5
In cui Maigret prende un sacco di appunti per convincersi che sta lavorando e in cui la signorina Clément non si dimostra sempre caritatevole

 

Di sicuro lo faceva apposta. Doveva essere il suo modo di combattere una sorta di piccola guerra. Sebbene fosse di un’agilità stupefacente per la sua mole, non aveva nessuna ragione di salire fino al secondo piano quando avrebbe potuto benissimo chiamarlo da giù.

Forse voleva sottolineare che Maigret aveva il sonno pesante... Di mattina era possibile. Anche sua moglie lo punzecchiava per quello. Ma non certo quando si assopiva durante il giorno. Fatto sta che la signorina Clément bussava alla sua porta e subito dopo la spalancava, sorprendendolo a letto tutto vestito.

«Mi scusi. Pensavo che stesse lavorando. La vogliono al telefono».

Non lo faceva con cattiveria, anzi. Lo guardava con due occhi scintillanti di buonumore e addirittura di affetto.

Era una questione fra loro, che gli altri non potevano capire. Maigret le teneva il broncio. Questo era chiaro. La cosa andava avanti da più di due giorni. Usciva dalla pensione e vi rientrava almeno dieci volte al giorno, e ogni volta lei faceva in modo di pararglisi davanti con un’espressione che sembrava voler dire:

«Allora, amici come prima?».

Il commissario fingeva di non vederla, oppure rispondeva con un grugnito ai suoi tentativi di riconciliazione.

Pioveva da due giorni, e solo di tanto in tanto fra le nuvole spuntava un raggio di sole.

«Pronto! Sì, sono io...».

«Si ricorda di Meyer, capo?».

Il commissario era certo che lei lo stava ascoltando dal salotto o dalla cucina, e fu per questo, forse, che rispose burbero:

«Ci saranno dieci pagine dí Meyer sull’elenco del telefono».

«Il cassiere di boulevard des Italiens che ha tagliato la corda. Abbiamo appena avuto sue notizie. La polizia olandese l’ha beccato ad Amsterdam in compagnia di una ragazza con i capelli rossi. Che facciamo?».

Sembrava quasi che facesse apposta a non mettere piede al Quai des Orfèvres. La pensione di rue Lhomond era diventata per lui una specie di succursale della Polizia giudiziaria, tanto che a volte perfino il Grande Capo era costretto a chiamarlo lì.

«E lei, Maigret? Il giudice istruttore mi ha telefonato a proposito del caso Piercot...».

Una volta riagganciata la cornetta, Maigret pareva reimmergersi voluttuosamente nell’atmosfera della viuzza.

La donna delle pulizie con le scarpe da uomo aveva paura di lui, Dio solo sa perché, e appena lo sentiva avvicinarsi si faceva immediatamente da parte per lasciarlo passare. Anche gli altri lo guardavano con un certo imbarazzo, e perfino con preoccupazione, come se sentissero che sarebbe bastato un nonnulla per far ricadere i sospetti su di loro.

Solo la signorina Clément, insomma, non lo prendeva sul serio e gli sorrideva, sicura che prima o poi avrebbe smesso di fare il muso.

Senza parere, lo circondava di mille attenzioni. Di mattina, appena lo udiva alzarsi, appoggiava di sua iniziativa una tazza di caffè davanti alla porta del commissario. E tutte le sere Maigret trovava una bottiglia di birra sulla tavola del salotto in cui, con un pretesto qualsiasi, finiva immancabilmente per entrare.

Se gli avessero chiesto che cosa ci stava a fare in quella pensione, avrebbe senz’altro risposto che non ne aveva idea, che non ci capiva niente e che incominciava ad averne abbastanza; e la signora Maigret, al telefono - perché era ancora in Alsazia -, assumeva un atteggiamento simile a quello della signorina Clément.

Contrariamente alle sue abitudini aveva preso un mucchio di appunti. Se interrogava qualcuno, tirava fuori dalla tasca il suo grosso taccuino nero con l’elastico e trascriveva quello che gli veniva detto.

