Psicologia dell’ornamento
Nel desiderio dell’essere umano di piacere al proprio entourage si intrecciano quelle tendenze e controtendenze senza il cui gioco di alterne vicissitudini non possono darsi neppure dei rapporti tra gli individui. Da un lato agisce un aspetto di bontà, c’è il desiderio di recare gioia al prossimo, ma insieme c’è anche l’auspicio che questa gioia e questo “far piacere” ad altri rifluiscano verso di noi sotto forma di riconoscimento e stima: che vengano riferiti alla nostra persona come suo valore intrinseco. E questo secondo bisogno può crescere fino a contraddire del tutto l’iniziale altruismo del voler piacere: proprio grazie a quell’approvazione altrui aspiriamo a distinguerci dal prossimo, ambiamo a suscitare un’attenzione che agli altri non tocca – fino a suscitare la loro invidia. Il gradimento altrui diventa cosí uno strumento al servizio della volontà di potenza. In situazioni del genere emerge la stupefacente contraddittorietà di alcuni spiriti: nella misura in cui fondano la propria autostima sul senso di inferiorità degli altri hanno un disperato bisogno di quelle stesse persone che pure aspirano a mettere in ombra con il loro essere e il loro fare. Il significato dell’ornamento poggia su specifiche configurazioni di questi motivi, nelle quali l’aspetto interiore e l’aspetto esteriore risultano inscindibilmente legati. Quel significato, non per nulla, consiste nel mettere in risalto la persona, nel farla spiccare come distinta a qualche titolo da tutti i presenti, ma non per mezzo di uno sfoggio immediato di potenza, cioè piegando dall’esterno il volere altrui, bensí in virtú del gradimento suscitato nella controparte, che in quanto piacere conserva un aspetto di libera elezione. Ci adorniamo per noi stessi, eppure sempre in vista degli altri. Un gesto la cui sola ragion d’essere consiste nel dare lustro e maggiore importanza al soggetto riesce cosí nell’intento solo grazie al bello spettacolo che imbandisce al prossimo, e solo in virtú di una sorta di gratitudine ricevuta in cambio: una combinazione sociologica a dir poco singolare. Anche nell’invidia per un ornamento altrui, in fondo, si esprime soprattutto il desiderio di godere a propria volta della stessa stima e di riscuotere la stessa ammirazione: e proprio l’invidia di chi è geloso mostra quanto ai suoi occhi quei valori siano inseparabili dall’ornamento. Il fatto che il giallo sia il simbolo dell’invidia dipende dal colore giallo dell’oro: l’oro è per definizione ciò che luccica e ci attira, e la cui vista ci procura piacere – ma un piacere in qualche modo oggettivo che sul piano del soggetto si traduce all’istante in sete di possesso e gelosia. Non c’è nulla di piú egoista dell’ornamento, perché serve a mettere in speciale risalto chi lo indossa, veicolando e potenziando la sua autostima a spese dei presenti (perché un accessorio, se fosse per tutti, smetterebbe di costituire un ornamento); eppure non c’è nulla di piú disinteressato, perché l’ornamento serve a compiacere l’occhio altrui (mentre chi lo indossa può goderne solo davanti allo specchio) e acquista il suo valore solo grazie a un effetto di ritorno di quel dono. Come nella configurazione estetica emerge sempre l’intima parentela di orientamenti esistenziali che nella realtà della vita si limitano a coabitare, quando addirittura non risultano reciprocamente ostili, nelle azioni reciproche di ordine sociologico – il campo di battaglia nel quale l’essere-per-sé dell’uomo si contrappone in eterno al suo essere-per-gli-altri – l’ornamento in quanto oggetto estetico designa un punto di convergenza nel quale ciascuno di quei due orientamenti, con necessaria reciprocità, trova nell’altro un fine e un mezzo.
