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Erano ormai trentasette giorni che l’Île-de-Ré aveva lasciato il porto di Marsiglia. Alla partenza si gelava, e uscendo da Gibilterra tutti i passeggeri, tranne due, si erano sentiti male. Ma poi, dopo essersi sorbiti per settimane i cavalloni dell’Atlantico, si erano dimenati fino a perdere il fiato nei locali da ballo della Guadalupa, e perfino il missionario della seconda classe si era vestito in borghese per accompagnare a terra la famiglia Nicou. A Panama le signore avevano acquistato profumi che lì costano meno, e durante la traversata del canale il pranzo era stato servito sul ponte, come vuole la tradizione. La nave si stava avvicinando agli antipodi; in lontananza si erano intraviste le Galapagos, e qualcuno aveva fotografato pellicani e pesci volanti. Muselli, il funzionario addetto alla prima classe, che suonava l’ukulele, aveva comprato una testa di indio ridotta alle dimensioni del pugno di un bambino. L’Île-de-Ré era già all’altro capo del mondo a tagliare pazientemente, con un ronzio di macchine, la superficie troppo piatta e abbagliante del Pacifico, che costringeva a portare gli occhiali scuri. Il tratto di penna che si allungava ogni giorno di più sulla carta affissa nel salone di prima classe avrebbe toccato ben presto i puntini sparsi che rappresentavano le Marchesi. Da trentasette giorni non si era più né in Francia né da nessun’altra parte. Eppure era domenica!
Una vera domenica, una domenica come qualsiasi altra — anche se quella sorta d’infinito in cui navigava Île-de-Ré poteva far credere che le giornate fossero tutte uguali. Alle dieci del mattino uno steward annamita aveva attraversato la nave in lungo e in largo scampanellando come un chierichetto, e il missionario dai capelli rossi che era stato trent’anni nelle Nuove Ebridi aveva celebrato una messa nella sala da pranzo di prima classe, dove solo in quell’occasione avevano libero accesso anche i passeggeri di seconda.
Ma perché alle tre del pomeriggio, cioè all’ora della siesta, c’era ancora un’aria domenicale? Perché non era una giornata come le altre, con i pasti a ore fisse, il bridge in prima classe, la briscola in seconda, la partita a scacchi fra il missionario e Oscar Donadieu, con la confusione tra i bambini che i genitori facevano mangiare prima dei grandi e gli adulti che reimparavano a giocare a piastrelle?
Perché c’era quell’odore, quella luminosità, quel torpore tutto domenicale? Non bastava certo la messa a spiegarlo, né la torta elaborata che era stata servita a colazione.
Avevano navigato per mezzo mondo, eppure era domenica come dappertutto, una domenica greve, sfolgorante, sonnacchiosa, che per di più ricordava certe feste di paese.
Perché si faceva festa, quella sera. Tre giorni prima di arrivare a Tahiti tutti i passeggeri, di prima e di seconda, venivano riuniti insieme e si ballava al suono di un grammofono. Le tre ragazze dell’equipaggio portavano sulla divisa bianca la coccarda della Compagnia e vendevano i biglietti della tombola. Nella sala da pranzo Muselli, che era a capo del comitato per i festeggiamenti, aveva allineato, con l’aiuto del maître, gli oggetti offerti dai passeggeri: scatole di dolci, bottiglie di liquore, ninnoli comprati dal parrucchiere di bordo, souvenir acquistati durante i vari scali da qualcuno che se n’era subito stancato.
E proprio perché era domenica Oscar Donadieu, che non faceva mai la siesta, aveva dovuto rinunciare alla solita partita a scacchi con il missionario, e si era messo lungo disteso a prua, il grande corpo direttamente a contatto con le lamiere del ponte, là dove la tenda ogni tanto fremeva al passaggio di una corrente d’aria.
