7.

Al matrimonio del principe con la cugina Graziella, celebrato tre mesi dopo la cessazione dell'epidemia, solo i parenti e pochissimi intimi furono invitati: il vedovo era ancora in gramaglie e il chiasso d'una festa sarebbe stato inopportuno. Del resto il principe stesso spiegava che quel matrimonio era di semplice convenienza: tanto lui quanto la sposa avevano molti autunni sulle spalle, associavano quindi i loro destini senza nessuna delle fantasticherie giovanili, e solo per fare assegnamento sull'aiuto reciproco che si sarebbero prestato: la cugina aveva bisogno d'un uomo che tutelasse gli interessi di lei, che le ridesse una posizione in società, ed il principe trovava una nuova madre ai propri figliuoli. Quell'unione, prevista da alcuni, fin da quando la cattiva salute della principessa aveva fatto temere per la sua vita, aspettata poi da un giorno all'altro dopo la catastrofe affrettata dal colera, riscoteva perciò l'approvazione quasi universale: il confessore, il Vicario, tutti i preti che bazzicavano per la casa l'avevano giudicata conveniente e provvida. I preparativi della cerimonia nuziale furono molto modesti perché non i soli sposi erano in lutto: non c'era quasi famiglia, dopo quella terribile epidemia, che non piangesse qualche persona cara. Benedetto Giulente aveva perduto in un giorno il padre e la madre, a Mascalucia; la principessa di Roccasciano era rimasta vedova, alla duchessa Radalì era morto uno zio, il cavaliere Giovanni Artuso; ma questa disgrazia non era stata causa di grande dolore, poiché il cavaliere, ricchissimo e senza figli, aveva lasciato in casa Radalì tutta la sua sostanza: l'usufrutto alla duchessa, la proprietà a Giovannino che aveva tenuto a battesimo. Doleva piuttosto alla madre che l'eredità non fosse andata al primogenito, per amor del quale ella aveva sacrificato la propria vita. La soppressione dei conventi aveva già sconvolto tutti i suoi disegni, non potendo Giovannino professarsi più, e tornando al secolo; adesso l'eredità veniva a pareggiare la condizione dei due fratelli, cioè a diminuire quella del primogenito. Ella voleva bene ad entrambi, ma al duca, oltreché bene, portava anche una specie d'istintivo rispetto, come capo della casa, come erede e continuatore del nome e della potestà paterna. Perché la chiusura dei conventi e l'errore dello zio non disturbassero i piani di lei, bisognava che Giovannino non prendesse moglie: ella lavorava a questo scopo, lasciando il giovane libero di sbizzarrirsi a suo modo, secondando tutti i suoi gusti per la caccia, pei cavalli, per tutti i diporti, in modo che il giovane non fosse tentato di mutar vita.

