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Quando la signora Maigret arrivò con il caffè e gli toccò la spalla, ebbe la tentazione, come gli succedeva da bambino, di dirle che non si sentiva bene, e che pensava proprio di dover rimanere a letto, al caldo.

Gli doleva la testa, specie sopra il naso, e si sentiva la fronte madida di sudore. I vetri della finestra erano di un bianco lattiginoso, quasi fossero smerigliati.

Bevve un sorso, si alzò brontolando e andò a guardare fuori: i primi passanti che si affrettavano verso l’entrata della metropolitana, le mani sprofondate nelle tasche, non erano che ombre nella nebbia.

A poco a poco si svegliò. Finì di bere il caffè e rimase a lungo sotto la doccia. Poi, mentre si rasava, i suoi pensieri andarono a Chabut. C’era qualcosa, in lui, che lo affascinava.

Chi ne aveva fornito l’immagine più fedele? Per Madame Bianche era solo un cliente, uno dei migliori, sempre pronto a ordinare champagne. Aveva bisogno di spendere e spandere, di far vedere che era ricco. Probabilmente si compiaceva nel dire:

«Ho iniziato facendo il venditore porta a porta, e mio padre ha ancora un bistrot in quai de la Tournelle. A malapena sa leggere e scrivere».

Che cosa pensava veramente di lui la Cavalletta? Non aveva pianto, ma a Maigret era parso che Chabut non le fosse del tutto indifferente. Sapeva di non essere l’unica ad andare con lui nell’ovattata palazzina di rue Fortuny, ma non sembrava gelosa.

La moglie del produttore di vino lo era ancora meno. Nella memoria di Maigret riaffioravano alcune immagini che aveva registrato inconsciamente. Per esempio quel ritratto a olio, a grandezza naturale, che occupava il posto d’onore su una parete della sala in place des Vosges. Era un dipinto manierato, molto somigliante. Chabut guardava dritto davanti a sé con aria di sfida, la mano serrata, come se si preparasse a colpire.

«Come ti senti?».

«Dopo un’altra tazza di caffè sarò in piena forma».

«Prendi comunque un’aspirina e rimani il meno possibile all’aperto. Vado a chiamarti un taxi».

Quando arrivò al Quai des Orfèvres aveva ancora in testa il produttore di vino, figura incerta a cui cercava di restituire una parvenza di vita. Gli sembrava che conoscendolo meglio non avrebbe avuto difficoltà a scoprire l’assassino.

Fuori la nebbia era ancora fitta, e Maigret dovette accendere la luce. Spogliò la posta, firmò documenti amministrativi e alle nove andò a rapporto nell’ufficio del direttore.

Quando fu il suo turno, parlò brevemente di Théo Stiernet.

«Pensa che sia un minorato?».

«È quello che probabilmente sosterrà il suo avvocato, sempre che non preferisca l’argomento dell’infanzia infelice. Il fatto è che l’ha colpita una quindicina di volte, e quindi parleranno di efferatezza, tanto più che si trattava di sua nonna. Lui non si rende conto di cosa lo aspetta. Risponde buono buono alle domande. Non gli sembra di aver fatto niente di strano».

«È quella faccenda di rue Fortuny? Ne accennavano i giornali di stamattina...».

«Vedrà che ne parleranno ancora un bel po’... La vittima è un uomo ricco, in vista. E ci sono manifesti del Vin des Moines anche nei corridoi della metropolitana».

«Delitto passionale?».

«Ancora non lo so. Faceva di tutto per essere odiato, e per ora non si può escludere nessuna ipotesi».

«Usciva da una casa di appuntamenti?».

«L’ha letto sui giornali?».

«No. Ma conosco rue Fortuny, e ho subito fatto due più due».

Quando rientrò nel suo ufficio, era ancora immerso negli avvenimenti del giorno precedente. Anche Jeanne Chabut lo incuriosiva. Non aveva pianto, nemmeno lei, malgrado lo choc. Doveva essere più giovane del marito di cinque o sei anni.

Da dove le venivano l’eleganza, la disinvoltura che si percepivano in ogni minimo gesto, in ogni parola?

Lui l’aveva conosciuta ai tempi delle vacche magre, quando era una semplice dattilografa.

Oscar poteva pure vestirsi dai sarti migliori, ma restava una specie di gorilla, goffo e inelegante.

Non si capacitava di avere avuto tanto successo e sentiva il bisogno di ostentare la sua ricchezza.

Di sicuro era stata lei ad arredare l’appartamento, a parte il ritratto un po’ ridicolo. Antico e moderno erano stati accostati con mano felice, creando un ambiente in cui ci si sentiva a proprio agio. A quell’ora, con ogni probabilità, si stava preparando per andare all’Istituto di medicina legale, dove dovevano avere ormai terminato l’autopsia. Avrebbe mantenuto la calma. Era senz’altro in grado di affrontare l’atmosfera deprimente di quello che una volta veniva chiamato obitorio.

«Lapointe, ci sei?».

«Sì, capo».

«Andiamo».