Non dormiva. E neppure pensava. Difficile, riuscire ancora a pensare: da troppo tempo nessuno di loro viveva più secondo il proprio ritmo, ci si doveva adattare a quello della nave; e lui, se chiudeva gli occhi, non era per assopirsi o per non vedere più quel che gli stava intorno, poiché, nell’alone luminoso che gli attraversava le palpebre, immaginava ogni cosa così com’era: sapeva che l’acqua era una distesa infinita con tre frange brillanti tracciate dalla prua, che il fumaiolo con i suoi cerchi dipinti di rosso non vomitava fumo nero, ma che il suo soffio faceva appena vibrare il grigioazzurro del cielo.
Una decina di metri più in là, nella sala da pranzo di prima classe, Muselli provava alla chitarra, nota dopo nota, il pezzo che avrebbe suonato quella sera, e aveva trovato una ragazza disposta ad accompagnarlo al piano.
Di certo Nicou, il poliziotto di Surgères, se ne stava comodamente sdraiato, con la sua divisa color kaki e con un giornale vecchio aperto sulla faccia. E sua moglie era sicuramente intenta a cucire seduta accanto a lui, pronta a raddrizzare il giornale quando il respiro che usciva dalla bocca aperta lo faceva scivolare.
Jaubert, il telegrafista, l’unico per il quale Donadieu provasse una certa invidia, era lassù in alto, nella sua cabina, che era un po’ un metodo a parte e che lui abbandonava solo per scendere a mangiare.
Mancavano appena tre giorni e sembrava un’eternità. Era domenica e i minuti scorrevano ancora più lenti, più compatti del solito.
Improvvisamente, Donadieu ebbe la sensazione che il polso gli si fermasse, che discolpo ci fosse un vuoto, come se la nave avesse perso il contatto con il mare… E solo dopo un momento si rese conto che quella sospensione era dovuta soltanto all’arresto delle pulsazioni giù in sala macchine.
Tutti lo avvertirono nello stesso istante, in ogni angolo della nave. Certo, nessuno se ne preoccupò, ma era comunque qualcosa di vagamente inquietante, e il poliziotto Nicou scostò il giornale mostrando un volto congestionato e, con voce ancora impastata, domandò alla moglie:
« Che succede? ».
Non succedeva niente, eppure la cosa faceva una certa impressione: là, a babordo, così vicina che se ne percepivano le voci provenienti dal ponte, era apparsa un’altra nave, in tutto simile all’Île-de-Ré. Si vedevano dei passeggeri vestiti di bianco o di giallo coloniale appoggiati al parapetto, e qualcuno che, dopo essere corso in cabina, tornava sul ponte con un binocolo.
Anche sull’Île-de-Ré tutti erano simultaneamente usciti dalle cabine: i passeggeri di prima classe affollavano il ponte che era loro riservato e al quale non avevano accesso quelli di seconda; gli altri, come Donadieu, stavano sul castello di prua, che era il loro settore.
Qualche marinaio guardava con aria indifferente l’altra nave, l’Île-d’Oléron, che tornava dalle Nuove Ebridi, da Nouméa e da Tahiti.
« Che stanno facendo? » domandò Nicou a un marinaio.
Questi si limitò ad alzare le spalle. Non lo sapeva né gliene importava. Non solo le due navi si erano fermate a un decimo di miglio l’una dall’altra, ma l’Île-d’Oléron stava calando in mare una scialuppa.
Oscar Donadieu aveva fatto come i suoi compagni di viaggio: si era alzato in piedi e stava appoggiato con i gomiti al parapetto. Con quei pantaloncini corti e i capelli a spazzola, aveva l’aria di un ragazzo cresciuto troppo in fretta, come se ne vedono negli oratori e nelle YMCA.
« Lei sa cosa sta succedendo? » gli domandò una ragazza della seconda classe, certa Bianche Lachaux, una maestra che andava a Nouméa a raggiungere il fidanzato, anche lui insegnante.
« No… Non lo so… ».
Non riusciva a dire neanche una cosa così banale senza arrossire, tanto poco era abituato a frequentare le donne. E sì che aveva venticinque anni suonati!
