Sociologia della socievolezza
L’annoso dibattito intorno all’essenza della società, che ora sembra caricarsi di pregnanze iperboliche, addirittura mistiche, come se la vita umana si imbevesse di realtà solo grazie alla sua mediazione, mentre ora si riduce a un concetto meramente astratto che serve tutt’al piú a compendiare ex post le realtà di piú esistenze individuali, un po’ come indichiamo con il termine globale di “paesaggio” un insieme di alberi e corsi d’acqua, abitazioni e prati, quella disputa, dicevo, non riesce a ridurre a un solo denominatore la duplice realtà del fenomeno sociale. Da un lato abbiamo gli individui nella loro esistenza sensibile, immediata, vettori in carne e ossa dei processi di socializzazione che li ricomprendono e li aggregano in quell’unità di livello superiore che chiamiamo appunto una “società”; dall’altro gli interessi che vivono in ciascun individuo e motivano quell’aggregazione: interessi economici e ideali, bellici ed erotici, religiosi e caritatevoli. Le forme della vita sociale, innumerevoli nella loro varietà – il nostro instancabile essere con, essere per, essere in, essere contro, essere per il tramite di altri nello Stato e nel comune, nella chiesa e nell’ambito professionale, nella famiglia e nelle frequentazioni informali – emergono per dare pieno corso a tutti quegli impulsi, per consentirci di concretizzare i loro fini. Gli impulsi e gli interessi che l’essere umano scopre in se stesso ma che lo sospingono oltre se stesso, verso gli altri, ovvero tutte le forme di comunione che da una mera compresenza di soggetti contigui nello spazio ricavano di volta in volta una “società”, funzionano un po’ come gli scambi di energia che si danno sul piano microscopico tra le particelle, dalle cui specifiche forme di reciprocità nasce la materia delle “cose” come le conosciamo.
Nel quadro della costellazione descritta, o come suo immediato sottoprodotto, emerge una configurazione sociologica di tipo particolare che trova un corrispettivo nei costrutti del gioco e dell’arte nella misura in cui tutti e tre questi ambiti desumono le loro forme dalle forme della realtà, ma solo per espungere il loro aspetto reale. Non occorre credere al valore esplicativo di concetti come “impulso ludico” o “impulso artistico”: qui ci interessa solo constatare che in ogni attività ludica o artistica si ritrova un elemento di portata generale che permane al variare dei contenuti. Nella ginnastica e nelle carte, nella musica e nella scultura ricorre un comune elemento di fondo che non dipende dalle particolarità della musica o della scultura come tali, ma ha tutto a che vedere con il fatto che entrambe sono delle arti (oppure, nel primo caso, che tanto le carte quanto la ginnastica siano una forma di gioco). La risposta psicologica e il tipo di bisogno che trova soddisfazione in tutti questi casi particolari, per il resto cosí irrimediabilmente diversi tra loro, presentano un aspetto comune, un’affinità di fondo, non troppo difficile da scorporare come tale dagli interessi di volta in volta specifici che invece si rivolgono agli aspetti differenziali. Nella stessa chiave sembra legittimo attribuire all’essere umano anche un impulso alla socievolezza. Quando le persone si riuniscono nel quadro di associazioni economiche di categoria o fratellanze di sangue, comunità di fedeli o bande di predoni, sono sempre in gioco necessità e interessi di tipo molto preciso. Eppure, facendo astrazione da quei contenuti determinati, ciascuna di quelle forme di associazione presenta un aspetto comune dato dal caratteristico senso di appagamento che accompagna il fatto stesso dell’esistenza associata, il fatto di avere trasceso la solitudine dell’individuo nella dimensione dello stare insieme quando l’essere umano esiste in comunione con altri. Nei singoli casi, poi, quella sensazione può anche venire elisa da controistanze psichiche di altro genere: a volte, per esempio, la forma dell’associazione ci appare come una deprecabile necessità in vista di scopi pratico-oggettivi. Di norma, però, tutte le circostanze reali che agevolano il costituirsi di concrezioni sociali si accompagnano al sentimento che la costruzione sociale sia un valore di per sé: un impulso che ci spinge a preferirla come forma di esistenza e che a volte, anzi, riesce a fornire da sé quei contenuti reali sui quali poggiano le singole forme di associazione. E cosí come l’impulso che poco sopra ho chiamato artistico estrapola dalla globalità delle cose come ci appaiono l’aspetto della loro forma per svilupparlo in una maniera specifica che appunto corrisponde ai bisogni di quell’istinto, l’impulso di socievolezza, operando a prescindere da qualunque altra considerazione, scorpora dalle realtà concrete della vita sociale la forma dello stare insieme, la forma del puro processo sociale inteso come un valore intrinseco e una felicità senza altro fine, ricavandone quella che chiamiamo appunto occasioni “sociali” nel senso specifico della socievolezza. Non è un caso né un mero bisticcio della lingua che in tutte quelle occasioni, anche nelle piú naturalistiche, sia cosí importante il momento della forma, inteso qui nel senso delle “forme”, cioè delle buone maniere: se vengono a mancare le forme dilegua o comunque perde di senso anche l’aspetto della socievolezza. Perché la forma è un vicendevole autodeterminarsi, un’azione reciproca degli elementi, che solo grazie a quell’interazione accedono all’unità; e dal momento che nella socievolezza decadono tutti quei motivi concreti di aggregazione che fanno capo agli interessi della vita, la forma pura e per cosí dire gratuita della coesione che si esplica nell’azione reciproca tra gli individui non può che assumere un’efficacia e un rilievo tanto maggiori.