Indossò il pesante cappotto, si avvolse la sciarpa intorno al collo, mise il cappello e, prima di lasciare l’ufficio, si accese una pipa. In cortile, mentre salivano su una delle auto, Lapointe chiese:

«Dove andiamo?».

«In quai de Charenton».

Costeggiarono il quai de Bercy dove, dietro i cancelli, si ergevano i magazzini. Ogni fabbricato recava il nome di un importante produttore di vino, e tre dei più grandi erano quelli del Vin des Moines.

Più in là, sotto il livello della strada, c’era una specie di porto dove erano allineati decine di barili, mentre altri venivano scaricati da una chiatta. Sempre Vin des Moines. Sempre Oscar Chabut.

Il capannone, sul lato opposto della strada, era vecchio, circondato da un vasto cortile ingombro di altri barili. Sul fondo stavano caricando a bordo dei camion casse di bottiglie, e un uomo dai baffi spioventi, con un grembiule blu, sembrava sorvegliare le operazioni.

«Vengo con lei? Parcheggio la macchina in cortile».

«Sì, grazie».

Nel cortile regnava un forte odore di vinaccia, che ritrovarono anche in un largo corridoio piastrellato, dove una targa di smalto recava la scritta: «Avanti».

Sulla sinistra c’era una porta aperta, e in una stanza avvolta dalla penombra una ragazza leggermente strabica era seduta davanti a un centralino telefonico.

«I signori desiderano?».

«C’è la segretaria personale del signor Chabut?».

Li guardò sospettosa.

«Volete parlarle personalmente?».

«Sì».

«La conoscete?».

«Sì».

«Sapete quello che è successo?».

«Sì. Le dica che c’è il commissario Maigret».

Lei lo esaminò con maggiore attenzione, poi spostò lo sguardo sul giovane Lapointe, che trovò più interessante.

«Pronto! Anne-Marie? C’è qui un certo commissario Maigret con un altro dì cui non so il nome. Vorrebbero vederti. Sì. D’accordo. Li faccio salire».

La scala era polverosa, e le pareti non erano state rinfrescate da tempo. Salendo incrociarono un giovane che teneva in mano un fascio di carte. Sul pianerottolo, la Cavalletta li aspettava vicino a una porta socchiusa. Li fece entrare in un ufficio piuttosto grande ma tutt’altro che lussuoso.

Sembrava che fosse stato arredato cinquantanni prima, era buio, e vi aleggiava lo stesso acre odore di vino che avevano sentito nel cortile e nel resto dell’edificio.

«L’ha vista?».

«Chi?».

«Sua moglie».

«Sì. Lei la conosce bene?».

«Quando era ammalato mi è capitato di andare a lavorare in place des Vosges. È una bella donna, vero? Molto intelligente. Lui le chiedeva spesso consiglio».

«Pensavo di trovare un ambiente un po’ più moderno...».

«In avenue de l’Opéra ci sono altri uffici molto diversi, con una insegna luminosa che prende tutta la facciata. Quelli sì che sono moderni, e anche eleganti, luminosi, confortevoli. È lì che si tengono i contatti con i quindicimila punti vendita, e che se ne creano di nuovi ogni mese. Ci sono dei calcolatori e si fa quasi tutto elettronicamente».

«È qui?».

«Questa è la vecchia ditta. Ha mantenuto l’atmosfera di una volta, cosa che rassicura i clienti che vengono dalla provincia. Chabut andava ogni giorno in avenue de l’Opéra, ma lavorava più volentieri qui».

«Lei lo accompagnava, quando ci andava?».

«Qualche volta. Non spesso. Lì aveva un’altra segretaria».

«Oltre a lui, chi dirigeva la ditta?».

«Dirigere nel vero senso della parola, nessuno. Non si fidava di nessuno. Qui c’è il signor Leprêtre, il capocantiniere, che si occupa della produzione. C’è anche un contabile, il signor Riolle, che è con noi da pochi mesi. E nell’ufficio di fronte lavorano tre dattilografe».

«Nessun altro?».

«La centralinista, che ha già visto. E poi ci sono io. È difficile da spiegare. Noi siamo una specie di stato maggiore, mentre il grosso del lavoro lo fanno in avenue de l’Opéra».

«Chabut quanto tempo si tratteneva là, ogni giorno?».

«Un’oretta. A volte un paio».

La scrivania era a cilindro come quelle di una volta, coperta di scartoffie.

«Le altre dattilografe sono giovani come lei?».

«Vuole vederle?».

«Dopo».

«La più anziana, la signorina Berthe, ha trentadue anni, ed è qui da molto. La più giovane ne ha ventidue».

«Perché ha scelto lei come segretaria personale?»

«Voleva una principiante. Ho letto l’inserzione e mi sono presentata. È stato più di un anno fa. Non avevo ancora diciotto anni. Mi ha trovata divertente, e mi ha chiesto se avevo un fidanzato o un ragazzo con cui mi vedevo».

«Ne aveva?».

«No. Ero appena uscita da una scuola per segretarie d’azienda».

