Gianrico

 

È una vecchia masseria ristrutturata, da cui si vede un bel pezzo di Murgia.

Quando arriviamo, non c’è nessuno in giro. Bussiamo e dopo un po’ viene ad aprire un ragazzo che sembra un furetto, con i jeans al ginocchio e il mento unto.

Il ristorante è chiuso, dice, il lunedì è giorno di riposo. Francesco gli chiede se si può fare uno strappo, siamo affamati, abbiamo camminato chilometri per arrivare lì. Ci va bene anche pane e salame, aggiungo io con tono vagamente patetico.

Lui ci guarda per qualche istante, poi ci dice di aspettare e scompare di nuovo all’interno.

Ci guardiamo attorno. Il posto è bello, ci sono i vecchi ovili, le stalle, un vasto spazio recintato con due cavalli scuri e poderosi.

Poco dopo il ragazzo ritorna e ci dice che qualcosa possono preparare, anche se la cucina è chiusa.

Con un tono brusco e gentile allo stesso tempo ci fa entrare e ci indica un tavolo vicino a una grande vetrata che affaccia su un prato all’inglese, incongruo, nel mezzo della Murgia. Al centro del prato un pozzo di pietra.

Dietro, la macchia scura del bosco.

Mentre il ragazzo apparecchia, Francesco riprende il quaderno e annota qualcosa.

«È bello qui, vero?»

«Bello. Ci sono un sacco di odori buoni.»

«L’odore dei ristoranti di quando eravamo piccoli, te lo ricordi?»

Ci penso un po’ su. Me lo ricordo, eppure non me lo ricordo con precisione, come se in questa memoria olfattiva ci fosse qualcosa che mi sfugge.

«C’erano i profumi dei sughi, della cipolla, dell’aglio, degli arrosti, mescolati a qualcos’altro, però.

Non riesco a identificarlo, questo qualcos’altro.»

«Era l’odore del freddo.»

«Che vuoi dire?»

«Quel sentore di umido, non sgradevole, che si mescolava al profumo della brace e dei camini.

Nelle trattorie di paese non c’era quasi mai il riscaldamento. Mangiavamo con i cappotti addosso.»

«Mangiavamo con i cappotti?»

«Che poi restavano impregnati per giorni dell’odore della brace. La gente che vive in campagna quell’odore se lo porta sempre appresso.»

In quel momento arriva la cuoca, che è anche la padrona del ristorante. Non corrisponde allo stereotipo della massaia pugliese: è alta, magra, con occhi penetranti. Non bella ma con qualcosa di attraente. Mi ci vuole un poco per riconoscerla visto che sono passati più di trent’anni.

«Buongiorno. Rocco vi ha detto già che la cucina sarebbe chiusa…» socchiude gli occhi, come per mettere a fuoco le nostre facce. «Ma noi ci conosciamo?»

«Tu sei Rita, vero?» le dice mio fratello.

«E voi siete i Carofiglio. Accidenti» risponde con una nota allegra di incredulità.

Di sicuro più di trent’anni, penso mentre Francesco conferma che effettivamente siamo i Carofiglio, cioè quelli della villa ai margini del bosco.

Anche Rita veniva a villeggiare a Mercadante, due settimane ogni estate, dagli zii. Viveva a Padova che, allora, per noi ragazzi in vacanza a cinquanta chilometri da casa appariva un luogo esotico.

«Che ci fate qua?» chiede Rita sorridendo.

«Che fai tu, qua? Non vivevi a Padova?» chiedo io.

«Venivi in vacanza a casa dei tuoi zii, vero?» aggiunge Francesco.

Rita ci racconta. Ha fatto l’avvocato civilista per anni nello studio del padre, odiando ogni giorno quel lavoro e la vigliaccheria che non le aveva permesso di andare alla ricerca d’altro. Poi, durante un viaggio in Puglia dove non veniva da tanto tempo, ha conosciuto Roberto, al quale erano successe due cose non irrilevanti. Si era appena separato e aveva ereditato quella masseria. Stava decidendo se vendere e andarsene da qualche altra parte o provare a fare qualcosa con quella casa e quella terra.

«Insomma, in sei mesi è cambiato tutto. Ho lasciato lo studio, abbiamo ristrutturato la masseria, abbiamo aperto un agriturismo. Siamo venuti a lavorare e vivere qua. Ah, quest’anno ci siamo anche sposati.»

«E il ragazzo?» chiede ancora Francesco, che sembra essersi appassionato alla storia di Rita.

«Figlio di Roberto, dalla prima moglie.»