Poi, una volta in camera sua, quando non ne poteva più di guardare fuori dalla finestra, si sedeva al tavolo e ricopiava gli appunti. Probabilmente non sarebbe servito a niente, lo sapeva. Era una specie di autodisciplina, o forse un modo per punirsi Dio solo sa di cosa.

Appena vedeva una tenda muoversi in uno degli appartamenti di fronte, si alzava per andare a piazzarsi alla finestra, che era meglio tenere chiusa, perché con la pioggia la temperatura si era abbassata tanto da far venir voglia di accendere il fuoco.

 

Eugène Lotard: 32 anni, nato a Saint-Étienne. Figlio di un impiegato alle ferrovie. Assicuratore alla Nazionale. Sposato da tre anni con Rosalie Méchin, nata a Bénouville, Étretat (Senna inferiore).

 

Blanche Dubut: 22 anni, nata alla Châtaigneraie (Vandea). Artista drammatica. Nubile.

 

Tutta roba di una banalità desolante. Quella gente era arrivata a Parigi, da ogni angolo della Francia e addirittura d’Europa, ed era finita nella pensione della signorina Clément.

Benché parlasse un francese terribile, Kridelka era in attesa dei documenti di naturalizzazione. Saft li aveva già.

Li aveva interrogati tutti, alcuni più di una volta. Era entrato nelle loro camere, aveva visto i loro letti, i loro spazzolini sul lavandino e i fornellini a spirito o a benzina su cui la maggior parte di loro si preparava i pasti.

Si era informato dei dettagli più intimi della loro vita, fissandoli con i suoi grandi occhi che in quei momenti assumevano un’espressione vacua.

Con quale risultato? Naturalmente non aveva trovato da nessuna parte - né negli armadi, né sotto i mobili, né sotto i materassi - la colt a tamburo con cui avevano sparato a Janvier.

Povero Janvier! Maigret non andava neanche più a fargli visita all’ospedale, si limitava a telefonare due volte al giorno all’infermiera. Ogni tanto questa passava l’apparecchio al ferito che lo salutava con una voce irriconoscibile. Per quanto tempo ancora avrebbe emesso quel fischio orribile parlando?

Volti sconosciuti fino a tre giorni prima gli erano diventati così familiari che di lì a poco gli sarebbe senz’altro capitato di salutare dei semplici passanti scambiandoli per amici.

La donna con lo straccio per la polvere, ad esempio, guardava la sua finestra con la stessa frequenza con cui il commissario guardava quella di lei, e sempre con aria di rimprovero, quasi a intendere che un uomo grande e grosso come lui avrebbe dovuto dedicarsi a un’attività più seria.

Era la signora Boulard, una vedova; suo marito era stato nel Genio Civile e lei tirava avanti con una piccola pensione.

In un isolato di sei edifici, aveva già contato cinque vedove. Al mattino le vedeva dirigersi al mercato di rue Mouffetard con la borsa della spesa sottobraccio, poi le vedeva tornare con i porri o l’insalata che spuntavano dalle sporte.

Era quasi in grado di dire quello che mangiava ciascuno, e a che ora. Sapeva quando e come si coricavano, e anche a che ora le sveglie trillavano sui comodini.

Al primo piano del palazzo di fronte il letto era stato leggermente spostato e avvicinato alla finestra. Da quella camera una mattina un uomo era uscito con una valigia per recarsi alla Gare Montparnasse in taxi.

Spesso, di notte, si accendeva a orari irregolari la lampada, ma sulla tapparella Maigret non vedeva neanche un’ombra.

La donna era malata. Trascorreva le giornate a letto. La portinaia saliva verso le dieci del mattino, spalancava la finestra e incominciava a fare le faccende.

Quanto alla finestra della mansarda, era quella della domestica di un’anziana signora benestante - un’altra vedova -, che tutte le notti riceveva degli uomini.

Maigret aveva ricominciato il lavoro di Vauquelin: era andato a interrogarli tutti, tutti i vicini, tutti coloro che potevano aver visto o sentito qualcosa. Per far questo era costretto a bussare alla loro porta all’ora dei pasti o la sera dopo cena. Alcuni li aveva interrogati un paio di volte.

«Quel che sapevo l’ho già detto all’ispettore» gli rispondevano.