«Dopo quanto tempo ha cominciato a farle la corte?».

«Non mi ha fatto la corte. Già il giorno dopo mi ha chiamata accanto a lui con il pretesto di mostrarmi dei documenti e mi ha accarezzata.

«“Devo farmi un’idea” ha detto».

«E poi?».

«Otto giorni dopo mi ha portato in rue Fortuny».

«Le altre non erano gelose?».

«Guardi che ci sono passate tutte».

«Qui?».

«Qui o altrove. È difficile da spiegare. Lo faceva con tanta naturalezza che era impossibile arrabbiarsi. Ne ho conosciuta solo una, arrivata dopo di me, che al terzo giorno se ne è andata sbattendo la porta».

«Chi sapeva che il mercoledì era il suo giorno?».

«Tutti quanti, credo. Scendevo insieme a lui e salivo sulla sua macchina. Non lo faceva di nascosto. Anzi».

«Prima di lei chi lavorava in questo ufficio?».

«La signora Chazeau. Adesso è dall’altra parte del corridoio. Ha ventisei anni ed è divorziata».

«È una bella donna?».

«Sì. Ha un bellissimo corpo. Non potrebbero certo chiamarla la Cavalletta...».

«E la signora Chazeau non ce l’ha con lei?».

«All’inizio mi guardava con uno strano sorriso. Probabilmente si aspettava che lui si stancasse presto».

«Continuava ad avere rapporti con lui?».

«Penso di sì, perché a volte si fermava oltre l’orario di lavoro. E tutti sapevamo che cosa voleva dire...».

«Ha mai manifestato amarezza?».

«Non in mia presenza. Le ripeto, sembrava piuttosto che mi sfottesse. Molti non mi prendono sul serio. Persino mia madre, che mi tratta sempre come se fossi ancora una bambina».

«Forse preparava la vendetta...».

«Non è il tipo. Frequentava altri uomini. Usciva quasi tutte le sere, e la mattina dopo ci metteva sempre un po’ a carburare».

«La terza?».

«Aline. La più giovane dopo di me. Ha ventidue anni, è molto bruna, un po’ lunatica, sempre un tantino sopra le righe. Stamattina è svenuta, oppure ha fatto finta, e poi si è messa a piangere, a lamentarsi...».

«Era qui già prima che lei arrivasse?».

«Sì. Aveva già lavorato in un grande magazzino, poi ha letto l’annuncio. Tutte quante sono state assunte dopo aver risposto a un annuncio...».

«Nessuna era passionale al punto di sparargli?».

Madame Bianche diceva di avere intravisto dallo spioncino la sagoma di un uomo tra due auto. Ma non avrebbe potuto trattarsi di una donna? Magari con i pantaloni? Era buio.

«No, non direi proprio...» replicò la Cavalletta.

«Neanche sua moglie?».

«Lei non è gelosa. Fa la vita che le piace. Per lei era un compagno gradevole».

«Gradevole?»

La ragazza sembrò riflettere.

«Se lo si conosceva bene, sì. Di primo acchito sembrava borioso, aggressivo. Recitava la parte del grande industriale. Con le donne, poi, dava per scontato che cadessero subito tutte ai suoi piedi. Ma conoscendolo meglio ti rendevi conto che forse era più ingenuo di quanto non sembrasse. E anche più vulnerabile.

«“Cosa pensi di me?” chiedeva spesso, soprattutto dopo aver fatto l’amore.

«“Cosa vuole che pensi...”.

«“Mi ami? Secondo me no... Dai, ammettilo”.

«“Dipende da cosa intende. Sto bene con lei, se è quello che vuole sapere”.

«“Se mi stancassi di te, cosa succederebbe?”.

«“Non so. Dovrei rassegnarmi”.

«“E le altre, lì di fronte, cosa dicono?”.

«“Niente. Lei le conosce meglio di me,”».

«E gli uomini?» chiese Maigret.

«Quelli che lavorano qui? Vediamo, c’è il signor Leprêtre, di cui le ho parlato. Una volta aveva una ditta sua. Ma gli mancava la stoffa dell’uomo d’affari. Adesso ha quasi sessant’anni. Parla poco. Conosce il suo mestiere alla perfezione e lavora zitto zitto».

«Sposato?».

«Sì. Ha due figli. Abita in una villetta in fondo al lungosenna, a Charenton, e viene al lavoro in bicicletta».

Fuori la nebbia aveva assunto una sfumatura rosata, lasciando intuire il sole, e la Senna fumava. Lapointe prendeva appunti su un taccuino che teneva appoggiato al ginocchio.

«Quando gli affari hanno cominciato ad andargli male, il Vin des Moines esisteva già?».

«Penso di sì».

«Come si comportava con Chabut?».

«Era sempre rispettoso, ma teneva le distanze».

«Litigavano mai?».

«Non in mia presenza, e visto che ero quasi sempre qui...».

«Se ho ben capito, è un uomo chiuso...».

