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Erano quasi le cinque quando bussarono discretamente alla porta dell’ufficio di Maigret. Senza aspettare risposta, il vecchio Joseph, decano degli uscieri, si fece avanti e tese una scheda al commissario.

 

Nome: Jean-Luc Caucasson

Motivo della visita: caso Chabut

 

«Dove l’ha messo?».

«Nell’acquario».

Veniva così chiamata una sala d’attesa con tre pareti a vetri, dove stazionava sempre qualche visitatore.

«Lo lasci marinare ancora per un po’ e poi me lo porti».

Maigret si soffiò ripetutamente il naso, andò a piazzarsi per qualche minuto davanti alla finestra, e alla fine bevve un sorso dell’acquavite che teneva sempre di riserva nell'armadio.

Continuava a sentirsi appannato, e aveva la sgradevole sensazione di fluttuare in un universo di ovatta.

Si stava accendendo la pipa, in piedi vicino alla scrivania, quando Joseph annunciò:

«Il signor Caucasson».

Questi non sembrava intimidito dall’atmosfera del Quai des Orfèvres. Avanzò tendendo la mano:

«È al commissario Maigret che ho l’onore di...».

Ma il commissario si limitò a bofonchiare:

«Si accomodi, prego».

E anche lui, dopo aver fatto il giro della scrivania, andò a sedersi al suo posto.

«Lei è un editore d’arte, se non vado errato».

«Esatto. Conosce il mio negozio di rue Saint-André-des-Arts?».

Maigret evitò di rispondere e guardò come trasognato il suo interlocutore. Era un bell’uomo, alto e slanciato, con una folta capigliatura grigia ben pettinata. Anche il completo e il cappotto erano grigi, e aveva sulle labbra un sorrisetto di sufficienza che doveva essergli abituale. Faceva pensare a un animale di razza, a un levriere afgano, per esempio.

«Mi scusi se la disturbo, tanto più che per lei la mia visita è certo di secondaria importanza. Ero un amico di Oscar Chabut...».

«Lo so. So anche che mercoledì lei ha assistito alla prima mondiale di un film sulla Resistenza. Il film è cominciato solo alle nove e mezza, e quindi lei avrebbe avuto tutto il tempo di coprire il tragitto fra rue Fortuny e gli Champs-Élysées».

«Sospetta di me?».

«Fino a prova contraria, sospetto più o meno di tutti quelli che sono stati in rapporti con Chabut. Conosce Madame Bianche?».

Esitò un istante, ma si decise in fretta.

«Sì. Mi è capitato di andarci».

«Con chi?».

«Con Jeanne Chabut. Sapeva che il marito era un habitué di quella casa, e voleva vederla con i suoi occhi».

«Lei è l’amante della signora Chabut?».

«Lo sono stato. E ho ragione di credere che ne abbia avuti altri».

«A quando risale la vostra relazione?».

«Sono circa sei mesi che non ci vediamo».

«Andava da lei in place des Vosges?».

«Sì. Quando il marito partiva per il Midi, il che capitava quasi ogni settimana».

«È per questo che è venuto da me?».

«No. Ho solo risposto alle sue domande. Quello che volevo chiederle è se ha trovato le lettere».

Maigret lo scrutò aggrottando le sopracciglia.

«Quali lettere?».

«Le lettere personali che Oscar riceveva. Non quelle di lavoro, ovviamente. Immagino che le conservasse in place des Vosges, o magari in quai de Charenton».

«E lei vorrebbe rientrare in possesso di quelle lettere?».

«Meg... È mia moglie... Meg, dicevo, ha la mania di scrivere lunghe lettere, nelle quali mette tutto ciò che le passa per la testa...».

«Sono queste le lettere che lei vuole recuperare?».

«Ha avuto una lunga relazione con Oscar. Li ho sorpresi insieme, e lui è parso seccato».

«Era innamorato?».

«Non è mai stato innamorato in vita sua. Lei era solo una delle tante prede da mettere nel carniere».

«E lei era geloso?».

«Ho finito per farmene una ragione».

«Sua moglie ha avuto altre avventure?».

«Sì, lo devo ammettere...».

«Se ho ben capito, sua moglie era l’amante di Chabut e lei era l’amante della signora Chabut. È più o meno così?».

Nella voce di Maigret, nel suo atteggiamento, c’era una velata ironia che l’editore di libri d’arte non colse.

«Anche lei ha scritto delle lettere?».

«Tre o quattro».

«Alla signora Chabut?».

«No. A Oscar».

«Per lamentarsi della sua relazione con Meg?».

«No».

Era arrivato al punto cruciale, e si sforzava di apparire disinvolto.

