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UNA NOTTE ALL'ARCHE
L'odore l'aveva notato all'inizio, quando ancora credeva che si sarebbe addormentato subito. Di odori, in realtà, ce n'erano parecchi. Predominante era quello della casa: lo si fiutava appena varcata la soglia del caffè, e lui aveva cercato di analizzarlo fin dal mattino, perché era un odore che non gli era familiare. Lo colpiva ogni volta che entrava, e ogni volta gli faceva fremere le narici. C'era un fondo di vino, naturalmente, con una punta d'anice, e poi puzzo di cucina. E siccome era cucina meridionale, a base di aglio, peperoncino, olio e zafferano, non ci si ritrovava proprio.
Valeva la pena perderci il sonno? Aveva chiuso gli occhi, voleva dormire. Inutile ripensare a tutti i ristoranti marsigliesi o provenzali in cui era stato, a Parigi o altrove.
L'odore non era lo stesso, d'accordo. Ma ora doveva solo dormire. Aveva bevuto abbastanza per sprofondare in un sonno di piombo.
Non si era addormentato subito, macchè. La finestra era aperta, e un rumore lo aveva incuriosito; alla fine aveva capito che si trattava del fruscio degli alberi giù nella piazza.
In sostanza l'odore che c'era di sotto poteva ricordare quello di un piccolo bar di Cannes tenuto da una grassona dove una volta aveva condotto un'inchiesta e dove aveva trascorso ore intere a far niente.
Quello della stanza invece non somigliava a nulla. Cosa c'era nei materassi? Alghe, come in Bretagna, che esalavano un sentore iodato di mare? Altri erano passati in quel letto prima di lui, e a tratti gli pareva di ritrovare l'odore dell'olio con cui le donne si ungono il corpo prima di esporsi al sole.
Si rigirò pesantemente. Era almeno la decima volta, e ci fu ancora qualcuno che aprì una porta, percorse il corridoio ed entrò nei gabinetti. Niente di straordinario, ma gli sembrava che circolasse molta più gente di quanta in realtà ce n'era nell'albergo.
Si mise a contare gli ospiti dell'Arche. Paul e la moglie dormivano sopra la sua testa, in una mansarda cui si accedeva per una specie di scala. Quanto a Jojo, non sapeva dove dormisse. Al primo piano, comunque, non c'era una camera per lei.
Anche la ragazza aveva un odore tutto suo. Veniva in parte dai capelli unti d'olio, in parte dalla pelle e dai vestiti, ed era insieme tenue e piccante, non sgradevole.
Quell'odore lo aveva distratto, mentre lei gli parlava.
Anche in questo caso Pyke avrebbe potuto pensare che Maigret barasse. Dopo cena il commissario era salito un momento in camera per lavarsi i denti e le mani. Aveva lasciato la porta aperta e, senza un rumore, senza un suono di passi sul pavimento che la annunciasse, Jojo era apparsa sulla soglia. Che età poteva avere? Sedici anni?
Venti? Aveva quello sguardo tra ammirato e timoroso dei ragazzini che vanno a chiedere autografi all'uscita dei teatri. Maigret era famoso e la emozionava.
«Vuole dirmi qualcosa, figliola?».
Lei aveva richiuso la porta dietro di sé, e questo gli era piaciuto poco, perché non si sa mai cosa può pensare la gente. Non dimenticava che in casa c'era un inglese.
«È a proposito di Marcellin» aveva risposto la ragazza arrossendo. «Mi ha parlato un pomeriggio che era completamente ubriaco e faceva la siesta sulla panca del caffè».
Toh, anche poco prima, quando l'Arche si era svuotato, aveva visto qualcuno steso su quella panca che schiacciava un sonnellino con un giornale sulla testa.
Evidentemente era un posto fresco. Strana casa, però. Quanto all'odore...
«Ho pensato che forse può esserle utile. Mi ha detto che se solo voleva si sarebbe fatto un bel mucchio».
«Un mucchio di cosa?».