«Chiuso e triste. Credo di non averlo mai visto ridere, e con quei suoi baffi spioventi sembra ancora più triste».

«Chi altri lavora nell’azienda?».

«Il contabile, Jacques Riolle. Meglio dire il cassiere. Il suo ufficio è di sotto. Si occupa solo di certe fatture, di quella che chiamiamo la piccola cassa. Sarebbe troppo lungo spiegarle come funziona l’azienda. La vera fatturazione si fa in avenue de l’Opéra, dove si tiene anche la corrispondenza con i magazzini. Qui ci occupiamo più che altro degli acquisti e dei rapporti con i viticultori che arrivano periodicamente dal Midi».

«Riolle non è innamorato di una di voi?».

«Se lo è, non si vede. Giudicherà lei stesso. È sui quaranta, uno scapolo incallito, che sa di muffa. È timido, pauroso, con un sacco di piccole manie. Vive in una pensione familiare del Quartiere Latino».

«Nessun altro?».

«Negli uffici no. Di sotto, nelle cantine e al reparto spedizioni, sono in cinque o sei. Li conosco di nome e di vista, ma con loro non ho praticamente nessun contatto. Lei starà pensando che siamo un po’ strani, vero? Se avesse conosciuto il padrone, troverebbe tutto assolutamente naturale».

«Le mancherà?».

«Sì. Lo ammetto».

«Le faceva dei regali?».

«Non mi ha mai dato soldi. È capitato che mi regalasse una sciarpa che aveva visto passando davanti a un negozio».

«E adesso cosa succederà?».

«Non so chi dirigerà la ditta. In avenue de l’Opéra ci sarebbe il signor Louceck, che è una specie di consulente finanziario. È lui, fra l’altro, che si occupa della dichiarazione dei redditi e dei bilanci. Solo che di vino non sa niente...».

«È il signor Leprêtre?».

«Le ho già detto che non era un grande uomo d’affari».

«La signora Chabut?».

«Immagino sarà lei a ereditare tutto, ma non so se prenderà il posto del marito. Le capacità, forse, le avrebbe. È una donna che sa quello che vuole».

La guardava con attenzione, sorpreso dal buonsenso di quella ragazzina che nessuna domanda riusciva a prendere alla sprovvista. C’era in lei qualcosa di diretto che la rendeva simpatica, e vedendola gesticolare con quelle lunghe braccia sottili non si poteva fare a meno di sorridere.

«Ieri sera sono andato in quai de la Tournelle».

«A trovare il vecchio? Mi scusi... Avrei dovuto dire il padre».

«Com’erano i rapporti tra i due?».

«Non buoni, a quanto mi risulta».

«Perché?».

«Non so. Devono essere vecchie storie. Credo che il padre trovasse il figlio senza scrupoli, insensibile. Da lui non ha mai accettato niente, e magari è per provocazione che, nonostante l’età, non ha ancora ceduto il locale».

«Chabut parlava di lui qualche volta?».

«Raramente».

«Non le viene in mente altro da dirmi?».

«No».

«Lei ha altri amanti?».

«No. Lui per me era più che sufficiente».

«Continuerà a lavorare qui?».

«Se mi tengono».

«Dov’è l’ufficio del signor Leprêtre?».

«Al pianterreno. Le finestre danno sul cortile di servizio».

«Passo un attimo dalle sue colleghe».

Anche qui le luci erano accese, e due delle ragazze battevano a macchina, mentre la terza, che sembrava la più anziana, archiviava la corrispondenza.

«Restate comode. Sono il commissario incaricato dell’inchiesta e probabilmente avrò occasione di vedervi una per una. Quello che vorrei sapere subito è se qualcuna di voi ha dei sospetti».

Si scambiarono uno sguardo, e la signorina Berthe, una rotondetta sulla trentina, arrossì leggermente.

«Lei ha un’idea?» le chiese.

«No. Non so niente. Sono rimasta di sasso, come le altre».

«Ha saputo dell’omicidio dai giornali?».

«No. È arrivando qui che...».

«Vi risulta che avesse dei nemici?».

Le donne si scambiarono di nuovo uno sguardo furtivo.

«Non siate imbarazzate. Ho saputo molte cose sul tipo di vita che faceva e in particolare sui suoi rapporti con le donne. Potrebbe trattarsi di un marito, o di un fidanzato, oppure di una donna gelosa».

Nessuna di loro sembrava intenzionata a parlare.

«Pensateci. Anche un minimo particolare può essere importante».

Scese insieme a Lapointe. Al pianterreno Maigret aprì la porta del contabile, che corrispondeva in tutto e per tutto alla descrizione che ne aveva fatto la Cavalletta.

«È da tanto che lavora in questa ditta?».

«Cinque mesi. Prima lavoravo in una pelletteria dei Grands Boulevards».

«Era al corrente delle avventure del suo principale?».

Arrossì, fece per aprir bocca ma non trovò le parole.

«Fra le persone che incontrava qui, ce n’era qualcuna che aveva motivo di odiarlo?».

«Perché avrebbero dovuto odiarlo?».

