Ponte e porta

L’immagine delle cose esterne ha per noi un significato duplice, perché nella natura che esiste al di fuori di noi, secondo i punti di vista, tutto appare connesso e tutto appare diviso. Le incessanti trasformazioni della materia e delle energie instaurano rapporti tra ogni materia e ogni energia, e l’insieme di quei rapporti fa di tutte le singolarità un solo cosmo. Al tempo stesso, però, gli oggetti rimangono prigionieri dell’esteriorità reciproca dello spazio, che è inesorabile, perché a nessuna particella di materia è dato condividere con un’altra le stesse coordinate, per cui nello spazio non può mai prodursi una vera unità del molteplice. Insomma l’esistenza naturale, nella misura in cui si presta con uguale diritto a due chiavi di lettura tra loro incompatibili, non sembra corrispondere né all’uno né all’altro concetto.

Solo all’essere umano, in quanto si contrappone alla natura, è dato legare e sciogliere, e per giunta farlo in modo tale che l’una operazione sia sempre il presupposto dell’altra. Nel momento stesso in cui preleviamo a nostra discrezione dall’inventario inerte delle cose naturali due entità che poi scegliamo di descrivere come “separate”, la nostra coscienza ha già instaurato tra loro un riferimento reciproco che le fa risaltare come una diade sullo sfondo del continuum che si frappone tra l’una e l’altra. Viceversa, per provare il senso di una connessione occorre innanzitutto avere in qualche modo isolato i termini del rapporto: le cose non possono esistere le une insieme alle altre senza prima esistere le une al di fuori delle altre. In termini pratici, come del resto in termini logici, non avrebbe alcun senso collegare tra loro delle cose che non fossero tra loro separate, anzi, che non restassero comunque separate anche malgrado quel legame. E tutte le forme del nostro agire si possono classificare in base alla specifica equazione che in ciascuna iniziativa umana mette a sistema le due operazioni, a seconda che sentiamo come dato naturale di partenza la connessione oppure la separatezza, nella misura in cui il nostro compito consiste nel produrre lo stato opposto. In ciascun istante della nostra vita siamo l’essere che scinde ciò che è legato e lega ciò che è scisso, e questo sul piano immediato come sul piano simbolico, sul piano corporeo come su quello spirituale.

Uno dei massimi raggiungimenti dello spirito umano è stata l’opera dei pionieri che per la prima volta nella storia hanno tracciato una strada tra due luoghi. Forse facevano già la spola tra l’una e l’altra destinazione, ma questo non bastava ancora, perché la connessione rimaneva soggettiva: il legame tra i due luoghi diventa oggettivo solo a partire dal momento in cui viene inscritto in forme visibili sulla superficie della crosta terrestre; soltanto allora la volontà di collegare si traduce in una configurazione delle cose che consente a quella volontà di esplicarsi ogni volta che lo desidera, ma senza che il sussistere del collegamento si trovi a dipendere dalla maggiore o minore frequenza con la quale ciò accade. Anzi, la costruzione di strade è una procedura riservata all’uomo: anche l’animale trascende di continuo delle discontinuità spaziali, spesso dando prova di una forza ed eleganza straordinarie, ma l’inizio e la fine del percorso rimangono due cose tra loro distinte, cioè l’animale non opera il miracolo della strada, non fa rapprendere il movimento in una struttura stabile che nasce e si invera nel movimento.

L’espressione suprema di questa capacità è la costruzione del ponte. In questo caso la volontà di collegare che muove l’essere umano non deve vincere soltanto la resistenza passiva dell’esteriorità che inerisce per natura allo spazio, ma anche la resistenza attiva di una specifica configurazione. Il ponte gettato oltre quell’ostacolo simboleggia l’ampliamento della sfera della nostra volontà, che trionfa sullo spazio. Solo per noi esseri umani le due sponde di un fiume non rappresentano soltanto due luoghi discontinui, ma qualcosa di “separato”, perché quella coimplicazione che pensiamo appunto come separazione ha senso solo quando le nostre finalità, i nostri bisogni e la nostra fantasia instaurano un nesso tra le due cose. Sennonché in questo secondo caso la configurazione naturale sembra corrispondere in modo deliberato a quel concetto, perché quella separazione tra gli elementi che lo spirito è chiamato a trascendere, cioè a conciliare e ridurre all’unità, sembra darsi già in sé e per sé.