« Forse qualcuno si è ammalato e dobbiamo riportarlo a Papeete… ».
« Può darsi… ».
Lassù, in prima classe, dovevano sapere qualcosa, perché si vedeva il commissario del porto pontificare in mezzo al gruppetto dei passeggeri importanti e Bondon, procuratore della Repubblica a Nouméa, annuire con la testa. Quelli della prima classe sapevano sempre tutto perché vivevano a stretto contatto con lo stato maggiore, vale a dire il comandante, il direttore di macchina, il commissario e il medico di bordo. In seconda, a presiedere ai pasti, c’erano soltanto alcuni giovani ufficiali, che mangiavano in tutta fretta per sbrigare al più presto quella fastidiosa corvè.
« Non è il comandante, quello che sale sulla scialuppa? » osservò Nicou, che si era armato di un potente binocolo. « Guardi anche lei… Quanti galloni riesce a contare? ».
Eppure la cosa più sconcertante restava l’improvviso silenzio delle macchine, la sensazione che la nave fosse abbandonata a se stessa, in balìa di certi cavalloni di cui, fino a un’ora prima, nessuno si era accorto.
Donadieu era vicinissimo alla passerella e vide attraccare la scialuppa, su cui si trovavano effettivamente un comandante e due ufficiali. Li vedeva dall’alto, ma quando a un tratto il comandante si mosse, lo vide bene in faccia e rimase attonito. Aveva riconosciuto Lagre, un capitano che aveva navigato per suo padre, quando il vecchio Donadieu viveva ancora ed era il più potente armatore della Rochelle.
E ci fosse stato solo Lagre, la cosa non avrebbe avuto niente di straordinario. Ma appena lasciata Marsiglia un tipo sanguigno con moglie e figlia al seguito, subito dopo aver consultato la lista dei passeggeri, gli si era avvicinato con fare circospetto e deferente:
« Mi scusi… Posso chiederle se è parente dei Donadieu della Rochelle? ».
Aveva detto di sì. L’altro si era messo a farfugliare sempre più emozionato, e anche sua moglie si era commossa.
« Allora lei è il signorino Oscar… Mi scusi se le ho rivolto la parola senza esserle stato presentato… Ma stavo,giusto dicendolo a mia moglie… Sono il brigadiere Nicou, di Surgères… Lei non mi conosce… Suo padre sì che mi conosceva bene, visto che è stato lui, si può dire, a farmi avere il posto.,. Se penso a tutto quello che vi è successo… Quante disgrazie, povero signorino Oscar!… ».
E da quel momento Nicou era stato sempre così, imbarazzato e premuroso, imbarazzato soprattutto nel vedere Donadieu in seconda classe, alla sua stessa tavola, e per di più in quella tenuta da boy-scout che il giovane aveva adottato.
E adesso questo Lagre! Che storia c’era stata, a suo tempo, con Lagre? Oscar ricordava vagamente che era successo qualcosa, ma lui era un ragazzino, all’epoca, e non se n’era interessato.
Intanto la manovra era in pieno svolgimento. Il comandante Lagre stava salendo su per la scaletta di bordo e il comandante Maurin, dell’Île-de-Ré, gli andava incontro.
Perché erano tutti e due così solenni? Perché non si stringevano la mano ma si scambiavano con ostentata rigidità il saluto militare?
La cosa che maggiormente colpiva era il volto di Lagre, i suoi occhi. Pareva non rendersi conto del momento che stava vivendo e del luogo in cui si trovava. Non guardava da nessuna parte, tanto che Donadieu ebbe il timore che mettesse un piede in fallo.
« Se vuole seguirmi… ».
A quel punto non si riuscì a capire più nulla. Si vide infatti Chabannes, il primo ufficiale dell’Île-de-Ré, scendere con armi e bagagli e prendere posto sulla scialuppa, che subito dopo si allontanò. Quasi contemporaneamente, e quando nessuno se lo sarebbe aspettato, le macchine si misero in moto e l’Île-d’Oléron cominciò a sparire a poco a poco lasciando a bordo dell’altra nave il capitano Lagre.