«Negli affari era spietato, no?».

«Diciamo che non era un sentimentale».

Si pentì subito della risposta, chiedendosi come avesse potuto azzardare un’opinione.

«Conosce la signora Chabut?».

«A volte mi portava le fatture dei suoi fornitori. Altrimenti me le spediva per posta. Una signora molto gentile, alla mano».

«La ringrazio».

Per ultimo, il malinconico signor Leprêtre dai baffi spioventi. Lo trovarono nel suo ufficio, che era ancora più antiquato e più provinciale degli altri. Seduto davanti a un tavolo verniciato di nero su cui c’erano dei campioni di vino, guardò entrare i due uomini con aria diffidente.

«Immagino che lei sappia perché siamo qui».

Si limitò ad annuire con la testa. Uno dei suoi baffi era più lungo dell’altro, e fumava una pipa di schiuma che diffondeva un odore penetrante.

«A quanto pare, qualcuno aveva una buona ragione per uccidere il suo principale. Lavora qui da molto tempo?».

«Tredici anni».

«Andava d’accordo con il signor Chabut?».

«Non mi sono mai lamentato».

«Chabut si fidava completamente di lei, vero?».

«Lui si fidava solo di se stesso».

«La considerava comunque come uno dei suoi più stretti collaboratori».

Il volto di Leprêtre non esprimeva alcuno stato d’animo. Indossava uno strano berrettino, e Maigret pensò che gli servisse per nascondere la calvizie. In ogni caso, non fece nemmeno il gesto di toglierselo.

«Ha qualcosa da dirmi?».

«No».

«Non le ha mai confidato che qualcuno lo minacciava?».

«No».

Inutile insistere... Maigret fece cenno a Lapointe di seguirlo.

«Grazie».

«Di niente».

E Leprêtre si alzò per chiudere la porta alle loro spalle.

In macchina il raffreddore che Maigret aveva covato sino a quel momento scoppiò improvvisamente, e per un bel po’ dovette soffiarsi il naso di continuo, tanto che alla fine aveva il volto arrossato e gli occhi che lacrimavano.

«Scusami, ragazzo mio» mormorò rivolto a Lapointe. «Me lo sentivo addosso da stamattina. Avenue de l’Opéra! Ci siamo dimenticati di chiedere il numero».

Era comunque impossibile sbagliare, perché una grande insegna, che la sera diventava luminosa, annunciava: Vin des Moines. L’edificio, massiccio e imponente, ospitava altre aziende importanti, fra le quali una banca straniera e una società fiduciaria.

Al secondo piano si trovarono in un ampio ingresso dal soffitto alto e dal pavimento di marmo, arredato con tavolini cromati e modernissime poltroncine metalliche per lo più vuote. Sulle pareti, tre manifesti pubblicitari come quelli che si vedevano nelle stazioni della metropolitana. Raffiguravano un frate dall’aria giuliva e le labbra carnose che si accingeva a bere un bicchiere di vino.

Sul primo manifesto il vino era rosso, sul secondo bianco e sul terzo rosato.

Al di là di un divisorio di vetro, una trentina di persone fra uomini e donne era al lavoro in un grande ufficio, e in fondo una seconda vetrata permetteva di intravedere altri uffici. Gli ambienti erano luminosi, gli apparecchi recenti, e i mobili all’ultima moda.

Maigret si avvicinò allo sportello di accoglienza, ma dovette nuovamente estrarre di tasca il fazzoletto proprio mentre stava per rivolgersi a una receptionist che, senza mostrare segni di impazienza, attese che avesse finito di soffiarsi il naso.

«Mi scusi. Vorrei vedere il signor Louceck».

«Chi lo desidera?».

Gli porse un modulo su cui era stampato: Cognome e nome, e su un’altra riga: Motivo della visita.

Si limitò a scrivere: Commissario Maigret.

La ragazza scomparve dietro alla porta che stava di fronte alla prima finestra e rimase assente per un bel po’. Dopodiché uscì dal grande ufficio e li fece accomodare in una seconda sala d’attesa, più raccolta ma non meno moderna.

«Il signor Louceck vi riceverà subito. È al telefono».

In effetti l’attesa non fu lunga. Un’altra ragazza con gli occhiali venne a prelevarli e li condusse in un ampio ufficio che dava la stessa impressione di modernità di tutto il resto.

Un uomo molto basso si alzò dalla sedia e tese la mano.

«Commissario Maigret?».

«Sì».

«Stéphane Louceck. Si accomodi».

Maigret presentò il suo compagno:

«L’ispettore Lapointe».

«Si accomodi anche lei, prego».

Era decisamente brutto, e di una bruttezza che non ispirava alcuna simpatia. Aveva il naso lungo, bitorzoluto, con sottili striature bluastre, e peli neri gli uscivano dalle narici così come dalle orecchie. Le sopracciglia, spesse un paio di centimetri, erano folte e cespugliose. Il completo che indossava avrebbe avuto bisogno di una bella stirata, e la cravatta doveva essere di quelle a nodo fisso.

