una tempesta. Chiunque si trovasse per primo sul tratto di spiaggia dopo l’alta marea era autorizzato a prendere tutto ciò che avesse voluto, senza intoppi da parte di chi fosse arrivato dopo, e ad accatastarlo al di là della linea dell’alta marea. Una volta che avesse provveduto a mettere due pietre sopra ciascuna pila, il legname sarebbe stato considerato di sua proprietà, a sua disposizione per essere portato via quando avesse voluto. Tuttavia, se il legname non fosse stato portato via dopo due altre alte maree, questo diritto di proprietà sarebbe decaduto19.

Probabilmente le origini di questa regola del «chi primo arriva…» erano dimenticate da lungo tempo. Nessuno avrebbe potuto dire perché la gente la rispettava. Ma certo gli abitanti di quel villaggio di pescatori non avevano bisogno di appoggiarsi a leggi, corti di giustizia o polizia per far valere la consuetudine circa il legname alla deriva. La regola del «chi primo arriva…» è un esempio di ciò che Friedrich Hayek chiama «spontaneous order». Non è nemmeno a dire che si trattasse della regola migliore.

Certo era piú economica di un sistema che avesse consentito alla gente di accapigliarsi e il sistema delle cataste evitava l’onere di montare la guardia. Altri sistemi, altrettanto, se non piú funzionali avrebbero potuto essere escogitati, ma […] solo dopo che, in base alla prima convenzione, si fosse stabilito un clima di reciproca fiducia.

L’idea dell’ordine spontaneo sembra una scoperta dei moderni. Ma si legga questo racconto di Erodoto:

I Cartaginesi raccontano […] questo particolare: c’è una località della Libia e vi sono degli uomini, situati al di là delle Colonne d’Ercole, con i quali essi commerciano in questo modo: appena arrivati e sbarcate le merci, le dispongono in bell’ordine lungo la spiaggia; poi, imbarcatisi sui loro navigli, fanno salire del fumo; gli indigeni, quando vedono il fumo, scendono al mare e, dopo aver deposto la quantità d’oro che offrono in cambio della merce, si ritirano lontani dalle merci stesse. I Cartaginesi, allora, sbarcano e osservano: se giudicano che l’oro sia sufficiente a compensare le merci, lo prendono su e se ne vanno; se, invece, non sembra sufficiente ritornano sulle navi e stanno in attesa. Quelli, accostatisi di nuovo, continuano ad aggiungere dell’altro oro, fino a che non li abbiano soddisfatti. Nessun inganno, né da una parte, né dall’altra: né i Cartaginesi toccano l’oro prima che, a loro giudizio, abbia raggiunto il prezzo delle merci, né gli indigeni toccano le merci, prima che quelli si siano preso l’oro corrispondente20.

3. Consuetudini.

Questo schema può riprodursi per innumerevoli nuovi baratti tra innumerevoli altri soggetti. Cosí, ciò che all’inizio era frutto del caso individuale, si trasforma nel prodotto di una reciprocità di comportamenti interessati, riguardanti pluralità di soggetti; una reciprocità che, dopo prove, riprove e conferme può essere prevista. E quanto piú l’aspettativa non andrà delusa, avrà successo e si diffonderà fiduciosamente tra piú soggetti, tanto piú i comportamenti si stabilizzeranno, generalizzandosi con la ripetizione, in un rapporto sociale (secondo l’esempio di Erodoto, il mercato) che, all’inizio, non era nell’intenzione e nella volontà di nessuno. Questo “qualcosa” si potrà dire effetto involontario di atti che sono bensí volontari e intenzionali, ma rispetto ad altro, al perseguimento di interessi singolari. Si è parlato di mercato, ma lo stesso modo di vedere si può applicare per spiegare il sorgere della moneta, del linguaggio, dell’autorità, del diritto, della moralità, perfino di certe comunità monastiche21, di ogni fenomeno sociale stabile e, alla fine, della società stessa. È questa l’idea feconda del sorgere spontaneo delle istituzioni sviluppata da autori come Carl Menger22 e Friedrich A. von Hayek23, per la quale i giuristi hanno una parola: consuetudine (ancorché il loro concetto sia per lo piú rattrappito in una definizione “meccanica” – longa repetitio e opinio iuris – che non dà conto della profondità del fenomeno).

Quando parliamo di diritto, noi appartenenti alle società del XXI secolo, non pensiamo principalmente alle consuetudini, cioè a quel tipo di norme che, in altri tempi e in altri contesti sociali, erano invece le norme principali. Abbiamo, anzi, difficoltà a comprendere perché mai un comportamento che si è tenuto in passato debba essere ritenuto vincolante nel presente e nel futuro. In altri termini, non ci è del tutto chiaro dove sta la forza normativa della consuetudine, noi che siamo abituati a identificarla con un comando cui è connessa una sanzione. Si può ricorrere all’immagine di un sentiero tracciato nel bosco24: il sentiero nasce quando qualcuno fa i primi passi in una certa direzione e cosí inizia a segnare una traccia. La traccia viene seguita da chi viene dopo e, a ogni passaggio, si fa piú netta e piú facile da percorrere. Da traccia diventa sentiero sempre piú comodo e nessuno penserà di abbandonarlo per tracciarne un altro, affrontando da capo le difficoltà iniziali. «Il sentiero non è, dunque, che un’infinità di passi costantemente ripetuti nel tempo»: piú lo si percorre, piú diventa facile da percorrere e piú diventa attrattivo. La sanzione per chi lo abbandona sta nel rischio dell’ignoto e, come minimo, in un supplemento di fatica. La consuetudine è normativa non perché gli esseri umani, in quanto esseri sociali, siano “imitativi” per natura25, ma perché l’imitazione di una procedura che è già stata sperimentata con successo una o piú volte in presenza delle medesime condizioni assicura il successo; perché, si può dire, l’adeguarvisi sembra essere nella “natura delle cose”. Perciò, alla consuetudine si attaglia la definizione di «fatto normativo»: formula che sembra contenere un ossimoro, una contraddizione. Di per sé i fatti sono fatti, e le norme non sono fatti. Nella consuetudine, invece, l’essere coincide con il dover essere.