«Lei non può rendersi conto di quale sia la situazione di un editore d’arte. La clientela è scarsa, i volumi estremamente costosi. Una tiratura si esaurisce nell’arco di parecchi anni, e rappresenta un capitale considerevole.

«Il che spiega come mai abbiamo ancora bisogno di mecenati».

Più ironico che mai, Maigret chiese in tono di falsa innocenza:

«Il signor Chabut era un mecenate?».

«Era molto ricco. Guadagnava soldi a palate. Ho pensato che avrebbe potuto aiutarmi e...».

«Gli ha scritto?».

«Sì».

«Proprio quando era l’amante di sua moglie?».

«Le due cose non hanno alcun rapporto».

«Li aveva già sorpresi?».

«Non ricordo bene le date, ma credo di sì».

Appoggiato allo schienale della sedia, Maigret pigiava con il dito la cenere nella pipa.

«Lei era già l’amante di Jeanne Chabut?».

«Sapevo che non avrebbe capito. Vi riferite ancora alla buona vecchia morale borghese, che nel nostro ambiente non ha più senso. Per noi questi rapporti sessuali sono privi d’importanza».

«Capisco. In altre parole, lei si rivolgeva a Oscar Chabut solo perché era ricco».

«Esatto».

«Avrebbe anche potuto rivolgersi a un banchiere, o a un industriale che non conosceva».

«Se mi fossi trovato con le spalle al muro, sì».

«E lo era, con le spalle al muro?».

«Avevo in mente un’opera importante, su certi aspetti dell’arte asiatica».

«In quelle lettere c’erano frasi di cui è pentito?».

Era sempre più a disagio, ma riusciva a conservare una certa dignità.

«Diciamo che potrebbero essere male interpretate».

«Ci sono, insomma, persone superficiali, persone dalle idee ristrette ed estranee al vostro mondo che potrebbero pensare a un ricatto. Dico bene?».

«Più o meno».

«Ha insistito molto?».

«Gli ho scritto tre o quattro lettere».

«Tutte sullo stesso argomento? A distanza ravvicinata?».

«Avevo fretta di mettere il libro in cantiere. Uno dei massimi esperti di arte orientale mi aveva già consegnato il testo».

«Ha pagato?».

Caucasson scosse la testa.

«No».

«È rimasto molto deluso?».

«Sì. Da lui non me lo aspettavo. Evidentemente non lo conoscevo a sufficienza».

«Si è mostrato duro, vero?».

«Duro e sprezzante».

«Le ha risposto per iscritto?».

«Non se ne è dato la pena. Una sera dava un cocktail per una trentina di amici, e io l’ho avvicinato nella speranza che mi desse finalmente una risposta...».

«E gliel’ha data?».

«In maniera brutale. Si è girato, nel bel mezzo della sala, e mi ha detto ad alta voce, in modo che anche altri lo sentissero:

«“Sappi che di Meg me ne sbatto altamente, e ancora più dei tuoi intrallazzi con mia moglie. Quindi piantala di chiedermi soldi”».

Il suo viso, piuttosto pallido quando era entrato, aveva ripreso colore, e le lunghe dita ben curate gli tremavano un po’.

«Come vede, le parlo con estrema franchezza. Avrei potuto tacere, aspettare gli eventi».

«Cioè aspettare che trovassi le lettere?».

«Non si può sapere in che mani finiranno».

«L’ha più rivisto da allora?».

«Due volte. Meg e io siamo ancora stati invitati in place des Vosges».

«E lei ci è andato» mormorò Maigret con simulata ammirazione. «Evidentemente, è di quelli che perdonano le offese».

«Che altro potevo fare? Era un animale, ma anche una forza della natura. Deve averne umiliati parecchi, persino fra i nostri amici. L’importante per lui era sentirsi potente, non essere amato».

«Pensava che le avrei restituito le lettere?».

«Preferirei saperle distrutte».

«Quelle di sua moglie e le sue, vero?».

«Ho il sospetto che le lettere di Meg siano un po’ troppo focose, se non erotiche, e le mie, lo ripeto, potrebbero essere male interpretate».

«Vedrò quello che posso fare per lei».

«Le ha trovate?».

Anziché rispondere Maigret si diresse verso la porta, come per indicare che il colloquio era finito.

«A proposito, lei possiede un’automatica calibro 6,35?».

«Ho un’automatica in negozio. È da anni in un cassetto, non so neanche di che calibro sia. Non mi piacciono le armi».

«La ringrazio. Ancora una cosa. Sapeva che ogni mercoledì, più o meno alla stessa ora, il suo amico Chabut andava in rue Fortuny?».