«Di soldi, si capisce».
«Quando è stato?».
«Due giorni prima di quello che è successo, mi pare».
«Non c'era nessun altro nel caffè?».
«Ero sola, lucidavo il banco».
«L'ha raccontato a qualcuno?».
«Non mi sembra».
«Ha detto nient'altro?».
«Soltanto: “Ma che me ne farei, mia piccola Jojo? Qui si sta così bene”».
«Le ha mai fatto la corte, delle proposte?».
«No».
«E gli altri?».
«Quasi tutti».
«Quando Ginette era qui - veniva più o meno ogni mese, vero? -, capitava mai che Marcellin andasse a trovarla in camera sua?».
«No, mai. Con lei era molto rispettoso».
«Posso parlarle come a una persona grande, Jojo?».
«Ho diciannove anni, sa».
«Bene. Marcellin, di tanto in tanto, aveva rapporti con donne?».
«Sicuro».
«Qui sull'isola?».
«Con Nine, intanto. È mia cugina. Lo fa con tutti. Pare che sia più forte di lei».
«Sulla sua barca?».
«Dovunque. Poi con la vedova Lambert, la padrona del caffè di fronte, in piazza. A volte passava la notte da lei. Quando pescava delle spigole, gliele portava. Penso che posso dirlo, tanto è morto: Marcellin pescava con la dinamite».
«Aveva intenzione di sposarla, la vedova Lambert?».
«Non credo che lei abbia voglia di avere di nuovo un marito».
E il sorriso di Jojo aveva lasciato intendere che la vedova Lambert non era un tipo comune.
«È tutto, Jojo?».
«Sì. Sarà meglio che torni giù».
Neanche Ginette dormiva. Era coricata nella camera attigua, di là dalla parete, e Maigret aveva l'impressione di sentirla respirare. La cosa lo metteva a disagio, perché rigirandosi nel dormiveglia gli accadeva di urtare la parete col gomito, e questo ogni volta doveva farla sussultare.
La donna aveva tardato a mettersi a letto. Cosa poteva aver fatto? La toletta, le cure di bellezza? A momenti nella sua camera c'era un silenzio così profondo che Maigret si chiedeva se non stesse scrivendo. Tanto più che l'abbaino era troppo alto perché lei potesse essersi affacciata a prendere il fresco.
A proposito, il famoso odore... Era semplicemente l'odore di Porquerolles. L'aveva respirato anche poco prima, in fondo al molo, con Pyke. C'erano effluvi che emanava l'acqua scaldata dal sole durante la giornata e altri che giungevano da terra con la brezza. Non erano eucalipti, gli alberi della piazza? Probabilmente c'erano altre piante odorose sull'isola.
E adesso chi attraversava il corridoio? Pyke? Era la terza volta. Doveva avergli fatto male la cucina di Paul, a cui non era certo abituato.
Aveva bevuto parecchio, Pyke. Di gusto o perché non poteva fare altrimenti? Lo champagne, comunque, gli piaceva, e Maigret non aveva mai pensato di offrirgliene.
Ne aveva bevuto per tutta la sera con il maggiore. Da come i due si erano subito intesi, si sarebbe detto che si conoscessero da sempre. Si erano sistemati in un angolo.
Jojo, d'autorità, aveva portato lo champagne.
Bellam non lo beveva in una coppa, ma in un bicchiere grande, come fosse birra.
Sembrava uscito da una vignetta del “Punch”, tanto perfetto era il suo personaggio, con i capelli di un bianco argenteo, la carnagione rosea, i grossi occhi chiari, acquosi, il sigaro enorme sempre stretto tra le labbra.
Era un bambino di settant'anni, forse settantadue, con una luce briccona nello sguardo. Aveva la voce roca, probabilmente per via dello champagne e dei sigari.
Anche dopo parecchie bottiglie conservava una dignità commovente.
«Le presento il maggiore Bellam» aveva detto Pyke a un certo punto. «Abbiamo scoperto di aver studiato nello stesso college».