4. Norme sociali e necessità sociali.

Gli esempi che di solito si portano a spiegazione della nascita spontanea delle norme di condotta riguardano i rapporti economici e le necessità primarie della sopravvivenza. Tuttavia, le necessità cui danno risposta le norme convenzionali sono del piú vario genere. Ciò che importa è che esse siano avvertite come vere esigenze e non come futili ambizioni, in contesti di condizionamenti sociali, culturali, religiosi e affettivi nei quali il loro soddisfacimento implichi l’aspettativa di risposte coerenti da parte d’altri soggetti. Se l’aspettativa viene tradita, la convenzione viene travolta e nasce una crisi, una rottura che può portare alla formazione di un’altra convenzione o al tracollo degli equilibri sociali.

Un esempio eloquente di tracollo è rappresentato nella tragedia di Sofocle Antigone, che tutti conoscono, anche se se ne danno tante e diverse interpretazioni. Al corpo dei propri defunti, nella società greca tradizionale, era obbligo inderogabile dare onorevole sepoltura (anche l’Iliade, oltre alla grandiosa descrizione delle feste funebri per Patroclo, racconta che la guerra tra gli eserciti acheo e troiano si sospendeva affinché ciascuno potesse seppellire i propri morti). L’intreccio delle aspettative, in questo caso, era assai complesso. Coinvolgeva i parenti viventi, nella prospettiva della propria morte; l’intero ghenos di appartenenza e le autorità pubbliche cui si chiedeva almeno di non porre ostacoli. Ora, Polinice ed Eteocle si erano uccisi l’un l’altro in duello, il primo come campione dell’esercito nemico della città di Tebe, il secondo come campione dell’esercito amico. Creonte, il tiranno della città, aveva disposto onori solenni per Eteocle e che il cadavere del traditore fosse lasciato insepolto, esposto alla corruzione e agli oltraggi delle bestie feroci. Il coro riconosce al tiranno il diritto di usare ogni legge, sia per i morti che per i vivi. Contro questo divieto che rompe una tradizione inveterata, insorge Antigone, sorella di entrambi. Ecco come, con le parole celeberrime, giustifica la propria ribellione al decreto di Creonte:

Non veniva da Zeus la tua legge; né la Giustizia che convive con gli dèi di sotterra l’aveva stabilita per i mortali. Né credevo che i tuoi decreti potessero avere tanta forza da abrogare quella delle leggi non scritte degli dèi, quelle leggi che non solo oggi o ieri, ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero. Io non potevo per volontà di nessun uomo pagare la colpa della loro trasgressione26.

Antigone è talora additata come l’eroina del diritto naturale, talaltra come l’esempio della ribellione al diritto ingiusto in nome della sovranità della coscienza individuale. Interpretazioni legittime (forse la seconda meno della prima, poiché la coscienza individuale, il dáimon, apparirà solo nel secolo successivo, il IV a.C., con Socrate), ma forse «quelle leggi che non sono di oggi o ieri, ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero» sono precisamente quelle che corrispondono alle aspettative di coloro che appartengono alla medesima cerchia familiare e sono consolidate nel tempo. Sono sí benedette dagli dèi: tutte le società tradizionali tendono a collocare le proprie leggi in una sfera di vicende mitiche originarie, ma non sono certo promulgate dagli dèi, come invece è, per esempio, il decalogo di Mosè ricevuto dalle mani di Yahveh sul Sinai, accettato come patto dal popolo d’Israele. Dove stava il grande scandalo che muoveva Antigone alla ribellione? Non nel fatto che Creonte comandasse ciò che riteneva di comandare, ma nel fatto che il contenuto del comando rompeva una struttura di relazioni, fondata – questa volta – non sull’interesse o, ancor meno, sull’interesse economico, come negli esempi fatti prima, ma sulla pietà fraternale. Creonte poteva anche avere ragione dal suo punto di vista: dice lui stesso che sarebbe stata somma ingiustizia onorare allo stesso modo le spoglie dell’eroe caduto per difendere la città (Eteocle) e il traditore che aveva levato un esercito per conquistarla (Polinice). Ma, se si rompono norme cosí sante ed essenziali, si distrugge ogni fiducia sociale e ogni arbitrio diventa possibile.

