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In cui Maigret diventa a sua volta un «incantevole» inquilino della signorina Clément e fa un bel po’ di conoscenze

 

All’entrata dell’immenso corridoio, vicino alle scale, c’era uno slargo dove erano state sistemate due panche che sembravano panche di scuola.

Fu lì che a mezzogiorno, l’ora in cui risuonavano un po’ ovunque per l’ospedale dei campanelli - e da qualche parte in cortile si sentiva la campana di un convento -, Maigret trovò la signora Janvier, che era arrivata da quasi mezz’ora.

Era stanca, ma gli sorrise lo stesso per mostrargli che voleva esser forte. A tutti i piani c’era un trambusto da caserma: dovevano essere gli infermieri e le infermiere che si davano il cambio. Ne videro passare alcuni che ridevano e si spintonavano.

Il sole scintillava, e certe folate d’aria erano quasi calde. Maigret non portava il soprabito, e non c’era ancora abituato.

«Dovrebbero venire a chiamarci fra qualche minuto» disse la signora Janvier.

E con una punta di ironia, quasi di amarezza, aggiunse:

«Lo stanno lavando».

Qui, infatti, quando lo lavavano la mandavano fuori. A Maigret capitava di incrociare la signora Janvier le volte in cui veniva a prendere il marito al Quai des Orfèvres. Eppure si rendeva conto soltanto ora che era una donna quasi appassita. Non erano trascorsi neanche dieci anni, nove per l’esattezza, da quando il suo ispettore gli aveva presentato una fidanzata con le guance piene sulle quali si disegnavano due fossette allorché sorrideva, e adesso aveva già l’aria spenta e lo sguardo troppo grave delle donne che si vedono nei sobborghi, sempre affaccendate, con la schiena rotta dalla fatica.

«Sia sincero, signor commissario, crede che ce l’avessero proprio con lui?».

Maigret capì a cosa stava pensando e rifletté prima di rispondere, sebbene avesse già preso in considerazione quell’ipotesi fin dal mattino.

Ovviamente, quando Janvier era stato colpito in rue Lhomond avevano subito pensato a Paulus. Però, come Maigret aveva spiegato al direttore della Polizia giudiziaria durante il rapporto, più la si valutava e più quell’ipotesi appariva inverosimile.

«Il ragazzo non è un assassino, capo. Sono riuscito a raccogliere qualche informazione sul suo conto. Quando è arrivato a Parigi, un anno e mezzo fa, ha lavorato come impiegato in un’agenzia che tratta locali commerciali in boulevard Saint-Denis».

Il commissario ci era andato. Gli uffici, situati all’ammezzato, erano sporchi e volgari come il proprietario, che aveva l’aria di un pappone.

Alle pareti, attaccati con le puntine, c’erano degli annunci scritti a mano con i vari locali in vendita, soprattutto caffè e bar. Il compito di Paulus era copiare gli annunci in bella calligrafia e spedire centinaia di circolari.

Un altro adolescente famelico dai capelli lunghi lavorava nell’anticamera, dove bisognava tenere la luce accesa tutto il giorno.

«Paulus?» esclamò il padrone, che parlava con un forte accento meridionale. «L’ho sbattuto fuori».

«Perché?».

«Perché non passava giorno senza che fregasse qualche franco dalla piccola cassa».

Era un cassetto dove tenevano gli spiccioli per le spese quotidiane, i francobolli, le raccomandate, i telegrammi.

«Sono ormai sei mesi, capo,» aveva proseguito Maigret «che Paulus ha lasciato quel posto. I suoi genitori gli mandavano un po’ di soldi, ma non abbastanza per vivere, dato che non sono ricchi. In seguito si era messo a vendere enciclopedie porta a porta. Ne ho trovato un esemplare nella sua valigetta, insieme ai contratti da firmare per l’acquisto a rate dei ventidue o ventiquattro volumi».

L’inchiesta andava avanti, naturalmente. Parigi profumava di primavera. Le gemme dei castagni esplodevano lasciando sbocciare minuscole foglioline di un verde tenero. Migliaia di giovani simili a Paulus e al suo successore percorrevano con lo sguardo torvo le vie di Parigi alla ricerca di un posto, di un avvenire.

«Deve aver incontrato un ragazzo più grande e sicuramente più smaliziato di lui. La signorina Clément dice che ogni tanto andava a trovarlo un amico, e almeno un paio di volte è capitato che questo amico rimanesse a dormire in camera sua. Un tipo bruno, sui venticinque anni. Lo ritroveremo. Quel che mi colpisce è che per svaligiare La Cigogne si siano serviti di un’arma giocattolo».