Che donna Graziella avrebbe fatto da madre ai figli del principe, era frattanto fuori di dubbio. Baldassarre aveva riferito ai suoi dipendenti, e questi ripetevano dovunque, i particolari delle lettere scambiate tra la sposa e la principessina. La ragazza aveva saputo a Firenze la morte della mamma, e che pianto! che convulsioni! basti dire che la direttrice del collegio s'era messe le mani in capo, non sapendo come fare. Povera signorina, aveva pure ragione! Sola, lontana da casa sua «senza poterla abbracciare un'ultima volta! Mamma mia! Mamma mia!...» Bisognava leggerle, queste lettere; perché alla Santissima Annunziata le signorine ricevevano un'istruzione comi fo e la principessina otteneva sempre i primi premi, tanto era svegliata e studiosa. Ma finalmente, quando la madrina le mandò una ciocca di capelli della buon'anima, e il suo libro di preghiere, e il suo rosario, promettendole che il principe l'avrebbe ripresa più presto in casa e raccomandandole frattanto di non affliggerlo di più, poveretto, con quelle lettere, la padroncina si venne calmando a poco a poco: «Hai ragione, mia buona madrina; dimenticavo il dolore del povero babbo per pensare al mio solo; e ciò non è giusto...» E le lettere scritte al principe direttamente? «Non ti affliggere più, babbo mio; pensa come me che la santa mamma è in Paradiso, e di là ci guarda tutti, e veglia su noi, e vuole che ci consoliamo perché ella è tra i beati e noi tutti, con la grazia del Signore, un giorno la raggiungeremo...» Cosa veramente da strabiliare che una ragazza di quattordici anni scrivesse a questo modo!... E il principe le aveva dato allora la gran notizia: inconsolabile per la perdita di quella santa, egli l'avrebbe pianta fino all'ultimo giorno della propria vita; ma i figliuoli avevano bisogno di qualcuna che tenesse loro luogo di madre, e per quest'unico scopo egli accettava i consigli di tutti i parenti che lo persuadevano a riammogliarsi: sposava quindi la cugina che gli aveva dato tante prove d'affezione nella circostanza della «grande disgrazia», ed era la più adatta, nella sua qualità di parente, a compiere la delicata missione di seconda madre. La cugina, da suo canto, scrisse in coda sotto la dettatura del Padre confessore: «Mia cara figlia, da quel che t'ha detto tuo padre, tu comprendi che da ora innanzi ho più diritto di chiamarti con questo nome che il mio cuore t'ha sempre dato. La mia più grande ambizione è quella di renderti meno sensibile la mancanza della nostra santa, non di fartela dimenticare, che sarà sempre impossibile non solo a te ma a noi tutti. Stringendo ancora più i vincoli che già ci uniscono, io ti sarò sempre a fianco per vegliare su te e tuo fratello, come quella benedetta raccomandò al letto di morte. Sono impaziente di stringerti al mio cuore: se i tuoi studi non ti permetteranno di tornare per ora a casa, verremo noi a trovarti al più presto...» Passarono però molti giorni, senza che a questa lettera venisse risposta. Che cosa succedeva? La posta ne aveva fatta qualcuna delle sue? O la signorina stava poco bene? Oppure accoglieva male l'annunzio del matrimonio?... Baldassarre fece di tutto per dissipare quest'ultimo dubbio. Veramente egli lavorava del suo meglio per nascondere alla gente anche il malumore del principino, ma non ci riusciva, perché Consalvo, fin dal primo annunzio delle nozze, aveva preso posizione contro la futura madrigna e il padre. Naturalmente, aspettando lo sposalizio, la cugina non veniva più al palazzo, adesso che non c'era più nessuna signora che la ricevesse; ma il principe andava da lei e voleva che il figliuolo le facesse visita; tutto fiato perduto: il principino non ci sentiva da quell'orecchio, e quando incontrava la promessa del padre in casa dei parenti, la salutava appena, rispondeva con una freddezza mortificante alle effusioni di lei che gli dava del «figlio mio» a tutto andare, o addirittura la sfuggiva, lasciando intendere l'avversione che quella donna gl'ispirava. Il principe, con grande e comune stupore, pareva che non se ne accorgesse, e quasi avesse mutato carattere, quasi volesse ingraziarsi anche lui il figliuolo, largheggiava a quattrini, gli lasciava fare quel che voleva, gli comperava carrozzini e cavalli inglesi; ma Consalvo era freddo anche col padre, lo evitava, stava settimane intere lontano, in campagna, a caccia, tanto che a poco a poco si vedeva il principe gonfiare, gonfiare. Il maestro di casa, tanto amante della pace, se n'accorava, e lavorava a rabbonire il padroncino. Consalvo lo lasciava dire; a un certo punto gli rispondeva freddo freddo: «Non mi seccare. Bada al tuo servizio. Non mi seccare...» Giovanotti! Giovanotti! Bisogna aver pazienza con essi, lasciarli fare a modo loro, prima che mettano giudizio! Ma la principessina? Era possibile che anche lei si voltasse contro il padre e la madrigna? Una figliuola savia, obbediente, educate alla Santissima Annunziata?...