Lui si sedeva lo stesso, che lo invitassero o meno. È un trucco vecchio quanto il mondo: quando le persone vi vedono seduti perdono la speranza di sbarazzarsi di voi in pochi minuti e si rassegnano a darvi retta.

«Cosa stava facendo lunedì scorso alle dieci di sera?».

E aggiungeva:

«La sera in cui si è sentito uno sparo in strada».

Il suo grosso taccuino li metteva in soggezione. La maggior parte si sforzava di ricordare.

«Mi stavo preparando per andare a letto».

«Aveva le finestre chiuse?».

«Mi pare... Aspetti...».

«Era una serata tiepida».

«Se ben ricordo una delle finestre era socchiusa».

Era un lavoro di pazienza. Si portava dietro gli appunti di Vauquelin. A volte coincidevano, altre no.

A tre riprese aveva ricominciato a compilare una specie di tabella oraria cui continuava ad apportare correzioni.

Poi se ne andava a bere un bicchiere di vino bianco, o a mangiare un boccone dall’alverniate, di cui ormai conosceva i clienti abituali. Anche lui veniva trattato come un cliente fisso. Sin dal mattino gli comunicavano il menu del giorno, e la donna, che portava uno stretto chignon in cima alla testa, aggiungeva:

«A meno che lei non abbia voglia di una piccola specialità...».

Il più delle volte non si metteva neanche il soprabito: rialzava il bavero della giacca, abbassava la tesa del cappello e attraversava la strada curvando le spalle. Alcune donne che andava a interrogare a casa così conciato gli guardavano insistentemente i piedi per ricordargli di pulirsi le scarpe sullo zerbino.

«È sicura di non aver sentito un rumore di passi?».

L’ultimo riepilogo, messo a punto il venerdì alle quattro del pomeriggio dopo essere tornato dall’alverniate dove aveva bevuto un bicchiere, era più o meno il seguente. L’aveva riletto così tante volte con la matita in mano, che aveva finito per riempirlo di arabeschi come i margini di un quaderno di scuola.

 

«Pensione Clément. Dieci e venti (qualche secondo prima dello sparo).

«La signorina Clément è in camera sua e si prepara per andare a dormire; Paulus è sotto il suo letto.

«Al pianterreno, a sinistra, il signor Valentin si scalda l’acqua per un grog nella sua cucina come fa quasi tutte le sere.

«Al primo piano, i Lotard sono a letto. La signora Lotard non si è ancora addormentata, aspetta di vedere se le toccherà alzarsi per cullare il bambino che ha appena piagnucolato.

«Blanche Dubut è a letto che legge.

«Fachin: assente (studia da un amico; non tornerà prima di mattina).

«Il signor Mège, contabile, la cui finestra dà sul cortile come quella di Fachin, si taglia le unghie dei piedi seduto sul letto.

«Secondo piano. La stanza di Paulus è vuota. Kridelka: assente. Rientrerà un quarto d’ora dopo. È andato a una riunione pubblica (verificato dall’ispettore Vacher).

«La signorina Isabelle: assente (cinema, impossibile da verificare; racconta senza esitare il film che sostiene di aver visto).

«Signore e signora Saft. Lei è a letto. Lui legge il giornale in poltrona».

 

C’erano altre pagine simili che riassumevano come avevano trascorso la serata gli inquilini dei palazzi adiacenti.

Infine, su un foglio a parte figurava una ricostruzione quanto più accurata possibile dei movimenti di ognuno al momento dello sparo e immediatamente dopo.

Era proprio questa ricostruzione a presentare le maggiori discrepanze con il rapporto di Vauquelin, con tutta probabilità perché nel frattempo gli interessati avevano avuto modo di fare mente locale.

Un fatto sembrava assodato: nessuno aveva sentito dei passi in strada prima della detonazione.

«Non sentiva i passi dell’ispettore?».

«No. Lo avevo visto mentre chiudevo la finestra. Non sapevo che fosse un ispettore. Aveva l’aria di un ragazzino, e ho pensato che aspettasse la fidanzata».

A parlare era la signora con lo straccio per la polvere.

