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Tita cercava in tutti i modi di fargli amare la vita. Esuberante, con le labbra umide, non lasciava passare un bel punto del paesaggio senza indicarglielo.

«Guarda, Jef,» disse mentre attraversavano il primo villaggio «io sono nata qui. Ecco la scuola...».

E Mittel divorava con gli occhi le piccole case sormontate da ampi tetti rossi. Non erano di tegole, ma di lamiera ondulata verniciata di minio, che conferiva loro un tono di sontuosità in elegante armonia con il verde scuro della vegetazione.

Le tipiche capanne indigene fatte di foglie di cocco erano rare. Se ne vedeva qualcuna, di tanto in tanto, in riva al mare, dove abitavano i pescatori più poveri, in mezzo a frotte di bambini nudi.

Ma ai due lati della strada, nei villaggi, c’erano schiere di graziose casette di legno che parevano uscite da una fiaba. Il legno era tinto di colori tenui come il verde chiaro, l’azzurro pallido, talvolta il rosa. La facciata era ornata da una veranda, con davanti un giardino dai fiori variopinti. E poiché a Tahiti era domenica esattamente come nei sobborghi di Parigi, i tahitiani in camicia bianca di bucato e le floride tahitiane se ne stavano seduti sulla soglia, spesso accanto a un grammofono, mentre ragazzi e ragazze sfrecciavano per strada in bicicletta.

Tutto ciò non somigliava a niente di già visto e tuttavia non stimolava i sensi, e nemmeno risvegliava la curiosità. Sembrava perfettamente naturale che lungo le rive della laguna ci fossero palme da cocco e che di colpo, a una svolta della strada, comparisse una bella chiesa chiara dal campanile appuntito.

La scuola indicata da Tita era a un solo piano e sorgeva nel mezzo di un ampio prato; dalle finestre spalancate si potevano intravedere i banchi, la lavagna, la cattedra dell’insegnante.

Una scuola di un posto qualunque... Come il villaggio... Come gli stessi tahitiani, dalla carnagione appena più scura dei bianchi, ma vestiti come loro, con gli occhi dolci, la voce cantilenante...

A Parigi nessuno avrebbe notato Tita e sarebbe stato difficile dire da dove veniva.

«Fermati!» gridò la ragazza all’autista.

E rivolta a Mittel aggiunse:

«Devo salutare Sonia. È la figlia del capo. Eravamo compagne di scuola...».

Sonia era piccola e grassoccia; stava passeggiando da sola sul ciglio della strada, vestita con un abito bianco a pois blu, i capelli color inchiostro raccolti in una fitta treccia. Aveva un fiore in mano e sorrideva dolcemente.

«Sonia!...».

Tita era orgogliosa di essere in automobile e di vedere la sua giovane amica salire sul predellino per salutarla con un bacio.

«Ti va di venire con noi?».

«No... È quasi l’ora dei vespri...».

A sinistra c’era un negozio tenuto da cinesi, e tutta la famiglia era riunita sotto l’immancabile veranda tahitiana.

Era domenica e la gente oziava, assistendo al lento scorrere delle ore nell’aria calma.

Solo tre chilometri più avanti, oltrepassato un ponte che attraversava il fiume, udirono delle urla e, dietro una fila di palme da cocco, videro un campo da calcio dove due squadre si affrontavano nonostante il sole a picco. C’erano anche alcuni spettatori, che quando un giocatore scattava da solo con la palla al piede si mettevano a gridare...

E sullo sfondo sempre quell’enorme vetta di duemila metri, quasi inaccessibile e disabitata, che costituisce la struttura portante di Tahiti.

La strada girava attorno al gigantesco blocco montuoso. A ogni chilometro superava un fiume o un ruscello proveniente da lassù; immersi nell’acqua fino alla cintola, alcuni uomini pescavano alla lenza.

«È forse così bella, la Francia?» chiedeva Tita. «No, vero?».

In macchina con loro c’era l’inglese proprietario di uno degli empori, che non sapeva una parola di francese. Sonnecchiava senza badare ai suoi compagni di viaggio. Tita si riaccostò nuovamente a Mittel e gli si rivolse con tenera complicità.