Dopo essersi fatta aspettare più d'una settimana, arrivò finalmente la risposta della signorina. «Caro babbo, cara mamma,» diceva, «non v'ho scritto più presto perché sono stata poco bene; una cosa da nulla, non v'inquietate; ora, grazie a Dio, posso dirvi con quanta gioia ho appreso ciò che fate per noi»: e così via per due pagine piene d'espressioni affettuose, fino alla chiusa che diceva: «Vostra affezionatissima e gratissima figlia, Teresa.» Scrisse anche al fratello, nello stesso senso; ma il principino, rispondendole, neppur nominò la madrigna, neppur fece un'allusione al prossimo matrimonio, come se mai ne avesse udito parlare. Due giorni prima della cerimonia, anzi, andò via con Giovannino Radalì ed altri amici, a caccia, dicendo che sarebbe rimasto fuori ventiquattr'ore; invece il giorno degli sponsali, quando il padre e la matrigna con gl'invitati andarono al Municipio, egli non era ancora arrivato. Non arrivò neppur la sera, quando gli sposi tornarono dalla chiesa: uno scandalo straordinario, la servitù che mormorava, i lavapiatti sulle spine, la sposa che sorrideva per forza, Lucrezia che ripeteva ogni quarto d'ora: «Ma Consalvo? Perché non lo mandate a chiamare?...» nonostante le avessero spiegato parecchie volte che il giovanotto era in campagna, alla Piana. Il principe, un poco pallido, diceva che doveva esser capitata qualche disgrazia alla comitiva; infatti nessuno dei compagni di Consalvo era ancora tornato, e la duchessa Radalì e il duca Michele, suo figlio, mandavano ogni mezz'ora a casa, inquieti per il loro Giovannino. La barca capovolta, al Biviere? La carrozza ribaltata? Un fucile, Dio liberi, scoppiato?... Donna Ferdinanda era invece tranquillissima, sapeva bene che il suo protetto aveva dovuto combinar la cosa per non assistere alla cerimonia nuziale; e in cuor suo lo approvava. Bella sciocchezza, da parte di Giacomo, quella di dar a intendere che si ammogliava per non lasciar senza madre i propri figli! I suoi figli non erano più bambini, da doverli allattare!... E poi, e poi, che grande autorità aveva esercitato su loro la madre! il principe non le aveva mai permesso d'attaccar loro un bottone! Adesso, invece, che si sarebbe visto? La pettegola cugina far da padrona in casa Francalanza!