Anche il signor Valentin aveva notato Janvier, mentre chiudeva le finestre prima di entrare in cucina, ma verso le dieci di sera. Non si era chiesto che cosa ci facesse lì.

Quindi lo sparo era esploso nel silenzio della via deserta.

A quanto sembrava Blanche Dubut si era subito precipitata alla finestra, che era socchiusa ma aveva le tende accostate. Le aveva aperte.

«Ha visto qualche altra finestra illuminata?».

«Mi chiedo se alla finestra di fronte ci fosse la luce accesa. A quell’ora è quasi sempre accesa; innanzitutto ho dato un’occhiata nella via».

La finestra di fronte era quella dell’appartamento da cui era uscito un uomo con una valigia e in cui viveva una donna malata o inferma.

«Si sono aperte altre finestre?».

«Sì. Un po’ dappertutto».

«E c’erano finestre già aperte quando lei ha aperto la sua?».

«Penso di no. Mi pare di esser stata la prima a vedere il corpo sul marciapiede e a gridare».

Era vero. Almeno quattro persone avevano sentito il suo urlo, e fra queste il signor Saft, che era accorso sul pianerottolo credendo che stesse chiedendo aiuto.

«Chi è sceso per primo in strada?».

Con ogni probabilità era stato il signor Valentin, che indossava una giacca da camera di velluto nero. Quasi contemporaneamente era uscito il portinaio del palazzo accanto.

Maigret aveva ripetuto la stessa domanda almeno cento volte:

«Quali erano le finestre illuminate in quel momento?».

Ma subito le cose si ingarbugliavano. In definitiva, la maggior parte delle finestre si erano aperte una dopo l’altra. La signorina Clément non era neanche uscita dal portone. Aveva chiesto:

«È ferito?».

Poi era corsa senza perdere un attimo verso l’apparecchio telefonico e aveva chiamato la polizia.

«Quanto tempo è trascorso fra lo sparo e l’istante in cui il signor Valentin è uscito di casa?».

«Neanche mezzo minuto. Pochi secondi».

La cucina era di fianco alla sua camera, e aveva dovuto attraversare solo quella. Si era anche dimenticato il fornello acceso ed era ritornato qualche secondo dopo per spegnerlo.

Ora, né Valentin né gli altri avevano sentito dei passi. L’assassino non aveva avuto il tempo materiale di dileguarsi. Sarebbe dovuto passare per lo meno sotto un lampione, e invece nessuno aveva notato nulla.

Sembrava una cosa da niente, ma quelle poche certezze erano frutto di un numero considerevole di interrogatori.

La portinaia del palazzo di fronte, la signora Keller, faceva del suo meglio per collaborare con il commissario, ma era il genere di donnetta vivace che parla in modo concitato e che a forza di voler essere precisa aumentava la confusione.

«È uscita di casa?».

«Mi sono affacciata dal portone, ma non ho attraversato la strada. Credevo che fosse morto e non mi piace vedere i cadaveri».

«Qualcuno dei suoi inquilini è uscito?».

«Il signor Piedbœuf, quel signore con la barba che lavora al Bon Marché e abita al secondo piano, è sceso in vestaglia ed è andato a dare un’occhiata sul marciapiede di fronte. Gli ho anche detto che così svestito avrebbe preso freddo».

«Ha visto arrivare la macchina della polizia?».

«Sì... No... Cioè, quando ha girato l’angolo ero in camera mia, dove ero andata a prendere il cappotto...».

Maigret aveva telefonato quattro o cinque volte al commissariato del V arrondissement per interrogare gli agenti che erano accorsi sul posto.

Stando a quanto dicevano, al loro arrivo sul marciapiede c’era una ventina di persone che facevano capannello attorno a Janvier. Avevano preso solo qualche nome qua e là. Il signor Valentin aveva fornito il suo senza che nessuno glielo avesse chiesto. Tutti avevano notato quella cicciona della signorina Clément.

«Non avete visto quali erano le finestre illuminate?».

Nessuno ci aveva badato.

«Non avete nemmeno fatto caso se qualcuno si stava allontanando da una parte o dall’altra della via?».