Anche l’aspetto che l’arte e il gioco hanno in comune emerge in modo piú chiaro dall’analogia con la socievolezza. Il gioco desume i suoi grandi motivi formali dalle realtà inscritte nella vita concreta: cacciare, carpire con l’astuzia, conservare le forze fisiche e mentali, competere, scommettere sul favore del caso e di potenze vitali non padroneggiabili. Il gioco spoglia quel dinamismo della sua materia tangibile, quella che ne fa questioni di vita o di morte, e solo cosí diventa qualcosa di sereno e distaccato, ma senza smarrire quella pregnanza simbolica che distingue sempre il gioco dal mero trastullo. Proprio questa, come ora vedremo meglio, è l’essenza della socievolezza: il suo corpo è fabbricato con le mille forme di base dei rapporti che gli esseri umani allacciano tra loro quando fanno sul serio, ma le sono risparmiati gli attriti e le resistenze della realtà. Eppure, proprio grazie ai nessi formali che la legano a quei rapporti, le occasioni di socievolezza conservano anche per gli uomini piú gravi, e in modo tanto piú perfetto quanto piú quella socievolezza è gratuita, una pienezza di vita ludico-simbolica e una pregnanza intrinseca che i razionalisti superficiali pretendono invano di ricercare sempre e solo nei contenuti di ordine concreto (salvo poi non trovarcele e quindi liquidare quei fenomeni come una frivolezza puerile, un po’ come il dotto che di fronte a un’opera d’arte domandava: «Qu’est-ce que cela prouve?») Non può essere un caso che in molte, se non in tutte le lingue europee il termine “società” si riferisca in prima battuta proprio alle occasioni di socievolezza. La società rimane “società” in quel primo senso anche quando è tenuta insieme dagli apparati statali, dagli scopi economici, da ogni sorta di considerazioni pratiche finalizzate a obiettivi. Eppure oggigiorno, quando si parla di “società” senza precisare in che senso, ci si riferisce di norma alle occasioni di socievolezza, che manifestano in un’immagine per cosí dire astratta la forma distillata, mondata per definizione da qualunque contenuto specifico, di tutte quelle “società” declinate di volta in volta in modo specifico e unilaterale, risolvendo ogni loro contenuto in un puro gioco di forme.
Proprio per questo, dal punto di vista delle categorie sociologiche, la socievolezza si può definire come la forma ludica dell’associazione umana, una forma che – mutatis mutandis – si rapporta alla sua concretezza determinata da contenuti come l’opera d’arte si rapporta alla realtà. Nella socievolezza, tanto per cominciare, trova una soluzione (e una soluzione possibile solo in quell’ambito) uno dei piú spinosi tra i dilemmi sociali, forse il piú spinoso di tutti: stabilire quale grado di rilevanza e quale accentuazione specifica debbano competere all’individuo, inteso come tale e in quanto si contrappone alla sfera sociale. Dal momento che nelle sue forme pure non rimanda ad alcuna finalità pratica, cioè ad alcun contenuto, e non sottintende alcun esito diverso da quello stesso momento di condivisione, la socievolezza si trova a dipendere in tutto e per tutto dalle persone: non persegue altro obiettivo che l’appagamento procuratoci da quel momento di compagnia (che poi può avere anche una persistenza nel tempo). Per cui le condizioni di possibilità del fenomeno rimangono vincolate in modo esclusivo agli individui che fungono da sostrato, come del resto il beneficio che ci apporta; non per nulla a dare il tono di quello stare insieme senza altra ragion d’essere che la socievolezza sono sempre qualità schiettamente individuali come l’amabilità, l’educazione, la cordialità e i mille tratti gradevoli che ci rendono frequentabili. Eppure proprio per quel motivo, cioè proprio perché ogni cosa poggia sulle persone, l’espressione della personalità non può permettersi di acquisire accenti troppo individuali. Quando a determinare la forma sociale sono il convergere o il collidere di interessi reali quegli interessi bastano da soli a evitare che l’individuo manifesti in modi troppo incondizionati e arbitrari le proprie particolarità e gli aspetti che lo rendono unico. Dove quelle determinazioni non intervengono, invece, gli eccessi di individualità e le tendenze autocratiche della persona vanno attenuati facendo intervenire altre istanze – istanze derivate appunto dalla forma del puro stare insieme, che altrimenti non potrebbe mai realizzarsi. Per questo il senso del tatto è cosí importante in società: perché consente all’individuo di autoregolarsi nei suoi rapporti personali con altri esseri umani in tutti quei casi in cui la condotta non viene dettata da interessi esteriori o immediatamente egoistici. E forse la funzione specifica del tatto consiste proprio nell’impedire che i momenti di impulsività ed egocentrismo dell’individuo e le sue pretese di ordine interiore ed esteriore debordino oltre i confini