Per caricarsi di un valore estetico il ponte non può quindi limitarsi a connettere ciò che è separato nella realtà delle cose reali, adempiendo finalità pratiche, ma deve conferire a quel nesso una forma immediatamente icastica. Il ponte rappresenta anche per l’occhio, come già nella realtà pratica dei corpi, quel solido appoggio che consente di legare tra loro le parti del paesaggio. La semplice dinamica del movimento, nella cui realtà reale si esaurisce di volta in volta il “fine pratico” del ponte, diventa cosí qualcosa di visibile e permanente, un po’ come il ritratto, per cosí dire, cristallizza in un istante sospeso il processo vitale di ordine insieme fisico e psichico nel quale si estrinseca la realtà dell’essere umano, dando a vedere in un unico scorcio intemporale e statico qualcosa che la realtà non mostra né può mai mostrare, cioè raccogliendo a fattor comune tutta l’animazione di quella realtà, che nella dimensione del tempo scorre e trascorre senza posa. Il ponte conferisce a un senso ultimo librato sopra ogni evidenza sensibile una manifestazione unitaria che non passa per alcuna riflessione astratta, ma piuttosto riassorbe al proprio interno la funzionalità pratica del ponte e le conferisce una forma visibilmente manifesta, un po’ come l’opera d’arte fa con il proprio “oggetto”. Il ponte, però, rimane inscritto nell’immagine naturale pur costituendo di per sé una sintesi che trascende la natura, e in questo si distingue dall’opera d’arte. Il suo rapporto con le due rive che mette in relazione è per l’occhio molto piú intimo e meno accidentale del rapporto che lega, per esempio, una casa al terreno sul quale è edificata, perché la casa maschera le fondamenta, che l’occhio non afferra. Dato un paesaggio, tendiamo a sentire quasi sempre il ponte come un elemento “pittoresco”, perché appunto il ponte eleva all’unità – e un’unità di ordine squisitamente spirituale – la dispersione fortuita del dato naturale. Soltanto il ponte, proprio in quanto possiede una manifestazione spaziale visibile e immediata, racchiude già in sé quel valore estetico che l’arte manifesta in purezza quando inquadra nella sua insularità idealmente conchiusa quell’unità che solo lo spirito ha saputo instaurare tra dati meramente naturali.