Era ancora domenica, certo. Ma adesso era una domenica speciale, come quando capita un incidente in piazza e si formano dei capannelli di persone che cercano di sapere cos’è successo.
« Lagre… Lagre… » ripeteva fra sé Oscar Donadieu aggrottando le sopracciglia, come se questo servisse a rinfrescargli la memoria.
Che cosa era successo con quel Lagre? Perché aveva sentito parlare di lui più spesso che degli altri comandanti delle navi di suo padre? E perché, nei suoi ricordi d’infanzia, quel nome evocava qualcuno di speciale?
« Lagre… Ferdinand Lagre… ».
Ecco che gli era tornato in mente anche il nome di battesimo, segno che qualcosa, a suo tempo, lo aveva colpito.
Ferdinand Lagre…
« Ha visto com’era pallido? » disse all’improvviso il brigadiere Nicou, che gli stava vicino da un bel po’.
« Sì… ».
No! Non era pallore. Era qualcosa di più complicato, di più strano. Tutto era anomalo nella scena che si era appena svolta e nell’atmosfera che regnava. Dal punto in cui si trovava, Donadieu vedeva benissimo il posto di comando e, proprio di fianco, il ponte dove il comandante, ogni volta che si faceva scalo in qualche porto, offriva l’aperitivo o lo champagne ad alcuni amici. Adesso, invece, la plancia era deserta e, vicino al timoniere, montava la guardia il secondo ufficiale Gallet, un ragazzino di ventiquattro anni.
La discussione che scoppiò a quel punto fu veramente degna di una piazza di paese, la domenica. La signorina Bianche Lachaux, la maestra che andava a raggiungere il fidanzato, spuntò fuori all’improvviso tutta agitata.
« Ero salita lassù » spiegò « perché la signora Muselli mi aveva invitata a prendere una tazza di tè… Be’, sono stata pregata di scendere perché “quelli di seconda” non hanno accesso alla prima classe… ».
A bordo c’erano due giovani americani diretti a Tahiti come Donadieu. Si fecero tradurre quelle frasi, dopodiché manifestarono tutto il loro sdegno. Quanto alla signora Nicou, sbottò infuriata:
« Le hanno forse detto qualcosa, poco fa, quando cercavano una persona che accompagnasse al pianoforte il signor Muselli?… Quando hanno bisogno di noi ci chiamano, quando non serviamo più ci ammucchiano a prua, e guai a oltrepassare le corde… Loro però ci vengono, qui da noi… Ogni giorno quel vecchio inglese si mette a prendere il sole a prua mezzo nudo, tanto che io non so più dove guardare… ».
Donadieu stava sempre appoggiato al parapetto. Il missionario cercava di placare gli animi. L’Île-d’Oléron, in lontananza, non era più che un pennacchio di fumo.
« Che cosa ci impedisce di farci la nostra festa qui, tutta per noi?… E chi ci rimetterà, alla fine?… Noi no di certo, abbiamo degli ottimi elementi… ».
Annie Nicou, che aveva diciott’anni, doveva cantare. Bianche Lachaux era la sola, a bordo, che sapesse suonare il piano. Inoltre, potevano contare su tre bambini, due maschi e una femmina, che si sarebbero esibiti in uno sketch.
« Aspettate… Proverò a parlarci io… » insisteva il missionario.
Anche non volendo, Oscar Donadieu sentiva tutto. Da quando si trovavano nelle acque dei tropici, sul ponte di poppa era stata sistemata una piscina, una ' specie di grande cassone foderato di tela da vele che conteneva giusto la quantità d’acqua sufficiente a fare un paio di bracciate. L’Île-de-Ré,> infatti, era solo una nave mercantile mista, la cui prima classe corrispondeva al massimo alla seconda dei piroscafi normali.