«Non devi più dire le cose di stamattina... La vita è così bella!... Guarda quei ragazzi che pescano nella laguna...».

Erano in piedi, ognuno su una piroga, con corti bastoni appuntiti in mano, e scrutavano la superficie trasparente dell’acqua. All’improvviso li si vedeva tuffarsi, inseguire la preda sott’acqua, per poi riemergere con un pesce argentato infilzato sulla punta delle loro fiocine.

Nella prima macchina Charlotte sedeva fra Mopps e Tioti, e questi le accarezzava una gamba, sicuro di non essere visto dal comandante, che era concentrato nella guida. Charlotte si lasciava toccare. Anche lei era allegra, di un’allegria frenetica e chiassosa. Voleva rotolarsi nell’erba. Quando vedeva un fiume, voleva buttarcisi dentro. E quando un bungalow le pareva più carino degli altri, voleva anche quello.

«Bisognerà comprare una casa come quella, non trova, comandante?».

«Perché no?».

Dopo il secondo villaggio la striscia di terra fra la montagna e il mare divenne sempre più sottile e il paesaggio si fece ancora più pittoresco. Di chilometro in chilometro si vedevano case più sontuose, giardini meglio curati.

Era la parte elegante dell’isola, abitata soprattutto da inglesi e americani. C’erano campi da tennis, vialetti ricoperti di ghiaia, prati ben tenuti e impianti per innaffiarli.

«Promettimi di non essere più triste...» diceva Tita, scivolando quasi fra le braccia di Mittel.

E lui non riusciva più a restarsene imbronciato. Nell’aria c’era qualcosa di struggente, che lo commuoveva fin nel profondo come il suono di un organo, senza che egli sapesse individuare esattamente la fonte di quel turbamento.

Che cos’era a commuoverlo? Forse quella minuscola isola in mezzo a un oceano immenso, o magari quelle casette che sembravano casette per bambole, quegli uomini in pantaloni bianchi, con le maniche arrotolate e il grande cappello di paglia in testa, i vestiti chiari delle ragazze, la quiete indolente degli esseri umani e della natura, il silenzio assoluto che scendeva dalla calotta luminosa del cielo come dalle volte di una cattedrale.

Alle sue spalle, seduto sul cofano posteriore, il musicista continuava a strimpellare la chitarra in modo quasi inconsapevole; nessuno ormai badava più allo strumento, ma tutti si sentivano pervasi da quelle note che si susseguivano senza ritmo apparente.

Mittel si ritrovò con un braccio intorno alle spalle di Tita e lei gli si rannicchiò addosso ancora di più sussurrandogli:

«Vedrai! Ti aiuterò a essere felice... Faremo delle belle passeggiate insieme...».

A un tratto, però, un pensiero angoscioso gli attraversò la mente facendogli cambiare umore.

Poteva essere l’ultima volta che vedeva quel panorama... Fino a quel giorno non aveva mai visitato l’isola. C’era voluto un caso.

Ma quando si sarebbe ripresentata un’occasione simile? Forse troppo tardi... Chi lo sa?... La prossima volta che la combriccola avesse organizzato una gita qualcuno avrebbe detto:

«Povero Jef!... Non è più qui, adesso, per fare la corte a Tita...».

«Non è bello, tutto questo, Jef?» gli chiese ancora Tita.

«Certo che lo è!».

Era troppo bello, appunto. Non era soltanto un paesaggio. Era al tempo stesso un dipinto, una musica, una poesia, un insieme complesso, che ti entrava nell’anima e ti avvolgeva, e che avevi paura di lasciare, che ti veniva voglia di sentire ancora di più attorno a te, dentro di te...

Quella pace, soprattutto, che in nessun altro luogo aveva mai conosciuto! Le parole cadevano nell’aria come il soffio leggero della brezza che all’improvviso increspa appena la superficie di uno stagno, poi l’aria pareva richiudersi.

Ma al suo sguardo si presentava sempre una visione che gli ricordava qualcosa e che andava a rimestare quanto di più torbido c’era in lui: quella famiglia che camminava sul ciglio della strada, per esempio, la donna con un abito azzurro vivo e il marito, un tahitiano enorme, con un bimbo piccolissimo sulle spalle...