5. Precedenza delle norme convenzionali su quelle intenzionali.

Le norme convenzionali, intese nel modo anzidetto, mostrano in modo facilmente visibile il loro carattere originario, fondativo, archeologico nel senso etimologico del termine. Viste con occhi delle società in cui viviamo, esse appartengono al tempo delle piccole comunità che cercavano da sé, dal basso, le vie della propria sopravvivenza nell’ambiente geologico, agricolo, economico ed etnico ristretto e autosufficiente. La consuetudine, per quanto possa estendersi, riguarda numeri e spazi piccoli, rispetto ai numeri e agli spazi grandi, addirittura “globali”, in cui si svolge la vita odierna dei popoli sulla terra. La consuetudine è norma concretamente territoriale e, se i territori come unità fisiche, economiche e sociali sono numerosi, le consuetudini esprimono frammentarietà dei contesti sociali e non si prestano facilmente a reggere la vita di grandi collettività. Le norme convenzionali e consuetudinarie sono probabilmente quelle originarie in tutte le società, innanzitutto perché nascono come risposta a bisogni elementari in presenza di risorse scarse, quando le istituzioni artificiali sono ben lungi dall’apparire sulla scena e, tuttavia, occorre trovare un modus vivendi comune. È ricco di significato il fatto che il terreno privilegiato di queste norme, che sono rimaste vive pur essendo la loro sopravvivenza insidiata dall’attacco del diritto posto dalla legge dello Stato, sia il diritto agrario27. I cosiddetti usi civici di origine medievale, sopravvissuti con fatica fino a noi alla loro “liquidazione” in favore della speculazione economica, erano per l’appunto i terreni destinati a non essere oggetto di appropriazione da parte di nessuno per restare a disposizione di chi ne avesse bisogno per il pascolo, la raccolta della legna, dei funghi, ecc. Erano suppergiú ciò che oggi diremmo “beni comuni”. Dopo il crollo del sistema giuridico romano e prima dell’avvento della civiltà industriale, nel lungo periodo della cosiddetta Età di mezzo, si aprí un vero e proprio laboratorio giuridico i cui materiali costruttivi emergono nella loro nudità. È soprattutto nei terreni agricoli che si formano le regole che consentono agli esseri umani di sopravvivere di generazione in generazione, formare famiglie e di regolare l’accesso alle risorse e di distribuire le fatiche, spesso in ambienti naturali poveri come quelli di montagna: i terreni che, significativamente, mantengono le tracce di quel tempo antico quando il diritto grondava, secondo l’espressione di Paolo Grossi, «fattualità» e «corporeità» di vita comunitaria28. Si comprende cosí perché, quando le relazioni tra i gruppi umani, gli scambi economici, lo sviluppo della tecnica creano sempre maggiori interdipendenze che richiedono regole comuni, necessariamente indipendenti dalle condizioni locali e, perciò “astratte”, le consuetudini cadono in desuetudine, sostituite dal diritto artificialmente e volontaristicamente prodotto con lo strumento legislativo. In questo senso, il diritto sociale è archeologia. La stessa cosa accade quando società in movimento richiedono diritto adeguato a ciò che di nuovo si manifesta e il diritto sociale non è in grado di intervenire tempestivamente per darne forma giuridica, a causa dei tempi lunghi di formazione di convenzioni e consuetudini.

6. Archeologia delle norme sociali.

L’archeologia delle norme sociali, assumendo di archè il significato proprio, significa origine, fondazione. Le convenzioni e le consuetudini si reggono sulla fiducia e, a loro volta, generano fiducia: una condizione essenziale per l’esistenza di qualsiasi società. In questo loro carattere e funzione, esse non solo non hanno cessato d’esistere, ma addirittura se ne è dilatata la portata nell’epoca nostra, l’epoca del diritto volontariamente prodotto attraverso accordi, costituzioni e trattati internazionali. Il diritto del commercio odierno, quella che un tempo si denominava lex mercatorum, sorge spesso da accordi stipulati negli studi legali i quali, evidentemente, non hanno alcuna legittimazione autoritativa tra le parti. Sono accordi la cui efficacia è piú spesso garantita dalla fiducia reciproca che dal ricorso ad arbitri o giudici. I trattati sovranazionali su che cosa possono basare la loro autorità se non sulla norma che non è posta da nessuno: la norma pacta sunt servanda? Per quanto riguarda le costituzioni delle società in cui viviamo, vale la stessa affermazione che svilupperemo nel prossimo capitolo. Su che cosa può fondarsi la legittimità e l’efficacia di una costituzione se non sulla libera convergente accettazione delle parti politiche e sociali, basata sulla fiducia nel rispetto della reciprocità?

Con questa osservazione possiamo iniziare a raccogliere una conclusione: il fattore convenzionale è un aspetto essenziale del diritto tanto nelle piccole quanto nelle grandi e perfino grandissime dimensioni della convivenza umana. Nelle piccole, il diritto sociale dice direttamente i contenuti delle norme; nelle grandi e grandissime, il diritto sociale si manifesta come fondamento e garanzia di norme il cui contenuto è determinato con il ricorso a procedure artificiali (contratti, leggi, trattati) che, peraltro, nulla potrebbero se non potessero porre le loro basi su un terreno fiduciario di natura convenzionale o consuetudinario.

III. La legge.

1. Il diritto legislativo.

Nel tempo che denominiamo della modernità, che è il tempo della formazione degli Stati che accentrano in sé il potere politico, quando pensiamo al diritto non pensiamo al diritto naturale e nemmeno a quello sociale, ma al diritto stabilito da chi dispone del potere di stabilirlo e imporlo per legge. Il diritto della modernità è la legge e la concezione teorica di questo diritto è il positivismo giuridico. Esso afferma come postulato che «solo la legge è diritto, e nulla è diritto fuori della legge». Poiché fuori della legge non c’è altro diritto, è chiaro che la legge è (dal punto di vista giuridico) onnipotente e che l’onnipotenza della legge rappresenta il lato giuridico dell’onnipotenza politica del detentore del potere legislativo.

Si noti l’apparizione della parola “potere”, che è consueta nei discorsi dei giuristi e dei filosofi politici, per esempio nella teoria della «tripartizione dei poteri». Il diritto di natura e il diritto sociale non conoscevano il potere nel senso moderno: le loro norme, certamente, sancivano rapporti di sovra- e sub-ordinazione e quindi ordinavano la società in scale di potenza e impotenza. Ad esempio, il diritto naturale ha diviso lungo i secoli gli esseri umani in liberi e schiavi; il diritto sociale, fino a tempi a noi vicini, ha giustificato la subordinazione della donna all’uomo nella famiglia, nella vita economica, ecc. Dunque, giustificavano rapporti di micro e macro potere, ma non si diceva che quelle manifestazioni del diritto avessero origine dall’esercizio di un potere normativo nelle mani di un soggetto politico che distribuiva le posizioni e i ruoli nella società: il diritto naturale era insito nella “natura delle cose”; il diritto sociale nasceva involontariamente, spontaneamente dalle situazioni sociali, senza che nessuno l’avesse voluto. Invece, il diritto legislativo presuppone la volontà legislatrice a disposizione di chi possa imporla. Uno dei fondatori del positivismo giuridico, John Austin, scrisse: «il diritto è un comando posto dal superiore all’inferiore»29. In queste parole è insito il presupposto necessario del diritto legislativo, cioè il dislivello tra chi può comandare e chi deve ubbidire. I destinatari delle norme legislative sono perciò spesso denominati subditi legum (la parola subditus non la troveremmo in trattati di diritto naturale o in raccolte delle consuetudini).