Donadieu andò a mettersi il costume, s’immerse nella piscina deserta e ci restò una buona mezz’ora, dopodiché si dedicò coscienziosamente ai suoi esercizi di ginnastica.
Faceva così ogni giorno. Si regolava le giornate da sé e solo per sé. Se giocava a scacchi con il missionario era perché questi, avendolo sorpreso una volta davanti alla scacchiera intento a fare una partita contro se stesso, gli si era proposto come avversario.
Non è che Donadieu disprezzasse gli altri: non disprezzava .Nicou, che era un ex protetto di suo padre, anche se la sua rispettosa commiserazione lo infastidiva parecchio, e neppure i due giovani americani, che avevano giusto di che pagarsi il viaggio e non potevano mai mettere piede al bar, né Gorlia il marsigliese, né…
Semplicemente, preferiva starsene da solo. Non sopportava che la gente gli spiattellasse le proprie faccende e arrossiva quando alludevano alle sue. Nicou, per esempio, si credeva obbligato a ripetergli in continuazione:
« Che uomo, il suo povero padre!… Chi l’avrebbe detto che sarebbe finito in quel modo assurdo, cadendo di notte nella fanghiglia del porto… ».
E non bastava.
« Era forte come una quercia… ».
E ancora:
« Un galantuomo, nel vero senso della parola… Padroni come lui non se ne vedono più… ».
Per finire con:
« Quando la sventura entra in una casa… ».
Era più che altro, per Oscar, una questione di pudore. Il fatto che alla morte di ‘suo padre il clan Donadieu si fosse disgregato e che l’azienda fosse andata a rotoli in seguito a uno scandalo riguardava soltanto lui.
E allo stesso modo lo infastidiva sentir raccontare da Nicou come qualmente a Tahiti avrebbe goduto di una promozione tanto più apprezzabile in quanto accompagnata da una cospicua indennità di trasferta.
« Mi dispiace un po’ per mia figlia… Non vorrei che finisse per sposarsi qui, con uno della colonia… ».
Nonostante il suo atteggiamento ossequioso, una sera Nicou gli aveva domandato a bruciapelo:
« È vero che vuole vivere tutto solo a Tahiti? ».
« Perché no? ».
« Ma… non avrebbe potuto, magari…? ».
Si era subito fermato, però, temendo di aver detto troppo. Per lui era davvero penoso vedere il figlio di Donadieu fare la fine di un « turista da banane ».
Era così che dicevano. Oscar l’aveva imparata a bordo, quell’espressione, e aveva costretto il telegrafista a spiegargliela. Perché lui e Jaubert erano i primi ad alzarsi, e a volte capitava che s’incontrassero in piscina alle cinque del mattino.
« Non deve offendersi… È un’espressione che usiamo noi, sulle navi, per indicare quelli che partono per le isole con l’idea di vivere a contatto con la natura, lontano dal mondo, in un posto dove i soldi non servono e ci si può nutrire di banane e noci di cocco… Ecco, per esempio i due americani che sono con lei… Di tipi così se ne incontrano a ogni traversata… Hanno in tasca giusto quanto basta per arrivare laggiù… Cercheranno una capanna abbandonata dagli indigeni, dopodiché, in capo a qualche mese, anemici e ammalati, si presenteranno alla polizia o al consolato per farsi rimpatriare… ».
A Donadieu tutto questo importava ben poco. Con quegli americani aveva scambiato solo qualche parola, ma sapeva di essere ben diverso da loro.
« C’è anche chi ha buoni motivi per far perdere le proprie tracce… ».
Neanche questo era il suo caso. Ma non lo diceva. Non gliene importava niente di passare per un turista da banane e di farsi compatire da Nicou. Non aveva da render conto a nessuno, lui. Né era tenuto a farlo.
« Ferdinand Lagre… ».
Senza accorgersene ci stava pensando da due ore, e quando sentì suonare la campana del pranzo di colpo si ricordò:
« Il battesimo di… ».