Spaventare il gestore di un locale notturno con una pistola per bambini e far fuori a sangue freddo un ispettore per strada sono due cose molto diverse.

«Lei non crede, Maigret, che possa essere stato il suo amico a sparare?».

«A che scopo? C’erano solo due ragioni per eliminare Janvier: entrare nella pensione per recuperare il malloppo, cosa assai rischiosa, o sgombrare la via d’uscita. Ma la signorina Clément è categorica. Nessuno è entrato né uscito».

«A meno che Janvier non abbia scoperto un indizio importante e...».

Maigret ci aveva pensato tutta la mattina, mentre Vauquelin montava la guardia nella pensione di rue Lhomond, dove la signorina Clément l’aveva fatto accomodare in salotto accanto alla finestra aperta.

Il commissario aveva addirittura perquisito l’ufficio personale di Janvier e stilato una lista di tutti i casi di cui l’ispettore si era occupato negli ultimi mesi.

Non era saltato fuori niente.

«Fra poco lo chiederemo a lui» aveva sospirato.

La signora Janvier tormentava nervosamente la borsetta. Forse vedendosi troppo pallida, si era truccata maldestramente le guance con il doppio del belletto necessario, il che le dava un’aria febbricitante.

Vennero a chiamarli. Prima di farli entrare in camera l’infermiera rivolse loro qualche raccomandazione.

«Potete restare solo pochi minuti. Non affaticatelo. Non parlategli di cose che potrebbero metterlo in agitazione».

Era la prima volta che Maigret vedeva l’ispettore in un letto e lo trovò parecchio cambiato, tanto più che Janvier, di solito sempre rasato in maniera impeccabile, con la pelle rosea e liscia, e l’aria da ragazzino, aveva già il viso ricoperto di barba.

L’infermiera fece un discorsetto anche a lui.

«Non si dimentichi quel che le ha detto il dottore. Le è tassativamente proibito parlare. Se il commissario ha qualche domanda da farle, risponda sì o no con un battito di palpebre. Non si agiti. Non si arrabbi».

Poi, dirigendosi verso un tavolino su cui era posato un giornale, aggiunse:

«E comunque io resto qui». E si sedette su una sedia.

 

Maigret stava vicino alla porta, in modo che Janvier non poteva ancora vederlo. La signora Janvier, che si era avvicinata ai piedi del letto con le mani strette sulla borsetta, rivolse al marito un timido sorriso e mormorò:

«Non preoccuparti, Albert. È tutto a posto. Sono stati tutti gentilissimi con me e i bambini stanno bene. Hai sofferto molto?».

Fu una scena commovente: a un tratto due lacrimosi riempirono gli occhi del ferito, che fissava la moglie come se non avesse più sperato di rivederla.

«Non preoccuparti per noi, mi raccomando. Il commissario è qui...».

Si era forse accorta che, dopo un primo momento di emozione, Janvier cercava qualcuno con gli occhi? Era quasi imbarazzante. Janvier apparteneva alla sua famiglia, certo, adorava la moglie e i figli. Ciò nondimeno Maigret aveva l’impressione che si sentisse innanzitutto un ispettore della Polizia giudiziaria.

Il commissario si avvicinò di qualche passo e, appena lo scorse, il viso dell’ispettore sembrò riprendere vita. Aprì la bocca per parlare nonostante il divieto, e Maigret dovette bloccarlo con un cenno.

«Sta’ tranquillo, Janvier. Lascia che ti dica subito quanto siamo tutti felici che tu te la sia cavata. Il capo mi ha pregato di portarti i suoi complimenti e i suoi auguri. Verrà di persona appena le visite non ti affaticheranno più».

La signora Janvier si era fatta discretamente da parte.

«Il medico ci concede solo pochi minuti. Ho preso in mano il caso. Sei abbastanza in forze perché ti faccia qualche domanda? Hai sentito quel che ha detto l’infermiera: rispondi con un battito di palpebre. Non cercare di parlare».

Un largo fascio di luce, vibrante di un finissimo pulviscolo, attraversò la camera e parve svelare all’improvviso la vita intima dell’aria.

«Hai visto chi ti ha sparato?».

Senza esitazione Janvier fece un segno negativo.

«Ti hanno trovato sul marciapiede di destra, cioè il marciapiede della signorina Clément, proprio di fronte alla sua pensione. A quanto sembra non hai avuto il tempo di trascinarti lì prima che ti ritrovassero. La via era deserta, vero?».