Il ponte fa cadere l’accento sul secondo termine della correlazione separatezza-unione: rende visibile e misurabile la distanza spaziale che si apre tra i due punti di appoggio, ma al tempo stesso la trascende. La porta, invece, dimostra nel modo piú netto e perspicuo l’unità del separare e dell’unire, che sono solo due aspetti di uno stesso gesto. Come il pioniere che ha tracciato la prima strada, l’essere umano che per primo ha edificato una capanna ha dato un saggio delle specifiche capacità che ci distinguono dalla natura isolando una parcella nella continuità e infinità dello spazio esteso per farne un’unità specifica, configurata secondo un senso. Separando dal resto del mondo una porzione di spazio tenuta insieme da nessi intrinseci. E la porta, interpolando uno snodo di raccordo tra lo spazio dell’essere umano e tutto ciò che esiste al suo esterno, abolisce e insieme esalta la separazione tra il dentro e il fuori. Proprio perché, volendo, si può aprire, una porta chiusa comunica in modo piú intenso di qualunque parete cieca la sensazione di uno spazio richiuso su se stesso. La parete cieca è anche muta, ma la porta invece parla. I confini che l’essere umano traccia intorno alla propria persona sono connaturati all’essenza piú profonda della sua indole, ma solo quando quelle delimitazioni risultano libere, cioè quando il soggetto può revocarle a piacere, collocandosi al loro esterno. Lo spazio finito nel quale ci ritiriamo confina sempre almeno in un punto con l’infinità dell’essere fisico o metafisico. La porta diventa cosí l’immagine visibile di quella soglia appunto liminale sulla quale indugiamo o comunque potremmo indugiare in ciascun momento della nostra vita. L’unità finita che abbiamo ricavato connettendo al proprio interno una porzione di spazio ritagliata dall’infinità dell’estensione torna cosí a connettersi con quel non-finito: grazie alla porta lo spazio delimitato confina con lo spazio privo di confini, però non nella forma piattamente geometrica di una parete divisoria, ma come possibilità di uno scambio costante, a differenza di quanto vale per il ponte, che invece raccorda il finito con il finito. Per questo varcare una soglia significa sempre spogliarsi di quelle delimitazioni stabili e quel passaggio, in quanto contrasta con l’ottundimento delle abitudini quotidiane, riesce ancora a farci provare la meravigliosa sensazione di rimanere sospesi per un breve istante tra cielo e terra. Mentre il ponte, in quanto linea piú breve tra due punti, prescrive anche una direzione, comunicando una certezza assoluta, quando infiliamo la porta la vita rompe le dighe di un essere-per-sé confinato in un perimetro netto per riversarsi nello spazio senza confini delle infinite strade che si dipartono da ogni soglia.

Se nel ponte i momenti della separatezza e della connessione si incontrano in modo tale che l’una si manifesta come aspetto prevalentemente naturale, l’altra come aspetto prevalentemente umano, la porta concentra entrambi, e allo stesso titolo, in un agire propriamente umano in quanto agire umano. Per questo la porta è piú ricca di significati, e di significati piú vitali: lo si vede già solo dal fatto che, dato un ponte, non fa alcuna differenza in quale direzione lo percorriamo, quanto meno in ordine al senso intrinseco del ponte, mentre dalla porta si entra o si esce, concretizzando di volta in volta un’intenzione del tutto diversa. Anche per questo la porta si distingue in modo assoluto dalla finestra, che pure ha la stessa funzione di raccordo tra lo spazio interno e il mondo esterno, per cui un po’ le assomiglia. Nel caso della finestra già solo il sentimento teleologico si orienta quasi senza eccezione dall’interno all’esterno: la finestra è fatta per guardare fuori, non per sbirciare dentro. La sua trasparenza consente per cosí dire di cronicizzare il legame tra l’interno e l’esterno, dandogli continuità nel tempo, eppure l’orientamento unilaterale inscritto in quel nesso e le sue limitazioni di raccordo puramente ottico assegnano alla finestra solo alcuni aspetti parziali del significato profondo e assoluto che invece compete alla porta. Poi anche nel caso della porta l’una o l’altra delle due direzioni può venire messa in risalto da circostanze specifiche. Quando nell’architettura sacra romanica e gotica le aperture praticate nella muratura si vanno restringendo via via fino alla porta vera e propria, che si raggiunge passando tra semicolonne e statue affrontate sempre piú vicine tra loro, appare chiaro che il senso di quella porta consiste in un invito a entrare: uscire poi tocca per forza, ma è per cosí dire solo un fastidioso accidente. L’intera struttura accompagna chi entra, comunicandogli il senso di fare la cosa giusta, e lo instrada nella buona direzione introducendo un vincolo tanto delicato quanto impossibile da fraintendere. Quel significato si prolunga nella fuga prospettica dei pilastri che scandiscono lo spazio tra il portale e l’altare maggiore (un fenomeno che cito solo per analogia). L’illusione prospettica di due linee convergenti in un punto indica la strada, ci invita a entrare, ha ragione delle nostre esitazioni: se cosí non fosse, cioè se le due serie di pilastri ci apparissero perfettamente parallele, come sono in realtà, il punto sul quale sembrano convergere non si distinguerebbe in nulla da quello che occupiamo varcando la soglia; la rispettiva funzione di principio e meta non sarebbe inscritta a chiare lettere nello spazio. Sennonché la stessa diminuzione prospettica che conferisce una pregnanza cosí meravigliosa al gesto di entrare in una chiesa finisce per servire anche in senso opposto: basta voltarsi perché la fuga dei pilastri disegni un identico cannocchiale tra l’altare e il portale, messa in risalto dallo stesso progressivo restringersi dell’intervallo. Mentre lo sviluppo conico della porta sul suo versante esterno, invece, non lascia adito a dubbi di sorta: è fatta per entrare, non per uscire. Ma si tratta appunto di un caso del tutto eccezionale: il portale simboleggia il fatto che la dinamica della vita, nella quale ci muoviamo con uguale diritto in ogni direzione, ora entrando ora uscendo, trova un limite nella chiesa, dove conta una cosa soltanto – entrare. Istante dopo istante la vita sul piano terreno getta ponti tra le discontinuità che separano le cose, ma indugia anche su una soglia, ora da un lato, ora dall’altro: quella porta che dal suo essere-per-sé la conduce nel mondo e dal mondo la immette nel suo essere-per-sé.