dettati dal buon diritto altrui. Si delinea cosí una struttura sociologica dalle proprietà decisamente notevoli. La socievolezza tende a escludere i significati oggettivi che accompagnano la persona, tutti quegli aspetti che rimandano a un centro di gravità situato all’esterno di quella specifica cerchia temporanea: la socievolezza non vuole sapere nulla di ricchezze e prestigio, erudizione e fama, capacità eccezionali e meriti particolari dell’individuo, che intervengono tutt’al piú come una modulazione di quel carattere di immaterialità che la realtà reale deve assumere – perché altrimenti non sarebbe mai ammessa – quando viene inglobata nel perimetro dell’opera d’arte sociale che chiamiamo socievolezza. E come decadono quegli aspetti oggettivi nei quali pure l’individuo concreto è immerso, anche gli aspetti puramente personali vanno espunti nella misura in cui la persona entra in gioco come vettore della socievolezza, perché neppure gli aspetti piú privati dell’esistenza – il carattere, l’umore, il destino individuale – hanno diritto di cittadinanza in quello spazio. Portare con sé nella sfera della socievolezza umori e malumori strettamente personali, moti di impazienza e scoramenti, insomma le luci e ombre della vita piú intima, è un faux pas che denota una certa mancanza di tatto. Intonare l’incontro a valori cosí individuali quando ci si ritrova per il puro piacere di ritrovarsi – il che non vale soltanto per le occasioni mondane piú esteriori e di pura convenzione – vuol dire togliere a quel momento il suo specifico carattere di socievolezza per farne una riunione incentrata su uno specifico contenuto, come i pranzi di affari o le funzioni religiose, dove la compresenza di piú individui in un luogo, gli scambi e la conversazione sono soltanto il supporto di finalità che si situano altrove, mentre nel caso della socievolezza quelle forme sono già di per sé il tutto, cioè la ragion d’essere e l’intero contenuto dell’evento sociologico. Questa messa fuori circuito dell’elemento personale si esprime a ogni livello, perfino nei dettagli piú esteriori: sarebbe sconveniente, per esempio, se una signora si presentasse a una seratina di piacere tra intimi senza altro scopo che la compagnia di amici personali, magari alla presenza di uno o piú uomini, con la toilette dalla scollatura vertiginosa che pure non esiterebbe a sfoggiare in un’occasione di gala. In questo caso la donna non si sente coinvolta allo stesso titolo come persona e può quindi rinunciare alla propria individualità, un po’ come quando ci si avvale della libertà impersonale garantita da una maschera, perché l’invitata si presenta come se stessa, certo, però non come la totalità della propria persona, ma solo come elemento di una riunione sociale governata da forme.
Il tutto dell’essere umano è un complesso ancora informe di contenuti, forze e possibilità che solo le motivazioni e i nessi di un’esistenza eternamente mutevole modellano e rimodellano fino a farne una struttura differenziata, delimitata da confini. Come soggetto economico, uomo politico, membro di una famiglia ed esponente di una professione l’individuo è di volta in volta il prodotto di un’elaborazione ad hoc; il materiale di cui è fatta la sua vita viene intonato secondo i casi a una certa idea specifica e rifuso in una certa forma particolare la cui vita relativamente autonoma attinge tuttavia alla grande sorgente comune, immediata nei suoi effetti eppure eternamente senza nome, dalla quale scaturiscono le forze dell’Io. In questo senso, però, anche nei panni dell’individuo socievole l’essere umano si presenta come una configurazione sui generis che non ricorre in nessun altro ambito. Spogliatosi di tutte le valenze oggettive che ineriscono alla sua persona, il soggetto porta con sé nella forma della socievolezza soltanto capacità, attrattive e interessi di ordine puramente umano, mentre sul fronte opposto quella configurazione espunge anche tutti gli aspetti eminentemente soggettivi e puramente accidentali della personalità. Quella discrezione nei confronti degli altri che è il primo comandamento della socievolezza vale anche per il proprio Io, perché in entrambi i casi venire meno a quel precetto farebbe degenerare la forma artistica del sociale in mero naturalismo sociologico. Si potrebbe quindi parlare per gli individui di una soglia di socievolezza che opera un duplice filtraggio, verso l’alto e verso il basso. Perché nel momento in cui il puro piacere della compagnia cede il passo a un contenuto oggettivo o a uno scopo ulteriore, oppure, all’inverso, nel momento in cui gli aspetti squisitamente personali e soggettivi del singolo si manifestano senza considerazione per gli altri, la socievolezza smette di essere il fulcro e la forma immanente dello stare insieme, ma si riduce tutt’al piú a un principio formalistico che opera solo dall’esterno.