«Sì. Qualche volta Jeanne e io ne abbiamo anche approfittato».

«Per oggi è tutto. Se avrò bisogno di lei, la farò convocare».

Caucasson uscì rasentando lo stipite della porta, e Maigret lo seguì con gli occhi fino allo scalone. Rientrato in ufficio, chiese di essere messo in comunicazione con place des Vosges. Ci volle un po’ di tempo, perché la linea era sempre occupata.

«Signora Chabut? Sono il commissario Maigret. Mi scusi se la disturbo di nuovo, ma ho appena ricevuto una visita che mi costringe a rivolgerle qualche domanda».

«Sì, ma la prego di fare in fretta, perché sono davvero molto occupata. Sa, domani avranno luogo i funerali, in forma strettamente privata».

«Ci sarà una cerimonia religiosa?».

«Solo la benedizione della salma. Sto informando pochi intimi e due o tre collaboratori di mio marito».

«Louceck?».

«Non posso fare altrimenti».

«Leprêtre?».

«Certamente. E anche la sua segretaria personale, quella ragazza magra che lui chiamava la Cavalletta. Tre automobili ci porteranno direttamente al cimitero di Ivry».

«Lei sa dove suo marito teneva la corrispondenza privata?».

Ci fu un silenzio prolungato.

«Non saprei, è un problema che non mi sono mai posta. Riceveva pochissima corrispondenza qui a casa, perché per lo più gli scrivevano in quai de Charenton. A che genere di lettere stava pensando?».

«Lettere di amici, di amiche».

«Se le ha conservate, devono essere nella sua cassaforte personale».

«Dove si trova questa cassaforte?».

«In salotto, dietro il suo ritratto».

«Ha la chiave?».

«La polizia mi ha restituito ieri gli abiti che portava mercoledì, e in una tasca c’era il suo mazzo di chiavi. Ho notato una chiave da cassaforte, ma poi non ci ho più pensato».

«Oggi non voglio rubarle altro tempo, ma dopo i funerali...».

«Può chiamarmi domani pomeriggio».

«Intanto, le chiedo formalmente di non distruggere nulla, neppure il più piccolo frammento di carta».

Chissà se avrebbe ceduto alla curiosità e sarebbe corsa ad aprire la cassaforte per vedere le lettere...

Maigret telefonò poi alla Cavalletta.

«Come vanno le cose da voi?».

«Perché me lo chiede? Dovrebbero andare male?».

«Ho appena saputo che è stata invitata ai funerali».

«Sì, per telefono. Non me l’aspettavo. Credevo di esserle antipatica...».

«Mi dica, c’è una cassaforte nello stabile di quai de Charenton?».

«Sì, al pianterreno, nell’ufficio del contabile».

«Chi ha la chiave?».

«Il contabile, ovviamente, e immagino anche Oscar».

«Le risulta che in quella cassaforte tenesse documenti personali, lettere ad esempio?».

«Non credo. Quando riceveva lettere personali, o le strappava in minuscoli pezzetti, o se le ficcava in tasca».

«Le spiacerebbe chiederlo comunque al contabile e riferirmi la risposta? Resto in linea».

Ne approfittò per riaccendere la pipa che si era spenta. Si udirono dei passi e una porta che veniva aperta e richiusa, poi, dopo qualche minuto, di nuovo la porta e i passi.

«È ancora lì?».

«Sì».

«Non mi ero sbagliata. La cassaforte contiene solo documenti relativi all’azienda e del denaro liquido. Il contabile non sa neppure se il principale avesse la chiave. Sembra invece che ne tenga una il signor Leprêtre».

«La ringrazio».

«Verrà anche lei al funerale?».

«Non credo. Del resto non sono stato invitato».

«In chiesa possono entrare tutti».

Riagganciò. Si sentiva ancora la testa pesante, ma era di umore meno tetro rispetto al mattino. Quando entrò nell’ufficio degli ispettori, Lapointe era intento a battere a macchina il suo rapporto. Usava solo due dita, ma era veloce quanto una provetta dattilografa.

«Ho appena ricevuto una visita» mormorò Maigret. «È venuto l’editore di libri d’arte».

«Cosa voleva?».

«Recuperare delle lettere. È stato imperdonabile da parte mia non aver pensato alle lettere che Oscar Chabut riceveva. Sono sicuro che ce ne sono di assai interessanti. Ad esempio quelle in cui Caucasson batte cassa...».

«Perché il produttore di vino andava a letto con sua moglie?».