Era tutto molto confuso. Alcuni vicini si erano uniti al gruppo iniziale e avevano detto la loro, mentre altri rientravano in casa. Si erano fermati anche due o tre passanti.

Non si riusciva a cavare un ragno dal buco. Tutta quella storia era tetra, come la pioggia che non la smetteva più di cadere e impregnava la casa di umidità. Il fuoco era acceso solo nel salotto della signorina Clément, dove Maigret ogni tanto andava a sedersi rispondendo ai suoi approcci con dei mugugni.

Ritrovare Van Damme a Bruxelles era stato un gioco da ragazzi, poiché appena arrivato, come aveva detto Paulus, la sua prima mossa era stata quella di presentarsi al consolato degli Stati Uniti.

All’inizio aveva negato di aver preso parte alla rapina della Cigogne. Poi, messo alle strette, aveva scaricato tutta la responsabilità su Paulus. Era accertato che la notte in cui Janvier era stato ferito in rue Lhomond, lui si trovava a Bruxelles. Avevano rintracciato la donna insieme alla quale era andato al cinema quella sera. Poi era stato visto in sua compagnia in una trattoria a buon mercato di rue des Bouchers.

«La vogliono al telefono, commissario».

Ormai era diventato un gioco. Sembrava ci provasse gusto a salire ogni volta i due piani di scale e a lanciare un’occhiata divertita alle pagine che Maigret riempiva di appunti.

Era ancora la Polizia giudiziaria, che gli chiedeva un’informazione a proposito di un caso in corso. In sua assenza, era Lucas a rimpiazzarlo al Quai. Passava una o due volte al giorno in rue Lhomond per portargli delle carte da firmare.

Non faceva domande ed evitava di guardare Maigret con aria interrogativa.

Il commissario attraversò di nuovo la strada, e prima di entrare nel palazzo di fronte andò a bersi un bicchiere di vino bianco.

«Senta, signora Keller...».

«Mi dica...».

La portineria era pulitissima, ma buia. C’era una grossa stufa che borbottava, e istintivamente Maigret vi accostò la schiena.

«L’inquilino del primo piano...».

«Sì, il signor Boursicault... Noi lo chiamiamo sempre signor Désiré... È il suo nome di battesimo».

«Mi ha detto che lavorava per Les Chargeurs Réunis...».

«Da oltre vent’anni. È commissario di bordo su una delle loro navi».

«Sa quale?».

«Cambia periodicamente. Da un anno a questa parte è sull’Asie».

«Quindi la mattina in cui l’ho visto andarsene con la valigia stava per imbarcarsi...».

«A quest’ora sarà in viaggio per Pointe-Noire, nell’Africa equatoriale. Non è quasi mai in Francia. Ci mettono più di un mese per andare e altrettanto per tornare».

«Cosicché ritorna più o meno ogni due mesi?».

«Sì».

«Si ferma a lungo?».

«Dipende. È piuttosto complicato. Mi ha spiegato più di una volta come funzionano i turni, ma non ci ho capito nulla».

«Immagino che quando è a Parigi ci rimanga parecchie settimane».

«No. È questa la cosa strana... Solo una volta su due. Allora ha quasi un mese di congedo. Le altre volte, ha appena il tempo di venire a dare un bacio alla moglie, prendere i vestiti di ricambio e imbarcarsi di nuovo».

«L’ultima volta si è fermato un mese?».

«No. È rimasto due notti».

Maigret non si scomponeva. Almeno in una decina di casi, nel corso di uno di quegli interrogatori, gli era parso di essere vicino a un risultato, ma era bastata una risposta semplicissima a mandare in fumo le sue speranze.

«Due notti, ha detto? Aspetti. Quindi sarebbe arrivato la sera in cui l’ispettore è stato ferito?».

«Sì, proprio così. Non mi era venuto in mente di parlargliene».

«Poco prima dello sparo?».

«No. Non era ancora in casa quando hanno sparato».

«Poco dopo?».

«No, parecchio tempo dopo. Il suo treno doveva arrivare alla Gare Montparnasse intorno a mezzanotte. Quando gli ho aperto la porta era quasi l’una».