La zitellona diceva queste cose, piano, all'orecchio di Chiara e di Lucrezia, le quali le ripetevano al marchese, a don Blasco; e tutti riconoscevano che Giacomo sposava Graziella unicamente perché, da giovane, s'era messo in capo di sposarla. La madre non aveva voluto, ed egli s'era piegato, allora, alla ferrea volontà di lei; pareva anzi aver dimenticato la propria, trattando la cugina freddamente, quasi non l'avesse pensata mai, badando solo agli affari; ma appena finito di accomodarli, egli s'era messo con l'antica innamorata, e ora, dopo tanti anni, non più giovane, con due figli grandi e grossi sulle spalle, il suo primo pensiero, appena libero, era quello di sposarla, vedova, invecchiata, imbruttita, pur di prendere la rivincita, pur di disfare l'opera della madre. Non l'aveva disfatta in un altro modo, eludendo le volontà che ella aveva manifestate nel testamento, spogliando i legatari e il coerede? E che restava oramai dell'opera della defunta? Raimondo non aveva anch'egli disfatto il matrimonio voluto da lei? Lucrezia che doveva restare in casa non s'era sposata?... «Strambi!... Cocciuti!... Pazzi!...» Così essi scambiavansi le stesse accuse; ma stavolta tutti erano stati d'accordo nel biasimare il principe, nel coalizzarsi contro di lui; ad eccezione del solo Priore. Gli interessi mondani, le lotte della famiglia lo lasciavano adesso molto più indifferente di prima, sul punto com'era di partire per Roma. Dopo la soppressione dei conventi tutti avevano riconosciuto, alla Curia, che il dotto e santo Cassinese doveva andare avanti in altro modo. Gli era stato offerto un vescovato, a sua scelta; ma egli, che mirava più alto, aveva chiesto di andare a Propaganda. E giusto in quei giorni, con la nomina di Vescovo in partibus, era stato chiamato alla grande Congregazione. Che gl'importava del matrimonio del fratello, del testamento della madre e di tutte le trame meschine che ordivano i suoi? A Roma egli era preceduto da una fama così chiara, da raccomandazioni tanto efficaci, che in poco tempo era sicuro di raggiungere, con la propria accortezza, i più alti gradi della gerarchia... Come a lui, lo scioglimento delle corporazioni religiose aveva dato a don Blasco altri desideri, altre ambizioni. Convertiti in bella rendita sul Gran Libro i quattrini portati via dal convento, il monaco aveva finalmente visto avverarsi il sogno della sua giovinezza: aver del suo, essere capitalista. Allora aveva quasi dimenticato l'odio contro il rivale nipote, non s'era più curato né di lui né degli altri. Ma l'appetito vien mangiando, dice il proverbio, e don Blasco non si contentava di quelle poche migliaia d'onze, voleva arricchire per davvero, studiava il modo di batter moneta. Pertanto voleva assaggiare i beni delle Cappellanie e dei Benefizi; e vedendo che Giacomo gli dava erba trastulla e nonostante le promesse iniziava la causa per conto proprio, era stato l'anima della lega ordita contro di lui, mettendo in opera il sistema da lui adoperato contro i fratelli. Chi la fa l'aspetta, dice un altro proverbio, e il principe, che s'era fatto pagare da Raimondo e da Lucrezia per dar loro il suo appoggio, aveva dovuto chiuder la bocca allo zio perché questi, che non aveva mai avuto peli sulla lingua, s'era messo a cantare che la faccenda della morte della principessa non era tanto liscia, e che aver costretto la «povera Margherita» a scappare a Cassone mentre stava così male ed aveva anzi i primi sintomi del colera era stato un voler sbarazzarsi di lei, dopo averle dettato un testamento nel quale s'era fatto lasciare ogni cosa, e niente ai figli; e che la freddezza di Consalvo non era poi senza ragioni, e che... e che... Allora il principe aveva riconosciuto i diritti della parentela alla spartizione dei beni, e tutti s'erano placati. Placati in apparenza, perché i rancori ribollivano sordamente. Giacomo non se la poteva prendere col monaco, per non disgustarselo, adesso che aveva quattrini, né, per la stessa ragione, con la zia Ferdinanda; tanto meno col duca alla cui autorità di deputato ricorreva per essere assistito contro il fisco rapace. Ma sfogava contro tutti gli altri, incagnato, una furia. L'agente delle tasse, specialmente, un certo Stravuso, era il suo incubo: oltre che di ingordo, costui aveva la fama di terribile iettatore, e il principe, pigliandosela con lui, non lo poteva neppur nominare dalla paura; non lo chiamava altrimenti che «Salut'a noi!» tenendo nel pugno un amuleto, un ignobile pezzo di ferro a foggia di mano che fa il segno delle corna.

«Che io parli con Salut'a noi?...» diceva allo zio, quella sera degli sponsali. «Fossi pazzo!... Fatelo andar via! Fatelo traslocare, cotesto ladro imboscato per spogliar la gente!... Non gli basta farmi pagare il venti per cento sugli svincoli, la doppia tassa di successione fra estranei! Ma se fossimo estranei non erediteremmo! I beni vengono a noi appunto perché i fondatori furono nostri antenati!»

Il duca, che portava al cielo le nuove leggi, gli consigliava di non lagnarsi: anche dedotto il venti per cento, il resto era tanto di guadagnato. L'importante in tutto questo, per il legislatore, era che tante proprietà e tante rendite fossero sottratte ai monaci e destinate ad impinguare la fortuna dei privati cittadini, quindi ad aumentare la pubblica prosperità. Perciò, aspettando di prender la sua parte nella divisione dei beni svincolati, egli era rimasto aggiudicatario del Carrubo e di Fontana Rossa, due feudi della badìa di San Giuliano, dei quali a giorni sarebbe entrato in possesso, e incitava il nipote a fare altrettanto, a scegliere qualche bel tenimento di terre da pagare a tanto l'anno con gli stessi frutti e da migliorare in modo da moltiplicarne il valore; ma il principe:

«Eccellenza, non posso. Il confessore non vuole. Me l'ha messo a scrupolo di coscienza; e giusto in questa circostanza solenne del mio matrimonio intendo rispettarlo. Ciò non vuol dire che Vostra Eccellenza abbia fatto male; ma i nostri casi sono diversi...»