Non sembravano venire da un luogo o essere diretti da qualche parte. Non si riusciva nemmeno a pensarlo! Erano là, semplicemente seguivano la strada, scostandosi per far passare la macchina, senza invidiare quella gente che andava così veloce...

«Buongiorno!» gridò loro Tita, agitando la mano.

Anche la donna rispose con un cenno, gentilmente.

«Credono tutti che tu sia il mio amante!».

Tita sorrideva, amorevole, e a un tratto tentò pure di sfiorargli le labbra con le sue.

«Ti dispiace?... Oh, guarda! Siamo arrivati alla cascata... Senti, ora noi due ci facciamo un bel bagno...».

Le quattro auto si allinearono sul ciglio della strada, a pochi passi dalla laguna. Qui la striscia di terra ai piedi della montagna misurava non più di un centinaio di metri e la roccia a picco la dominava.

Mentre Mopps sistemava qualcosa in macchina, Tioti prese sottobraccio Charlotte e insieme andarono avanti, eccitati, ridendo sguaiatamente.

«L’hai visto il film Ombre bianche?» gli chiese Tita. «Lo hanno girato proprio qui. Ci sono anch’io...».

Con gli occhi sgranati, Mittel li seguiva come si segue una processione, abbagliato dallo spettacolo. Lo scenario andava oltre l’immaginabile: c’erano tutte le meraviglie che sono state cantate dai poeti, nonché banalizzate dal cinema e dalle cartoline.

Dall’alto della montagna precipitava a larghi nastri una cascata, i cui spruzzi formavano arcobaleni nell’aria circostante.

E dalla parte opposta il verde e l’azzurro della laguna, le palme da cocco, la frangia di schiuma sulla barriera corallina in lontananza...

Ai piedi della cascata, immerso in una vegetazione fitta e varia, uno specchio d’acqua dolce pareva sospeso fra la montagna e il mare.

«Salve!» gridarono delle persone che erano già sul posto.

«Salve!» rispose la voce di Tioti.

«Sono gli americani» spiegò Tita. «Quindici giorni fa hanno cominciato a girare un altro film... Ci sono quasi tutte le mie amiche...».

Un gran vociare, un eterogeneo miscuglio di gente vestita di bianco e di indigeni seminudi o in pareo... Le macchine da presa poggiate su treppiedi e i camion sistemati fra i cespugli, schermi argentati per rifrangere il sole, riflettori...

Sulla riva del piccolo lago c’erano una ventina di tahitiane, vestite solo con un pareo; dovevano essere appena uscite dall’acqua perché il sottile tessuto stava loro incollato al corpo.

«Ciao, Tita!».

«Ehilà, Hina!... Ciao, Susy!...».

Tra una ripresa e l’altra fecero una pausa. Charlotte si era già infilata in testa la visiera parasole dell’operatore e Mopps conversava con due graziose comparse.

C’era un’unica attrice bianca, anche lei in pareo, con il viso e le spalle ricoperti di cerone.

Il regista gridò degli ordini. Tutte le indigene si precipitarono verso la roccia, in fondo, e salirono pochi metri per raggiungere una specie di piattaforma. Da lì l’acqua veniva giù creando quasi un toboga; a un segnale le ragazze si lasciarono scivolare l’una dopo l’altra nell’acqua profonda e cominciarono a nuotare tra i fiori di tiaré che galleggiavano sulla superficie.

Stavano girando. Bisognava far silenzio. Ora era il turno dell’attrice bianca di nuotare in primo piano tra i fiori. Mittel notò che Tioti non mollava Charlotte e che loro due erano i più allegri della combriccola.

«Fai il bagno?» gli sussurrò Tita.

Mittel cercava di resistere. Si vergognava. E tuttavia aveva una voglia matta di tuffarsi in quell’acqua cristallina in cui le ragazze seminude facevano le loro evoluzioni.

«Vieni...».

«No!».

«Non sai nuotare?».

Il nuoto era, in realtà, l’unico sport nel quale Mittel eccellesse. Quando aveva circa dodici anni abitava nei pressi del Pont Neuf e andava a fare il bagno nella Senna quasi tutti i giorni.

Tioti, che era a pochi passi da loro, intuì cosa si stavano bisbigliando e fece a Mittel un cenno interrogativo.