«Suppongo che sia tornato in taxi».

«Sennò come portava la valigia?».

«La moglie lo aspettava?».

«Sicuramente. Sa sempre dove si trova. Una nave è come un treno. Rispetta un orario. Lei gli spedisce delle lettere per posta aerea a tutti gli scali. Lo so meglio di chiunque altro, visto che sono io a imbucarle».

«Dunque, lei lo aspettava?».

«Eccome!».

«Vanno d’accordo?».

«È la coppia più affiatata che abbia mai visto, anche se, per via del lavoro del signor Désiré, stanno insieme piuttosto poco».

«Che tipo è lui?».

«Un brav’uomo, dolcissimo, con la pazienza di un santo. Fra un anno andrà in pensione e si trasferiranno in campagna».

«La moglie è malata?».

«Sono ormai cinque anni che è praticamente inchiodata a letto. Non dovrebbe neanche alzarsi, ma quando non sono lì con lei capita che faccia qualche passo per l’appartamento».

«Cos’ha?».

«Di preciso non lo so. Qualcosa alle gambe. È mezzo paralitica. A volte si direbbe che lo è del tutto, perché non riesce nemmeno a muoversi».

«Sa se ha dei parenti a Parigi?».

«Nessuno».

«Riceve mai visite?».

«Ci vado solo io. Vado a farle le pulizie, come le ho detto. Salgo più volte al giorno a portarle da mangiare e a vedere se ha bisogno di qualcosa».

«Perché suo marito non le trova una sistemazione in campagna, o a Bordeaux, visto che sbarca lì?».

«Gliel’ha proposto. Credo che sia abituata a me. Lui aveva anche pensato di metterla in una casa di cura, ma lei non ne ha voluto sapere».

«Ha detto che non ha conoscenti?».

«La madre di Désiré, che è molto anziana e anche lei quasi inferma, viene qui tutti i mesi e ogni volta le porta una scatola di cioccolatini. Quella povera donna non osa confessarle che a lei i cioccolatini non piacciono e li dà a me per mia figlia».

«C’è nient’altro?».

«Che altro dovrei dire? Sono brave persone, messe a dura prova dalla vita. Non è certo facile per un uomo badare a una donna malata, e neanche per una donna è facile...».

«Scusi, signora Keller, ma non è salita dalla sua inquilina la sera dello sparo?».

«È vero... Mi era uscito di mente».

«Quando di preciso?».

«Oh, dopo un bel po’. Il giovane era già stato caricato sull’ambulanza. Ho attraversato la strada per vedere il punto dove era caduto e sentire cosa diceva la gente. Il marciapiede era sporco di sangue. Mi sono accorta che dalla signora Boursicault la luce era accesa e all’improvviso ho pensato che quella povera creatura doveva essere spaventatissima».

«Quanto tempo esattamente era passato da quando l’ispettore era stato ferito?».

«Almeno mezz’ora. Non mi ricordo con precisione. Sono salita. Lei non dormiva. Credo che mi aspettasse. Sapeva che sarei andata a rassicurarla».

«Che cosa le ha detto la signora Boursicault?».

«Niente. Sono stata io a raccontarle cos’era successo».

«Lei non si era alzata?».

«Mi pare che si fosse affacciata alla finestra. Il medico le ha proibito di camminare, ma come le ho già detto a volte fa di testa sua».

«Era nervosa?».

«No. Aveva le occhiaie come al solito, perché nonostante i farmaci dorme pochissimo. Io provo a farla leggere, le porto dei libri, ma non le interessano. Passa delle ore a pensare, tutta sola».

Un quarto d’ora più tardi, Maigret, la cornetta in mano e lo sguardo fisso sul cartellino sopra il salvadanaio, era in linea con Les Chargeurs Réunis.

Gli confermarono tutto quello che la portinaia gli aveva detto di Boursicault. Era un’ottima persona, molto stimato dalla compagnia. L’Asie aveva attraccato a Bordeaux appena in tempo perché lui prendesse il treno che arriva alla Gare Montparnasse qualche minuto dopo mezzanotte.

Quindi non avrebbe potuto sparare a Janvier.