2. Lo Stato legislatore.

«Quando parlo delle leggi, intendo leggi vive ed armate», dice il primo e principale sostenitore dell’onnipotenza della legge, Thomas Hobbes30: «vive» significa che esse sono nelle mani d’un soggetto storico concreto e non nei libri dei legisti che raccolgono norme morte che non hanno dietro di sé la forza di qualcuno che possa imporne l’osservanza; «armate» significa, per l’appunto, che dietro le leggi deve esserci, come dicono i giuristi, un apparato “coercitivo” capace di sanzionare con pene adeguate coloro che le violano. Il soggetto storico dotato d’un tale apparato è lo Stato, quello che Hobbes ha chiamato Leviatano, nel quale la moltitudine degli esseri umani riuniti in società è rappresentata in unità e al quale deve soggezione incondizionata, finché esso “rappresenta” e garantisce effettivamente tale unità. Ricordiamo il celebre passo:

una reale unificazione di tutti quelli in una sola e medesima persona, fatta per mezzo di un patto di ogni uomo con ogni uomo, in tal maniera come se uno dicesse all’altro: io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che anche tu offra il tuo diritto a lui, e autorizzi tutte le azioni allo stesso modo. Ciò fatto, la moltitudine cosí unita in una persona è detta Stato, in latino civitas. Questa è l’origine di quel grande Leviatano, o piuttosto – per parlare con piú reverenza – di quel Dio mortale al quale noi dobbiamo, al di sotto di quel Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, poiché, a causa di quest’autorità datagli da ogni singolo uomo nello Stato, esso usa tanto di tanto potere e di tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna e al mutuo aiuto contro i nemici esterni. E in esso è l’essenza dello Stato che – volendolo definire – è una persona, dei cui atti ciascun individuo di una grande moltitudine, con patti vicendevoli, si è fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti loro, secondo che crederà opportuno, per la loro pace e per la comune difesa31.

Il monopolio legislativo, insieme a ciò che Max Weber ha denominato «il monopolio della forza fisica legittima»32 che per secoli culminava con la morte come pena di Stato necessaria per assicurare alla legge la sua efficacia al massimo grado, è l’attributo di quel soggetto, il Dio mortale.

Non interessa qui la sostenibilità della premessa contrattualistica che fa da sfondo alla costruzione dello Stato, premessa che Hobbes stesso indica con un come se, cioè come finzione. Come spesso accade nelle cose politiche, anche in questo caso piú della fondazione (che può essere contestabile) sono importanti le conseguenze, le quali valgono se e in quanto sono adeguate alle esigenze storiche e concrete della politica. Le conseguenze sono cosí bene definite da Hobbes stesso:

Perciò solo lo Stato prescrive e comanda l’osservanza di quelle regole che chiamiamo leggi […]. Il sovrano di uno Stato, sia un’assemblea o un uomo, non è soggetto alle leggi civili perché, avendo il potere di fare e revocare le leggi, egli può, quando gli pare, liberarsi da quella soggezione, con l’annullare quelle leggi che l’impacciano e col farne altre nuove: per conseguenza egli era libero anche prima. Infatti è libero chi può essere libero tutte le volte che vuole, né è possibile che una persona sia legata a se stessa, perché chi può legare può sciogliere, e quindi chi è legato a se stesso può anche sciogliersi33.

Ancora: «a quelle leggi che il sovrano, cioè lo Stato, fa, egli non è soggetto, perché essere soggetto alle leggi significa essere soggetto allo Stato, cioè al rappresentante sovrano, cioè a se stesso: il che non è soggezione, ma libertà dalle leggi»34. Cosí, la natura e la società legislatrici sono scalzate a favore dello Stato legislatore sovrano.

3. Diritto scritto.

Il diritto di natura e il diritto sociale non erano diritto scritto, se non come ricognizione ed elaborazione d’un diritto esistente in sé che i giuristi raccoglievano in trattati per fini pratico-conoscitivi, senza credere che tali raccolte creassero alcunché. I gius-naturalisti scrutano il diritto che, per loro, già esiste nel “grande libro della natura” o nelle loro categorie di ragione naturale; i gius-sociologisti, invece, indagano nelle strutture sociali, quali storicamente esistono. Il diritto legislativo, invece, viene a esistenza in quanto scritto in testi dotati di ufficialità: i gius-legisti indagano i testi scritti. Questi testi non sono ricognitivi, ma creativi. I giuristi, da interpreti della giustizia naturale o delle relazioni sociali, diventano interpreti di documenti giuridici. È un cambiamento di paradigma capitale nella concezione della loro professione. Non potrebbe, del resto, che essere cosí: chi comanda, per rivolgersi a coloro dai quali si esige ubbidienza, che cosa può fare di diverso se non usare parole in cui sia impressa la sua volontà che i destinatari devono esprimere attraverso l’interpretazione (si veda infra, par. IX.2). In breve, la scrittura è carattere necessario della legge, almeno fino a quando le neuroscienze non forniscano ai potenti altri modi per influire sui comportamenti degli impotenti. Fino a quando le società non si ridurranno a masse di automi eterodiretti, le parole saranno lo strumento necessario per condizionare, influire, comandare. Le parole, però, cosí come stabiliscono un rapporto comunicativo, allo stesso tempo creano un diaframma: chi le emette ha un intento, ma tra colui che emette e coloro che ricevono le parole, c’è uno iato. L’intento deve essere espresso e deve essere inteso e, per questo, le parole assumono la posizione decisiva: avvicinano ma, al tempo stesso, dividono impedendo l’identificazione, la fusione. Servono, ma schermano. Solo in un caso lo schermo cadrebbe, quando chi deve ubbidire non ha bisogno di capire ma basta che subisca, come è per la mandria sotto il bastone del mandriano: qui le bastonate sostituiscono le parole, ma le parole possono essere sostituite da altri mezzi di persuasione inconsapevole o occulta, che influiscono sulla psiche senza bisogno della violenza fisica (qui, la definizione di Weber sopra ricordata dovrebbe essere aggiornata: forza fisica sí, ma anche psichica). Nel nostro tempo, l’idea di psico-politica e di una psico-legge non è solo una lontana minaccia fantascientifica.