Battito di palpebre.

«Stavi facendo la ronda?».

Di nuovo un battito.

«Non hai sentito arrivare nessuno?».

Segno negativo.

«Nelle ore precedenti, hai notato nessuno che ti spiava?».

Un altro no.

«Ti sei acceso una sigaretta?».

Negli occhi di Janvier si lesse lo stupore. Poi, intuendo il pensiero di Maigret, l’ispettore abbozzò un sorriso.

«Sì» fecero le palpebre.

Secondo il medico, infatti, il colpo era partito da una distanza di circa dieci metri. Ora, non c’erano lampioni in prossimità della pensione della signorina Clément. Janvier era solo una sagoma nella notte.

Ma quando si era acceso la sigaretta era diventato evidentemente un bersaglio più preciso.

«Hai per caso sentito una finestra che si apriva?».

Il ferito ci pensò un po’ su e, seppure con una certa esitazione, finì per scuotere la testa in segno negativo.

«Vuoi dire che hai sentito il rumore di una finestra ma non in quel momento?».

Proprio così.

«Immagino che nel corso della serata parecchie finestre si siano aperte e chiuse».

Era stata una serata così tiepida che la cosa pareva del tutto normale. Janvier lo confermò.

«Anche nella pensione dalla signorina Clément?».

Un altro sì.

«Ma non intorno all’ora dello sparo?».

No.

«Non hai visto né sentito nessuno?».

No.

«Riesci a ricordarti da che parte eri girato quando sei stato colpito?».

Dalla posizione del corpo di Janvier sul marciapiede era impossibile dedurlo. Può capitare infatti che un uomo raggiunto da una pallottola, cadendo a terra, faccia un mezzo giro o finanche un intero giro su se stesso.

Per lo sforzo di ricordare, il viso di Janvier si contrasse in una smorfia di dolore. La signora Janvier non li ascoltava più. Non era solo per discrezione. Si era avvicinata all’infermiera e le parlava sottovoce, rivolgendole di sicuro delle domande, azzardando timide raccomandazioni.

No, Janvier non se lo ricordava. Normale anche questo. Quella sera aveva fatto talmente tante volte avanti e indietro sullo stesso tratto di marciapiede...

«Hai scoperto, su Paulus e il suo complice, un indizio che non figura nei tuoi rapporti?».

Era pressoché l’unica spiegazione plausibile, ma Janvier rispose ancora una volta negativamente.

«Non hai trovato nemmeno qualcosa su un altro caso in corso, magari anche vecchio?».

Janvier, che aveva intuito il ragionamento di Maigret, sorrise di nuovo.

Niente da fare. Tutte le supposizioni cadevano una dopo l’altra.

«Insomma, ti sei acceso una sigaretta ed è esploso il colpo. Non hai sentito dei passi. Non hai sentito nessun rumore. Sei caduto a terra e hai perso conoscenza».

«Signor commissario,» intervenne l’infermiera «mi dispiace dover interromperla ma le istruzioni del dottore sono tassative».

«Non ti preoccupare, ragazzo mio. E soprattutto non pensarci più».

Maigret lesse una domanda sulle labbra dell’ispettore e lo conosceva abbastanza bene per intuirla.

«Mi trasferisco oggi stesso in rue Lhomond, dalla signorina Clément, e finirò pure per scoprire la verità, no?».

Povero Janvier! Si vedeva benissimo che si immaginava il commissario nella pensione della cicciona e moriva dalla voglia di andarci con lui!

«Ora ti devo lasciare, Albert. La signora Dambois è così gentile da badare ai bambini in mia assenza. Verrò tutti i giorni. Mi hanno detto che domani potrò restare un po’ di più».

Faceva la coraggiosa, ma appena si incamminò lungo il corridoio insieme a Maigret non riuscì a trattenere le lacrime. Lui la prese delicatamente per il braccio senza dire niente, senza cercare di consolarla.

 

Preferì telefonare dal suo appartamento, che gli sembrò quasi estraneo. Era lì tutto solo, senza nessuno con cui parlare, e per di più non era abituato, tranne la domenica, a trovarsi in casa a quell’ora.

Aveva spalancato le finestre, si era servito un bicchierino di alcol di prugne, e mentre aspettava che gli dessero la comunicazione infilò un po’ di biancheria e qualche oggetto da toletta nella vecchia valigia di cuoio.

Finalmente riuscì ad avere la signora Maigret, anche lei in un ospedale, dove aveva ottenuto di prolungare il ricovero della sorella che entrava in convalescenza.