«Caucasson li ha sorpresi in flagrante. D’altra parte lui aveva rapporti intimi con Jeanne Chabut... E non dev’essere l’unico caso. Ho l’impressione che quando avremo in mano la corrispondenza ne scopriremo altri...».

«Dove sono queste lettere?».

«Con ogni probabilità in una cassaforte che sta dietro il ritratto del nostro uomo, nel salone».

«La moglie le ha lette?».

«Pare che non abbia pensato alla cassaforte. Ha trovato la chiave in una tasca degli abiti che Chabut indossava mercoledì».

«Ne avete parlato?».

«Sì. E sono sicuro che stasera stessa le leggerà. I funerali sono domani. Dopo la benedizione della salma nella chiesa di Saint-Paul, tre sole auto condurranno gli intimi al cimitero di Ivry».

«Lei ci va?».

«No».

A che sarebbe servito? L’assassino del produttore di vino non era certo il tipo che si fa notare durante un funerale.

«Però mi sembra che lei stia meglio, capo, non si soffia più il naso come prima».

«Aspetta a dirlo. Vedremo domattina».

Erano le cinque e mezzo.

«È inutile che aspetti le sei. Starò meglio a casa mia».

«Buonasera, capo».

«Buonasera, ragazzi».

Maigret lasciò l’ufficio degli ispettori con la pipa fra i denti, la schiena curva e le gambe un po’ molli.

Dormì di un sonno pesante, e se anche sognò la mattina ne aveva perso il ricordo. Il vento doveva essere cambiato durante la notte, perché il tempo era del tutto diverso, molto meno freddo, con una pioggia incessante e monotona che rigava i vetri.

«Perché non ti misuri la febbre?».

«Non occorre. Sicuramente non ce l’ho».

Si sentiva meglio. Bevve con gusto le sue due tazze di caffè e la signora Maigret, ancora una volta, telefonò per avere un taxi.

«Non dimenticare l’ombrello».

In ufficio, lanciò d’istinto un’occhiata alla pila di lettere che lo aspettavano. Era una vecchia abitudine. Guardando le buste, infatti, riconosceva subito la calligrafia di un amico o di qualcuno di cui aspettava un messaggio.

Su una delle buste l’indirizzo era scritto in stampatello. In alto, a sinistra, la parola Personale era sottolineata tre volte.

 

PER IL COMMISSARIO MAIGRET

CAPO DELLA SQUADRA ANTICRIMINE

38, QUAI DES ORFÈVRES

 

Aprì quella lettera per prima. Conteneva due fogli di carta ai quali era stata tolta l’intestazione, probabilmente il nome di una brasserie o di un bar. I caratteri e le spaziature erano regolari, il che faceva pensare che l’autore fosse un uomo meticoloso, attento ai dettagli.

«Spero che questa lettera non si perda nei vostri uffici e che lei la leggerà di persona.

«Sono stato io a telefonarle due volte, ma ho riattaccato in fretta per paura che rintracciaste il numero da cui chiamavo. Pare che con la teleselezione sia impossibile, ma preferisco non fidarmi.

«Mi stupisce che i giornali non rivelino quale fosse la vera personalità di Oscar Chabut. Possibile che nessuno, fra quelli che hanno contattato, abbia detto loro la verità?

«Invece si parla di lui come di un uomo di grande valore, audace e caparbio, che con le sue sole forze ha creato una delle più importanti aziende vinicole.

«È davvero sconfortante! Quell’uomo era un farabutto, gliel’ho detto e lo ripeto, pronto a sacrificare chiunque alla sua ambizione e alla sua mania di grandezza. Tanto che mi chiedo se in fondo non fosse pazzo.

«È difficile credere che un uomo sano di mente possa comportarsi come faceva lui. Nei rapporti con le donne, prevaleva il bisogno di infangarle. Voleva possederle tutte, ma per svilirle e sentirsi superiore. Del resto si vantava delle sue conquiste senza preoccuparsi della loro reputazione.

«E i mariti? Possibile che non ne sapessero niente? Non credo. Schiacciava anche loro con il suo disprezzo e, di fatto, li costringeva a tacere.

«Doveva sminuire tutti quelli che lo circondavano per sentirsi grande e potente. Riesce a seguirmi?

«Mi capita di parlare al presente come se fosse ancora vivo, mentre ha avuto finalmente quello che si meritava. Nessuno lo piangerà, neanche i parenti, neanche suo padre, che da tempo non voleva più vederlo.

«Tutto questo i giornali non lo scrivono, e se un giorno lei arresterà chi gli ha sparato e messo fine ai suoi sporchi intrighi sarà certo su quell’uomo che tutti si accaniranno.