«Allora, ci tuffiamo?» voleva dire.

E contemporaneamente si tolse la camicia, scoprendo un torace troppo roseo e appesantito. La macchina da presa si era fermata. Le tahitiane continuavano a nuotare indolenti, per loro piacere, e una di loro, come un delfino, si esibiva in eleganti volteggi per poi sparire sott’acqua, da dove riemergeva dopo parecchi secondi, in un punto sempre diverso.

Tioti si buttò con ancora addosso i pantaloni di tela. All’improvviso Tita si tolse il vestito rosso e si mostrò a seno nudo, con i fianchi stretti in un paio di calzoncini neri.

Anche lei cominciò a nuotare. I capelli le ricadevano sul viso, cosparso di gocce d’acqua. Rideva e invitava Mittel a seguirla.

Charlotte si mosse verso di lui per dirgli qualcosa, certamente per raccomandargli di non fare il bagno, per via dei polmoni, ma Mittel si era già tolto la giacca e le scarpe e si tuffò stringendosi il naso con due dita; rimase sott’acqua finché gli mancò il respiro e riaffiorò vittorioso, in preda a una strana eccitazione.

«Vieni qui!...» gli gridò Tita.

E Mittel nuotò verso di lei, sfiorando le ragazze il cui pareo fluttuava sulla superficie così da farle sembrare enormi fiori azzurri o rossi.

Era magro. Si muoveva a scatti, con poca scioltezza. Ma sapeva di avere uno stile impeccabile e si impegnava al massimo per fare bella figura.

L’acqua era fredda, a tal punto che Tioti ne uscì, trovò un asciugamano che apparteneva alla troupe e lo porse a Charlotte perché lo asciugasse.

Nel frattempo Mopps, aiutato da un macchinista, tirò fuori le bottiglie dall’auto e le sistemò ai piedi di un albero.

«Vediamo chi resiste di più sott’acqua!...» gridò Tita.

«Ci sto!».

Aveva perso qualunque nozione di spazio e di tempo. Gli pareva di vivere in un mondo in cui non si pensava più, dove ci si inebriava di movimenti, di immagini intraviste attraverso il velo di goccioline che rimanevano fra le ciglia ogni volta che si tirava la testa fuori dall’acqua.

Emersero nello stesso istante, l’uno accanto all’altro, e Tita gli si afferrò per riprendere fiato.

«Sei bravo a nuotare... Dov’è Tioti?... Già all’asciutto... Tioti!... Di’, Tioti, hai avuto fifa?...».

Tita era più esuberante, più bambina che mai.

«Sai fare questo, Jef?».

Eseguì una specie di capriola, poi girò su se stessa, sott’acqua, e Mittel la imitò subito.

«E questo?».

Era lo stesso movimento, ma in senso contrario. Mittel ansimava. Le orecchie gli ronzavano un po’, ma avrebbe voluto non smettere mai di nuotare.

«Vedi com’è bella la vita?...».

Perché dirglielo? Lo sapeva benissimo! Fin troppo! Ed era proprio perché amava ardentemente la vita che era infelice. Gli tornò in mente quel pensiero straziante: forse era l’ultima volta che nuotava...

Corone di tiaré ondeggiavano sulla superficie... E l’acqua era così limpida che tuffandosi si poteva vedere, ingrandito a dismisura, il fondale roccioso...

«Tu tremi, Jef!».

«Ma no!».

«Esci dall’acqua...».

Tita lo guardò con apprensione.

«Se non vuoi uscire, torno a riva con te... Da questa parte... Ci asciugheremo dietro i cespugli...».

Bastava fare pochi passi per appartarsi; nel frattempo gli altri del gruppo cominciarono a bere. Due amiche di Tita, senza alcun imbarazzo, si erano già tolte il pareo per metterlo ad asciugare.

«Dammi i tuoi pantaloni...».

Mittel, invece, si vergognava, ma l’invito di Tita era stato talmente autorevole che non osò rifiutarsi e rimase in mutande.

«Stenditi...».

Accanto alle due ragazze tahitiane, accanto a Tita, nell’erba alta... Aprendo gli occhi si vedeva soltanto il cielo e un albero piantato a strapiombo sul costone della montagna.

«Hai ancora freddo?».