Certo non lo stesso anno, né lo stesso decennio. Si vedeva che la scoperta rallegrava entrambi. Il maggiore chiamava il commissario “Signor Maigrette”.
Di tanto in tanto rivolgeva a Jojo o a Paul un segno appena percettibile, che bastava a far arrivare al tavolo altro champagne. Oppure con un segno diverso chiamava Jojo perché riempisse un bicchiere e andasse a portarlo a qualcuno in sala.
Il gesto avrebbe potuto avere un che di altezzoso, di condiscendente, ma il maggiore lo faceva con tale bonomia, in modo così ingenuo da non suscitare imbarazzo. Dava un po' l'impressione di distribuire degli attestati di lode. Quando il bicchiere giungeva a destinazione, lui da lontano levava il suo in un brindisi silenzioso.
C'erano tutti, o quasi. Charlot si era divertito a lungo con la gru. Prima aveva giocato con la macchinetta mangiasoldi: poteva spenderci quel che voleva, tanto era lui a intascare l'incasso. Anche la gru doveva essere roba sua. Infilava una moneta nella fessura e girava con la massima attenzione la manopola che dirigeva la pinzetta cromata verso un portasigarette da pochi soldi, una pipa, un portafoglio dozzinale.
Era per l'ansia che Ginette non dormiva? Che Maigret fosse stato troppo severo con lei? Sì, in camera sua si era comportato con durezza, ma non perché fosse animato da risentimento, come lei forse aveva pensato.
È sempre ridicolo fare la parte del buon samaritano. L'aveva raccolta in place des Ternes e l'aveva mandata in sanatorio. Ma non si era mai detto che stava salvando un'anima, che “strappava una ragazza dal marciapiede”.
Un altro, uno “che gli somigliava”, aveva detto Ginette, si era preso a sua volta cura di lei: il medico del sanatorio. Aveva sperato qualcosa, il medico?
Era diventata quello che era diventata. Affari suoi. Maigret non aveva motivo né di adombrarsi né di provare amarezza.
Era stato duro per necessità, perché quelle donne, anche le migliori, mentono come respirano, a volte senza bisogno, senza ragione apparente. Ginette, ne era certo, non gli aveva ancora detto tutto. Tanto è vero che non riusciva a prender sonno. Qualcosa la tormentava.
A un certo punto si era alzata. Aveva sentito i suoi piedi nudi sul pavimento della stanza. Che venisse a trovarlo? Non era da escludere, e Maigret si era preparato mentalmente a infilarsi in fretta i calzoni che aveva lasciato cadere sul tappetino.
Non era venuta. Si era udito il rumore di un bicchiere. Ginette aveva sete. Oppure aveva preso una pasticca per dormire.
Lui aveva accettato solo una coppa di champagne. Il resto del tempo aveva bevuto soprattutto vino, poi, Dio sa perché, anisetta.
Chi aveva ordinato l'anisetta? Ah sì, il dentista. Un ex dentista, per meglio dire, di cui gli sfuggiva il nome. Altro tipo eccentrico. C'era solo gente eccentrica su quell'isola, per lo meno all'Arche. O forse avevano ragione loro, e la gente di là dal mare, sul continente, sbagliava tutto.
Doveva essere stato un uomo molto perbene, molto curato, perché aveva avuto uno studio dentistico in uno dei quartieri più eleganti di Bordeaux, e gli abitanti di Bordeaux sono difficili. A Porquerolles era venuto per caso, in vacanza, e poi se n'era allontanato solo per una settimana, il tempo di liquidare i suoi affari.
Non portava colletto. Una volta al mese uno dei Morin, un pescatore, gli tagliava i capelli. Quel Morin lo chiamavano Morin-Coiffeur. L'ex dentista aveva una barba di almeno tre giorni, non si curava le mani, non curava più niente, non faceva niente, tranne starsene a leggere in una sedia a dondolo all'ombra della sua veranda.