Il “comando del superiore”, cioè dello Stato, in quanto si esprime in parole scritte, necessariamente si rende obbiettivo. Si traduce in parole alle quali, una volta pronunciate e scritte in documenti giuridici ufficiali, è riconosciuta «forza di legge». Ma, una volta consegnate in questi documenti, esse si obbiettivizzano e vivono, per cosí dire, di vita propria, fino a quando nuove leggi non le sostituiranno, per essere a loro volta oggetto di analoghi processi di oggettivizzazione. Sotto questo aspetto, la formalizzazione e l’obbiettivazione della volontà legislatrice in testi scritti ufficiali, cioè pubblici e conoscibili da parte di tutti gli interessati, costituisce un limite all’arbitrio di chi dispone del potere di produrre norme. Nei regimi totalitari, al diritto scritto in documenti formali si accompagnavano indicazioni per cosí dire confidenziali e informali, dispensate dal capo ai suoi sottoposti e destinate a rimanere celate ai piú: un doppio strato di “diritto”35, in uno dei quali – quello effettivo, l’altro essendo di facciata – poteva albergare l’arbitrio puro, sottratto alla pubblicità e quindi corrispondente al puro potere che non ha l’autorevolezza morale, o non ritiene necessario di mostrarsi in pubblico. Tanto piú è in vista infatti, tanto meno il potere è arbitrario. Il massimo potere sta nel mistero, nel nucleo piú profondo del segreto, ha scritto Elias Canetti36. Prendiamo come esempio la “conferenza” che si svolse tra gerarchi nazisti a Berlino, a Wannsee, nel gennaio del 1942, in cui fu presa la decisione della «soluzione finale» nei confronti del popolo ebraico in Europa. Non ci fu nessuna legge e nemmeno nessuna “decisione” formale, ma quali conseguenze! Esse, derivarono non da una legge, ma da allusioni, eufemismi di cui il senso venne recepito e redatto in un “verbale” destinato a rimanere segreto e distribuito solo ai partecipanti37. Le espressioni erano ambigue, reticenti, ma chiare erano le intenzioni del “capo”, nelle quali tutti, però, si immedesimarono mettendosi all’opera senza scrupoli ermeneutici38. Diremmo che quel documento può considerarsi una legge?

4. Il diritto come ordinamento.

La scrittura della legge crea, dunque, un distacco dalla mera volontà del legislatore e colloca il diritto che da essa è prodotto in una dimensione oggettiva: l’espressione «diritto oggettivo» deve intendersi in se stessa, non (solo) in opposizione all’espressione «diritto soggettivo». Diritto oggettivo significa ch’esso non è la somma di tanti singoli e slegati impulsi di volontà del legislatore, ma è legislazione, cioè insieme coerente di norme, cioè sistema legislativo le cui parti sono collegate e, per cosí dire, tenute insieme dal principio di razionalità (da non confondere col principio di ragionevolezza; si veda infra, par. VIII.18). La razionalità delle leggi consiste nella possibilità di concepire la loro congerie come una struttura normativa dotata di ordine concettuale, tenuta insieme dal principio formale di non contraddizione. Nella sentenza n. 204 del 1982, la Corte costituzionale del nostro Paese ha usato quest’immagine: «la coerenza tra le parti è valore essenziale [del diritto] di un paese civile, in dispregio del quale le norme che ne fanno parte degradano al livello di gregge senza pastore». La coerenza è, dunque, un carattere strutturale del diritto, cosí com’è concepito nella cultura del nostro tempo. È uno di quei principî giuridici fondamentali e fondanti che precedono le singole norme positive, rendendole intelligibili le une rispetto alle altre, evitando il rischio della guerra di tutte contro tutte. Perciò, l’impossibilità di rendere coerenti tra loro le leggi determina un vizio della legislazione, la intrinseca irrazionalità, e a tale vizio si pone rimedio attraverso strumenti di eliminazione dei fattori della contraddizione. Si potrebbe dire cosí: in tal modo si garantisce la «società civile» delle leggi, in luogo del caotico stato di natura, o, secondo l’espressione consueta, si preserva l’esigenza di avere a che fare con il «diritto come ordinamento». Ordinamento ha la stessa radice di ordine, e nessuno penserebbe che il diritto possa essere al sevizio del dis-ordine.

L’idea del diritto come ordinamento è archeologica (nel senso detto piú sopra). Il Codex giustinianeo fu un maestoso esempio di “precipitato” del diritto allora vigente in un contenitore sistematico. Ma non è solo un’idea come altre. In certi momenti storici è una necessità politica del potere sovrano che si propone come compito l’ordine generale nelle province del proprio regno e, quindi, l’abbattimento delle strutture giuridiche particolaristiche che garantiscono privilegi, immunità e impongono corvée e stabiliscono dazi e divieti di circolazione39. Questa necessità fu uno degli aspetti dell’assolutismo, il regime che, a partire dal XV secolo, mirava a fare dei regni superfici tutte lisce su cui potesse scorrere senza intralci il potere del Sovrano. Di tempo in tempo e, soprattutto al tempo delle “monarchie illuminate” del Settecento, il progetto dell’unificazione legislativa diede luogo, prima, alle cosiddette consolidazioni, cioè alle raccolte ordinate in sistema della congerie di norme anteriori, con l’eliminazione delle contraddizioni e delle norme desuete. L’esigenza era la chiarificazione del diritto, la cui stratificazione di norme e la loro natura eterogenea (consuetudini generali e locali, diritto canonico, editti dei principi, ecc.) creavano incertezze tra i sudditi e arbitrî nei tribunali. Nella prima parte di Dei delitti e delle pene (1764), Cesare Beccaria descrive con eloquenza lo stato penoso della giustizia (penale, in quello scritto famoso, ma riscontrabile in tutti i campi del diritto). Tale esigenza divenne impellente con la rivoluzione della borghesia. Essa, per ragioni sociali ed economiche, chiedeva uguaglianza e stabilità delle norme giuridiche, conformemente alla ragione storica di quella “nuova classe” emergente. Non bastavano le consolidazioni delle congerie normative dei tempi trascorsi. Occorrevano codici di norme chiare, generali e astratte, valide per tutti, per il tempo presente e futuro. L’esempio classico è stato il Code Napoléon del 1804, che taluno ha definito lo «statuto della società borghese».