«Volevo mettermi in contatto con lei. L’ho vista entrare nella casa di place des Vosges insieme a un altro uomo che deve essere uno dei suoi ispettori. L’ho anche intravista in quai de Charenton, dove le cose non sono così semplici come si vorrebbe far credere. Chabut ha in qualche modo corrotto tutto ciò che lo circondava.

«Cerca l’assassino? È il suo lavoro e non gliene voglio. Ma se ci fosse una giustizia, dovremmo congratularci con lui.

«Lo ripeto: era uno sporco farabutto, un depravato.

«La prego di accettare, signor commissario, i miei migliori saluti e di scusarmi se non firmo».

C’era tuttavia, in fondo alla lettera, una sigla confusa.

Maigret la rilesse attentamente, frase per frase. Durante la sua carriera aveva ricevuto centinaia di lettere anonime e sapeva riconoscere quelle che presentavano un vero interesse.

Benché enfatica e probabilmente eccessiva, questa non conteneva solo accuse infondate, e il ritratto che tracciava del produttore di vino non era lontano dal vero.

L’aveva scritta l’assassino? Era una delle numerose vittime di Oscar Chabut? Un uomo cui al solito aveva rubato la moglie per poi respingerla, o che aveva dovuto subire il suo cinismo nel campo degli affari?

Senza volerlo, Maigret rivedeva l’ometto dalla gamba matta che lo aveva aspettato di fronte all’entrata della Polizia giudiziaria e si era poi diretto verso place Dauphine. Aveva una brutta cera. Sembrava avesse dormito con gli abiti addosso, anche se non era un barbone. A Parigi ci sono migliaia di persone che non rientrano in nessuna categoria. Alcuni cadono sempre più in basso e finiscono sotto i ponti, a meno che non si ammazzino prima.

Altri tengono duro, stringono i denti, e a volte riescono a risalire la china, soprattutto se qualcuno tende loro una mano caritatevole.

Sotto sotto Maigret avrebbe voluto aiutare quel poveruomo. Non doveva essere pazzo, nonostante l’odio che nutriva per Chabut e che era diventato la sua ragione di vita.

Era stato lui a uccidere il produttore di vino? Possibile. Non era difficile immaginarlo mentre aspettava nel buio, con le mani contratte sulla gelida impugnatura di una pistola.

Gli sparava come aveva progettato, una, due, tre, quattro volte, poi si dirigeva zoppicando verso l’ingresso del mètro.

Dove abitava? Dove era andato dopo? Si era limitato a raggiungere i Grands Boulevards o un altro quartiere pieno di luci e a entrare in un bistrot per scaldarsi e festeggiare in solitudine il successo della sua missione?

L’assassinio di Chabut non era frutto di un gesto impulsivo. Chi lo aveva commesso lo aveva a lungo meditato, esitando, alimentando il proprio rancore per decidersi ad agire.

E ora il nemico era morto. In fondo era come se, d’improvviso, l’assassino avesse perso ogni ragione di vita. La vittima veniva descritta come un uomo brillante, uno straordinario uomo d’affari. Nessuno parlava di chi l’aveva ucciso, né delle ragioni che l’avevano indotto a farlo.

Allora aveva telefonato e poi scritto a Maigret.

Avrebbe scritto ancora, anche se questo poteva significare scoprirsi senza volerlo e farsi così beccare.

Allo squillo del campanello Maigret si diresse verso l’ufficio del gran capo per il rapporto.

«Niente di nuovo sulla faccenda di rue Fortuny?».

«Niente di preciso. Ma comincio a nutrire qualche speranza».

«Crede che scoppierà uno scandalo?».

Maigret aggrottò le sopracciglia. Non aveva parlato al suo superiore della personalità di Chabut, e neppure i giornali vi avevano fatto cenno. Come poteva allora parlare di scandalo?

Chissà, forse il direttore della Polizia giudiziaria conosceva il produttore di vino... O forse frequentava ambienti in cui era ben noto. In questo caso non poteva ignorare che erano in parecchi ad avere fondati motivi per odiare Chabut, sino al punto da volerlo uccidere.

«Non ho ancora nessun nome in testa» disse evasivo.

«Ad ogni modo ha fatto molto bene a non parlare troppo con i giornalisti».

Dopodiché Maigret finì di scorrere la corrispondenza e fece venire una dattilografa per dettarle qualche risposta. Si sentiva ancora indolenzito e piuttosto debole, ma almeno non era costretto a stare sempre con un fazzoletto in mano.

Lapointe entrò poco prima di mezzogiorno.