L’ornamento amplifica o potenzia l’impressione della persona, agendo quasi come un’irradiazione. Per questo i metalli luccicanti e le pietre preziose sono da sempre la materia prediletta, “ornamento” in un senso piú eminente che non gli abiti o l’acconciatura, che pure “adornano” a loro volta la persona. Si potrebbe parlare di un alone radioattivo, nel senso che intorno a ciascun individuo, su un diametro piú o meno grande, si sviluppa una sfera di significato che procede dalla persona stessa, e nella quale penetra chiunque si trovi a che fare con noi: un’emanazione costituita da un intreccio indissolubile di elementi fisici e mentali. Negli influssi di ordine sensibile che una persona irradia nell’ambiente viaggia una sorta di corrente elettrica spirituale; e quegli influssi agiscono come un simbolo di quella corrente anche quando non sono propriamente che dettagli del tutto esteriori e non veicolano alcuna reale forza di suggestione o significato inerente alla persona. Il fulgore dell’ornamento, cioè il grado di attenzione sensibile che quell’accessorio riesce a stimolare, potenzia o ingigantisce a tal punto la sfera individuale che una persona, quanto piú si presenta adorna, tanto piú è. Peraltro l’ornamento è spesso un oggetto di forte valore, e come tale rappresenta una sintesi dell’avere e dell’essere di un individuo: grazie all’ornamento il nudo possesso di ricchezze materiali si trasforma in un carattere sensibile della persona, in una proprietà che le inerisce e che difficilmente ci è dato ignorare (anche se in epoca moderna la banalizzazione dell’ornamento ha eroso questo aspetto fino a ridurlo a poca cosa, tanto che oggi lo si avverte soprattutto nei gioielli dei principi e dei milionari). Gli abiti comuni non hanno questo potere, perché non si impongono alla mente altrui come un motivo di distinzione personale, né sul versante dell’avere né su quello dell’essere: l’avere di una persona si trasforma in qualità visibile del suo essere soltanto con l’abito di gala, soprattutto quando entra in gioco l’ornamento, che per cosí dire concentra in un punto inesteso tutto il valore e tutta la forza di irradiazione dell’individuo. E questo non accade malgrado il carattere “superfluo” dell’ornamento, ma proprio in virtú di quell’aspetto gratuito. I beni di immediata necessità aderiscono piú strettamente all’uomo, disegnano intorno al suo essere un perimetro piú angusto. Il superfluo, invece, fluit super, cioè “deborda” oltre quel limite per comunicarsi a distanze maggiori dalla sorgente, e nella misura in cui rimane vincolato al suo centro di irradiazione disegna intorno al perimetro della mera necessità una sfera piú grande, dall’estensione teoricamente illimitata. Il superfluo, ciò che per definizione tracima, non porta in sé alcuna misura precisa. Se la libertà e la sovranità del nostro essere aumentano in funzione del carattere superfluo di ciò che l’avere annette alla nostra sfera personale, questo accade perché il superfluo non è delimitato da alcuna legge specifica, mentre il necessario soggiace per definizione a una struttura già data.
Questa capacità dell’ornamento di irradiare l’essere umano nello spazio circostante, di attestare che la persona non si arresta ai confini geometrici del suo corpo, fa del diamante l’ornamento assoluto, il piú funzionale allo scopo, perché il diamante, a differenza dello zaffiro e dello smeraldo, fatti di una sostanza che attira l’attenzione su di sé con le sue tinte gradevoli, si presenta esso stesso come un che di incorporeo, capace di agire solo per mezzo dei bagliori che sprigiona. Per questo il valore dei diamanti aumenta con la loro trasparenza e la loro purezza. Proprio perché non fa dipendere da alcun sostrato degno di interesse quell’irradiazione nella quale consiste l’essenza dell’ornamento, il diamante sembra fare tutt’uno con la persona, prestandole nel modo piú incurante di sé, cioè piú “disinteressato”, il fulgore che sa sprigionare. La valenza sociale dell’ornamento si lega al bagliore della pietra preziosa perché i suoi raggi sollecitano l’altro come il lampo dello sguardo che cerca il contatto oculare, e quindi significano un essere-per-l’altro che riverbera poi sul soggetto come ampliamento della sua sfera di importanza.