Aveva sposato una ragazza dell'isola che forse un tempo era stata graziosa, ma che ben presto era diventata enorme, con un accenno di baffi sul labbro e la voce stridula.
Era felice. O almeno si dichiarava tale. Aveva detto con una convinzione inquietante:
«Vedrà! Se resta per un po' di tempo ci prenderà gusto, come gli altri. E allora non se ne andrà più».
Maigret sapeva che in certe isole del Pacifico ai bianchi capita di lasciarsi andare a quel modo, di subire il contagio della vita selvaggia, ma ignorava che ciò potesse avvenire a tre miglia dalla costa francese.
Quando si parlava di qualcuno al dentista, lui lo giudicava soltanto in base al grado del suo contagio, che però chiamava in un altro modo. Diceva: «la porquerollite».
Il dottore? C'era anche un dottore, infatti, che Maigret non conosceva ancora, ma di cui Lechat gli aveva parlato. Contagiato fino al midollo, a detta del dentista.
«Sarete amici, suppongo?».
«Non ci vediamo mai. Buongiorno e buonasera da lontano».
È vero che il dottore era arrivato con una certa predisposizione. Molto malato, si era stabilito sull'isola soltanto per curarsi. Era celibe. Viveva da solo in una casupola col giardino pieno di fiori, a dire il vero molto sporca dato che sbrigava lui stesso le faccende domestiche. La sua salute non gli permetteva di uscire la sera neanche per casi urgenti e d'inverno, quando, sia pur raramente, capitava che facesse davvero freddo, potevano passare giorni, a volte settimane, senza che si vedesse in giro il suo naso bianco.
«Vedrà! Vedrà!» aveva insistito il dentista con un sorriso sarcastico. «Del resto, basta che si guardi intorno per avere un'idea di come si vive qui. Pensi solo che tutte le sere è la stessa cosa».
E davvero era curioso osservare l'atmosfera intorno, che non faceva pensare né a un caffè né a un salotto, ma piuttosto, con la sua disinvolta promiscuità, a una serata nello studio di un artista.
Tutti si conoscevano e si trattavano senza cerimonie. Il maggiore, che veniva da un famoso college inglese, qui stava alla pari con un topo di banchina come Marcellin o con uno Charlot.
Di tanto in tanto qualcuno cambiava posto e compagnia.
All'inizio il signor Émile e Ginette se n'erano stati tranquilli e silenziosi allo stesso tavolo vicino al banco, come due coniugi di vecchia data in attesa di un treno alla stazione. Émile aveva ordinato la sua tisana, Ginette un liquore verdastro in un minuscolo bicchiere.
Ogni tanto scambiavano una parola o due, a mezza voce. Non si udiva nulla: si vedeva solo il movimento delle labbra. Poi Ginette si era alzata con un sospiro ed era andata a prendere un gioco di dama in una scansia, sotto il grammofono.
Giocavano. Intuivi che avrebbe potuto essere così ogni sera, per anni, che la gente poteva invecchiare senza muoversi di lì, senza tentare gesti diversi da quelli che li vedevi fare.
Fra cinque anni probabilmente Maigret avrebbe ritrovato il dentista davanti alla stessa anisetta, con lo stesso sorriso insieme feroce e soddisfatto... Charlot manovrava la gru con gesti da automa, e niente lasciava prevedere che avrebbe smesso.
I due fidanzati muovevano le pedine e tra una mossa e l'altra fissavano la scacchiera con una gravità irreale, mentre il maggiore vuotava un bicchiere di champagne dopo l'altro, raccontando a Pyke chissà quali storie.
Nessuno aveva fretta. Nessuno sembrava pensare che ci fosse un domani. Quando non c'erano clienti da servire, Jojo se ne stava coi gomiti sul banco, il mento fra le mani, e guardava pensierosa nel vuoto. Più di una volta Maigret aveva sentito su di sé i suoi occhi, ma non appena girava la testa la ragazza guardava altrove.