Ma certo! A dodici anni aveva fatto da padrino al primo dei figli di Lagre, e il bambino doveva chiamarsi Oscar! Era un ricordo sgradevole, perché sua sorella Martine gli aveva lasciato credere che in occasione della cerimonia avrebbe dovuto mettersi cilindro e redingote. Lui era scoppiato a piangere, e suo padre, messo al corrente della burla, si era arrabbiato:
« Non trovi che tuo fratello sia già abbastanza nervoso? ».
Oscar, dunque, era il padrino del piccolo Lagre. Adesso stava mangiando e, come al solito, aveva alla sua destra il telegrafista. C’era un’atmosfera pesante, perché con quelli della prima classe le cose avevano preso una brutta piega e la festa era definitivamente compromessa.
Il telegrafista non parlava molto. Donadieu lo aveva preferito agli altri proprio perché gli assomigliava un po’. Quella sera, però, era più serio del solito e non toccò quasi cibo.
Donadieu non fece domande e, da parte sua, Jaubert non dette spiegazioni. Ciò nonostante, dopo cena si ritrovarono vicino all’albero di carico, mentre quelli della prima classe facevano un po’ di musica per dare a vedere che si divertivano.
« È il comandante Lagre, vero, quello che è salito a bordo? » si decise finalmente a chiedere Donadieu.
« Perché? Lo conosce? ».
« Sì… ».
« Conosce anche la sua famiglia? È vero che ha moglie e tre figli a Jonzac? ».
« Sì… ».
« E lo sa perché è a bordo? ».
« No… ».
E quasi a malincuore, perché in realtà aveva bisogno di dirlo, il telegrafista Jaubert aggiunse tutto d’un fiato, accendendosi una sigaretta:
« L’altro ieri, quando l’Île-d’Oléron aveva appena lasciato Papeete, Lagre ha ucciso il terzo ufficiale, Henri Clerc detto Rirì, con un colpo di pistola alla testa… Henri Clerc aveva venticinque anni… ».
Per ripicca nei confronti dell’allegria manifestata da quelli della prima classe, Nicou si stava dando da fare per improvvisare una festa e reclamava a gran voce delle lampadine elettriche. Il cielo del Sud, con tutte le sue costellazioni, scorreva via al di sopra delle loro teste, e vampate di calore si mescolavano ai soffi freschi della brezza notturna.
« Lui stesso ha mandato un cablogramma a Papeete comunicando la notizia e chiedendo istruzioni… Da Papeete hanno contattato via radio la Francia… Ovviamente, non potevano lasciargli il comando della nave fino a Marsiglia… La Compagnia ha dato disposizioni, il tutto nel giro di qualche ora… ».
Mentre Jaubert parlava, Donadieu pensava alla piccola cabina, lassù, dove il telegrafista viveva in mezzo alle voci del mondo.
« Hanno preferito farlo processare a Papeete, soprattutto perché la causa del delitto è una giovane indigena, certa Tamatéa… ».
Xirò fuori di tasca l’orologio e, pur non vedendo l’ora per via dell’oscurità, si affrettò a dichiarare:
« Adesso devo salire… È il momento di captare Barranquilla… ».
E non era tanto per le esigenze di bordo quanto per il fatto che lui viveva così, in un mondo a parte, dove le ore non erano quelle di tutti, bensì quelle ’ delle trasmissioni, variabili a seconda dei meridiani, un mondo in cui le capitali geografiche erano determinate dai chilowatt e dalla lunghezza d’onda delle stazioni.
Indifferente allo scontro in atto fra quelli di prima e quelli di seconda, Donadieu andò a dormire.
Se n’era vagamente reso conto di notte, durante il sonno, ma ciò nonostante fu sorpreso di svegliarsi in una cabina dove gli oggetti si muovevano da soli per via dei cavalloni del Pacifico e dove lavarsi e vestirsi si rivelò un vero supplizio.