Forse perché si sentiva lontana e temeva che lui non la udisse, gli parlava con una voce insolitamente stridula che faceva vibrare l’apparecchio.

«Ma no, non mi è successo niente. Ti telefono per dirti di non cercarmi qui stasera. E per spiegarti perché ieri sera non mi hai trovato in casa».

Infatti erano d’accordo che lei l’avrebbe chiamato ogni sera verso le undici.

«Janvier è stato ferito. Sì, Janvier... No. È fuori pericolo... Pronto! Però mi tocca andare ad abitare in rue Lhomond per portare avanti la sua inchiesta... In una pensione... Ci starò bene... Ma certo che sì!... Ti assicuro... La proprietaria è incantevole...».

Aveva detto «incantevole» senza volerlo, e gli venne da sorridere.

«Hai una matita e un pezzo di carta? Segnati il numero... D’ora in poi chiamami un po’ prima, fra le nove e le dieci, in modo da non svegliare tutti quanti: l’apparecchio è nel corridoio al pianterreno... No, non ho dimenticato nulla... Fa quasi caldo... Non c’è neanche bisogno del soprabito...».

Fece un’altra capatina nella credenza, dove era riposta la piccola caraffa dal bordo dorato, poi, afferrata la pesante valigia, uscì finalmente di casa e chiuse la porta a chiave con la vaga sensazione di consumare una specie di tradimento.

Era solo per via dell’inchiesta che si trasferiva in rue Lhomond, o perché non sopportava l’idea di tornare la sera in un appartamento vuoto?

La signorina Clément gli si precipitò incontro tutta eccitata, con i grossi seni che a ogni movimento le ballonzolavano sotto la camicetta come fossero gelatina.

«Non ho toccato niente in camera, come lei mi ha chiesto; ho solo cambiato le lenzuola e messo delle coperte pulite».

Vauquelin, seduto con una tazza di caffè a portata di mano su una poltrona accanto alla finestra nella stanza che dava sulla strada, si era alzato e aveva insistito per portare la valigia del commissario al piano di sopra.

Era una strana casa, che non rientrava in nessuna categoria di pensioni. Benché vecchia, era di una pulizia sorprendente e soprattutto sprizzava allegria. La carta da parati, che era chiara perfino lungo le scale, e quasi ovunque giallina a fiorellini, non aveva niente di antiquato o di banale. I rivestimenti di legno, bruniti dal tempo, mandavano riflessi tremolanti e gli scalini, senza guida, profumavano di cera.

Le stanze erano più spaziose che nella maggior parte delle pensioni. Ricordavano piuttosto le accoglienti locande di provincia: quasi tutti i mobili erano antichi, gli armadi alti e profondi, e i comò panciuti.

La signorina Clément aveva avuto l’inaspettata premura di mettere un mazzolino di fiori in un vaso al centro del tavolo rotondo, fiori senza pretese, che doveva aver comprato, mentre faceva la spesa, da un ambulante.

Era salita insieme a loro.

«Non vuole che sistemi le sue cose? Ho l’impressione che lei non ci sia tanto abituato».

E, con una curiosa risata garrula che le faceva tremare il petto, aggiunse:

«Sempre che la sua valigia non contenga cose che non posso vedere».

Maigret pensò che probabilmente si comportava così con tutti gli inquilini, non per servilismo o per dovere professionale, ma perché le faceva piacere. Gli venne addirittura il dubbio che fosse una specie di signora Maigret la quale, in mancanza di un uomo di cui occuparsi, si consolava vezzeggiando i suoi inquilini.

«È da molto che gestisce questa pensione, signorina Clément?».

«Da dieci anni, commissario».

«È originaria di Parigi?».

«Di Lilla. Di Roubaix, per la precisione. Ha presente la Brasserie Flamande, a Roubaix? Mio padre ha fatto il cameriere lì per quasi quarant’anni, lo conoscevano tutti. Io sono entrata come cassiera che non avevo ancora vent’anni».

A sentirla, si sarebbe detto che avesse giocato a fare la cassiera allo stesso modo in cui da bambina giocava con le bambole, e adesso a fare l’affittacamere.

«Il mio sogno era di trasferirmi a Parigi e di essere padrona di me stessa, e quando mio padre è morto lasciandomi una piccola eredità ho rilevato questa pensione. Non riuscirei a vivere da sola. Ho bisogno di sentire vita attorno a me».

«Non ha mai pensato di sposarsi?».