«E quindi avete il ristorante…»

«Il ristorante e quattro stanze dove si può venire in qualsiasi stagione, e produciamo tutto noi, il formaggio, le uova, il vino, l’olio.»

«Ho visto che avete anche i cavalli» dico lanciando uno sguardo alle due bestie muscolose nel recinto.

«Gianni e Pinotto, si chiamano. Sono murgesi, ce li siamo cresciuti da quando erano due puledri.

Ci facciamo le passeggiate sulla Murgia. È bellissimo, soprattutto in questa stagione e in primavera.»

«Lo so, ci andavo anch’io a cavallo, tanti anni fa.»

«Ora non più?»

«No, da parecchio.»

«Perché?»

«Un po’ per via del tempo. Non ne avevo, o pensavo di non averne. Un po’ perché, quando dicevo che mi piaceva andare a cavallo, tutti mi chiedevano se fossi caduto. Io rispondevo di no, in effetti non sono mai caduto, e tutti mi spiegavano che non sei un cavaliere se non hai avuto il battesimo della caduta e cose del genere. Io non avevo voglia di farlo, quel battesimo, e insomma, non so, a quel punto ho smesso. Chissà se sarei ancora capace.»

«Mi piace questo posto, complimenti» dice mio fratello. Da come guarda Rita sembra che se ne sia innamorato, in questi cinque minuti di conversazione.

«Grazie. È una vita faticosa, ma ha un ritmo che mi mette pace.»

Poi ci chiede di noi e noi, rispondendo a turno come due personaggi dei cartoni animati, le raccontiamo lo stretto indispensabile delle nostre vite.

Nessuno dei due si sente a suo agio a parlare di sé davanti all’altro.

«E allora, cosa vi preparo? Purtroppo oggi non c’è un granché, però un piatto di orecchiette con le rape, oppure col pomodoro, lo tiriamo fuori, che ne dite?»

«Ma cos’è questo profumo che viene dalla cucina?»

«La pasta al forno avanzata da ieri. La stiamo riscaldando per noi. Se non vi formalizzate…»

Non ci formalizziamo. Vogliamo quella, diciamo quasi in coro, in modo un po’ ridicolo. Rita sorride, annuisce e si allontana.

«Te lo ricordi? Il lunedì a volte mangiavamo la pasta al forno di nonna, avanzata dal pranzo della domenica.»

Ci andavamo a pranzo quasi ogni domenica, dai nonni paterni.

Abitavano in una casa con tanta luce e i soffitti alti. Era piena di cose interessanti: armadi da esplorare, scaffali carichi di libri misteriosi, cassapanche con i diavoli intagliati nel mogano, ripostigli inaccessibili.

Soprattutto, oggetti proibiti di cui impadronirsi quando il nonno dormiva: il binocolo, il sestante, un coltello a serramanico dall’aria pericolosa, il cappello con la visiera, le spirali di carta che si muovevano al calore del termosifone, il barattolo di vetro con quelle caramelle di zucchero colorate che avevano tutte lo stesso sapore, di sapone.

E poi c’era la dispensa. Quasi nascosta, proprio in fondo al corridoio, dietro una madia, con una porta bianca sempre chiusa a chiave.

Nella dispensa era tassativamente vietato entrare, o anche solo sbirciare.

Dunque per noi era diventata una questione di principio, violare quel divieto.

Una domenica pomeriggio, mentre il nonno sonnecchiava e la nonna al suo fianco leggeva il «Radiocorriere TV», dissi a Francesco di seguirmi. Mi chiese perché e io bisbigliai che, spiando la nonna, avevo scoperto il nascondiglio della chiave della dispensa. Era dentro un vaso enorme di Amarena Fabbri, di quelli bianchi e blu, zeppo di cianfrusaglie: monetine fuori corso, vecchi ciondoli di ottone, penne senza inchiostro, graffette, viti e bulloni, un taglierino arrugginito. Era giunto il momento di aprire quella porta, conclusi con tono drammatico.

Così recuperammo la chiave, ci avvicinammo alla porta con circospezione e la aprimmo cercando di ridurre al minimo l’inevitabile cigolio. Una volta all’interno, quello che vedemmo ci lasciò senza fiato.

Era una stanza a pianta quadrata con i muri così alti da perdersi nell’oscurità, o almeno così mi parve in quel momento di sovraeccitazione. Su ciascuna parete scaffali stracolmi di barattoli, scatole di latta, contenitori di paglia intrecciata, vasi di conserve.