Accanto a questa determinazione puramente negativa dell’istituto della socievolezza in quanto delimitato da confini e soglie, però, si può forse esplicitare anche un motivo formale dalla valenza positiva. Secondo il principio del diritto come lo ha formulato Kant, a ciascuno deve competere quella misura di libertà che risulta compatibile, ovvero può coesistere, con il quantum di libertà che spetta agli altri1. Nella misura in cui l’impulso alla socievolezza è fonte o forse addirittura sostanza del fenomeno che stiamo studiando, il principio che rende possibile la socievolezza si può riformulare cosí: a ciascuno è dato appagare quel bisogno nella misura che consente a tutti gli altri di fare altrettanto. Se invece, lasciando da parte l’idea dell’impulso, si ristruttura la formula in funzione degli effetti della socievolezza, il principio generale suona cosí: ciascuno è tenuto a garantire all’altro quel massimo di valori tipici della compagnia (gioia, distensione, vivacità) che può ancora risultare compatibile con un massimo di valori soggettivamente goduti. E come il fondamento indicato da Kant fa del diritto un principio per definizione democratico, il principio enunciato in queste righe mette in luce la struttura democratica della socievolezza in tutte le sue forme (forme che peraltro ciascuno strato della società può realizzare solo al proprio interno, tanto è vero che le occasioni conviviali tra esponenti di classi sociali molto distanti hanno spesso qualcosa di contraddittorio che mette tutti a disagio). Anche tra pari, però, la democrazia che governa la socievolezza è piú che altro un gioco, una messinscena. La socievolezza, per cosí dire, fabbrica un mondo sociologico ideale, perché nelle sue occasioni – come si ricava dai principî appena enunciati – il piacere goduto dal singolo risulta inseparabile dall’appagamento altrui. La possibilità che qualcuno possa sopperire ai propri bisogni a spese dei presenti, suscitando negli altri delle sensazioni di tipo opposto, è esclusa in partenza e per definizione (mentre in altre configurazioni della vita a sconsigliarlo sono bensí gli imperativi etici ai quali soggiacciono le circostanze, ma non la loro stessa logica intrinseca e il loro principio immanente). Eppure il mondo della socievolezza, il solo nel quale risulti possibile una democrazia senza attriti tra individui dotati di pari diritti e dignità, è appunto un mondo artificiale, popolato di esseri che non solo hanno rinunciato a ogni scopo oggettivo, ma si sono spogliati anche di tutti i risvolti personali che ineriscono alla vita in senso intensivo ed estensivo per dedicarsi a un’azione reciproca del tutto pura che nessun accento materiale viene a sbilanciare in un senso o nell’altro. Abbiamo insomma l’impressione di accedere alla socievolezza solo ed esclusivamente “in qualità di esseri umani”, come quella persona che siamo davvero quando ci sbarazziamo di tutti i gravami, delle necessità che ci strattonano ora in questo ora in quel senso, del troppo e del troppo poco che nella vita reale corrompono la purezza della nostra immagine, ma questo accade solo perché nella vita moderna siamo oberati di contenuti oggettivi e requisiti pratici. Per questo, accantonandoli in vista di un momento di pura compagnia, proviamo la sensazione di tornare a coincidere con il nostro essere naturale-personale, dimenticando che nella socievolezza quel nucleo personale non si manifesta in tutte le sue particolarità, nella sua pienezza naturalistica, ma solo filtrato da un certo riserbo e da una certa stilizzazione: e quella è la nostra persona sociale. In altre epoche, quando l’essere umano come tale non andava innanzitutto scorporato da una pletora di aspetti oggettivi e contenutistici, la legge formale si affermava in modo piú chiaro e limpido rispetto all’essere personale: per questo nella socievolezza dei nostri antenati il comportamento dell’individuo risultava molto piú cerimonioso, inamidato e rigidamente conforme a requisiti di validità sovraindividuale. Quella riduzione del perimetro personale del soggetto al quantum di importanza che rende ancora possibile un’azione reciproca tra l’individuo e altri singoli in condizioni di omogeneità può oscillare fino a rovesciarsi nell’estremo opposto. Uno dei comportamenti specifici della vita in società, per esempio, è la cortesia: chi è forte o piú importante si pone allora come uguale al piú debole, anzi, si comporta come se l’elemento privilegiato, quello superiore, fosse l’altro. Se è vero che l’associazione umana è per sua natura azione reciproca, il caso piú puro, per cosí dire piú stilizzato, si ha necessariamente tra uguali, un po’ come nell’arte la simmetria e l’equilibrio sono le forme di stilizzazione piú elementari tra quelle che si applicano agli elementi visibili. Proprio in quanto forma astratta dell’associazione umana, sulla falsariga dell’arte o del gioco, la socievolezza esige la forma di azione reciproca piú pura, trasparente e confortevole che esista, quella tra pari; per non tradire la sua idea fondamentale la socievolezza deve mettere in scena entità cosí svuotate di ogni contenuto oggettivo, cosí alterate in termini di significato estrinseco e intrinseco, da risultare tutte uguali ai fini della socievolezza, e da acquisire valore nei termini di quel gioco solo a condizione che tutte le altre entità con le quali si trovano a interagire acquisiscano un valore identico al proprio. La socievolezza è un gioco, un “facciamo che Lei era…”: siamo tutti uguali eppure mostriamo di provare per l’interlocutore una stima tutta particolare. Eppure non si tratta di menzogna, come non sono menzogna il gioco o l’arte, che pure si discostano in modo netto dalla realtà reale. La socievolezza diventa menzognera solo quando lo specifico modo di comportarsi e di parlare che la contraddistingue si intreccia agli intenti e agli accadimenti della realtà pratica, un po’ come il dipinto diventa menzogna quando cerca di spacciarsi per realtà, come accade nei panorami stereoscopici. Quelle maniere che appaiono del tutto corrette e giustificate nel gioco immanente della socievolezza, soggetto a leggi proprie, si trasformano in impostura non appena quel modo di porsi si riduce a mera parvenza, cioè obbedisce in realtà a scopi di tutt’altro tipo oppure serve a mascherarli: un rischio molto difficile da evitare quando si intrecciano le forme della socievolezza alle serie reali della vita.