«Non sarei più stata padrona di me stessa. Ora, se vuole essere così gentile da scendere un attimo... Mi imbarazza mettere in ordine in sua presenza. Preferirei che mi lasciasse sola».

Maigret fece cenno a Vauquelin di seguirlo. Lungo le scale udirono un pianoforte e una voce di donna che faceva dei vocalizzi. Provenivano dal pianterreno.

«Chi è?».

Vauquelin, già pratico della casa, spiegò:

«Il signor Valentin. Il suo vero nome è Valentin Desquerre. Una trentina d’anni fa era piuttosto noto come cantante di operetta con il nome di Valentin».

«La stanza a sinistra, se ricordo bene».

«Sì. Non solo una stanza, ma un appartamento vero e proprio. Ha un salottino sul davanti dove dà le sue lezioni di canto, una camera da letto, un bagno e anche una cucina. Si fa da mangiare da solo. I suoi allievi sono soprattutto delle ragazzine...».

Quando erano quasi arrivati al pianterreno Vauquelin, estraendo delle carte dalla tasca, aggiunse:

«Le ho preparato una pianta della casa con il nome degli inquilini e la loro storia in sintesi. Ma non credo che le servirà a granché, dal momento che la signorina Clément le racconterà tutto senza neanche bisogno che lei glielo chieda. È una strana pensione, vedrà. Le persone vanno e vengono come fossero a casa loro, entrano in cucina, si scaldano un po’ di caffè, e dato che il telefono si trova in corridoio tutti sanno tutto di tutti. La signorina Clément vorrà prepararle da mangiare. Ci ha provato anche con me, ma ho preferito pranzare nel piccolo bistrot qui vicino».

Ci andarono insieme. Il tendone era teso al di sopra dei due tavolini tondi all’aperto e all’interno un muratore stava bevendo un bicchiere di vino bianco. Il proprietario era un alverniate dai baffi corvini e con l’attaccatura dei capelli bassa sulla fronte.

Era difficile immaginare che boulevard Saint-Michel, con la sua confusione, fosse solo a due passi. In mezzo alla strada c’erano dei bambini che giocavano, come nelle cittadine di provincia, e da un’officina nei paraggi arrivavano dei colpi di martello.

«Credo che verrò qui a mangiare per qualche giorno» disse Maigret al proprietario.

«Se non è troppo schizzinoso, la mia signora fa del suo meglio...».

Il rapporto che fin dalle undici del mattino gli aveva fatto avere l’esperto di balistica Gastine-Renette lo aveva messo di cattivo umore. La pallottola che aveva ferito Janvier proveniva infatti da una pistola di grosso calibro, con ogni probabilità una colt a tamburo.

Ma quella era un’arma pesante, e ingombrante, usata soprattutto nell’esercito e assai difficile da nascondere nella tasca della giacca!

«Hai visto nessuno gironzolare attorno alla pensione, da stamattina?» chiese il commissario mentre beveva un bicchiere di vino con Vauquelin.

«Giornalisti. Fotografi di giornali».

«Hai sentito qualche telefonata interessante?».

«No. Un uomo ha chiamato la signorina Blanche, che è scesa in camicia da notte e vestaglia. Una bella ragazza».

«Verso che ora?».

«Le undici».

«È uscita?».

«No. È tornata a letto».

«Professione?».

«Nessuna. Si definisce artista drammatica perché le è capitato di fare qualche particina al teatro dello Châtelet o non so dove. Uno zio viene a trovarla due o tre volte alla settimana».

«Uno zio?».

«Così dice la signorina Clément... Tra parentesi mi chiedo se fa finta o se è davvero così ingenua. Nella seconda ipotesi, è proprio un caso disperato.

«“La signorina Blanche studia le sue parti, capisce?” mi ha detto. “È per questo che resta a letto quasi tutto il giorno. Suo zio la circonda di mille attenzioni. Vuole fare di lei una grande artista. È giovanissima: ha appena ventidue anni...”».

«L’hai visto lo zio?».

«Non ancora. Il suo giorno è domani. So solo che è un uomo “estremamente educato” e “di una correttezza esemplare...”».

«E gli altri?».

«Incantevoli anche loro, naturalmente. Sono tutti “incantevoli” in quella pensione. Sopra il signor Valentin, al primo piano, ci sono i Lotard, che hanno un bambino di un anno».

«Come mai abitano in una pensione?».

«Sono arrivati a Parigi da poco e a quanto pare non sono ancora riusciti a trovare un appartamento. Sono entrato in camera loro. Cucinano in bagno, su un fornellino a spirito, e stendono i panni ad asciugare su certe corde tese da un muro all’altro».