Quando uscì sul ponte per prendere un po’ d’aria vide la prua spazzata dalle onde e la superficie del mare coperta dal bianco pulviscolo degli spruzzi sollevati da un vento improvviso e sibilante.
Per camminare dovette aggrapparsi a qualsiasi cosa, un montante, un albero di carico, il parapetto, e a un certo punto pensò che non sarebbe mai arrivato in cima alla scala che portava al ponte superiore. Tutto era grigio, ostile, bagnato. Il berretto gli volò via e un’onda lo inghiottì.
Forse stava cercando il telegrafista, ma, giunto sul ponte, là dove le scialuppe di salvataggio non lasciavano che uno stretto corridoio, si trovò davanti il comandante Lagre. Nello stesso momento scorse un marinaio fermo a tre metri di distanza, e allora capì.
Come tutti i timidi, si buttò a capofitto e si mise a parlare precipitosamente, urlando a causa del gran rumoreggiare del vento:
« Credo che lei non mi riconosca, comandante… ».
L’altro aveva lo stesso sguardo calmo e come stupito del giorno prima, lo stesso, volto impenetrabile.
« Le confesso di non… ».
Il marinaio aveva l’aria di chiedersi se dovesse permettere quel colloquio e si ^guardava intorno preoccupato, sperando nell’arrivo di qualche ufficiale che lo sollevasse da quella responsabilità.
« Sono Oscar Donadieu… ».
Benché fosse uomo di mare, Lagre aveva un volto pallido e olivastro, capelli grigi e lineamenti severi. Aggrottò le sopracciglia come se si sforzasse di ricordare, cercò vagamente di sorridere, ma non ci riuscì.
« Ah!… » si limitò a dire sommessamente.
« Ricorda?… ».
« Ricordo, sì! Suo padre è stato molto buono con me… ».
Solo che la frase era stata pronunciata in tono così brusco da suonare del tutto incongrua.
« Ieri mi hanno detto… ».
« Già! » sospirò Lagre.
Oscar Donadieu faceva fatica a parlare, tanto aveva la gola stretta. Per la prima volta in vita sua si trovava in presenza di un uomo che aveva ucciso qualcuno. Lagre continuava a fissare ostinatamente il mare. Donadieu cercava di fare altrettanto ma non ci riusciva.
« Ieri, quando l’ho vista salire a bordo, mi è sembrato subito di riconoscerla… ».
« Ah!… ».
Donadieu capì che stava mostrandosi, nei confronti del capitano omicida, importuno quasi quanto lo era il buon Nicou nei suoi confronti.
« Le chiedo scusa… ».
« Di che? ».
« Di infastidirla… ».
« Ma no, anzi! Mi fa molto piacere… A proposito, com’è che lei si trova qui? ».
Adesso che non si parlava più di lui, Lagre guardava il suo compagno di viaggio, se non proprio con calore, almeno con interesse umano e non senza una certa curiosità.
« Non ha importanza… » balbettò precipitosamente Oscar.
« È in viaggio di piacere? ».
« Non esattamente… Penso di stabilirmi a Tahiti… Non proprio a Papeete ma all’interno, o in un’altra isola dell’arcipelago… ».
Sopra di loro, fra di loro, obbligati a tenersi stretti al parapetto, c’era il vento che incollava i vestiti ai corpi e si portava via le parole, e il grido — simile a quello di un gabbiano — di una puleggia male oliata, e sempre, un po’ più in là, la sagoma del marinaio in preda all’ansia.
« Che idea! ».
« Come? » gridò Donadieu, che non aveva sentito bene.
« Dico che è un’idea un po’ strana… ».
E Lagre che continuava a fumare la sua pipa senza scomporsi… Eppure era un assassino!
« Avevo pensato… ».
« Che cosa? ».
« Non so… Che forse… lei potrebbe aver bisogno… ».
Per tutta risposta ci fu solo un’alzata di spalle.
« Le chiedo scusa… ».