Ecco perché nella socievolezza trovano sempre posto tutte quelle attività che in termini sociologici posseggono già una forma ludica, a partire dal gioco vero e proprio, che fin dall’alba dei tempi ha occupato un posto di riguardo nelle occasioni di ritrovo. Parliamo non a caso di “giochi di società” – società nel senso primario che ho richiamato sopra. Nel gioco tutte le forme di azione reciproca o socializzazione tra esseri umani che nella realtà, quando facciamo sul serio, si riempiono di contenuti orientati a un fine concreto – la volontà di sopraffare e lo scambio, la formazione di partiti e la cupidigia di beni altrui, le oscillazioni tra inimicizia e cooperazione, la vittoria per scaltrezza e la rivincita – prendono a vivere di vita propria, animate dal puro e semplice piacere della funzione. Perfino quando giochiamo a soldi l’aspetto specifico non è il denaro in palio, che si potrebbe procurare anche in altri modi: per il giocatore vero l’attrazione del gioco d’azzardo è tutta nella dinamica di quelle forme dalla specifica pregnanza sociologica e nel loro rapporto con il caso. Il gioco di società, ed è un’ambivalenza molto significativa, è tale in due sensi, perché da un lato si gioca “in” società, altrimenti non risulterebbe possibile, mentre dall’altro consiste nel giocare “alla” società. Nella sociologia dei due sessi, peraltro, anche l’erotismo ha sviluppato le sue forme ludiche: pensiamo al flirt, che nel quadro della socievolezza realizza la forma piú lieve e giocosa della civetteria, cioè la piú compiuta. La dinamica erotica tra i due sessi ruota intorno al concedere e al negare (che cosa di preciso non è detto, dipende da circostanze e sfumature infinitamente molteplici: solo in alcuni casi il termine assume l’accezione piú radicale o addirittura puramente fisiologica). L’essenza della civetteria femminile consiste però nel far coesistere in tensione reciproca un concedere e un negare puramente allusivi, nell’attirare l’uomo senza venire al dunque di una decisione e nel respingerlo senza indurlo a disperare. La donna che flirta amplifica a dismisura il proprio charme mostrandosi sul punto di cedere, ma senza mai fare sul serio, oscillando all’infinito tra il «Sí» e il «No» senza optare per un’alternativa. Cosí facendo enuclea quasi per gioco la nuda forma delle decisioni erotiche, realizza la loro forma pura, facendo convivere in un atteggiamento solo due alternative che per necessità si escludono a vicenda, perché il contenuto sul quale occorrerebbe decidere, quello appunto decisivo, nella misura in cui costringe a propendere per l’uno o per l’altro dei due poli antagonisti, esula per definizione dalla forma della civetteria. E proprio questo sgravio dalla pesantezza dei contenuti univoci e delle realtà permanenti conferisce al flirt un aspetto di sospensione, distanza e idealità che ci fa parlare non a torto di un’“arte” della civetteria, oltre che delle “arti” di una civetta. E tuttavia l’esperienza insegna che anche l’uomo deve adottare un comportamento del tutto specifico, se questa curiosa pianta di serra nata sul terreno della socievolezza deve poter germogliare. Fintantoché l’uomo si nega ai piaceri di quel gioco oppure, al contrario, si consegna senza alcuna resistenza alla sua malia, lasciandosi sballottare come un essere senza volontà tra il mezzo «Sí» e il mezzo «No», il flirt non riesce a sviluppare appieno una forma compatibile con la socievolezza. Viene cioè a mancare quella precondizione di libera azione reciproca ed equivalenza tra gli elementi che costituisce la sua legge suprema. La socievolezza si realizza solo a partire dal momento in cui l’uomo non pretende di spingersi oltre quello stesso gioco sospeso, che si limita a simboleggiare molto alla lontana un “dunque” erotico non meglio precisato, per cui il piacere di quelle allusioni e di quei preliminari non dipende piú dal desiderio o dalla paura di quell’esito. Per come dispiega le sue attrattive agli stadi superiori della cultura della socievolezza, il flirt ha ormai volto le spalle alla realtà del desiderio erotico, dove il concedere e il negare sono fatti concreti, e si accontenta di alternare come in uno spettacolo di ombre cinesi la mera parvenza di quelle realtà che tanto prendiamo sul serio. Non appena quelle realtà entrano in gioco davvero, o anche solo traspaiono in filigrana, l’intera situazione si trasforma in una questione privata tra due persone, e quindi si sposta sul piano delle cose concrete; finché si manifesta sotto l’egida sociologica della socievolezza, la civetteria consiste invece in quel gioco di garbate provocazioni e ironie grazie al quale l’erotismo scorpora per cosí dire gli schemi puri delle sue azioni reciproche da ogni contenuto tangibile o anche solo individuale (e allora la centralità delle persone, quella vera, che vincola la totalità della vita, non interviene mai per definizione). Come la socievolezza mette in scena per gioco le forme della società, la civetteria fa altrettanto con le forme della vita erotica: un’affinità elettiva che eleva il flirt a elemento addirittura predestinato delle occasioni di pura compagnia.
