26

Alla vista degli armati gli sconosciuti avevano messo in atto un tentativo di fuga disperato, balzando tra le tombe scoperchiate come animali impazziti dalla paura. Ma subito erano stati bloccati dalla pattuglia che faceva il suo ingresso dal portale ormai spalancato, stringendoli in una morsa di ferro. Completamente circondati erano ormai ridotti all’impotenza, e più d’uno di loro si trascinava in terra colpito dalle lame delle picche. Incuranti dei loro lamenti gli armati si erano affrettati a legarli senza alcun riguardo, e si accingevano a trascinarli via.

Sembravano aspettare un ordine. C’era ancora qualcuno dietro di loro, che si era tenuto in disparte durante l’azione. Un uomo alto, coperto dall’inconfondibile veste bianca e nera dei domenicani, il volto nascosto nel cappuccio.

Il frate si limitò a indicare l’uscita con un cenno di disprezzo con la testa, senza pronunciare una sola parola. Ma quel piccolo gesto, poco più di un tentennamento, aveva la gravità della condanna dell’arcangelo Gabriele, e tagliava come il filo della sua spada a giudicare dalla reazione disperata dei prigionieri. Uomini destinati a scontare un duplice abbandono, da parte delle entità infernali che avevano tentato di evocare, e da parte della comunità cristiana che ora li avrebbe condannati di certo alla morte del corpo, dopo aver decretato quella dell’anima.

Il frate osservò le guardie eseguire il suo ordine, lo sguardo rivolto a terra e le mani nascoste nelle maniche dalla cappa, finché l’ultimo uomo non fu uscito dall’ingresso dietro l’abside. Poi anche lui mosse qualche passo nella stessa direzione, ma giunto a ridosso si fermò, lo sguardo fisso da quella parte.

Sembrava che invece di uscire volesse in realtà assicurarsi che nella chiesa non fosse rimasto nessuno. E quando ne parve certo si volse con un movimento fulmineo e tornò verso l’altare, lo oltrepassò e scese nella navata tra le tombe scoperchiate.

Aveva raccolto una delle candele cadute in terra durante l’assalto, che continuava a bruciare, e cominciò a procedere tra gli avelli, esaminando attentamente il contenuto di ognuno di essi. Non sembrava particolarmente turbato da quello che vedeva, più incuriosito. Quasi fosse un esploratore in terre incognite, cauto ma al contempo desideroso di conoscere ogni particolare del luogo in cui si sta inoltrando.

A poco a poco un’espressione delusa si stava diffondendo sul suo volto. Aveva rallentato il passo, e pareva sul punto di tornare indietro, quando si abbandonò a un’esclamazione di gioia. A pochi passi da lui il raggio lunare illuminava in terra la sezione di lapide ricostruita dal poeta.

Il frate si precipitò su di essa, con la cappa che si aprì nel movimento come le ali di un grande uccello da preda. Si chinò sul mosaico di frammenti con le braccia distese come se volesse proteggerlo da qualche pericolo invisibile, lanciando uno sguardo acceso tutto intorno. Il silenzio assoluto e l’oscurità dovettero rassicurarlo, perché dopo un istante tornò a concentrarsi sulla lapide.

Scorreva con la candela sui frammenti, come se cercasse di evocare con la fiamma un significato. Che però doveva eluderlo: tornò a rialzarsi con un’imprecazione rabbiosa, e con un calcio disperse tutto il lavoro compiuto faticosamente dal poeta.

«Inutile...» mormorò tra sé, tornando a guardarsi intono. Aveva alzato la candela alta sulla propria testa, per estendere il più possibile il raggio della fiammella, e pareva tornato a cercare qualcosa intorno a sé.

Nel suo nascondiglio Dante trattenne il respiro, mentre il tenue raggio di luce penetrava all’interno, richiamando dalle tenebre il suo sinistro compagno. Era sdraiato dietro i resti di un corpo disfatto, nella tomba scavata nel muro della chiesa in cui era riuscito a scivolare un attimo prima che gli uomini della guardia irrompessero dal portale.

Ed ora il teschio del legittimo occupante sembrava fissarlo ad appena un pollice dal suo volto, con le orbite spalancate sul nulla. Dante cercava di appiattirsi ancor di più dietro quel miserabile mucchio d’ossa, che un giorno era stato forse un prestante cavaliere o una donna innamorata, ma che adesso non era più che l’unico tenue velo tra lui e la luce implacabile che sembrava cercarlo sul confine dei morti.

La luce indugiò ancora all’interno della tomba, sfiorò i brandelli del sudario del morto, scivolò sui resti rinsecchiti dei fiori sminuzzati intorno e rimbalzò sulle perle di vetro che ancora giacevano sul suo petto, eccitandone il passato splendore, corse lungo i suoi fianchi consumati fino agli ultimi resti dei calzari dove accese un estremo barbaglio sulla fibbia d’ottone. Poi finalmente prese a ritrarsi, come la testa di un serpente che si volgesse verso un’altra preda.

Il frate continuava a sollevare in alto la candela. Ma sembrava più intento a riflettere che a cercare altro. Dal suo rifugio il poeta vide la macchia luminosa fluttuare in aria ancora per qualche attimo, poi scendere rapida e spegnersi con uno sfrigolio appena percettibile. Quindi lo intravide nell’ombra voltarsi e tornare in fretta verso l’altare.

Dalla sua posizione il poeta non riusciva a scorgerlo oltre quel punto. Sperò che fosse uscito sulle orme della guardia, ma ne era tutt’altro che certo. Era invece possibile che lo avesse scoperto durante la sua esplorazione, fingendo di nulla, e stesse ora richiamando indietro gli armati per catturarlo come un topo in trappola, in quella tomba trasformata in terribile allegoria del suo stesso destino.

Fremeva, in preda all’incertezza. Poi gli parve di avvertire un nuovo movimento da quella parte, che lo raggelò. Ora poteva soltanto giocare il tutto per tutto: se davvero entro pochi istanti la chiesa sarebbe stata di nuovo piena di uomini armati, l’unica possibilità che aveva era di anticipare le loro mosse.

Con uno scatto scalciò via le misere ossa che gli avevano fatto da riparo, e balzò fuori, gettandosi in una corsa disperata verso il portale. Pensava che la lunghezza della navata, irta dell’ostacolo delle fosse scoperchiate, gli avrebbe assicurato qualche istante prezioso per raggiungere il portale e tentare di richiuderlo dietro di sé.

Appena fuori spinse con tutte le sue forze le ante per richiuderle dietro di sé. Ma quella barriera, già dissestata durante l’attacco, non avrebbe retto che pochi istanti, pensò mentre freneticamente cercava di orientarsi sulla via da prendere per la fuga. L’occhio gli cadde su un tratto di travetto del cornicione che doveva essere caduto dal tetto. Il legno recava ancora tracce dell’antica lavorazione, con il suo terminale a coda di rondine. Colto da un’intuizione improvvisa il poeta spinse uno dei becchi sotto la fessura della porta, appena un istante prima che le ante del portale venissero scosse violentemente dalle mani che premevano dall’altra parte per aprirsi un varco.

Quel cuneo improvvisato, unito alla durezza dei cardini disallineati dal tempo e dalla ruggine, si rivelò un aiuto provvidenziale. Riprese a correre, diretto verso l’entrata del vicolo che si apriva sulla destra, mentre alle sue spalle esplodeva un ruggito rabbioso di voci accompagnato da una tempesta di colpi contro le assi della porta.

Il manoscritto delle anime perdute
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