«Spero che non si arrabbi con me. Potrei quasi dire che ci sono andato a titolo personale. Ero curioso di vedere quel funerale. Ci saranno state in tutto venti persone, e solo il signor Louceck in rappresentanza dei dipendenti».

«Hai riconosciuto qualcun altro?».

«Uscendo dalla chiesa, mi è sembrato che sul marciapiede di fronte un uomo mi stesse osservando. Ho tentato di raggiungerlo, ma il tempo di sgusciare fra una macchina e l’altra ed era già scomparso».

«Tieni! Leggi questa».

Gli tese la lettera anonima, che fece sorridere l’ispettore più di una volta.

«Potrebbe essere sua, no?».

«Nota bene che mi ha visto in place des Vosges, in quai de Charenton e forse quando sono entrato qui. Forse era convinto che sarei andato al funerale».

«Deve averci visti insieme e mi ha riconosciuto».

«Vorrei che nel pomeriggio ci fosse uno dei nostri in place des Vosges. Non faccia caso a me. Probabilmente farò visita alla signora Chabut. Quello che deve controllare è se c’è qualcuno che si aggira nei pressi della casa. A quanto pare, riesce a dissolversi nel nulla con grande abilità».

«Vuole che ci vada io?».

«D’accordo. Tanto più che sai già che aspetto ha».

Rientrò a casa per il pranzo, mangiò con appetito e si concesse solo un quarto d’ora di siesta nella sua poltrona. Tornato in ufficio, chiamò place des Vosges e chiese della signora Chabut. Lo fecero aspettare per un bel po’.

«Mi scusi se la disturbo subito dopo il funerale, ma le confesso che sono impaziente di dare un’occhiata alla corrispondenza. Potrebbe fornirci indicazioni preziose».

«Vuole venire nel pomeriggio?».

«Sì, se non le spiace».

«Verso le cinque ho un appuntamento che non posso rimandare. Se potesse venire subito...».

«Sarò da lei tra qualche minuto».

Lapointe era già appostato nelle vicinanze dell’edificio. Maigret si fece accompagnare da Torrence e lo rispedì subito al Quai. Dal portone erano già stati tolti i paramenti neri con le lacrime d’argento, e nell’appartamento non c’era più traccia della camera ardente. Nell’aria aleggiava solo un profumo di crisantemi.

La donna indossava lo stesso abito nero del giorno precedente, ma una spilla di pietre dure lo rendeva meno austero. Era lucida, totalmente padrona di sé.

«Se vuole, possiamo andare nel mio boudoir. La sala è davvero troppo vasta per due persone».

«Ha aperto la cassaforte?».

«Non posso nasconderlo».

«Come ha scoperto la combinazione? Immagino che non la conoscesse».

«No, infatti. Ho subito pensato che mio marito la portasse sempre con sé. Ho cercato nel portafoglio. Dentro la patente c’era una serie numerica e l’ho provata sulla cassaforte».

Sul mobile Luigi XV aveva preparato un pacchetto piuttosto voluminoso, legato malamente.

«Le premetto che non ho letto tutto. Temo che l’intera notte non mi sarebbe bastata. È incredibile quante carte conservasse. Ho ritrovato anche delle vecchie lettere d’amore che gli avevo spedito quando ancora non eravamo sposati».

«Penso sia meglio cominciare dalla corrispondenza più recente, che potrebbe chiarire perché è stato assassinato».

«Si accomodi».

Maigret si stupì nel vederla inforcare gli occhiali, che sembravano mutare radicalmente la sua personalità. Adesso capiva la sua determinazione a prendere in mano l’azienda. Era una donna capace di un grande autocontrollo, che doveva avere una volontà indomabile e non rinunciava facilmente allo scopo che si era prefissata.

«Molti biglietti... Guardi!... Eccone uno firmato Rita... Non so di quale Rita si tratti...

«“Sarò libera domani alle tre. Al solito posto? Baci. Rita”.

«Come vede non è un tipo sentimentale, e la sua carta da lettere è di cattivo gusto, e oltretutto profumata».

«C’è la data?».

«No, ma il biglietto era fra le lettere degli ultimi mesi».

«Non ha trovato niente di Jean-Luc Caucasson?».

«Allora sa tutto... È venuto da lei?».

«È in ansia per le sue lettere».

Continuava a piovere, e l’acqua formava rivoli che serpeggiavano sui vetri delle alte finestre. L’appartamento era calmo, silenzioso. Erano entrambi di fronte a centinaia di lettere e biglietti che in sostanza riassumevano l’intera vita di un uomo.

«Eccone una. Vuole leggerla lei?».

«Preferirei di sì».

«Guardi che può fumare la pipa. Non mi disturba affatto».