Il duca lo guardò un poco nel bianco degli occhi, come per sincerarsi se diceva sul serio o se scherzava; poi uscì nella stessa obiezione che il principe aveva rivolta a don Blasco:

«O allora perché rivendichi i beni delle Cappellanie? Non sono della Chiesa anche quelli?»

«Eccellenza no,» rispose il principe. «La Chiesa ne era semplice amministratrice, secondo l'intenzione dei fondatori. Le sole rendite debbono essere convertite a scopi sacri, e di ciò siamo responsabili tutti...»

Mentre essi tenevano questi discorsi, l'assenza del principino continuava a far ciarlare gli altri parenti, di nascosto alla nuova principessa, la quale si mostrava sovrappensieri, temendo, come il marito, non fosse capitato un accidente al giovanotto, e parlava di spedir messi alla Piana per appurare che cos'era successo. Nonostante l'inquietudine, ella badava al servizio, dava ordini sottovoce a Baldassarre, insisteva perché gl'invitati riprendessero dolci e gelati, esercitando così per la prima volta l'ufficio di padrona di casa. Don Blasco non si facea pregar molto: adesso che a San Nicola c'era tanto di catenaccio, egli poteva far tardi quanto gli piaceva; e mentre masticava a due palmenti, utilizzava il suo tempo chiedendo informazioni alla gente sulle firme solvibili, giacché anch'egli s'era messo a dar quattrini in piazza. Di tanto in tanto s'avvicinava anche al crocchio d'uomini in mezzo al quale il duca, finito di discorrere col nipote, parlava delle pubbliche faccende. La quistione che impensieriva pel momento il deputato era quella del Municipio. Le cose vi andavano male, gli amici del grand'uomo lo pregavano con insistenza di prenderne le redini, di dare questa nuova prova di affetto al paese; ma egli dichiarava che non la volontà ma la forza gli faceva difetto. Era già deputato, consigliere comunale e provinciale, membro della Camera di commercio, del Comizio agrario, presidente del consiglio d'amministrazione della Banca di Credito, consigliere di sconto alla Banca Nazionale e al Banco di Sicilia e, come se non fosse abbastanza, lo mettevano in tutte le giunte di vigilanza, in tutte le commissioni di inchiesta. Ad ogni nuova nomina, egli protestava che era troppo, che non aveva tempo di grattarsi il capo, che bisognava dar luogo ad altri, ma dopo una lunga e cortese discussione doveva finalmente arrendersi alle insistenze degli amici. Gli avversari, i repubblicani, i malcontenti gridavano contro questo accentramento di tanti uffici in una stessa persona; e giusto il duca s'era fatto forte di tale ragione per rifiutare la sindacatura. Benedetto, dopo il gran dolore delle disgrazie sofferte, ricominciava allora ad occuparsi degli affari pubblici, e insisteva presso lo zio, gli ripeteva l'invito a nome del Consiglio comunale, adducendo la mancanza di persone capaci.

«Non mi darai a intendere,» rispose il deputato, «che io solo possa fare il sindaco! Perché non lo fai tu?»

«Perché io non ho i titoli di Vostra Eccellenza!»

«Dimmi che accetti, e fra quindici giorni avrai la nomina.»

Benedetto continuava a schermirsi, sorridendo, fingendo di non credere alla serietà dell'offerta; in cuor suo, egli non desiderava di meglio; ma una grande difficoltà lo arrestava: l'opposizione di sua moglie. Costei dimostravasi sempre più irascibile quando udiva parlare di cariche pubbliche, di uffici elettivi, di politica liberale; minacciava di far mandare ruzzoloni giù per le scale le persone che venivano a cercar di lui nella sua qualità di consigliere comunale o di presidente del Circolo Nazionale; di lacerare, prima che egli le leggesse, le carte indirizzate a suo marito. Se gli moveva tanta guerra per così poco, che avrebbe fatto sapendolo sindaco? E Benedetto, soggiogato dal timore, si schermiva contro le rinnovate offerte dello zio, il quale, come argomento irresistibile, riserbato per il colpo di grazia, gli diceva: «Il giorno che io mi ritirerò, troverai preparato il terreno...»