E, ammiccante:

«Aspetta qui... Non muoverti...».

Si assentò per qualche minuto e tornò con una bottiglia di rum bianco che aveva sottratto alle riserve di Mopps.

«Bevi!».

Rimasero entrambi lontano dalla baldoria. Si sentivano schiamazzi e risate. Tita, anziché sdraiarsi accanto a Mittel, gli si era accovacciata vicino e gli carezzava i capelli.

«Potresti essere così felice! È la prima volta che mi capita di conoscere un bianco tanto inquieto. Altrimenti si ubriacano... Tieni, bevi un altro sorso...».

Si divisero la bottiglia fraternamente. Mittel si ritrovò con la testa appoggiata sul fianco di una delle ragazze, che continuava a dormicchiare a pancia in su. E vedeva Tita guardarlo con tenerezza, con una sfumatura di compassione, forse anche di ironia.

«Eppure sei il più carino...».

Aveva smesso di pensare. Il bagno freddo gli aveva dato una sferzata di energia. Il rum gli faceva avvampare le guance e la sua sensibilità era decuplicata. Poteva cogliere ogni minimo rumore, percepiva il frusciare delle foglie, si sentiva in completa osmosi con la prepotente vitalità di quella natura che lo schiacciava.

Perché ostinarsi a farsi il sangue amaro? Momenti come quello cancellavano tutto il resto. E perché mai darsi pena per Charlotte, visto che accanto a sé aveva Tita, più fresca, più bella, con il suo fascino sensuale, il suo sorriso luminoso?

«Sei un ragazzo strano, Jef! Se non ci fosse tua moglie penserei io a guarirti...».

«Guarirmi da che?».

«Da tutto... E potremmo avere anche un figlio...».

«Taci!».

«Dài, non fare il muso... Guarda!».

E gli baciò gli occhi, la bocca, ridendo. Mittel sentì la testa appoggiarsi per terra e quando si girò si accorse che le due tahitiane se ne erano andate; era rimasto solo con Tita, che gli si stringeva addosso.

«Jef!...».

Gli mordicchiava le labbra. La sua spalla nuda era inondata di sole.

Chiuse gli occhi. Da dietro l’esile sipario della vegetazione proveniva il baccano della gente, che continuava a bere. E un lieve sciabordio rivelava che qualche ragazza stava ancora nuotando.

Seduta accanto a lui, Tita gli chiese con voce turbata:

«Stai bene?».

Non lo sapeva. La testa gli bruciava. Gli pareva di non riuscire più ad alzarsi, di essere destinato a restarsene là per sempre, nello stato di torpore in cui era sprofondato tutto il suo essere. Eppure, stringendo la mano di Tita nella sua, balbettò:

«Vorrei tanto...».

Non finì la frase.

«Che cosa vorresti?».

E lui, con una smorfia da bambino che sta per piangere:

«Essere come tutti gli altri!».

«Perché, non sei come tutti gli altri?».

Mittel scosse la testa.

No, lui non era come tutti gli altri. E almeno per una buona ragione: che entro uno, due anni al massimo non ci sarebbe stato più!

«Tutti gli uomini dicono così, Jef! Anch’io, sai, penso di essere diversa dalle altre... Non ci credi?».

Mittel sorrise, suo malgrado.

«A sedici anni ho dovuto cominciare a guadagnarmi da vivere... Allora mi sono trovata un posto come ballerina al La Fayette...».

Un leggero velo di tristezza le offuscò il volto, ma lei lo scacciò e ricominciò ad accarezzare la fronte di Jef, che era ampia, liscia, bellissima.

«Le tue mani sono piccole come quelle di una donna, hai occhi profondi...».

Era intenerita, non c’erano dubbi. Lo esaminava con un’attenzione piuttosto buffa.

«Se tu volessi, potresti diventare forte. Nuoti meglio di Tioti... È dovuto uscire dall’acqua quasi subito, lui... Beve troppo... Gli manca il fiato».

A un tratto sollevò la piccola testa ben disegnata e tese il collo, come un serpente che abbia udito un rumore nella foresta. Mittel non tardò a capire il motivo del suo turbamento.