5. Il diritto come scienza teoretica.

In precedenza s’è parlato di ragione, a proposito del diritto naturale. Allora, la ragione riguardava i contenuti. Il positivismo giuridico come teoria del diritto tace sui contenuti. Poiché i contenuti sono nella disponibilità del legislatore, i giuristi non possono che prenderne atto. Ma ai giuristi spetta mettere in forma le singole espressioni di volontà del legislatore; spetta darne una configurazione formale razionale. La concezione moderna del diritto si è sviluppata parallelamente alle concezioni cinque-seicentesche del cosiddetto Stato moderno e della sua sovranità, rappresentate in modo eminente dai Sei libri della Repubblica di Jean Bodin (1576) e dal Leviatano di Thomas Hobbes (1651). Queste dottrine politiche si venivano accompagnando a concezioni “naturalistiche” (in contrapposizione alle concezioni “morali”) del diritto, modellate sull’esempio delle scienze esatte o teoretiche (nel senso aristotelico) le cui “regole” sono tanto “dispotiche” quanto dispotico è il potere politico di cui il diritto si preparava a diventare strumento. Assolutismo politico e teoria giuridica formale andavano di pari passo.

Queste concezioni non esistono piú come tali, ma la loro influenza sulla formazione, per lo piú inconsapevole, della mentalità “scientifica” della nostra giurisprudenza è ancor oggi decisiva. Quanti sono i giuristi che credono o fingono di credere ancora di poter difendere una pretesa “purezza” della propria professione, e quanti non-giuristi credono anch’essi che il diritto possa e debba essere, per cosí dire, come una grande rete o ragnatela40 di regole valide in sé e per sé, collocate in una propria sfera di esistenza oggettiva, tese sulla società e pronte ad acciuffare i fatti della vita e i loro autori, non appena vi sia un uccellatore – fuor di metafora, un giudice – che fa scattare la trappola? Questo atteggiamento è quello di chi concepisce il diritto come un insieme di regole che richiedono solo di essere conosciute nella loro verità: regole che si possono solo o svelare per quello che sono oppure tradire per quello che non sono, vivendo in una sfera astratta dalla realtà della vita da regolare, una realtà che la scienza del diritto non solo può, ma deve ignorare per preservare la sua purezza.

L’aspirazione di questo modo di pensare la giurisprudenza come scienza che gareggi in esattezza e formalizzazione con le scienze teoretiche è risalente. I modelli piú spesso evocati dai dotti sono la geometria e la matematica. Il teologo Jean Gerson, già nel 1402, parlava del giudice come «geometer vel arithmeticus»41. Queste immagini diventarono veri e propri topoi nel Seicento. Consideriamo quest’affermazione di Leibniz: «La scienza del diritto è parte di quelle scienze che non dipendono dall’esperienza ma da definizioni, da dimostrazioni non dei sensi ma della ragione e si occupano non di fatti ma di validità»42 (una proposizione che, trecento anni dopo, avrebbe potuto essere collocata all’inizio della «nomodinamica» di Hans Kelsen: si veda infra, par. I.7). Le proposizioni della giurisprudenza si sviluppano per mezzo della logica le une dalle altre e producono proposizioni valide e vere per se stesse, cosí come l’obbiettiva legge dei numeri che sta sopra gli stessi matematici e vale indipendentemente dalla circostanza che ci sia qualcuno che fa di conto e che ci sia qualcosa da contare. Lo stesso è per il diritto, che ha la sua verità e il suo valore indipendentemente dal fatto che ci sia o non ci sia qualcosa o qualcuno da giudicare, esattamente come «ciò che è vero rimarrebbe vero anche se non venisse conosciuto da alcun uomo; e ciò che è buono manterrebbe la propria bontà anche se nessuno ne traesse profitto»43. Di Baruch Spinoza, autore di una Ethica ordine geometrico demonstrata, possiamo menzionare questo passaggio del Tractatus politicus, riferito alla politica ma altrettanto bene estensibile al diritto (la sua epoca è quella in cui la scienza del diritto è parte della filosofia politica):

Volgendomi […] a trattare di politica, non mi sono proposto nulla di nuovo e d’inaudito. Ho inteso solo dimostrare in modo certo e indubitato ciò che si accorda perfettamente con la prassi e dedurlo dalla condizione stessa della natura umana. Per indagare gli oggetti di questa scienza con la medesima libertà d’animo che di solito utilizziamo nelle matematiche, ho curato attentamente di non deridere, né di compiangere, né tanto meno detestare le azioni umane, ma di comprenderle44.

Infine, tra tante altre, consideriamo queste proposizioni di Hobbes, giusnaturalista, per un verso, e fondatore del positivismo giuridico, per un altro: convinto che il disordine della vita sociale dipendesse dalla mancanza di una teoria scientifica delle leggi civili, fino ad allora lasciate all’arbitrio delle opinioni in lotta tra loro, a differenza della scienza matematica, dove, a suo dire, regnava la concordia, egli afferma che le disgrazie che affliggono l’umanità, l’ambizione, l’avidità il cui potere s’appoggia sulle false opinioni del volgo intorno al giusto e all’ingiusto, si eviterebbero «se si conoscessero con ugual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria»45.