 

«Mio caro Oscar,

«ho a lungo esitato prima di scriverti questa lettera, ma il pensiero della nostra antica amicizia ha dissolto ogni scrupolo. Tu sei un brillante uomo d’affari, mentre io non ho grande dimestichezza con i numeri, il che spiega come mai mi infastidisca tanto parlare di denaro.

«Il mestiere di editore d’arte non è un mestiere come un altro. Sei sempre a caccia del libro destinato ad avere un grande successo. A volte devi aspettarlo a lungo, e quando ti capita fra lei mani ti accorgi di non poterlo pubblicare.

«È quello che mi sta succedendo adesso. In un periodo in cui gli affari sono stagnanti e io non pubblico nulla da più di un anno, ho ricevuto un’opera straordinaria su certi aspetti dell’arte orientale. So che è un grande libro e che avrà il successo che merita. Non solo: sono quasi certo di poterne vendere i diritti negli Stati Uniti e in altri Paesi, e una piccola parte del ricavato basterebbe a coprire le spese.

«Ma per pubblicarlo mi servono subito all’incirca duecentomila franchi, e io non ho neanche un centesimo. Quanto a Meg, il gruzzolo che ha da parte non supera i diecimila franchi.

«Puoi prestarmi questa somma? So che per te è una miseria. È la prima volta che sono costretto a chiedere un prestito, e la cosa mi provoca un grande imbarazzo.

«Ne ho parlato con Meg prima di decidermi, e lei mi ha detto che tu ci sei troppo amico per rifiutarci questo favore.

«Telefonami o scrivimi due righe per fissare un appuntamento a casa tua o in uno dei tuoi uffici. Firmerò tutte le cambiali che vorrai».

 

«Disgustoso, non le pare?».

Maigret si accese la pipa, mentre lei aveva appena acceso una sigaretta.

«Avrà notato il riferimento a Meg. La seconda lettera è più breve».

Entrambe le lettere erano scritte a mano, con una minuta grafia nitida e nervosa.

 

«Caro amico,

«mi stupisce che tu non abbia ancora risposto alla mia lettera. Mi ci è voluto molto coraggio per riuscire a scriverti. E parlarti con tanta franchezza è stata anche una prova di fiducia nei tuoi confronti.

«Da allora la situazione è andata peggiorando.

Nei prossimi giorni dovrò far fronte a grosse scadenze, che potrebbero costringermi a chiudere bottega.

«Meg, che sa tutto, ci soffre e ha insistito perché ti scrivessi.

«Spero che mi dimostrerai che l’amicizia non è solo una parola vana.

«Conto su di te, come tu puoi contare su di me.

«Con i saluti più sinceri».

 

«Non so se percepisce anche lei, dietro queste parole, una sorta di velata minaccia».

«Sì. È abbastanza evidente» brontolò Maigret.

«Legga adesso le lettere di Meg».

Il commissario ne prese una a caso.

 

«Tesoro mio,

«mi sembra sia passata un’eternità da quando ci siamo visti, eppure era solo lunedì della settimana scorsa. Come ero felice fra le tue braccia, come mi sentivo sicura appoggiata al tuo petto!

«Ti ho spedito un biglietto l’altro ieri per darti appuntamento. Sono andata al solito posto, ma tu non sei venuto, e Madame Bianche mi ha detto che non avevi telefonato.

«Sono in ansia. So che sei molto occupato, che hai cose importanti da fare, e so anche che non sono la sola. Non sono gelosa, ma tu non devi trascurarmi troppo, perché ho bisogno che tu mi stringa sino a farmi male, così come ho bisogno di sentire il tuo odore.

«Dammi presto tue notizie. Non occorre che tu mi scriva una lunga lettera, bastano il giorno e l’ora dell’appuntamento.

«Jean-Luc è molto preoccupato in questi ultimi tempi. Ha in testa un libro che, secondo lui, sarà il più grosso affare della sua vita. Non immagini quanto mi sembri debole e scialbo in confronto a un uomo come te!

«Ti bacio dappertutto.

La tua Meg».

 

«Ce ne sono parecchie dello stesso tenore, alcune di un erotismo piuttosto spinto».

«Di quando è l’ultima?».

«Di prima delle vacanze».

«Dove le avete passate?».

«Nel nostro appartamento a Cannes. Oscar ha dovuto fare due o tre scappate a Parigi in aereo. Laggiù c’erano dei nostri amici di Parigi, ma non i Caucasson. Mi sembra di ricordare che hanno una casetta da qualche parte in Bretagna, in un paesino frequentato soprattutto da pittori».