L’esempio perfetto del modo in cui la socievolezza porta all’astrazione piú pura quelle forme di reciprocità la cui pregnanza sociologica dipende in altri contesti dal loro contenuto, facendole girare a vuoto, per cosí dire riducendole a ombre immateriali, è anche il principale vettore della vita di compagnia dell’essere umano: la conversazione. L’essenziale, in questo campo, coincide con un’esperienza del tutto banale: nella vita, quando fanno sul serio, gli esseri umani discorrono di cose sostanziali, cioè ne va sempre di un contenuto che si tratta di comunicare o concordare, mentre nella socievolezza si parla per il puro gusto di parlare, senza fini ulteriori; nella conversazione di pura compagnia l’argomento permane tutt’al piú come un indispensabile supporto dei piaceri che lo scambio vivente di pareri sprigiona. La disputa e il richiamo a norme condivise, la pace ricercata per via di compromesso o facendo emergere convinzioni comuni, la novità accolta con gratitudine e il prudente svicolare dal tema sul quale non può darsi un accordo: tutte le forme nelle quali si realizza la conversazione, cioè tutte quelle forme di azione reciproca tipiche dell’interazione orale che di solito mettiamo al servizio dei contenuti e dei fini senza numero intorno ai quali ruotano gli scambi sociali, valgono qui per sé: cioè conta solo il piacere del gioco di rapporti che quelle forme instaurano tra gli individui legando e sciogliendo, persuadendo e concedendo, regalando e prendendo. Quando “ci intratteniamo” con una persona il doppio senso dell’espressione si fa pregnante. Il contenuto, però, non deve possedere alcun peso specifico, altrimenti il gioco non si accontenterebbe piú delle pure forme: e non appena la conversazione assume un accento pratico-oggettivo esula anche dalla sfera della socievolezza; non appena la ricerca comune di una verità capace di fungere da contenuto diventa fine della conversazione, la sua lancetta teleologica cambia quadrante. E cosí va perduto proprio il carattere di socievolezza, cioè la gratuità dell’intrattenersi, come accade quando la conversazione degenera in una discussione seria. La forma della ricerca comune dell’alternativa corretta, la forma della disputa, sono in sé adeguate, ma la sostanza non può mai consistere degli aspetti seri del contenuto di volta in volta in gioco. Sarebbe come pretendere di introdurre un pezzo di realtà tridimensionale in un dipinto che dà solo l’illusione prospettica della profondità. Il che non vuol dire che il contenuto della conversazione sia per forza di cose indifferente: anzi, occorre che sia interessante, avvincente, addirittura significativo – ma in nessun caso può rappresentare di per sé lo scopo della conversazione, come la conversazione non può orientarsi a un risultato oggettivo che idealmente, per cosí dire, verrebbe a situarsi oltre il perimetro della conversazione stessa. Dati due scambi che dall’esterno appaiono identici, consente di parlare in senso proprio di socievolezza solo quell’intrattenersi a proposito di un tema nel quale ogni valore e ogni attrattiva derivano la propria ragion d’essere, il proprio luogo e il proprio fine dal gioco funzionale della conversazione stessa, cioè dalla forma dello scambio a voce e dal suo significato specifico, governato da leggi immanenti. Anche per questo il diritto di cambiare bruscamente discorso senza penalità e senza preavviso è una delle prerogative strutturali della conversazione di compagnia: perché l’oggetto è solo uno strumento e quindi, come ogni mezzo, a differenza dei fini, si può sempre rimpiazzare con un altro e non è mai necessario per sé. Per cui la conversazione è forse l’unica circostanza in cui l’esercizio della parola può costituire a buon diritto, come abbiamo già osservato, un fine autonomo. Anzi, proprio in quanto si dà tra due persone la conversazione è di tutti i fenomeni sociologici – forse con la sola eccezione del “guardarsi negli occhi” – la forma piú pura e sublimata della bilateralità, per cui è la realizzazione piú perfetta di una relazione che non ambisce a essere altro, cioè un rapporto nel quale la forma vuota dell’azione reciproca, che di solito non basta a se stessa, diventa come tale un contenuto autosufficiente. Si deduce da tutto questo che non di rado anche la narrazione di storielle, barzellette e aneddoti, che tendiamo a sentire come un mero riempitivo e una dimostrazione di pochezza culturale, può dare prova di un tatto delicato nel quale si compendiano tutti i motivi della socievolezza. Perché innanzitutto crea una piattaforma che aiuta a mantenere la conversazione alla larga da ogni intimità individuale, da ogni contenuto puramente personale, tutte dimensioni che mal si conciliano con le categorie della socievolezza. Quell’aspetto oggettivo, però, non viene portato in campo nel nome del proprio contenuto, ma solo ed esclusivamente nell’interesse della socievolezza come tale; nulla viene proferito e ascoltato per sé, come un fine autonomo, ma è solo un mezzo in vista della vivacità, della comprensione reciproca, del senso di coappartenenza della compagnia. E questo non solo prescrive un contenuto del quale tutti senza distinzione possono partecipare, ma si tratta del dono di un singolo alla collettività, e un dono dietro al quale il donatore, per cosí dire, scompare: l’aneddoto narrato per l’intrattenimento dei presenti è tanto piú efficace quanto piú la persona del narratore si mimetizza dietro la storia, e gli esempi perfetti si mantengono in equilibrio sul discrimine di quella che potremmo chiamare un’etica della socievolezza, perché l’aspetto individuale, soggettivo, e l’aspetto contenutistico, oggettivo, si risolvono entrambi senza residui nel servizio reso alla forma pura della socievolezza.