Quella messa in risalto della personalità, però, si realizza proprio grazie a un tratto impersonale. Tutti gli abbellimenti che “adornano” l’essere umano si possono ordinare su una scala graduata in funzione del loro nesso piú o meno intimo con l’individuo fisico. L’ornamento piú aderente, per forza di cose, è quello tipico delle popolazioni primitive: il tatuaggio. All’estremo opposto ritroviamo il monile in metallo e pietre preziose, che ha un carattere del tutto non-individuale, tanto che chiunque può indossarlo. A metà strada c’è l’abbigliamento, che senza essere del tutto personale e inalienabile come il tatuaggio non risulta neppure cosí impersonale e trasferibile come il monile, l’“ornamento” propriamente detto. La cui eleganza, però, va precisato, risiede proprio in quel carattere del tutto impersonale. Il fascino piú raffinato del monile dipende proprio dal carattere autoreferenziale della pietra e del metallo, che non rimanda ad alcuna individualità e oppone resistenza a qualunque modifica, ma che pure viene costretto a servire la persona. Le cose veramente eleganti non mettono mai in risalto la specificità dell’individuo, ma fanno sempre aleggiare intorno all’essere umano una sfera di generalità, di stilizzazione, per cosí dire di astrazione – il che ovviamente non impedisce di ancorare l’elemento generico alla persona nei modi piú squisiti e sottili. Gli abiti nuovi hanno un aspetto cosí elegante perché appaiono piú “inamidati”, cioè non si sono ancora conformati a tutte le particolarità del corpo individuale con l’aderenza passiva degli abiti portati a lungo, che si sono già lasciati andare e ristretti qua e là per conformarsi ai movimenti specifici di chi li indossa, e quindi ne rivelano in modo piú esplicito le caratteristiche peculiari. L’ornamento in metallo conduce all’espressione suprema la “novità” degli abiti nuovi, cioè quell’indifferenza alle modifiche che sposano i contorni dell’individuo: il metallo è sempre nuovo, sovrasta nella sua gelida illibatezza la singolarità e il destino di chi lo indossa, a differenza di qualunque vestito. Un capo di abbigliamento, quando viene portato a lungo, tende a fare tutt’uno con il corpo, fino ad assumere un carattere intimo che stride fatalmente con l’essenza di ogni eleganza, perché l’eleganza è sempre un “essere-per-gli altri”, cioè in vista di altri: è un concetto sociale che desume il suo valore dal fatto di essere universalmente riconoscibile.
Se deve annettere all’individuo un elemento sovraindividuale capace di irradiare verso chiunque e da chiunque venire colto e ammirato, l’ornamento non può limitarsi ad agire in virtú delle sole proprietà materiali: deve avere stile. Lo stile è sempre un elemento generale che riconduce i contenuti della vita e dell’agire di una persona singola a una forma condivisa con molti e accessibile a molti. Nell’opera d’arte vera e propria lo stile ci interessa tanto meno quanto piú uniche sono la personalità e la vita soggettiva che in essa trovano espressione. Quegli elementi parlano al nucleo intimamente individuale di chi si trova al suo cospetto, cancellando tutto il resto e lasciandolo per cosí dire solo al mondo, a tu per tu con l’opera. Mentre nel campo delle arti applicate, che in quanto funzionali si rivolgono a una pluralità di individui, ricerchiamo una configurazione generica, tipica: l’oggetto d’uso non ha il compito di esprimere un’anima individuale nella sua singolarità, ma una disposizione di spirito e un’intonazione interiore di respiro piú ampio, quella di un’epoca o di una società, perché soltanto cosí l’arte applicata può inquadrarsi nei sistemi biografici di una grande pluralità di individui. L’opera d’arte esiste per sé, l’oggetto esiste per noi: l’una acquisisce il suo significato concentrandosi all’estremo intorno a un centro del tutto singolare, l’altro allargandosi fino a risultare accessibile a tutti e da tutti riconoscibile come ausilio pratico. Sarebbe un errore madornale credere che l’ornamento debba essere anche un’opera d’arte individuale solo perché è sempre destinato ad adornare un individuo. Al contrario: proprio perché serve a un individuo non può acquisire a propria volta una natura singolare, un po’ come il mobile sul quale ci sediamo o le posate che usiamo per mangiare non possono essere opere d’arte individuali. Tutto ciò che trova