Paul, il padrone, sempre in tenuta da cuoco, andava da un tavolo all'altro offrendo da bere a tutti. Doveva costargli caro, ma, evidentemente, alla fine ci guadagnava.
Quanto alla moglie, una piccolina di un biondo slavato e con i tratti duri, che a malapena si notava, se ne stava tutta sola a un tavolo e faceva i conti della giornata.
«È così ogni sera» aveva detto Lechat al commissario.
«E la gente dell'isola, i pescatori voglio dire?».
«Dopo cena non vengono quasi mai. Escono in mare prima dell'alba e vanno a letto presto. La sera, comunque, non verrebbero all'Arche. C'è una specie di tacito accordo.
Il pomeriggio, come la mattina del resto, tutti si mescolano. Ma dopo cena quelli del posto, i veri indigeni, vanno semmai negli altri caffè».
«E cosa fanno?».
«Niente. Sono andato a vederli. A volte ascoltano la radio, ma raramente. Bevono un bicchierino in silenzio e guardano nel vuoto».
«Qui è sempre così calmo?».
«Dipende. Stia a vedere. Da un momento all'altro può cambiare tutto. Basta un nonnulla, una frase buttata lì, una bevuta offerta da questo o da quello, perché si formino dei gruppi e tutti parlino contemporaneamente».
Ma, forse per la presenza di Maigret, non era accaduto nulla.
Aveva caldo, malgrado la finestra aperta. Ascoltare i rumori della casa era diventata un'ossessione. Ginette continuava a non dormire, e ogni tanto si sentivano dei passi al piano di sopra. Quanto a Pyke, era la quarta volta che si dirigeva in fondo al corridoio, e come sempre Maigret attese con una sorta di angoscia lo scroscio dello sciacquone prima di tentare di riaddormentarsi. Negli intervalli, in realtà, un po'
dormiva: di un sonno non abbastanza profondo per cancellare completamente i pensieri, ma sufficiente a deformarli.
Pyke gli aveva giocato un brutto tiro parlandogli a quel modo dell'olandese sul molo. Ormai il commissario non riusciva più a vedere de Greef se non attraverso la perentoria analisi del collega britannico.
Eppure il ritratto del giovane delineato da Pyke non lo soddisfaceva. Era in sala anche lui, con Anna che doveva aver sonno e col passare del tempo si abbandonava sempre più sulla spalla del compagno.
De Greef non le rivolgeva la parola. Non doveva rivolgergliela spesso. Lui era il maschio, il capo, e lei non aveva che da andargli dietro aspettando i suoi comodi.
Osservava, de Greef. Col suo viso scarno, faceva pensare a un animale sfiancato e tuttavia feroce.
Gli altri non erano certo degli agnelli, ma de Greef era indubbiamente un animale feroce. Fiutava come un animale feroce. Era un tic. Ascoltava tutto ciò che si diceva e fiutava. Era la sua sola reazione percepibile.
Nella giungla il maggiore sarebbe stato senza dubbio un pachiderma, un elefante o meglio un ippopotamo. E il signor Émile? Una bestia furtiva, dai denti aguzzi.
Che idiozia. Cosa avrebbe pensato Pyke se avesse potuto leggere nei suoi pensieri?
Ma in fondo il commissario aveva una scusante: aveva bevuto molto ed era mezzo addormentato. Se avesse previsto che non avrebbe dormito, si sarebbe scolato qualche bicchiere in più per sprofondare subito in un sonno senza sogni.
Tutto sommato Lechat era in gamba. Tanto che a Maigret sarebbe piaciuto averlo nella sua squadra. Ancora un po' giovane, un po' esagitato. Si eccitava facilmente, come un cane da caccia che corre di qua e di là intorno al padrone.
Conosceva il Midi perché faceva parte della squadra di Draguignan, ma a Porquerolles aveva avuto occasione di venire solo una volta o due. Era lì da tre giorni e l'isola gli era già familiare.
«Quelli del North Star vengono tutte le sere?».