Dal che si ricava che la socievolezza è anche la forma ludica delle forze etiche che agiscono nella società concreta. La socievolezza traspone i grandi problemi che quelle forze si trovano a gestire nel gioco simbolico del suo reame di ombre cinesi, uno spazio che non conosce attriti, perché le ombre, appunto, non possono mai collidere; e con tutta la serietà, anzi, spesso la tragicità di quelle istanze: il fatto che il singolo debba inquadrarsi nella globalità di un complesso sociale per il quale è tenuto a vivere, ma che a sua volta lo ripaga con valori e distinzioni, o il fatto che la vita dell’individuo sia un veicolo per la vita del tutto, ma che la vita del tutto, a sua volta, sia anche un veicolo per gli scopi dell’individuo. Se poi è vero che il compito etico dell’associazione umana consiste nell’esprimere per mezzo del ritrovarsi e dell’allontanarsi i rapporti mediati dal tutto della vita che vigono tra gli elementi, cioè di darne un’espressione esatta e conforme, nel quadro della socievolezza quella libertà e quella commisurazione si sciolgono da ogni condizionamento legato alla concretezza e alla profondità dei contenuti. Nelle “occasioni sociali” i gruppi si formano e disfanno, la conversazione a quattr’occhi nasce senza secondi fini dagli impulsi e dalle circostanze del momento, facendosi ora profonda, ora leggera, per poi interrompersi come era iniziata: un prototipo in miniatura dell’ideale sociale che potremmo chiamare libertà del vincolo. Ma se il convergere e il divergere degli individui devono corrispondere in modo rigoroso e puntuale sul piano del fenomeno alle realtà interiori di ciascuno, nella socievolezza quelle realtà vengono meno e rimane la sola manifestazione, il cui gioco obbedisce a leggi proprie e la cui grazia in sé conchiusa non fa che rappresentare sul piano estetico quella commisurazione tra interno ed esterno che la realtà reale, cioè la vita nei suoi aspetti piú seri, esige da noi sul piano etico.
Questa lettura complessiva del fenomeno della socievolezza trova una conferma tangibile in certi sviluppi storici. Nell’alto medioevo tedesco erano attive certe confraternite cavalleresche formate da famiglie patrizie legate da vincoli di amicizia. Sembra però che la valenza religiosa e pratica di quelle strutture sia andata perduta molto presto, tanto che già nel XIV secolo gli interessi e i modi specificamente cavallereschi erano ormai l’unica specificità contenutistica residua. Di lí a poco decade anche quell’aspetto e la comunione tra gruppi aristocratici si risolve in pura socievolezza. In questo caso la socievolezza si sviluppa come residuo di una vita sociale determinata da aspetti contenutistici: come quel residuo che, smarrito il contenuto originario, può continuare a vivere solo di forma, delle forme dell’essere con e per gli altri. Quelle forme possono continuare a esplicarsi anche in assenza di un contenuto solo assumendo la natura del gioco o, per andare ancora piú a fondo, quella dell’arte: lo si vede con chiarezza ancora maggiore studiando la società di corte dell’Ancien Régime. In questo caso il venir meno dei contenuti vitali concreti della nobiltà francese, che la monarchia centralizzata aveva per cosí dire risucchiato, lascia delle forme vuote sospese a mezz’aria, quelle forme nelle quali si era cristallizzata la coscienza aristocratica: e le loro forze, le loro specificità, i loro rapporti reciproci non erano piú simboli o funzioni dei significati e delle intensità reali di persone e istituzioni, ma agivano sul piano astratto della pura socievolezza. L’etichetta di corte non etichettava piú nulla: era diventata un fine a sé stante, aveva dato luogo a leggi immanenti paragonabili a quelle dell’arte, che come tali vigono solo dal punto di vista dell’arte, e il cui fine non è mai copiare nel modo piú fedele e preciso possibile la realtà dei modelli, ovvero le cose che esistono fuori dal perimetro dell’arte.
Nel fenomeno dell’etichetta di corte la socievolezza trova la sua espressione piú sovrana, ma al tempo stesso anche la sua caricatura. Perché un aspetto della sua essenza consiste senza dubbio nel fatto di staccare per contrasto dai rapporti reali tra persone che agiscono nella realtà per edificare il suo reame impalpabile con quelle stesse relazioni, mosse da un dinamismo intrinseco ma ora svincolate da qualunque scopo estrinseco. Eppure la scaturigine sotterranea dalla quale sgorga il suddetto dinamismo non va ricercata in quelle pure forme autonormative, ma negli aspetti vitali concreti degli individui reali, nelle loro sensazioni e attrazioni, nella pienezza dei loro impulsi e delle loro convinzioni. La socievolezza è sempre e solo un simbolo della vita, un simbolo che si profila nel fluire di un gioco che gratifica proprio in quanto leggero, ma al tempo stesso rimane pur sempre un simbolo della vita, la cui immagine viene modificata solo per quel tanto che rende possibile la necessaria distanza. Non diversamente da come perfino l’arte piú libera e stravagante, quella piú lontana dall’imitazione servile della realtà, se non vuole apparirci vuota e mendace, si nutre pur sempre di un rapporto profondo e fedele con quella realtà stessa. Quando la socievolezza leva gli ormeggi e rescinde ogni legame con la realtà della vita per intessere con quei fili una tela del tutto diversa, stilizzata secondo altri principî, l’uomo smette di giocare con le forme pure e inizia a baloccarsi, riducendole a uno schematismo esangue e fiero della propria vuotezza anemica.