Dietro gli arbusti qualcuno stava litigando. Si udivano delle voci alterate e una che ripeteva:

«Calmatevi, su!... Calmatevi...».

Poi, più forte, la voce di Mopps che tuonava:

«Ti dico che sei un bastardo, ecco! Un brutto bastardo con una brutta faccia da schiaffi...».

Tita era tutta orecchi. Mittel cercava di ritrovare i pantaloni.

«Non dire sciocchezze... Io non sapevo... Non hai mai detto niente...».

«Non ho mai detto niente perché ti credevo un amico. E invece sei un bastardo».

«Mopps!... Tioti!... Basta, adesso... Bevete...».

Perché quelle parole così pesanti erano rivolte a Tioti.

«Andiamo a vedere...» bisbigliò Tita.

Ma prima che li raggiungessero Mopps si era già allontanato. Lo videro salire in macchina da solo, fare una spericolata marcia indietro, sfiorare un camion della troupe e prendere la strada per Papeete. Tioti sembrava sgomento mentre Charlotte, un po’ più in là, scrollava le spalle.

«Che cosa è successo?» domandò Tita a un’amica.

«Credo che li abbia sorpresi».

«Chi?».

«Stavamo bevendo... Mopps raccontava delle storielle... A un tratto ha chiesto:

«“Dov’è Charlotte?”.

«Noi non lo sapevamo... Stavamo bevendo tutti assieme... Ha fatto qualche passo... È sparito là dietro e quando è tornato era con Tioti e gliene diceva di tutti i colori...».

Charlotte intanto chiacchierava con il segretario del governatore.

«Ma allora, Charlotte e Tioti...» a Tita veniva da ridere.

«Sì!... Mopps era paonazzo...».

Nemmeno Tioti sembrava a suo agio. Erano tutti più o meno costernati, a parte gli americani che stavano caricando la loro attrezzatura sui camion, dato che per quel giorno le riprese erano terminate.

Mittel cercava la sua giacca, cupo, con la testa vuota. Si camminava su un tappeto di parei rossi e azzurri. Le tahitiane si stavano rivestendo, prestandosi a vicenda pettini e specchietti. Ai piedi degli alberi c’erano mucchi di bottiglie vuote.

«Che esagerazione...».

Mittel si voltò. Era Tioti, che stava parlando con Charlotte, alla quale si era riavvicinato.

«Ma è anche colpa tua... Bell’idea che hai avuto!».

«Ma come potevamo immaginare...».

«Te l’ho sempre detto, che è geloso... Solo che non voleva darlo a vedere... Oggi pomeriggio aveva bevuto... Pare che si sia scolato quasi una bottiglia di pernod».

Charlotte era avvilita. Non vide Mittel, che non aveva aperto bocca.

«Ti riporto a casa?» chiese Tioti.

«Eh, già! Così quello fa un’altra scenata! No! Non dobbiamo rientrare con la stessa auto».

Finalmente si accorse di Mittel, che intanto aveva ritrovato la giacca.

«E nel frattempo tu facevi il cretino!».

«Come?».

«Che furbizia fare il bagno nell’acqua gelida, con i polmoni malandati che hai!... E dopo, dov’eri?».

Mittel era troppo sbalordito per rispondere.

«Bravo, eh! Credi che non sapessero tutti che eri là dietro con Tita?».

Era furibonda.

«Sarà meglio che torni con te... Scommetto che Mopps è a casa che aspetta...».

Lo trascinò verso la macchina. Tita era già a bordo e Mittel prese posto in mezzo a loro. Non osava aprire bocca. I suoi calzoni non erano ancora asciutti e gli si incollavano sulla pancia e sulle gambe. Avevano dimenticato di far salire il musicista, ma per fortuna c’erano i camion della troupe che avrebbero riportato a casa tutti.

Di tanto in tanto Tita allungava una mano e pizzicava leggermente Mittel, pur tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Via via che proseguivano, Charlotte appariva sempre più preoccupata. Non degnò di uno sguardo né il paesaggio né la gente che stava uscendo dal campo da calcio. La strada era affollata di tahitiani in bicicletta. Dalla parte di Moorea il cielo diventava color malva. Ogni tanto incrociavano degli inglesi in auto che da Papeete tornavano alle loro ville.