Mentre il deputato insisteva, e Lucrezia sparlava di suo marito con Chiara, e donna Ferdinanda sparlava del principe col marchese, e i lavapiatti facevano la corte alla nuova principessa, e don Blasco ciaramellava da un gruppo all'altro, s'udì il fracasso d'una carrozza che arrivava di carriera e tutti esclamarono:

«Consalvo!... Il principino!...»

Baldassarre erasi precipitato ad incontrarlo. Il giovanotto aveva l'abito in assetto e gli stivaloni puliti come sul punto di andar fuori; ma al maestro di casa che gli domandava ansiosamente che cosa fosse successo:

«Sono vivo per miracolo,» rispose.

Entrato nel salone, mentre tutti gli si affollavano intorno, cominciò a narrare la storia d'un accidente complicatissimo, il suo smarrimento nel Biviere, la fame sofferta per dodici ore, il naufragio della barca che lo portava. «Gesù!... Gesù!... Santo Dio d'amore!...» esclamavano tutt'intorno; la principessa, specialmente, ripeteva ogni momento:

«Ah, questa caccia!... Figlio mio!... Che paura!...», lo stesso principe mostrava di credere quella storia, e tutti, per prudenza, fingevano di rallegrarsi dello scampato pericolo; solo donna Ferdinanda increspava le labbra sottili ad un ironico sorriso, sapendo bene che il suo protetto non aveva corso pericolo di sorta... Benedetto, frattanto, riferiva sottovoce alla moglie l'offerta della sindacatura fattagli dallo zio e il proprio rifiuto. Lucrezia si voltò a guardarlo in faccia e gli disse sul muso:

«Sempre bestia sarai?»

Le era parso che quel titolo di sindaco avrebbe nobilitato in qualche modo il marito, conferendogli l'autorità, il lustro, l'importanza che non aveva; invece, dopo che il duca ottenne per Giulente la nomina, s'accorse che gli restava più Giulente di prima, una specie d'impiegato, un miserabile passacarte, un servitore del pubblico. E quando le diedero della sindachessa, arrossì come un papavero, quasi l'insultassero, quasi le intonazioni più complimentose fossero studiate e nascondessero un ironico dileggio. Ella non diede più quartiere a Benedetto; dopo averlo spinto ad accettar l'ufficio, gliene rinfacciò l'inutilità, le noie, i pericoli; se per la moltitudine degli affari egli tornava a casa più tardi del consueto, stanco, affamato, l'accoglieva con tanto di muso, gli faceva trovare la tavola mezza sparecchiata e il desinare freddo; se veniva gente a chieder del sindaco, ella gridava alla cameriera: «Non c'è! Non c'è nessuno! Mandate via cotesti seccatori!...» in modo che i seccatori udissero e che passasse loro la voglia di mai più tornarci; se Giulente, ciò nonostante, riceveva quella gente, per prudenza, per necessità, ella si metteva lo scialle in testa e se ne andava dalle parenti, o dalle amiche, e cominciava a sfogarsi:

«Non ci posso più reggere! Mi par d'impazzire! Che vita d'inferno! Se avessi saputo!...»

Secondo che le dimostravano il suo torto e l'affezione e il rispetto di cui Benedetto la circondava, la sua avversione cresceva: ella immaginavasi d'esser maltrattata, attribuiva al marito ogni specie di torti. Poiché i Giulente non avevano avuto concessione di feudi, lo giudicava miserabile; ma, non potendo ragionevolmente dare a intender questo, l'accusava d'avarizia. Egli la lasciava libera di spendere ciò che voleva ma, fittosi in capo che fosse avaro, la fissazione prendeva nel cervello di lei più consistenza di un fatto; e con l'aria d'una vittima rassegnata al suo destino, quasi piangendo, rifiutava di comperar nulla per sé, rinunziava agli abiti, ai cappelli, ai gioielli, andava attorno come una cameriera. Suo marito non riusciva a strapparle la spiegazione di quella sciatteria; ma al palazzo ella si nettava la bocca contro di lui, e se il principe o donna Ferdinanda le rammentavano che smania aveva avuto di sposarlo, se la prendeva con loro:

«Perché non mi apriste gli occhi? Che ne sapevo! Toccava a voialtri avvertirmi!»