«Quasi sempre. A volte arrivano tardi. Quando il mare è calmo hanno l'abitudine di andare a spasso col dinghy al chiaro di luna».
«Mrs Wilcox e il maggiore sono amici?».
«Evitano con cura di rivolgersi la parola, e si guardano l'un l'altro come fossero trasparenti».
E in fondo si capiva perché. Appartenevano entrambi allo stesso ambiente, ed entrambi, per una ragione o per l'altra, venivano qui a mescolarsi alla gentaglia.
Il maggiore doveva sentirsi in imbarazzo a ubriacarsi sotto gli occhi di Mrs Wilcox, perché al suo paese i gentlemen queste cose le fanno tra di loro, a porte chiuse.
Quanto a lei, davanti a un ex ufficiale dell'esercito d'India non doveva andare troppo fiera del suo Moricourt.
Erano arrivati verso le undici. Come quasi sempre accade, Mrs Wilcox non corrispondeva per nulla all'idea che il commissario si era fatto di lei.
Maigret si era immaginato una lady e si trovava di fronte una donna coi capelli rossi - di un rosso artificiale -, piuttosto in là con gli anni, una donna appesantita, con una voce roca che ricordava quella del maggiore Bellam ma più sonora. Indossava un abito di tela, però aveva al collo tre fili di perle, forse autentiche, e al dito un grosso diamante.
Aveva subito cercato Maigret con lo sguardo. Philippe doveva averle parlato del commissario, e una volta seduta lei non aveva smesso di osservarlo e di spettegolare col suo compagno.
Che mai diceva? Lo trovava, a sua volta, corpulento e volgare? Se lo era figurato come un attor giovane? Pensava forse che non avesse un'aria molto intelligente?
I due bevevano whisky con pochissima soda. Philippe era pieno di premure e l'attenzione del commissario lo irritava: evidentemente non amava essere visto nell'esercizio delle sue funzioni. Quanto a lei, lo faceva apposta. Invece di chiamare Paul o Jojo, mandava il suo cicisbeo a cambiarle il bicchiere che non le pareva abbastanza pulito, poi lo faceva alzare di nuovo per andarle a prendere le sigarette al banco. A un certo punto lo aveva spedito fuori, Dio sa perché.
Ci teneva ad affermare il suo potere sull'erede dei Moricourt e forse, al tempo stesso, a mostrare che non si vergognava.
Nel passare, la coppia aveva salutato il giovane de Greef e la sua compagna. Un cenno vago. Un po' come si scambiano i segni massonici.
Il maggiore, contrariamente alle previsioni di Maigret, se ne era andato per primo, con dignità e passo incerto, e Pyke lo aveva accompagnato per un tratto di strada.
Poi era stata la volta del dentista.
«Vedrà! Vedrà!» aveva ripetuto a Maigret predicendogli a breve un attacco di porquerollite.
Charlot, che si era stufato della sua gru, era andato a mettersi a cavalcioni di una sedia davanti ai giocatori di dama, e silenziosamente aveva indicato un paio di mosse a Ginette. Uscito anche Émile, era salito di sopra a dormire. Ginette dal canto suo sembrava attendere l'autorizzazione di Maigret. Alla fine si era avvicinata al suo tavolo e aveva mormorato con un sorriso appena accennato:
«Ce l'ha ancora con me?».
Era visibilmente stanca e lui le aveva consigliato di andare a letto. Ma era salito subito dopo di lei, perché gli era venuto il dubbio che la donna intendesse raggiungere Charlot.
A un certo momento, mentre stava cercando di addormentarsi - o forse dormiva già ed era stato un sogno? -, aveva avuto l'impressione di fare una scoperta importante.
«Non devo dimenticarmene. È indispensabile che domani mattina me ne ricordi».
Era stato lì lì per alzarsi e annotarlo su un foglietto. Lo aveva colpito come un'illuminazione. Una cosa strana. Era contento. Si ripeteva: «Devo assolutamente ricordarmelo domani mattina!».