« Ma no!… Lei è un caro ragazzo… Non avevo saputo più niente di lei, e sono contento di vedere che sta bene… Forse farebbe meglio a non scendere dalla nave e a tornarsene dritto in Francia… ».
« Perché? ».
« Niente… Dicevo così… Ha da accendere? ».
« Non fumo… ».
« Pazienza!… ».
Donadieu non sapeva più cosa dire. Il rollio della nave accresceva il suo disagio. Restò per qualche istante in silenzio, come si fa in una camera mortuaria dalla quale, per educazione, non si osa uscire.
Fu per lui un sollievo veder Arrivare Coufigue, il commissario di bordo, che si avvicinò a Lagre e sussurrò:
« Comandante… Il comandante Maurin le manda a dire che è ora di tornare in cabina… ».
Quando scese, Donadieu venne a sapere che verso mezzanotte era scoppiato un piccolo scandalo perché Muselli, il funzionario addetto alla prima classe, piuttosto alticcio, aveva tentato di intrufolarsi nei locali di seconda, e Nicou, non meno brillo di lui, glielo aveva impedito ripetendo:
« Nossignore… Sono spiacente, ma qui non c’è gerarchia che tenga… Siamo tutti passeggeri… ».
Alle undici, quando ormai erano quasi tutti in preda al mal di mare ma si ostinavano a restare sul ponte, qualcuno indicò un velo di vapore grigiastro in mezzo ai marosi e annunciò:
« Fakaraowa!… ».
Tutti sapevano che era uno degli atolli più suggestivi del Pacifico, ma non riuscivano neanche a reggersi in piedi e, a mezzogiorno, a tavola ci furono solo cinque persone. Donadieu non se la sentiva di mangiare, e il telegrafista gli disse:
« È solo la coda di un tifone… Dopodomani, tutto sarà finito… Davanti a noi c’è una nave piena di turisti che fanno il giro del mondo e non sono neanche riusciti a sbarcare a Tahiti… ».
Oscar sentì, certo, e capì vagamente qualcosa. Fatto sta però che mezz’ora dopo era disteso nella sua cuccetta e si alzò solo quando le macchine si fermarono di nuovo.
Erano in rada a Tahiti, in attesa del pilota, e pioveva a dirotto. Davanti a loro, avvolta da una cortina di nuvole grigie, c’era una montagna tutta nera a forma di cono, alta duemila metri. S’intravedeva una vegetazione scura, qualche tetto rosso. Intorno all’isola, le onde si frangevano contro la barriera corallina che bisognava superare attraverso uno stretto passaggio.
I viaggiatori cominciavano a riunirsi, malconci, con la testa vuota, scambiandosi sorrisi forzati, e già i bagagli ingombravano il ponte, già c’era chi offriva da bere, al bar, a quelli che proseguivano fino a Nouméa o alle Nuove Ebridi.
Da una motolancia spuntò un pilota nativo di Paimpol; indossava una cerata e si arrampicò fino t alla cabina di comando.
Si procedeva con i motori al minimo. All’imboccatura del porto tutti si sporsero a osservare il passaggio della barra, poi, giunti in acque calme, guardarono quel che si poteva vedere di Papeete: palafitte che fungevano da banchine, edifici dal tetto di lamiera ondulata e due o trecento persone, vestite all’europea, che scalpicciavano sotto gli ombrelli.
Una motovedetta con la bandiera della polizia si accostò alla nave e i suoi occupanti si chiusero nella cabina del comandante.
Anche i due americani, in calzoncini corti come Donadieu, si erano infilati degli impermeabili. E, come Donadieu, avevano adocchiato sulla banchina quattro o cinque automobili, tutte ferme in fila a mo’ di taxi come in tutte le stazioni marittime del mondo.
Nicou, dopo aver passato in rassegna le uniformi dei doganieri, finalmente individuò un poliziotto.
L’ancora piombò in acqua. L’elica si mise a girare all’indietro smuovendo della fanghiglia che avvolse la nave di un alone giallastro.
Era l’8 febbraio.