«Che fa Lotard?».

«Lavora nelle assicurazioni. Sulla trentina, allampanato e triste; sua moglie è una donnina col culo basso che scende ogni tanto a fare quattro chiacchiere con la signorina Clément e lascia la porta aperta per sentire il bambino quando si sveglia. Detesta il signor Valentin per via del pianoforte. Il signor Valentin probabilmente la detesta a causa del bambino che strilla tutte le notti».

«Hanno anche loro un appartamento?».

«Solo una stanza e un piccolo bagno. Più avanti, nella camera che dà sul cortile, ci abita Oscar Fachin, uno studente che si guadagna da vivere copiando spartiti musicali e ha l’aria di uno che non mangia tutti i giorni. Ogni tanto la signorina Clément gli porta su una tazza di tè, e pare che all’inizio lui rifiuti sempre, perché è molto orgoglioso. Mentre è fuori, lei va a prendere le sue calze per rammendargliele. Il ragazzo le nasconde, ma lei riesce sempre a scovarle».

Chissà cosa faceva Paulus mentre loro se ne stavano là a chiacchierare davanti a un bancone di stagno, sorseggiando un vinello bianco nell’aria intiepidita dal sole che entrava dalla porta aperta?

La polizia aveva i suoi dati segnaletici. Ormai doveva sapere che la pensione in rue Lhomond era sorvegliata. Lo sapeva senz’altro da quando la polizia aveva perquisito la casa, dato che non si era più fatto vivo.

Maigret aveva incaricato Lucas di ritrovare lui e il suo complice, l’uomo bruno sui venticinque anni.

«Devo continuare a occuparmi della pensione?» chiese Vauquelin, che cominciava ad averne abbastanza della signorina Clément e di quella viuzza tranquilla.

«No. Non della pensione. Più tardi, quando saranno tutti rientrati per cena, dovresti andare a interrogare i vicini. È possibile che qualcuno abbia visto o sentito qualcosa».

Maigret mangiò da solo nel bistrot dell’alverniate, leggendo il giornale della sera e gettando di tanto in tanto un’occhiata alla pensione.

Quando verso le sette e mezzo vi ritornò, c’era una ragazza nella seconda stanza che serviva da sala da pranzo e da cucina. Portava un cappellino rosso acceso. Era carina, fresca, con una testa di riccioli biondi.

«La signorina Isabelle!» la presentò la signorina Clément. «Abita al secondo piano. Lavora come dattilografa in un ufficio di rue Montmartre.

«Il commissario Maigret».

Lui la salutò.

«La signorina Isabelle mi stava appunto raccontando che Paulus ha cercato di farle la corte. Io non ne sapevo niente».

«Oh, era una cosa talmente vaga... Non credo che si possa definire “fare la corte”... Ne ho parlato solo per far capire che tipo di ragazzo è...».

«E che tipo è?».

«Di mattina ho l’abitudine di mangiare un croissant in un bar di rue Gay-Lussac prima di prendere il métro. Un giorno ho notato accanto a me un ragazzo che beveva un caffellatte e mi fissava. Mi guardava nello specchio che c’è dietro il bancone, per essere precisi. Non avevamo mai avuto occasione di parlare, però l’ho riconosciuto. E sicuramente anche lui. Quando sono uscita, mi ha seguita. Ho sentito i suoi passi farsi più affrettati, poi ho visto la sua ombra che mi superava, e quando è arrivato alla mia altezza mi ha chiesto se poteva accompagnarmi».

«Non è delizioso?» esclamò la signorina Clément.

«Forse quel mattino avevo la luna storta. Di mattina non sono mai di ottimo umore. Gli ho risposto che ero abbastanza grande per trovare la strada da sola».

«E allora?».

«Niente. Il tempo di girare la testa e aveva già fatto dietrofront balbettando delle scuse. Per questo ne ho parlato alla signorina Clément. È raro che un ragazzo sia così timido. Di solito insistono, anche solo per darsi un contegno».

«Insomma, a lei pare curioso che un ragazzo così timido prima rapini il gestore di un locale notturno e poi spari a un ispettore di polizia?».

«A lei non sembra strano?».

La polizia aveva finito per rivelare l’identità del «gangster di rue Campagne-Première», come lo chiamavano i giornali. Era stata addirittura pubblicata in prima pagina una fotografia di Paulus che avevano trovato nella sua camera tra gli effetti personali.

