Dino chiese con gli occhi: “Lo volete veramente?” e loro risposero sì. Allora il ragazzo raggiunse il muro dell’edera e v’incise col temperino uno squarcio da cui si sporse chiamando: “Atropo! Atropo!” Immediatamente la farfalla venne a posarglisi sulla spalla come falcone pellegrino; quindi si vide la sua macchia giallobruna passare con breve volo dall’uno all’altro Immortale e sfiorare a ciascuno la gota; infine librarsi e sparire. Dino la seguì con lo sguardo; quando la perse e tornò a guardare davanti a sé, già le facce degl’Immortali s’erano coperte di grinze e di tutte le cicatrici degli anni; i bulbi degli occhi s’erano fatti ciottoli acquosi, la pelle un’antichissima cartapecora. Con voce mutata bisbigliarono in coro: “Grazie, ragazzo, questo è l’epilogo giusto,” e s’afflosciarono al suolo come fantocci di pezza. Allora mille pendole cominciarono a battere l’ore, dodici colpi vibrò contro uno scudo il pugno di bronzo d’un Moro sulla cornice d’un campanile, un filo di sabbia prese a scorrere nella clessidra, un gallo disse chicchirichì…
Gli rispose il drin drin fragoroso d’una sveglia, una di quelle tedesche, a doppia carica, inflessibili trombettiere dell’indomani, che le mamme installano a sera sui comodini dei figli, per vincerne la pigrizia. Dino aprì gli occhi, vischiosi di sonno, li richiuse, li riaprì. La sveglia squillava ancora. Non c’era tempo per cercare di raccapezzare i brandelli di confusa visione che gli galleggiavano dentro: bisognava lavarsi, vestirsi, far colazione, legare i libri con la cinghietta, balzare in sella e correre a scuola, tempo ventitré minuti, prima che il bidello Rutilio chiudesse sul muso ai ritardatari il portone. “Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula,” mormorò il ragazzo, senza riuscire a capire da quali tenebre gli giungessero a rassicurarlo quelle parole; quindi scappò giù per le scale. Nelle tavole del libro di Scienze, rimasto aperto sul tavolo, il primo raggio di sole cercò, ma non la trovò, la farfalla Acherontia atropos.