«Immagino che sia qui per via dell’omicidio».

«Certo».

«Pensavo che voi della polizia vi sareste fatti vivi prima. Non leggo mai i giornali del mattino perché comincio a lavorare molto presto, e quindi ho saputo la notizia solo quando me l’ha comunicata per telefono la signora Chabut».

«Ignoravo che esistessero questi uffici e quindi per prima cosa siamo andati in quai de Charenton. Se ho capito bene, Oscar Chabut lavorava soprattutto lì».

«Passava comunque di qui ogni giorno. Voleva sempre controllare tutto di persona».

Aveva un volto anodino, inespressivo, e anche la voce era priva di qualsiasi inflessione.

«Mi permetta una domanda: che lei sappia, aveva dei nemici?».

«Che io sappia, no».

«Era un uomo importante, e magari con qualcuno, nella sua ascesa, non ha avuto il cuore tenero...».

«Lo ignoro».

«Pare che avesse anche una certa inclinazione per le donne».

«Non mi occupavo della sua vita privata».

«Dov’era il suo ufficio?».

«Dividevamo il mio».

«Ci veniva con la sua segretaria privata?».

«No. Il personale di avenue de l’Opéra è sufficiente».

Non faceva neppure lo sforzo di sorridere, né di esprimere un qualsivoglia sentimento.

«È da molto che lavora con lui?».

«Lavoravo per lui quando questi uffici non esistevano ancora».

«Che mestiere faceva, prima?».

«Consulente finanziario».

«Immagino che lei si occupasse delle sue dichiarazioni dei redditi».

«Fra le altre cose».

«Adesso sarà lei a sostituirlo?».

Maigret dovette soffiarsi di nuovo il naso, e si sentì la fronte imperlata di sudore.

«Mi scusi...».

«Si figuri. Mi è difficile rispondere alla sua domanda. L’azienda non è una società anonima, ed essendo di proprietà del signor Chabut, se non ci sono disposizioni testamentarie diverse passa a sua moglie».

«È in buoni rapporti con lei?».

«La conosco poco».

«Lei era il braccio destro di Oscar Chabut?».

«Mi occupavo delle vendite e dei magazzini. Abbiamo più di quindicimila punti vendita in Francia. Qui lavorano quaranta impiegati, e una ventina di ispettori battono a tappeto la provincia. Di Parigi e della banlieue si occupano altri uffici al piano di sopra, che curano anche la pubblicità e le vendite all’estero».

«Quante donne ci sono tra il personale?».

«Scusi?».

«Le ho chiesto quante donne o ragazze sono alle vostre dipendenze».

«Non saprei».

«Chi le sceglieva?».

«Io».

«Oscar Chabut non aveva voce in capitolo?».

«Qui no, affatto».

«Non ne corteggiava qualcuna?».

«Non mi sono mai accorto di niente del genere».

«Se ho capito bene, lei è l’uomo chiave di tutto il settore vendite».

Si limitò a rispondere con un battito di ciglia.

«È dunque probabile che conserverà il suo impiego, e che assumerà anche la direzione di quai de Charenton».

Non proferì verbo, impassibile.

«Tra i dipendenti c’è qualcuno che potrebbe avere motivi di lagnarsi del principale?».

«Lo ignoro».

«Immagino che lei si auguri che l’assassino venga arrestato».

«È evidente».

«Finora non mi è stato molto utile».

«Mi spiace».

«Cosa pensa della signora Chabut?».

«È una donna molto intelligente».

«Andava d’accordo con lei?».

«Mi ha già rivolto una domanda più o meno identica e le ho risposto che la conosco poco. Praticamente qui non metteva mai piede, e io non frequentavo place des Vosges. Non sono tipo da cene e da serate in società».

«Chabut faceva vita mondana?».

«Sua moglie potrà risponderle meglio di quanto possa fare io».

«Che lei sappia, esiste un testamento?».

«Lo ignoro».

Maigret, cui girava un po’ la testa, sentiva che non avrebbe cavato un ragno dal buco. Louceck era deciso a non sbottonarsi, e sarebbe stato zitto fino alla fine.

Il commissario si alzò.

«Vorrei che mi facesse pervenire al Quai des Orfèvres un elencò con nome, indirizzo ed età di tutte le persone che lavorano qui».

Louceck, imperturbabile, si limitò a un lieve cenno di assenso. Premette un bottone e sulla soglia apparve una ragazza, pronta a ricondurre i visitatori all’uscita.

Prima di risalire in macchina, Maigret entrò in un bar e ordinò un rum. Sperava che gli avrebbe fatto bene. Lapointe si accontentò di un succo di frutta.

«Che facciamo?».

«È quasi mezzogiorno. Troppo tardi per andare in place des Vosges. Torniamo in ufficio. Poi mangeremo un boccone alla Brasserie Dauphine».

Entrò nella cabina telefonica e chiamò casa sua, in boulevard Richard-Lenoir.