Se ne ricava che abbiamo al tempo stesso ragione e torto quando lamentiamo il carattere di superficialità degli scambi sociali. Quando alcuni degli elementi che compongono la totalità complessiva dell’essere formano un ambito a parte che obbedisce a regole proprie, senza piú sottostare a quelle che governano il tutto, quell’ambito, reciso il cordone ombelicale che lo raccordava alla vita del tutto, rischia di trasformarsi per essenza in qualcosa di vacuo e sospeso nel nulla anche quando magari è in se stesso perfettamente compiuto: e tra i fatti dell’esistenza spirituale questo è uno dei piú gravidi di conseguenze. Eppure – ma qui la differenza riguarda aspetti cosí sottili da essere addirittura imponderabili – proprio quella distanza da ogni realtà immediata acquista in certi casi il potere di manifestare l’essenza profonda di quella realtà in modo piú completo, unitario e pregnante di qualunque tentativo di catturare un elemento realistico riducendo al massimo le distanze. A seconda che l’impressione agisca in questo o quel senso, la vita autonoma e autarchica che gli aspetti superficiali dell’azione reciproca sociale acquistano nella socievolezza ci appare come qualcosa di morto e anemico, puramente formulare e privo di significato proprio, oppure come un gioco simbolico nel cui fascino estetico si compendiano in forma sublimata tutte le dinamiche piú squisite dell’esistenza sociale come tale, con le sue ricchezze. Anche in tutte le manifestazioni dell’arte, in tutte le simbologie della vita religiosa e cultuale e, in buona parte, perfino nei sistemi di formulazioni delle scienze, ci troviamo a dipendere da questo atto di fede, dalla sensazione che la legalità autonoma di meri aspetti parziali della manifestazione fenomenica della realtà, cioè la combinazione di aspetti prelevati dalla superficie di ciò che esiste, possa nonostante tutto entrare in risonanza con la profondità e la globalità del reale nella sua pienezza complessiva, che come tale non risulta formulabile, ma può pur sempre delegare a quelle configurazioni il compito di manifestare l’esistenza immediata reale e fondamentale, facendone dei vettori o dei luogotenenti. Ecco spiegato anche l’effetto liberatorio e appagante di molti di questi regni autarchici che fabbrichiamo con le mere forme dell’esistenza: in quelle sfere ci sentiamo sgravati dal peso della vita, ma senza rinunciare alla vita. Un po’ come la vista del mare ha un effetto liberatorio sulla nostra interiorità non malgrado, ma proprio perché nell’impennarsi e nel defluire dei flutti, che si frangono per poi tornare a impennarsi nel gioco di forze e controforze del moto ondivago, ritroviamo espressa in forma stilizzata la nostra vita tutta intera, ridotta al suo denominatore piú semplice, mondata di ogni realtà esperibile, sgravata dal peso dei destini individuali, il cui senso ultimo ci sembra tuttavia pervadere quella mera immagine. Allo stesso modo l’arte ci manifesta il segreto della vita: dalla vita non ci si affranca rivolgendo lo sguardo altrove, ma configurando e imparando a conoscere nel gioco in apparenza autarchico delle sue forme pure il senso intrinseco e le forze immanenti che ineriscono alla sua realtà piú profonda, però lasciando fuori quella stessa realtà. Se la socievolezza fosse davvero solo una forma di evasione da questa vita, una sospensione meramente provvisoria dei suoi aspetti piú seri, non si spiegherebbe come mai molte persone dall’indole profonda, uomini e donne che sentono gravare in ogni istante la pressione della vita, ne ricavino un effetto liberatorio, un riscatto nella serenità. Spesso e volentieri la socievolezza si dà solo in questa forma negativa, come pura convenzione e mero scambio di formule senza vita, come spesso accadeva nell’Ancien Régime, quando il sordo timore di una realtà minacciosa induceva le persone al mero espediente del distogliere lo sguardo, recidendo ogni legame vivente con le forze della vita vera e propria. Ciò non toglie però che l’effetto di liberazione e sgravio che la socievolezza offre, tra tutte, proprio alle persone piú profonde è dato dalla capacità di godere nei termini di un gioco meramente artistico di una compagnia e di uno scambio di influssi reciproci nei quali si estrinsecano tutti i compiti e tutta la gravità della vita, ma sublimati e attenuati in una forma che cattura tutt’al piú una lontana eco delle forze che nella realtà ruotano intorno a contenuti – e la cui pesantezza, volatilizzandosi, si tramuta in fascino.
1. I. Kant, La metafisica dei costumi (1797), Laterza, Roma-Bari 1983, p. 35: «Qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale» [N.d.T.].