6. Il metodo scientifico del diritto, la dimostrazione.

La separazione del diritto dalla mera volontà potestativa del legislatore, inteso come soggetto storico in carne e ossa, ha portato con sé uno spettacolare sviluppo del diritto come scienza. A questo sviluppo hanno contribuito gli studi sulla natura del discorso normativo, l’analisi del linguaggio, la giurisprudenza analitica, ecc. Il tempo del positivismo delle origini, cioè del diritto come insieme di atti di volontà di un legislatore personale che dispone del potere di comando sui suoi sottoposti, è alle nostre spalle. In fondo, il giusnaturalismo razionalista ha lasciato al positivismo legale moderno, che è un suo figlio legittimo anche se, sotto diversi aspetti, alquanto degenere, questa aspirazione: che i giuristi non “dissertino” sulla società, ma la “calcolino” con le leggi che sono date loro. Leggi provenienti da un legislatore storico concreto, con tutti i suoi difetti, ma da trattare tuttavia, proprio come nella matematica e nella geometria, come leggi astratte, separate dal loro autore, e cosí oggettivate e rese valide in sé. Il positivismo odierno, che si dice “critico” perché respinge quell’idea personalistica della legge come comando da individui a individui concreti (idea contenuta nella formula di Austin sopra riferita), crede di aver fatto un passo in avanti verso la scientificità della propria scienza. In realtà, il suo postulato: la volontà oggettivata, è un discutibile incrocio, forse contro natura, tra un postulato del giusnaturalismo razionalista, il diritto come ratio obbiettiva, e la concezione positivista della legge come voluntas soggettiva.

Il positivismo giuridico attuale potrebbe fare propria l’immagine del diritto (parole ancora di Leibniz) come «egregium opus architectonicum»46. Ogni parte deve essere coerente con le altre e devono sorreggersi mutuamente. La creazione e l’interpretazione del diritto non possono farsi per parti separate, cosí come la struttura architettonica e la stabilità d’un edificio devono essere considerate guardandolo da ogni sua parte. Nel caso del dubbio è l’edificio a fornire i materiali concettuali per risolverlo: l’analogia, il ragionamento a contrario, il riferimento a principî comuni, ecc. Il ricorso alla «intenzione del legislatore» che il positivismo delle origini poteva interpretare con riferimento alla volontà soggettiva, ora è inteso in senso oggettivo: il legislatore non è il sovrano che detta legge secondo i suoi intenti, ma è l’ordinamento giuridico inteso nella sua oggettività che vive nel tempo come un organismo in cui ogni sua parte interagisce con le altre. L’interpretazione evolutiva, che sarebbe impensabile se l’intenzione del legislatore fosse da intendere in senso psicologico soggettivo, diventa possibile, anzi necessaria, se l’intenzione, da storico-concreta, si trasforma in senso fittizio, come risposta alla domanda: che cosa intenderebbe il legislatore che dettasse una certa norma in questo momento, con riguardo all’ordinamento nel suo complesso?

Per ritornare alla matematica, potremmo dire che un problema giuridico entro un ordinamento dato si deve affrontare non diversamente da ciò che si fa quando si cerca l’incognita entro i dati che sono forniti da un’equazione che chiede d’essere risolta. Assumere, come modelli della giurisprudenza, la matematica e la geometria significa adottare il metodo dimostrativo e abbandonare il metodo persuasivo. Il primo è quello che, a partire da determinati assiomi indiscussi, conduce deduttivamente a determinate conseguenze certe in base al principio di non contraddizione: è il metodo della verità che non ammette dubbi e che, fuori di sé, ha l’errore. Il secondo, il metodo persuasivo, è quello che, a partire da argomenti piú o meno condivisi e suggestivi, conduce a determinate convinzioni piú o meno forti e piú o meno appoggiate su sentimenti ed emozioni (il che non vuol dire infondati ma, semplicemente, non appartenenti alla logica della dimostrazione razionale). Il campo del diritto era sempre stato considerato quello della retorica, cioè dell’arte della persuasione attraverso i discorsi efficaci sulle passioni. Nell’Etica nicomachea, Aristotele aveva affermato che, nella conoscenza persuasiva, si rimane nel disputabile campo del probabile: «Sarebbe altrettanto improprio esigere dimostrazioni da un oratore che accontentarsi della probabilità nei ragionamenti di un matematico»47. Il positivismo (non solo giuridico) afferma invece che il rigore dimostrativo della matematica dovrebbe diventare l’abito mentale anche di coloro che si occupano delle scienze dell’agire umano, tra cui i giuristi. La demonstratio deve soppiantare la interpretatio e il suo corredo di argomenti retorici è destinato ad agire piú sui sentimenti che sui ragionamenti48.

7. La scienza pura del diritto.

L’odierna trattazione scientifica del diritto, pur nell’ambito delle premesse generali di cui si è detto, ha dato luogo a un filone complesso di indirizzi che si usano designare sinteticamente con l’espressione positivismo critico, per distinguerlo da quello “ingenuo” del tempo di Austin, sopra citato. Qui si può accennare soltanto alla piú compiuta elaborazione, offerta in numerose opere da Hans Kelsen, un nome che abbiamo già incontrato. Egli ha esercitato una grande influenza sulla rappresentazione del diritto e sulla autorappresentazione dei giuristi, fino al tempo nostro. Lo scritto che contiene l’esposizione sistematica della sua visione porta il titolo La dottrina pura del diritto. Una dottrina del diritto veramente scientifica – secondo il suo autore – deve innanzitutto depurare il suo oggetto da ogni contaminazione con ciò che diritto non è: sociologia, economia, filosofia, storia, concetti morali. Cosí “ripulito” dalle incrostazioni improprie, il diritto appare come scienza delle norme e le norme esprimono dover essere (sollen) e il mondo del dover essere deve tenersi distinto dal mondo dell’essere (sein). Conformemente a questa visione dicotomica, l’idea del diritto come scienza pratica (si veda infra, par. IX.12) è rigettata come contraddittoria: se è scienza non è pratica e se è pratica non è scienza. Dunque, la scienza del diritto si dovrebbe occupare solo di norme e le norme di cui si occupa sono quelle appartenenti all’ordinamento giuridico secondo il criterio fondamentale della validità. Per validità si intende la possibilità di imputare una certa norma all’ordinamento secondo i criteri ch’esso stesso stabilisce attraverso le norme di riconoscimento che si denominano «sulla produzione del diritto»: essenzialmente le norme che stabiliscono chi, come e con quali vincoli di contenuto possono prodursi norme valide. Se queste norme non sono rispettate, non vi sarà diritto valido.