Due o tre volte Mittel fu scosso da brividi e Tita ne fu spaventata, mentre Charlotte non se ne accorse nemmeno.

«Te lo avevo detto!» bisbigliò Tita.

Charlotte grugnì:

«La finite di tubare, voi due?».

L’apprensione la rendeva quasi brutta. La fronte le si induriva, rivelando due bozzi piuttosto pronunciati, e la pelle le si tirava, evidenziando tutte le sue irregolarità.

Più che un ritorno, pareva una ritirata, una fuga. Una macchina strombazzò dietro di loro e un attimo dopo videro passare a tutta velocità Tioti, che aveva a bordo cinque tahitiane.

«E bravo!...» ripeté Charlotte.

E a Mittel:

«Non potresti spostarti?... Sei tutto bagnato... Mi fai venire freddo...».

Dietro c’erano i camion, carichi di gente perfino sui teloni. Incrociarono degli autobus, dei truks, come li chiamano a Tahiti, stipati di indigeni vestiti a festa che avevano trascorso la giornata a Papeete. Su ogni mezzo c’erano due o tre suonatori di chitarra e quasi tutti i passeggeri cantavano a squarciagola.

Le case dai tetti rossi, con i loro giardini intorno, sfumavano a poco a poco nella penombra del crepuscolo e i colori si incupivano.

Sulle rive della laguna i pescatori si preparavano a salpare con le loro piroghe e provavano le lampade ad acetilene che servivano per attirare i pesci.

Sempre la stessa quiete, ma anche quella sorta di spossatezza, quella luce un po’ verdastra della domenica sera, quella sensazione di affaticamento che talvolta diventa simile alla nausea.

I passeggeri dei truks cantavano, sicuro, ma non con il piglio della mattina. La giornata era passata, e con essa la felicità.

Eppure per loro la felicità sarebbe ricominciata l’indomani.

Mittel si sentiva un peso sul cuore e gli tornava in mente, inesorabile, la solita idea fissa.

Per scacciarla, per provare a dissipare il disagio che si era impadronito di loro, chiese stupidamente a Charlotte:

«Perché lo hai fatto?».

«E tu?» replicò lei.

Allora si vergognò di essere così a stretto contatto delle due donne. Si scostò da Tita e anche da Charlotte. Più la città si avvicinava e le case si infittivano, più ritrovava i suoi fantasmi.

«Speriamo che Maria sia stata attenta al piccolo!».

Charlotte non ci pensava. Era già tanto che non gli rispondesse con un’alzata di spalle.

E che ne era stato del dottore? Mittel non ricordava di averlo visto dopo la litigata. Chissà se avrebbe dato ragione a Mopps...

Un modo per sistemare tutto c’era: approfittare della situazione per andarsene da Papeete, trasferirsi in un piccolo villaggio, fosse pure nella casa più misera, e tentare di guadagnarsi da vivere con un lavoro qualsiasi!

Non osava parlarne. Era incerto. La presenza di Tita lo imbarazzava.

«Hai visto, ci sono delle belle casette...» riuscì finalmente a dire. «Potrei provare a fare il maestro, o qualcosa del genere...».

«Ma lasciami in pace, tu e le tue stupidaggini!».

Tita gli strinse ancora una volta la punta delle dita.

«Se Mopps è arrabbiato...».

«Lasciami in pace, ti dico! Occupati di Tita! È qui apposta...».

E Charlotte continuò a ruminare i suoi pensieri, con i nervi a fior di pelle. Non respirò con naturalezza fino a che l’auto non giunse sul lungomare. Avevano appena acceso i lampioni, disposti a ghirlanda lungo le strade. Charlotte fu la prima ad accorgersi che le finestre del bungalow erano illuminate, e non solo quelle della camera o della cucina, dove poteva esserci Maria, ma anche quelle del bar.

Questo significava che Mopps era là!

E in effetti c’era, abbarbicato su uno sgabello con un bicchiere davanti. Li guardò entrare tutti e tre. Era completamente ubriaco, al punto che a stento balbettò:

«Dammi un letto...».

E aggiunse fra i denti:

«Sgualdrina!...».

Per poco non cadde dallo sgabello e riuscì ad arrivare al letto di Mittel solo appoggiandosi alle pareti.