posto nell’ambito esistenziale che circonda l’essere umano – all’opposto dell’opera d’arte, che non può mai venire inglobata da una vita altrui, ma costituisce un mondo autosufficiente – deve organizzarsi piuttosto come un sistema di sfere concentriche sempre piú ampie che avvolgono l’individuo, rimandando all’individuo o emanando da quello. L’essenza della stilizzazione è in questo stemperarsi dell’enfasi sull’individuale, in questa generalizzazione che trascende la singola natura personale, che pure fonda l’individuale come sua base o centro di irradiazione, oppure lo riassorbe nel flusso di un grande fiume che scorre. Questo principio, afferrato per istinto, ha indotto da sempre l’essere umano a dotare l’ornamento di tratti piuttosto rigorosi e stilizzati. Se ora ai magnifici gioielli di un Lalique volessimo rimproverare che non sono fatti per venire portati davvero, occorrerebbe obiettare innanzitutto che sono ciascuno per sé dei prodotti artistici individuali, e come tali non si possono piú abbinare a un individuo per formare un sistema o un’unità. Quell’unità, infatti, potrebbe scaturire solo da una congiunzione organica di elementi personali e generali, di centro e periferia, mentre un gioiello di Lalique, proprio in virtú del suo carattere singolare, è l’esatto opposto di un oggetto stilizzato. Nella misura in cui l’anima dell’artista si è investita in quei monili con tutti i suoi moti impulsivi e le sue bizzarrie, i suoi entusiasmi e i suoi segreti inconfessabili, creazioni del genere non si prestano ad abbellire un altro, ma ingaggiano una rivalità indebita con l’individualità della persona, sovvertendo il delicato equilibrio tra l’appartenere e il non appartenere al soggetto sul quale si fonda l’essenza psicologica dell’ornamento.
Lasciando da parte la stilizzazione formale dell’ornamento, lo strumento materiale della sua finalità sociale è dato proprio da quello splendore che fa apparire chi lo indossa come il centro di una sfera di luce che riassorbe chiunque si trovi nelle vicinanze, qualunque sguardo. I raggi della sua sezione circolare misurano la distanza che il gioiello introduce tra gli esseri umani (io posseggo qualcosa che tu non possiedi), ma al tempo stesso invitano l’altro a partecipare di quel fulgore, anzi, gli fanno l’occhiolino, brillano per lui, esistono per lui soltanto. In virtú della materia di cui è fatto, l’ornamento istituisce con un unico gesto distanza e complicità. Per questo è un ausilio cosí prezioso della vanità, che ha sempre bisogno degli altri per poterli disprezzare. Qui corre l’essenziale differenza tra la vanità e la superbia, perché l’amore di sé del superbo riposa interamente su se stesso, e quindi tende a disdegnare l’“ornamento” in ogni sua forma. L’importanza del materiale “autentico” agisce nello stesso senso. Il fascino dell’“autentico”, in qualunque contesto, consiste in un surplus che non si lascia ridurre alla sua manifestazione immediata, che è la stessa del falso. L’autentico non è qualcosa di isolato, ma affonda radici in un terreno al di là della mera apparenza, mentre la copia non ha nulla da offrire se non quello che ci mostra di primo acchito. Allo stesso modo chiamiamo “autentica” la persona della quale ci possiamo fidare ciecamente. In questa piú-che-apparenza risiede il valore dell’ornamento: perché il valore non si manifesta nel fenomeno, come accade per i buoni falsi, ma è un elemento ulteriore che viene ad aggiungersi al fenomeno. Quel valore può sempre venire realizzato e viene sempre riconosciuto da tutti, per cui possiede un carattere relativamente atemporale, e tutto questo inquadra l’ornamento autentico in un contesto di valore che trascende la mera contingenza e il singolo individuo. Mentre il gioiello in similoro e la bigiotteria si riducono al servizio reso lí per lí a chi li indossa, il valore del gioiello autentico va oltre quel servizio, perché affonda radici in un concetto del valore condiviso da un intero consorzio sociale, e si ramifica in esso. Lo charme e il risalto che l’ornamento conferisce a chi lo indossa, insomma, traggono nutrimento da questo terreno sovraindividuale; l’autenticità trasforma il suo valore estetico, che in questo caso è sempre anche un valore “per-gli-altri”, nel simbolo di un apprezzamento generale, oltre che dell’appartenenza a un sistema sociale del valore.