«Sei tu? Che c’è per pranzo? No, non rientro, ma tienimela da parte per stasera. Lo so che ho la voce un po’ rauca. È un’ora che mi soffio il naso. A stasera...».

Era piuttosto di cattivo umore.

«Tutti quanti, chi più chi meno, avevano motivo di augurarsi la sua scomparsa. Solo una persona però è andata fino in fondo e gli ha sparato. Gli altri sono innocenti, eppure, anziché aiutarci, si direbbe che cerchino di metterci i bastoni fra le ruote. Tranne forse quel bel tipo della Cavalletta, che non sta lì a pesare ogni parola e sembra che risponda alle domande con sincerità. E tu cosa pensi di lei?».

«È un bel tipo, come dice lei. Prende la vita di petto e non si lascia incantare».

Sulla scrivania di Maigret c’era il rapporto del medico legale. Più di quattro pagine infarcite di termini tecnici e due schizzi che mostravano la traiettoria delle pallottole. Due avevano colpito l’addome, una il torace, e la quarta era penetrata poco sotto la spalla.

«Nessuna telefonata per me?».

Si girò verso Lucas.

«Hai mandato il rapporto all’ufficio del procuratore?».

Si riferiva all’interrogatorio di Stiernet.

«Sì, già stamattina presto. Ho anche fatto un salto da lui nel carcere provvisorio».

«Come sta?».

«È tranquillo. Quasi sereno, direi. Non gli importa niente di essere in galera e di certo non si fa il sangue amaro...».

Un po’ più tardi Maigret e Lapointe entravano nella Brasserie Dauphine. C’erano due avvocati in toga e tre o quattro ispettori che, pur non essendo membri della sua squadra, salutarono Maigret. Si diressero verso la sala da pranzo.

«Cosa c’è di buono, oggi?».

«Sarà contento: blanquette di vitello».

«Che ne pensa del Vin des Moines?».

Il proprietario alzò le spalle.

«Non è peggio del vino che una volta si vendeva sfuso. Una miscela di vino algerino e di vari vini del Midi. Ma oggi come oggi la gente preferisce una bottiglia con una bella etichetta e un nome più o meno altisonante».

«Lei lo tiene?».

«Ma figuriamoci... Vi porto un bel Bourgueil? Accompagnerà perfettamente la blanquette».

Un momento dopo Maigret estraeva dalla tasca il fazzoletto.

«Ci risiamo! Appena entro in un posto riscaldato, ricomincia».

«Perché non se ne va a letto?».

«Pensi che riuscirei a riposare? Continuo a pensare a quel Chabut. Si direbbe che abbia fatto di tutto per complicarci la vita».

«Cosa pensa di sua moglie?».

«Per ora niente. Ieri sera l’ho trovata seducente e molto padrona di sé, nonostante quello che è successo. Forse un po’ troppo padrona di sé. Sembra che nei riguardi del marito assumesse un ruolo protettivo. La moglie indulgente. La vedremo presto... Forse mi farà cambiare idea. Diffido sempre degli esseri troppo perfetti».

La blanquette era tenera al punto giusto, nella sua salsa dorata, ricca di aromi. Mangiarono una pera ciascuno, poi bevvero un caffè, e poco dopo le due entravano nel palazzo di place des Vosges.

Venne ad aprire la stessa cameriera della sera precedente, che li fece accomodare in anticamera e andò ad avvisare la padrona.

Quando tornò non li condusse nella sala, ma in un boudoir più distante, dove Jeanne Chabut non tardò a raggiungerli.

Portava un vestito nero semplicissimo ma dal taglio perfetto, e non aveva addosso alcun gioiello.

«Accomodatevi, signori. Stamattina sono andata là... E a pranzo non sono riuscita a toccare cibo».

«Immagino che porteranno qui il corpo...».

«Oggi pomeriggio alle cinque. Prima verrà l’impresario delle pompe funebri per decidere dove allestire la camera ardente. Probabilmente in questa stanza: la sala è troppo grande».

Il boudoir, rischiarato da un’alta finestra che scendeva fin quasi al pavimento, era luminoso e accogliente come il resto dell’appartamento, ma con un tocco più femminile.

«Ha scelto lei i mobili e la tappezzeria?».

«Sì, mi sono sempre interessata a queste cose. Avrei voluto fare l’arredatrice. Mio padre ha una libreria in rue Jacob, nel quartiere degli antiquari, vicino all’Istituto di belle arti».

«Allora come mai faceva la dattilografa?».

«Volevo essere indipendente. Pensavo che avrei potuto seguire dei corsi serali, ma mi sono resa conto che era impossibile. Poi ho incontrato Oscar».

«È diventata la sua amante?».

«Già la prima sera. Visto il tipo, la cosa non dovrebbe stupirla...».

«È stato lui il primo a parlare di matrimonio?».

«Mi ci vede a chiedergli di sposarmi? Probabilmente era stufo di vivere da solo in un alberghetto, dove si preparava i pasti su un fornello a spirito. All’epoca guadagnava pochissimo».

«Lei ha continuato a lavorare?».