Maigret aveva appena riattaccato quando udì una voce sopra la sua testa:

«Le dispiacerebbe salire un attimo, signor commissario?».

Era la signorina Blanche, che spesso lasciava la porta socchiusa e doveva aver sentito la conversazione.

A proposito della signorina Blanche, stava accadendo una cosa piuttosto divertente. Da quando Maigret alloggiava alla pensione, il suo famoso zio non si azzardava più a venire a trovarla, e doveva essere sicuramente più impaziente di chiunque altro che l’inchiesta fosse conclusa.

«Non so se sia importante, ma ho ascoltato involontariamente ciò che diceva al telefono e mi è venuta in mente una cosa».

La camera era impregnata di fumo di sigaretta. Accanto al letto, che conservava le forme della ragazza, c’era un piattino con dei dolci. Lei era come sempre in accappatoio, ed era chiaro che sotto non indossava niente.

La sua impudicizia era tranquilla, inconsapevole.

«Si accomodi. Mi scusi se l’ho fatta salire. Volevo dirle qualcosa a proposito degli inquilini del palazzo di fronte».

Seduta sul bordo del letto con le gambe accavallate, la ragazza gli porse il piatto dei dolci.

«Grazie, no».

«Premetto che non li conosco e che non ho mai parlato con loro. Il fatto è che resto quasi tutto il giorno in casa e stando a letto vedo fuori dalla finestra. Non sono particolarmente curiosa».

Era vero. Doveva interessarsi solo a se stessa e ai personaggi dei romanzi che divorava.

«Eppure c’è un particolare che, chissà perché, ho notato. Certi giorni la tapparella è alzata tutta la giornata e attraverso il merletto delle tende riesco a vedere la donna a letto».

«E altri giorni?».

«Altri giorni invece la tapparella resta abbassata dalla mattina alla sera e la finestra non viene aperta nemmeno per cambiare aria».

«Capita spesso?».

«Abbastanza spesso perché la cosa mi abbia colpita. La prima volta mi sono chiesta se per caso la donna non fosse morta. Ero così abituata a vederla a letto... Ne ho parlato con la signorina Clément...».

«È successo molto tempo fa?».

«Oh sì!...».

«Mesi?».

«Di più. Quasi due anni fa. Qualche settimana dopo che sono venuta a stare qui. E la cosa mi era sembrata ancora più strana perché eravamo in estate, e i giorni precedenti le finestre erano rimaste spalancate tutta la giornata».

«Sa dirmi se ciò accade a intervalli regolari?».

«Non ci ho fatto caso. Ma a volte va avanti tre giorni di fila».

«Non ha mai visto nessun altro in camera?».

«Solo la portinaia, che sale tutti i giorni, varie volte al giorno, e ogni tanto una donna anziana. E il marito, ma molto raramente. Quando si ferma diverse settimane, è lui che fa le pulizie, a parte le grandi pulizie del sabato. Senza contare il dottore, naturalmente».

«Il dottore ci va spesso?».

«Dipende da cosa intende per spesso. Andrà a trovarla una volta al mese. Non sto sempre lì a guardare dalla finestra. Se non l’avessi sentita parlare al telefono, non mi sarebbe neanche venuto in mente. Crede che potrà servirle? Guardi che non ho niente contro di loro. Non ci siamo neanche mai parlati...».

«Le dispiacerebbe pensarci su ancora un po’? Quando si è affacciata alla finestra, dopo lo sparo...».

«Non so a cosa pensa. Adesso sono quasi sicura che di fronte la luce era spenta».

«La tapparella era abbassata?».

«Non credo. Quando è giù fa una macchia chiara, perché è una tapparella di legno grezzo. Invece mi pare che la macchia fosse nera, come una finestra aperta su una camera in cui le luci sono spente».

La signorina Clément aveva forse deciso di tenergli il muso come lui aveva fatto con lei? Fatto sta che quando Maigret tornò da basso, lei evitò di sbucare fuori secondo la sua abitudine. Che fosse gelosa della signorina Blanche?

«Sono ancora io» disse Maigret entrando nella portineria della signora Keller.