«Non ha trovato altre lettere con richieste di denaro?».

«Non sono riuscita a leggere tutto. C’è un biglietto di Estelle Japy, una vedova piuttosto disinvolta che lui ha frequentato per un certo periodo».

 

«Caro amico,

le invio questa fattura che avrei difficoltà a saldare. Spero di rivederla presto.

Sua, Estelle».

 

«La fattura era acclusa alla lettera?».

«Non l’ho trovata, quindi non so dirle a quanto ammontasse né di che si trattasse. Magari un gioiello... O una pelliccia... Quella donna stamattina era in chiesa, ma non è venuta sino al cimitero».

«Se lei mi permettesse di portarmi a casa queste lettere, domenica potrei leggerle con calma...».

«Mi spiace dirle di no, ma non me la sento di separarmi, anche temporaneamente, da questi documenti.

«Venga pure quando vuole, anche domani se lo desidera, e avrà tutto il tempo per leggerle. C’è una lettera di Robert Trouard, l’architetto, che cercava di coinvolgere mio marito nella costruzione di stabili di lusso».

«Gli è capitato di accettare proposte di questo genere?».

«Mai, che io sappia».

«La moglie di Trouard?».

«Ovviamente. Come le altre. Ma non credo che lui lo sappia.

«Legga, questa è la più stravagante. Sei pagine di un erotismo sfrenato. Non solo questa Wanda, che non conosco, sente il bisogno di descrivere per filo e per segno tutto quello che hanno fatto il giorno prima, ma specifica anche con una fantasia davvero sbrigliata quello che faranno durante il prossimo incontro. Pare che sia una russa, o una polacca. Oscar deve aver fatto una bella fatica a liberarsene.

«E quest’altra. È di Marie-France, la moglie di Henry Legendre...».

Gli porse un foglio azzurrino. L’inchiostro era di un blu più scuro.

 

«Mio odioso tesoro,

«dovrei odiarti, ed è quello che succederà se in settimana non vieni a chiedermi scusa. Ne ho sapute di tutti i colori su di te, ma non posso dirti chi è stata, perché è un’altra delle tue conquiste. D’altra parte dubito che tu possa ricordartele tutte.

«Insomma, qualche giorno fa, mentre eri a un ricevimento, qualcuno si è messo a parlare di me. E sono certa che tu hai detto a voce alta, davanti ad almeno cinque persone:

«“Peccato che le caschi il seno”.

«Che tu fossi un bifolco già lo sapevo, e ora ne ho la prova. Ma non vederti più è al di sopra delle mie forze.

«La mano passa a te».

 

«Apprezzerebbe ancor più l’episodio se conoscesse i protagonisti, se potesse vedere, per esempio, la bella signora Legendre mentre fa il suo ingresso in un salotto in compagnia del marito, con il petto scintillante di diamanti.

«Ora devo salutarla, perché Gérard arriverà da un momento all’altro. È Gérard Aubin, il banchiere. Devo chiedergli qualche consiglio. Mi fido ciecamente di lui.

«Se vuole, può tornare domani pomeriggio...».

«Non credo».

«Preferisce passare la domenica in famiglia, lo capisco...».

Non poteva certo sapere che i Maigret si sarebbero accontentati anche stavolta di passare il pomeriggio in un cinema del quartiere, per poi rientrare a casa tenendosi sottobraccio.

Nella piazza, Maigret vide Lapointe.

«Aveva ragione, capo. Ma me l’ha fatta. Quell’uomo scivola via come un’anguilla. Io lo cercavo in prossimità della casa, e non osavo avvicinarmi troppo. Dopo una mezz’ora circa, ho dato un’occhiata alla parte di place des Vosges chiusa dalla cancellata. Pioveva, sicché c’era poca gente. Sul lato opposto, seduto su una panchina, ho notato un uomo che mi è sembrato di riconoscere. Portava un cappello marrone sciupato, un impermeabile e un completo scuro.

«Sono entrato nel giardino dirigendomi verso di lui, ma non avevo ancora fatto dieci passi che si è alzato dalla panchina ed è sparito in rue de Birague.

«Mi sono messo a correre, con grande sorpresa di due vecchie signore che discutevano sotto lo stesso ombrello. Quando sono arrivato in rue Saint-Antoine, del nostro uomo non c’era più traccia. Sembra quasi che sia lui a seguirla, come se volesse essere sicuro che lei prosegue l’inchiesta».

«Probabilmente sa più cose di me. Se solo potesse parlare! Hai la macchina?».

«Sono venuto in autobus».

«Allora prendiamo l’autobus».

E Maigret sprofondò le mani nelle tasche.