«Forse, se gli avesse dato retta, non sarebbe successo niente» disse con aria assorta la signorina Clément alla ragazza.

«Cosa intende dire?».

«Sarebbe diventato il suo fidanzatino e avrebbe pensato a ben altro che a svaligiare un bar...».

«Ora devo proprio lasciarla. Vado al cinema con una collega. Buonasera, signor commissario...».

Quando fu uscita; la signorina Clément mormorò:

«Non è deliziosa? Tutte le sere la stessa storia. Comincia dicendomi che non uscirà, che è in ritardo con il suo lavoro di cucito, perché si confeziona i vestiti da sé. Poi, una mezz’ora dopo, la vedo correre giù per le scale con il cappellino in testa. Si è ricordata all’improvviso che aveva appuntamento con un’amica per andare al cinema. Povere piccole, non sopportano di sentirsi rinchiuse...».

«Ha un amico?».

«Solo un cugino».

«Che viene a trovarla ogni tanto?».

«Quando escono insieme lui sale un momento... ma da buoni amici. Comunque viene piuttosto di rado, perché credo che lavori di sera. La domenica però...».

«La domenica...?».

«Se ne vanno in campagna, e quando piove ci restano».

Lo guardò con un sorriso disarmante.

Se ho ben capito, insomma, lei come inquilini ha solo brave persone...».

«Al mondo ci sono molte più brave persone di quanto si creda! Non capisco proprio perché si dovrebbe pensare male di tutti. To’! Ecco il signor Kridelka che rientra» aggiunse dopo aver dato un’occhiata dallo spioncino.

Un uomo sulla quarantina, i capelli più neri di quelli dell’alverniate del bistrot e la carnagione chiara, si pulì meccanicamente le scarpe sullo zerbino prima di avviarsi su per le scale.

«Anche lui abita al secondo piano, nella stanza accanto a quella della signorina Isabelle».

Maigret consultò gli appunti che Vauquelin gli aveva consegnato.

«È iugoslavo» disse.

«Vive a Parigi da tanto tempo».

«Cosa fa?».

«Non lo indovinerà mai. Lavora come infermiere in un manicomio. Forse è per questo che non parla molto. Pare sia un mestiere durissimo. È una persona ammirevole, sa? Si figuri che nel suo paese era avvocato. Non vuole accomodarsi in salotto?».

Si sedette, prese un golfino azzurro a cui stava lavorando e incominciò a sferruzzare.

«È per il bambino dei Lotard. Certi proprietari non accettano bambini nella loro pensione. Per me ci vuole di tutto, come dico sempre, compresi pianoforti e bebè. Anche la signora Saft aspetta un figlio».

«Chi è?».

«Secondo piano, a destra. È francese, suo marito invece è polacco. Se fosse arrivato qualche minuto prima, l’avrebbe visto rientrare. È lui che fa la spesa quando torna dall’ufficio. Il più delle volte mangiano piatti freddi. Credo che lei non sia una gran cuoca. Era una studentessa. Lui ha finito gli studi».

«Studi di cosa?».

«Chimica. Non ha trovato lavoro come chimico e fa l’aiutofarmacista dalle parti di rue de Rennes. La gente ne ha di coraggio, non le pare? Neanche loro hanno ancora trovato un appartamento. Quando mi si presenta una coppia so già cosa mi diranno, che è una soluzione provvisoria e che si procureranno un alloggio al più presto. I Lotard aspettano di trovarne uno da tre anni. I Saft sperano di riuscire a traslocare prima del parto».

E rise, con quella sua strana risata garrula. Non ci voleva molto per farla ridere. Ricordava quelle suore che rallegrano la vita del convento divertendosi con le battute più innocenti.

«Conosceva bene Paulus, signorina Clément?».

«Lo conoscevo come gli altri. Era qui solo da quattro mesi».

«Che genere di ragazzo era?».

«Ha sentito quel che ha detto la signorina Isabelle. È il suo ritratto sputato. Era talmente timido che quando passava davanti allo spioncino voltava la testa dall’altra parte».

«Riceveva molta posta?».

«Solo lettere da Limoges. Dalla sua famiglia. Riconoscevo la calligrafia di entrambi i genitori. La madre gli scriveva due volte alla settimana, il padre appena una volta al mese. Quando gli consegnavo le lettere del padre sembrava sempre un po’ impressionato».

«Si è mai portato donne in camera?».

«Non si sarebbe mai permesso».

«Quando il suo amico è venuto a trovarlo, lei sapeva che sarebbe rimasto qui a dormire?».