Ciliegie, gelsi, albicocche, e ancora pomodori sott’olio, melanzane, carciofini, peperoni, lamponi, lampascioni; e poi dolci di mandorla, agrumi canditi, frutta secca, caramelle, cioccolatini e decine di bottiglie di salsa.

Dopo qualche istante di smarrimento diventammo pratici e, devo dire, piuttosto efficaci.

Ci riempimmo le tasche, senza esagerare, di dolcetti, caramelle e cioccolatini. Scivolammo fuori, chiudemmo la porta attenti a non far rumore, riponemmo la chiave al suo posto e tornammo nella zona abitata della casa. Senza guardarci, consapevoli di avere un segreto e una risorsa in comune.

Non ne parlammo mai, neanche tra noi, come se temessimo che parlarne potesse rompere un incantesimo, ma per anni – insieme o ciascuno per conto proprio – attingemmo con discrezione ai tesori della camera segreta.

I nonni non se ne sono mai accorti, ma sono sicuro che non se la prenderanno.

Nonno Giovanni aveva girato il mondo al comando di navi mercantili, a settantotto anni aveva i capelli tutti neri, grandi orecchie, un grande naso e uno straordinario talento matematico.

Nonna Maria era uguale alle nonne descritte nei libri di scuola elementare.

Amorevole, paziente – con i nipoti, ma soprattutto con il marito – e cuoca sopraffina.

La cucina di nonna era fatta di sughi corposi, di bolliti, di pizze rustiche, di focacce e di panzerotti.

Allora i panzerotti erano soltanto di tre tipi: con la mozzarella e il pomodoro, con la carne tritata e con le rape stufate. Oggi scienza e arte del panzerotto si sono evolute moltissimo.

Sapendo dove andare è possibile assaggiarne ripieni di gongonzola e noci, mortadella e stracchino, funghi e camembert, tanto per dirne alcuni. E fra quelli dolci, a base di ricotta, all’aroma di limone, con la Nutella, con la cannella.

Nonna Maria sarebbe inorridita. E comunque non erano i panzerotti la sua specialità.

Il suo piatto forte, e il nostro preferito, era la pasta al forno.

Il processo di preparazione era lungo e laborioso. La nonna si muoveva in cucina come un prestigiatore esperto, facendo apparire e sparire gli ingredienti con rapidità e maestria. Il segreto di quella ricetta irripetibile era tutto nell’alternarsi di cose lente e veloci.

La cosa lenta per eccellenza era la preparazione del sugo.

Da bambini lo chiamavamo il sugo grosso, una piccola acrobazia semantica che raccontava insieme il colore intenso e la consistenza densa.

Il sugo grosso era il fuoco perenne sotto l’altare dei Lari.

La cottura cominciava il sabato pomeriggio e terminava la domenica mattina, dopo una notte di borbottii sommessi nel silenzio del tempio.

Guardare la grande pentola di terracotta che cuoceva nella penombra mi produceva un effetto ipnotico. Nella memoria l’immagine si sovrappone a quella dei grossi ceri, sempre accesi, che illuminavano la statua di San Nicola, custodita in una campana di vetro nella camera da letto dei nonni.

Accanto alla statua le bottiglie di alabastro con la Manna del Santo, accanto alla pentola le bottiglie d’olio e i contenitori per il sale e le spezie.

Per fare la pasta al forno ci volevano i rigatoni.

Restavano nel forno il tempo necessario perché si formasse una crosta bruciacchiata, ma bisognava fare attenzione che non si seccassero all’interno. Ci volevano occhio, naso e velocità. La nonna in quegli istanti diventava intrattabile, nessuno poteva avvicinarla. Persino il Comandante rientrava nei ranghi. Rimaneva, in rispettoso silenzio, sulla poltrona del soggiorno, a completare l’ennesimo cruciverba.

Poi arrivava il momento. Eravamo seduti intorno alla tavola bianca, la nonna irrompeva nella sala da pranzo con una certa teatralità, le mani infilate nei guanti di panno e tra le mani la teglia. La posava su un sottopiatto di ceramica e la lasciava riposare.

Era vietato toccare, tantomeno provare a sottrarre un rigatone dalla crosta bruciacchiata e deliziosa.

Forse dipendeva dal fatto di essere passati attraverso una guerra, ma certo è che le porzioni erano sempre abbondanti. Di quella pasta al forno ne avanzava ogni volta e, al momento di andar via, nonna ce la consegnava in un fagotto avvolto in un panno infiocchettato. Così anche la domenica sera, o il lunedì a pranzo, mangiavamo pasta al forno.

Ed era la più buona, doppiamente bruciacchiata.