Ponte e porta, insomma, configurano in immagini icastiche e stabili nel tempo le forme che governano la dinamica della nostra vita. Non si limitano a servire come degli utensili le esigenze funzionali e teleologiche dei nostri movimenti, ma al tempo stesso cristallizzano la loro forma in un assetto plastico e immediatamente persuasivo. Il ponte mostra come l’essere umano sappia ridurre all’unità la dispersione estrinseca dell’essere meramente naturale; la porta, come sappia operare distinzioni nel continuum uniforme e unitario di quell’essere naturale: e tutto questo si vede già solo nelle diverse accentuazioni che predominano nella loro impressione sensibile. La pregnanza tutta particolare del ponte e della porta nelle arti visive procede dal significato estetico di ordine generale che viene loro dalla capacità di conferire una forma visibile a un aspetto metafisico e stabilizzare un aspetto puramente funzionale. La loro popolarità come motivi figurativi si spiega anche con la loro forma e quindi con valori propriamente pittorici, eppure anche in questo caso, come in altri, si consuma un incontro misterioso: il significato e la compiutezza puramente tecnico-artistici di una configurazione si rivelano al tempo stesso come l’espressione piú compiuta ed esauriente di un senso di ordine interiore o metafisico che per sua natura si sottrae alla percezione sensibile. Per esempio l’interesse puramente pittorico per il volto umano interamente risolto in forme e colori risulta soddisfatto in modo tanto piú perfetto nei casi in cui la rappresentazione è pervasa da un massimo di animazione spirituale e caratterizzazione interiore.

Perché l’uomo è l’essere che instaura legami, l’essere che sempre separa e non può unire senza avere sciolto, per cui prima di gettare un ponte tra due sponde che esistono ciascuna per sé, sovranamente indifferenti l’una all’altra, occorre innanzitutto che la nostra mente le abbia sentite come un che di “separato”. Però l’uomo è anche quell’essere senza confini che vive di confini. La porta che suggella lo spazio in cui si sente a casa propria sta a significare che l’individuo ha ritagliato e recintato una porzione di spazio dall’unità ininterrotta dell’essere naturale. Eppure, un po’ come l’infinità amorfa dell’essere deve lasciarsi circoscrivere per acquisire una forma, solo il carattere mobile della porta ha il potere di manifestare in modo tangibile il senso e la dignità di quella delimitazione: la possibilità di varcare la soglia in qualunque momento, uscendo da uno spazio demarcato per entrare nella libertà.