«No. La prima volta ero anche un po’ preoccupata. Aspettavo che se ne andasse per coricarmi, perché non mi piace essere svegliata nel primo sonno. Il mattino dopo, non era ancora l’alba, è sceso in punta di piedi, e la cosa mi ha fatto sorridere. Mio fratello era uguale. Adesso è sposato, e vive in Indocina. Quando stavamo ancora in famiglia e aveva diciassette o diciotto anni, faceva entrare di nascosto degli amici in camera sua, ragazzi che per via dell’ora non avevano il coraggio di tornare a casa».

«Paulus le ha mai fatto qualche confidenza?».

«Alla fine eravamo diventati buoni amici. A volte entrava a salutarmi e mi raccontava quanto è difficile piazzare le enciclopedie. La sua borsa era così pesante, con quel librone dentro, che aveva il braccio tutto indolenzito. Sono sicura che gli capitava di saltare i pasti».

«Come faceva a saperlo?».

«Certe sere tornava mentre stavo cenando. Bastava vedere l’occhiata che lanciava al mio piatto, il modo in cui annusava gli odori di cucina per capirlo. Gli dicevo gentilmente: “Prenda almeno un po’ di minestra insieme a me, signor Paulus!”. Prima rifiutava con la scusa che si era appena alzato da tavola. Ma poi finiva sempre per sedersi insieme a me».

Lo guardò con i suoi occhi chiari.

«La pagava puntualmente?».

«Si vede proprio che lei non ha mai gestito una pensione, signor Maigret. Non pagano mai , nessunolo , glielo assicuro. Se avessero che pagare puntualmente, con ogni probabilità non sarebbero qui. Non vorrei essere indiscreta mostrandole il quaderno sul quale scrivo le somme che mi devono.

«Ma sono comunque onesti. Alla fine i soldi me li danno, spesso un po’ alla volta».

«Anche il signor Valentin?».

«È più squattrinato di tutti. Le ragazzine che vengono a lezione di canto lo pagano ancora più saltuariamente, e alcune non lo pagano affatto».

«E lui gli dà lezione lo stesso?».

«Magari pensa che abbiano del talento... È così buono!».

Proprio in quell’istante, senza un motivo preciso, Maigret si voltò verso di lei e gli sembrò di sorprendere nella cicciona uno sguardo diverso dal solito. Purtroppo fu solo un lampo, e un attimo dopo aveva già gli occhi abbassati sul golfino azzurro.

Al posto dello spensierato candore che esibiva abitualmente, gli era parso di cogliere un’ironia non meno briosa né meno infantile, ma che lo metteva a disagio.

A tutta prima aveva creduto che fosse un po’ svitata. Ora si chiedeva se quella esuberanza non fosse dovuta al fatto che lei recitava, non solo per ingannarlo, non solo per nascondergli qualcosa, ma per il puro piacere di interpretare un ruolo.

«Si diverte molto, signorina Clément?».

«Mi diverto sempre, commissario».

Questa volta lo guardò con tutto il suo ritrovato candore. Nelle scuole femminili c’è quasi sempre almeno una ragazzina di una spanna più alta delle altre e con quelle stesse forme prosperose. A tredici o quattordici anni assomigliano a enormi bambole di pezza, con gli occhi chiari che non vedono niente della vita e un sorriso trasognato sulle labbra.

Ma era la prima volta che Maigret ne conosceva una di quarant’anni.

Il fumo della sua pipa inazzurrava sempre più l’aria e formava una cortina fluttuante attorno all’abatjour color salmone della lampada.

Maigret provava una strana sensazione a trovarsi lì, seduto in poltrona come fosse a casa sua. L’unica differenza era che a casa sua si sarebbe tolto la giacca, ma era convinto che nel giro di due giorni al massimo lei l’avrebbe invitato a farlo.

Quando squillò il telefono, trasalì e guardò l’orologio.

«Dev’essere per me» disse precipitandosi a rispondere.

Era un po’ imbarazzato, proprio come il giorno prima lungo i boulevard, e sembrava quasi che si sentisse in colpa.

«Sono io, sì ... Hai avuto difficoltà a ottenere la comunicazione?... Benissimo... Benissimo... Ti assicuro che sto benissimo... Ma no, tutto tranquillo... Si prendono cura di me, sì... Come sta tua sorella?».

Riappese e tornò in salotto. La signorina Clément, che aveva gli occhi abbassati sul suo lavoro a maglia, attese che si fosse seduto e avesse riacceso la pipa per chiedergli con voce serafica:

«Era sua moglie?».

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