E di nuovo lo sciacquone fece risuonare l'Arche dei suoi scrosci. Poi per dieci minuti si sentì il lento scorrere dell'acqua nel serbatoio. Era esasperante. Il rumore aumentò. C'erano dei botti. Maigret si drizzò a sedere e aprì gli occhi: vide la camera illuminata dal primo sole e, proprio davanti a lui, inquadrato nella finestra aperta, il campanile della chiesetta.
I botti giungevano dal porto. Erano i motori delle barche che scoppiettavano nella messa in moto. I pescatori partivano tutti alla stessa ora. Dopo qualche colpo di tosse, un motore sembrò volersi bloccare, poi al silenzio seguì nuovamente quella specie di tosse, che veniva voglia di aiutare a sfogarsi una volta per tutte.
Pensò di vestirsi e uscire, ma guardò l'orologio che aveva posato sul comodino e vide che erano solo le quattro e mezzo del mattino. L'odore era ancora più intenso della sera prima, certo per via dell'umidità dell'alba. Nell'albergo non c'era un rumore, non un rumore nella piazza, dove il fogliame degli eucalipti era immobile nel sole nascente. Si udivano soltanto i motori giù al porto e, a tratti, una voce, poi anche il ronzio dei motori si smorzò in lontananza fino a divenire, per molto ancora, una pura vibrazione dell'aria.
Quando aprì di nuovo gli occhi, un altro odore - quello del caffè appena fatto - gli riportò alla mente tutte le mattine fin dalla prima infanzia. C'erano fruscii un po'
dappertutto nell'albergo, rumore di passi nella piazza, e il cigolio dei carretti sull'acciottolato.
Subito pensò che doveva ricordarsi di una cosa essenziale, ma non ritrovò alcun ricordo preciso. Aveva la bocca impastata per via dell'anisetta. Cercò un campanello nella speranza di farsi portare un caffè, ma non c'era. Allora si infilò calzoni, camicia e pantofole, si diede una pettinata e aprì la porta. Un forte odore di profumo e sapone gli giunse dalla camera di Ginette, che doveva essere intenta a prepararsi.
La scoperta che aveva fatto o creduto di fare non riguardava proprio lei? Scese di sotto e in sala trovò piramidi di sedie sui tavoli. Le porte erano aperte, e fuori le sedie erano accatastate allo stesso modo. Non c'era nessuno.
Entrò in cucina. Gli sembrò buia, e dovette abituare gli occhi alla penombra.
«Buongiorno, signor commissario. Ha dormito bene?».
Era Jojo con il suo vestitino troppo corto letteralmente incollato alla pelle. Neanche lei si era ancora lavata, e sotto pareva nuda.
«Prende un caffè?».
Per un attimo pensò alla signora Maigret, che a quell'ora stava certo facendo colazione nel loro appartamento parigino, con le finestre aperte sul boulevard Richard-Lenoir. Gli venne in mente all'improvviso che a Parigi pioveva. Quando era partito faceva freddo quasi come d'inverno. Da lì sembrava incredibile.
«Vuole che le liberi un tavolo?».
Perché? In cucina stava benissimo. I ceppi di vite che Jojo faceva ardere nella stufa avevano un buon profumo. Quando la ragazza alzava le braccia, le vedeva i peli bruni sotto le ascelle.
Cercò di nuovo di ricordarsi la scoperta della notte, e intanto buttò lì qualche domanda a caso, forse perché lo imbarazzava trovarsi solo con Jojo.
«Il signor Paul non è sceso?».
«È già al porto da un pezzo. Ogni mattina va a comprare il pesce dalle barche che rientrano».
Jojo dette un'occhiata alla pendola.
«Il Cormoran partirà tra cinque minuti».
«È sceso qualcun altro?».
«Il signor Charlot».
«Ma non aveva bagagli, vero?».
«No. È col signor Paul. È uscito anche il suo amico, sarà almeno mezz'ora».
Maigret guardò dalla porta aperta la distesa della piazza.