La vita del diritto è concepita come un processo a cascata, dalla norma piú alta e generale, detta Grundnorm, o norma fondamentale, fino alla norma piú bassa e particolare, contenuta nella sentenza del giudice o nel provvedimento dell’amministrazione, passando per gradi di specificazione intermedi progressivi, legislativi e regolamentari. In questo modo, l’ordinamento giuridico può essere descritto come una grande piramide a gradini, al vertice della quale sta la costituzione, depositaria della maggior forza normativa, condizionante tutti gli ulteriori sviluppi successivi. Si comprende che questa è, per cosí dire, una concezione monarchica e assolutistica, l’ultima e piú perfezionata teorizzazione del diritto conforme alle esigenze dello Stato sovrano: come il potere sta in alto e si sviluppa per i rami discendenti gerarchicamente subordinati, cosí il fondamento del diritto sta in alto e si sviluppa analogamente. Anzi, nella Dottrina pura del diritto, lo Stato, considerato dal punto di vista giuridico (e non politico o sociologico) finisce per identificarsi con l’ordinamento giuridico (ma si potrebbe dire anche il contrario: che l’ordinamento giuridico, concepito nei termini anzidetti, finisce per identificarsi con lo Stato).

La Grundnorm è una «ipotesi normativa», necessaria a spiegare l’esistenza degli ordinamenti giuridici. Il suo contenuto, uguale per qualsiasi ordinamento quali che ne siano le norme che lo compongono (liberali, democratiche, socialiste, totalitarie), è il seguente: ogni ordinamento effettivamente esistente è valido. Da qui prende origine la vita delle norme giuridiche valide, la nomodinamica, indifferente ai loro contenuti, purché conformi ai criteri di validità posti dalle norme che le precedono gerarchicamente. Si comprende che questa dottrina corrisponde a una visione dello Stato di diritto puramente formale, indifferente a ogni suo presupposto di valore che non sia la mera legalità delle sue norme. È una dottrina che può quindi essere riempita di qualunque contenuto. Per questo, al tempo della «rinascita del diritto naturale» del secondo dopoguerra (si veda supra, par. I.2) essa è stata accusata di «giustificazionismo» rispetto ai piú aberranti sistemi giuridici dei piú aberranti regimi politici, purché operanti per mezzo di norme valide secondo la loro costituzione. Su questa accusa si è aperta una discussione: una discussione giustificata per coloro che ritengono che il diritto non sia solo forma, ma totalmente insensata per coloro che, come Kelsen, programmaticamente espungono dal loro campo visivo tutto ciò che è politica, filosofia, storia, etica; per coloro, cioè, che intendono preservare la purezza della loro scienza. Ma la questione è, per l’appunto, se abbia un senso e un senso che debba essere coltivata una scienza del diritto di questo genere. Quando la concezione del diritto si riduce alla sola dimensione della forma, cioè della forza formalizzata, la società è in pericolo perché, come è stato detto, «il sistema giuridico-politico si [può] trasforma[re] in una macchina letale»49.

8. Rinvii al seguito.

Le anzidette concezioni del positivismo giuridico, culminate nella Dottrina pura del diritto, dominano tuttora il senso comune odierno, ma sono sempre piú spesso contestate. Esse sono insidiate da idee che i positivisti, critici o non critici ch’essi siano, considerano moleste ma, non perciò, meno aderenti alla realtà e meno insidiose nei confronti delle loro premesse. Innanzitutto, è in crisi l’idea della scienza giuridica come scienza teoretica. La funzione del diritto sta nel rapporto con la realtà, in un rapporto di reciproco condizionamento: la sua concezione come scienza pratica appare non solo non contraddittoria ma anche adeguata alla realtà del diritto e delle operazioni che i giuristi compiono in suo nome.

In secondo luogo, pochi sosterrebbero che l’insieme delle norme giuridiche che proviene dal legislatore del nostro tempo abbia le caratteristiche di sistematicità, coerenza, generalità e stabilità che consentano di parlare di ordinamento giuridico come di un dato. Se mai, il diritto appare un coacervo di norme settoriali, caotico, sempre in movimento, sempre piú spesso rivolte non a dettare stabili discipline per l’avvenire, ma a risolvere situazioni critiche del passato attraverso provvedimenti puntuali e spesso retroattivi. Basterebbe prendere in mano una qualunque raccolta di norme alla quale diamo ancora il nome di codice (civile, penale, processuale, ecc.), per vedere quante “novelle” si sedimentano sul corpo originario (segnate da bis, ter, quater, quinquies, sexties, ecc. aggiunti agli articoli originari) e quante leggi speciali si continuino ad aggiungere. Dopo l’età delle codificazioni che è alle nostre spalle, si è parlato, per l’età nostra, di età della decodificazione50, come segnale di decomposizione del diritto come ordinamento giuridico. L’ordinamento giuridico non è piú un dato ma, se mai, un problema. Sempre che le sia possibile e non debba rassegnarsi all’impotenza, il compito della scienza del diritto è di ricomporre la decomposizione. Ma, questo compito, la mera demonstratio di cui s’è detto sopra, è insufficiente. Occorrono strumenti idonei alla costruzione, e questi non li si possono trovare tutti all’interno dell’ordinamento legale che, come tale, non c’è piú.

Di queste cose, piú avanti al tempo debito.