«Sto giusto salendo a portare la cena alla signora Boursicault».

Infatti, la stava disponendo su un vassoio.

«Capita mai che la sua inquilina tenga le tende accostate tutto il giorno?».

«Tutto il giorno! Tre o quattro giorni di fila, vorrà dire! L’ho rimproverata, ma non c’è stato verso...».

«Come spiega il fatto di vivere così, nella semioscurità?».

«Vede, signor commissario, non bisogna cercare di capire i malati. Certi giorni mi accorgo che sto per perdere le staffe. Poi provo a mettermi nei suoi panni e mi dico che sarei senz’altro peggio di lei. Credo che a volte abbia degli attacchi di nevrastenia. Ne ho parlato al dottore».

«Cosa le ha detto?».

«Di non preoccuparmi. Le vengono delle crisi, e in quei momenti sembra quasi che mi detesti. Se potesse chiudersi dentro, probabilmente lo farebbe. Non solo mi costringe a tirare giù le tapparelle o va lei stessa ad abbassarle, ma mi proibisce addirittura di mettere in ordine. Sostiene di avere l’emicrania e che il minimo rumore, il minimo movimento nella stanza le fa scoppiare la testa».

«Succede spesso?».

«Purtroppo sì».

«E mangia lo stesso?».

«Come al solito. È già tanto se mi permette di rifarle il letto e di dare una spolverata alla camera».

«Quante stanze ci sono nell’appartamento?».

«Quattro, più uno sgabuzzino e un gabinetto. Ci sono due camere, di cui una che nessuno usa, una sala da pranzo e un salotto, anche quello sempre chiuso. Non pagano molto d’affitto, perché sono più di vent’anni che il signor Boursicault vive in questo palazzo. Ci abitava già da prima che arrivassi io».

«Anche la moglie?».

«Si sono sposati una quindicina d’anni fa, quando né l’uno né l’altra erano più giovani».

«Quanti anni ha la donna?».

«Quarantotto».

«E lui?».

«Ne fa sessanta l’anno prossimo. Me l’ha confidato quando mi ha detto che sarebbe andato in pensione e che l’appartamento si sarebbe liberato».

«Mi aveva detto che porta lei le lettere della signora Boursicault alla posta?».

«In realtà non le “porto”. È il postino che passa a ritirarle in portineria quando fa il suo giro».

«A chi scrive?».

«Al marito. A volte alla suocera».

«E basta?».

«Non ho mai visto altre lettere».

«Ne riceve molte?».

«Da suo marito sì. La vecchia signora, invece, non scrive mai».

«Nient’altro?».

«È raro. Qualche volta le ho consegnato una busta con l’indirizzo scritto a macchina».

«Quante volte è capitato?».

«Quattro o cinque. Per il resto, riceve le bollette del gas o dell’elettricità, e qualche volantino pubblicitario».

«Hanno il telefono?».

«Quando cinque anni fa si è ammalata, il signor Boursicault l’ha fatto installare per permetterle di chiamare più facilmente il medico in caso di bisogno».

«Preferirei che non le dicesse che ’ho interrogata sul suo conto, le dispiace?».

«Gliel’ho già raccontato. Ho sbagliato? Mi sforzo sempre di interessarla a qualcosa. Le ho raccontato delle domande che lei stava facendo su tutti gli abitanti della via e le ho anche detto per scherzo che, se suo marito fosse rientrato qualche ora prima, sarebbe stato sospetto. Le chiedo scusa».

«E lei come ha reagito?».

«Non ha reagito. Sembrava molto stanca. Non mi stupirei se domani o dopodomani le tornasse una delle sue emicranie».

«Può portarle su la cena. Le dica che vorrei parlarle. Le spieghi che ho interrogato tutti gli inquilini e che ho due o tre domande da farle».

«Subito?».

«Torno fra cinque minuti».

Aveva voglia di respirare un po’ d’aria fresca, e soprattutto di andare dall’alverniate a bere un bicchiere di vino bianco.

Dall’altra parte della strada, dietro la tenda del salotto, la signorina Clément non gli staccava gli occhi di dosso, e Maigret fu sul punto di farle una boccaccia.

^