«Dev'essere in acqua. Era in costume da bagno e aveva l'asciugamano sotto il braccio».
La scoperta si riferiva a Ginette, ma aveva la sensazione che c'entrasse anche Jojo.
Ricordò che nel dormiveglia l'aveva rivista mentre saliva le scale. Non era un'immagine erotica. E solo incidentalmente aveva a che fare con le sue gambe scoperte. Insomma! Poi lei si era presentata in camera sua.
Il giorno prima Maigret aveva chiesto con insistenza a Ginette:
«Perché è venuta?».
E lei aveva mentito più volte. All'inizio aveva detto che era lì per vederlo, perché sapendo che era sull'isola aveva pensato che l'avrebbe fatta cercare.
Poco dopo aveva ammesso di essere in certo modo fidanzata con Émile. Il che significava ammettere che era venuta per scagionare quest'ultimo, per dichiarare al commissario che il suo principale non c'entrava affatto con la morte di Marcellin.
Tutto sommato non aveva sbagliato a mostrarsi duro con lei. Ginette si era un po'
sbottonata. Ma non abbastanza.
Bevve il suo caffè a piccoli sorsi, in piedi davanti alla stufa. Coincidenza curiosa, la tazza di comunissima ceramica e di vecchio modello era quasi identica a quella che usava da bambino e che allora credeva unica.
«Mangia qualcosa?».
«Non adesso».
«Fra un quarto d'ora dal fornaio ci sarà il pane fresco».
Alla fine si rasserenò, e Jojo dovette chiedersi perché sorridesse. Marcellin non aveva parlato a Jojo di un “bel mucchio di soldi” che avrebbe potuto guadagnare? Era ubriaco, d'accordo, ma di ubriacarsi gli capitava spesso. Da quando aveva la possibilità di fare quel mucchio di soldi? Non era detto che la cosa fosse recente.
Ginette veniva sull'isola più o meno tutti i mesi. C'era venuta il mese precedente. Era facile accertarsene. E poteva darsi che Marcellin le avesse scritto.
Se Marcellin poteva guadagnare un bel mucchio di soldi, forse anche qualcun altro poteva farlo al posto suo. Per esempio sapendo ciò che sapeva lui.
Con la tazza in mano, Maigret rimase a fissare il rettangolo luminoso della porta, mentre Jojo gli lanciava delle occhiatine incuriosite.
Lechat sosteneva che Marcel era morto perché aveva parlato troppo del “suo amico Maigret”, e di primo acchito sembrava un'ipotesi tirata per i capelli.
Era buffo vedere Pyke stagliarsi seminudo nella luce con l'asciugamano umido sulle spalle e i capelli incollati sulla fronte.
Invece di salutarlo, Maigret mormorò:
«Un momento...».
C'era quasi. Un piccolo sforzo e le idee si sarebbero concatenate nel modo giusto.
Partendo ad esempio dall'idea che Ginette era venuta perché sapeva la ragione della morte di Marcellin.
Non era però detto che si fosse scomodata per impedire che fosse scoperto il colpevole. Una volta sposato Émile sarebbe stata ricca, d'accordo, ma la vecchia Justine non era ancora morta e poteva tirarla in lungo per anni, alla faccia dei medici.
Se veniva a sapere cosa bolliva in pentola, era capace di fare una carognata per impedire che il figlio sposasse chicchessia dopo la sua morte.
Il “bel mucchio di soldi” di Marcellin, invece, era lì bell'e pronto. Forse era ancora possibile intascarlo. Nonostante la presenza di Maigret e dell'ispettore Lechat.
«Le chiedo scusa, Pyke. Ha dormito bene?».
«Benissimo» rispose l'inglese, imperturbabile.
Maigret doveva confessargli di aver contato gli scrosci dello sciacquone?
Superfluo. E dopo il suo bagno in mare l'ispettore di Scotland Yard era fresco come una rosa.
Tra poco, facendosi la barba, il commissario avrebbe avuto il tempo di pensare al
“bel mucchio di soldi”.