«I primi due mesi. Poi lui non ha più voluto. Può sembrare strano, ma era molto geloso».

«Fedele?».

«Così credevo».

Maigret la osservava provando un vago malessere, come se intuisse confusamente che qualcosa non quadrava. Il volto era bello, ma troppo immobile, come se si fosse affidata alle mani di uno specialista di chirurgia estetica.

Quasi non batteva ciglio. Gli occhi erano grandi, azzurri, e lei li sgranava come per farli apparire ancora più innocenti.

Rimase in silenzio mentre il commissario si soffiava il naso.

«Mi scusi...».

«Ho pensato alla lista che mi ha chiesto, e ho provato a farla».

Andò a prendere un foglio di carta da lettere su una scrivania Luigi XV. Aveva una grafia chiara e ferma, senza fronzoli.

«Ho riportato solo i nomi di chi ha una moglie che probabilmente ha avuto rapporti intimi con mio marito».

«Non ne ha la certezza?».

«Per la maggior parte, no. Ma dal modo in cui lui ne parlava e si comportava quando davamo una serata, non ci mettevo molto a capire».

Lesse i nomi sottovoce.

«Henry Legendre».

«Industriale. Fa la spola fra Parigi e Rouen. Marie-France è la sua seconda moglie e ha quindici anni meno di lui».

«Geloso?».

«Penso di sì. Ma lei è molto più scaltra di lui. Hanno una proprietà a Maisons-Laffitte, dove ricevono ogni fine settimana».

«Le è mai capitato di andarci?».

«Una volta sola, perché la domenica anche noi ricevevamo nella nostra villa a Sully-sur-Loire. D’estate invece andavamo a Cannes, dove siamo proprietari degli ultimi due piani di un palazzo nuovo, vicino al Palm Beach, e anche del tetto, che abbiamo trasformato in una specie di giardino...».

«Pierre Merlot» lesse Maigret.

«Agente di cambio. Lucile, sua moglie, è una biondina con il naso a punta che, a quarantanni suonati, ha ancora un’aria molto sbarazzina. Oscar deve averla trovata divertente».

«Il marito era al corrente?».

«Certo che no. È un accanito giocatore di bridge, e quando davamo una serata si chiudeva sempre con qualcuno in questa stanza per giocare».

«Suo marito non giocava?».

«Non a quel genere di giochi».

Ebbe un sorriso incerto.

«Jean-Luc Caucasson».

«Editore di libri d’arte. Ha sposato una giovane modella piuttosto sboccata che fa morire dal ridere».

«Avvocato Poupard. Il penalista?».

Era un principe del foro, e il suo nome compariva spesso sui giornali. Sua moglie era americana e aveva un grosso patrimonio.

«Non ha mai avuto sospetti?».

«Gli capitano spesso udienze in provincia. Hanno uno splendido appartamento nell’Ile Saint-Louis».

«Xavier Thorel. Il ministro?».

«Sì. Xavier è un amico delizioso».

«Ne parla come se fosse più un suo amico».

«Gli voglio molto bene. Quanto a Rita, si getta su qualsiasi uomo incontri».

«Lui lo sa?».

«È ormai rassegnato. O meglio, le rende la pariglia».

Altri nomi, altri cognomi: un architetto, un medico, Gérard Aubin, della banca Aubin et Boitel, un celebre sarto di rue François-Ier.

«La lista potrebbe essere più lunga, perché conosciamo molta gente, ma ho preferito includere solo le donne che hanno quasi certamente avuto rapporti intimi con Oscar».

D’un tratto chiese:

«È andato da suo padre?».

«Sì».

«Che cosa le ha detto?».

«Mi è sembrato che i suoi rapporti col figlio fossero piuttosto freddi».

«Solo da quando Oscar ha cominciato a guadagnare molto. Voleva che il padre lasciasse il suo bistrot e si è offerto di comprargli una bella proprietà a Sancerre, vicino alla fattoria dove il vecchio è nato. Non sono riusciti a capirsi. Désiré ha pensato che volessimo sbarazzarci di lui».

«È il suo, di padre?».

«Ha sempre la libreria. Mia madre vive all’ammezzato e non esce più di casa, perché cammina con difficoltà e ormai è debole di cuore».

La cameriera bussò alla porta ed entrò.

«C’è il signore delle pompe funebri».

«Gli dica che arrivo subito».

E rivolta ai due uomini:

«Vi prego di scusarmi. Nei prossimi giorni sarò molto occupata. Comunque, se scoprite qualcosa di nuovo o avete bisogno di altre informazioni, non abbiate timore di disturbarmi».

Rivolse loro un sorriso stereotipato e con passo flessuoso li accompagnò alla porta.

In anticamera incontrarono l’addetto delle pompe funebri, che riconobbe Maigret e lo salutò con deferenza.

La nebbia, che nel primo pomeriggio si era in gran parte diradata, a poco a poco stava tornando a infittirsi, e tutto appariva sfumato.

Quanto a Maigret, si soffiò per l’ennesima volta il naso, bofonchiando Dio solo sa cosa.