Un’ordinanza promulgata nel medioevo francese proibiva di portare ornamenti in oro a tutte le persone al di sotto di un certo rango. Ecco emergere nella sua forma piú limpida quella combinazione sulla quale si fonda l’intera essenza dell’ornamento: grazie all’ornamento l’esaltazione sociologica e l’esaltazione estetica della persona convergono in un unico punto focale, e l’essere-per-sé diventa causa ed effetto dell’essere-per-altri (e viceversa). Perché nel caso di quella legge suntuaria la glorificazione estetica della persona in quanto diritto di sedurre e di piacere trova un limite nei confini della sfera di prestigio sociale del singolo; e proprio per questo al fascino che l’uso dell’ornamento conferisce alla manifestazione squisitamente individuale della persona viene ad assommarsi un fascino di tipo sociologico, quello del privilegio di apparire come un esponente del proprio gruppo, e quindi “adorno” di tutto il suo prestigio. È come se quegli stessi raggi che, emanando dall’individuo, ampliano la sua sfera di proiezione, tornassero al mittente e facessero riverberare sull’individuo stesso l’importanza del suo rango sociale, simboleggiato da quell’ornamento, che sembra agire allora come un dispositivo capace di convertire la forza o la dignità di ordine sociale in visibile risalto personale.
La duplice tendenza centripeta e centrifuga dell’ornamento sembra convergere da ultimo in un’altra configurazione peculiare: leggiamo infatti che presso le popolazioni primitive, quantomeno in un primo tempo, ma spesso ancora in assoluto, il diritto delle donne alla proprietà privata (che in genere sorge piú tardi dell’omologo diritto maschile) si riferisce ai soli ornamenti. Per gli uomini la proprietà privata ha inizio con il possesso delle armi, indizio della natura piú attiva e aggressiva del maschio, che provvede da sé ad ampliare la propria sfera personale, senza attendere il beneplacito altrui, mentre la natura della donna, piú passiva, fa dipendere in misura maggiore quell’effetto di ampliamento (che pur con tutte le differenze esteriori è formalmente lo stesso) proprio dall’approvazione degli altri. La proprietà di beni è sempre allargamento della personalità: appartiene a me ciò che soggiace al mio volere, ovvero le cose per mezzo delle quali l’Io si esprime e si realizza fuori di sé. Questo vale innanzitutto e nel modo piú assoluto per il proprio corpo, che quindi rappresenta la prima e piú incondizionata delle nostre proprietà. Il corpo adorno è quindi una sorta di proprietà maggiorata: indossare ornamenti, per cosí dire, ci rende titolari di un dominio piú ampio e prestigioso. Il fatto che il diritto alla proprietà privata interessi gli ornamenti prima di qualunque altra cosa, insomma, è profondamente significativo, perché è l’ornamento a proiettare l’Io oltre se stesso, a crearci intorno quella sfera piú grande che poi riempiamo con la nostra personalità: un sfera fatta dell’approvazione e dell’attenzione altrui – di quell’ambiente, cioè, che tratta con maggiore noncuranza la manifestazione disadorna, la cui impressione coincide per cosí dire con le immediate adiacenze della persona e non ha quindi il potere di attirare gli altri nella propria orbita, per cui viene ignorata. Il fatto che in epoche primitive la proprietà privata della donna consistesse per definizione in ciò che per sua natura esiste in vista degli altri, e che solo in funzione del riconoscimento altrui riverbera sulla persona sotto forma di un incremento di valore e importanza del suo Io, non fa che manifestare una volta di piú il principio fondamentale dell’ornamento. L’ornamento ha prodotto nella forma dell’estetico una sintesi del tutto peculiare tra le grandi tendenze dell’anima e della società, che agiscono ora di concerto ora l’una contro l’altra: da un lato l’aspirazione a esaltare il proprio Io esistendo in vista degli altri, dall’altro l’aspirazione a esaltare quell’essere in vista degli altri dando piú risalto e maggiore ampiezza alla propria persona. Nella misura in cui quella forma in sé e per sé sovrasta il contenzioso tra le singole ambizioni umane, quelle opposte ambizioni trovano sotto la sua egida la possibilità di una coabitazione pacifica, anzi, la possibilità di una costituzione vicendevole, che aleggia sulle loro manifestazioni conflittuali come il presagio e la promessa di una loro piú profonda unità metafisica.