«Oh! Oh! Hai dunque dimenticato tutto quello che facesti?»

«Che ne sapevo! Colpa vostra che non v'ostinaste a impedirmi di commettere una pazzia!»

E questa nuova idea le s'inchiodava talmente in testa, che sfogandosi coi primi venuti, lagnandosi della propria infelicità con gente a cui aveva parlato appena una volta, ella l'adduceva a propria discolpa:

«La mia famiglia m'ha fatto un tradimento. Questo marito non faceva per me: me l'hanno dato per forza... sono stata sacrificata!...»

Poi denigrava in altro modo Giulente, metteva in ridicolo il suo patriottismo, lo attribuiva all'ambizione o lo negava del tutto.

«Cotesto sciocco ha fatto il liberale per essere qualche cosa. Ma non è divenuto niente, ed ha fatto meno che niente. Il ferito del Volturno? Guardategli la coscia: l'ha più sana delle mie!»

Diceva spesso cose più enormi, senza pudore, un poco perché non ne comprendeva la sconvenienza, un poco perché credeva le fosse lecito tutto. Non si levava mai prima di mezzogiorno, e per due buone ore restava discinta, con una gonna sulla camicia, il collo e le braccia nudi, i piedi nudi, nelle pantofole; si mostrava così al cameriere ed al cuoco, era capace di ricevere anche qualche visita; e se Benedetto, presente, esclamava, giungendo le mani: «Ma Lucrezia? Per carità!...» ella lo guardava stupita, spalancando tanto d'occhi: «Che c'è? Sono visite di confidenza! Ho da mettermi gli abiti da ballo? Quelli che m'hai fatto venire da Parigi?...» E se egli le diceva di ordinarli pure, di spendere tutto quel che voleva, ella si stringeva nelle spalle: «Io? A che pro? Per qual Santo? Non vado più da nessuna parte, non conosco più nessuno della mia società! Risparmia, risparmia i tuoi quattrini!...»

Messo con le spalle al muro, egli perdeva talvolta la pazienza; allora ella minacciava d'andarsene via.

«Ah, la prendi su questo tono? Bada che ti pianto!... Non mi far saltare il ticchio d'andar via, perché altrimenti non mi tratterrai neppur con gli argani!... Sai come siamo noi Uzeda, quando ci mettiamo una cosa in testa! Raimondo ha posto il mondo sottosopra per piantar sua moglie e prenderne un'altra! Giacomo aveva giurato di sposar Graziella, ed ha fatto morire quella disgraziata prima del tempo...»

«Taci!... Che dici!...»

Egli sopportava pertanto le stramberie, i capricci, le contraddizioni, i rimproveri, le ironie di lei. Ma la sorda guerra della moglie non gli noceva meno della protezione dello zio duca. Questi, che oramai non andava più alla capitale, consacrava tutto il suo tempo ai propri affari, badava alle cose di campagna, migliorava le proprietà comprate dalla manomorta, speculava sugli appalti, si giovava del suo credito presso le amministrazioni pubbliche per rifarsi di quel che gli costava la rivoluzione. E con l'aria di consigliare Giulente, lo persuadeva a fare ciò che voleva. Ufficialmente, il sindaco era suo nipote; in fatto, era egli stesso. Non si rimuoveva una seggiola, al Municipio, senza la sua approvazione; ma specialmente nella nomina degli impiegati, nella concessione di lavori pubblici, nella distribuzione di incarichi gratuiti ma indirettamente o moralmente profittevoli, egli faceva prevalere la propria volontà, proteggeva i suoi fedeli, fossero anche inetti, metteva avanti la gente da cui poteva sperare qualcosa in cambio, non dava quartiere a quelli del partito avverso, qualunque titolo possedessero, da qualunque parte glieli raccomandassero. Aveva l'abilità di fingersi assolutamente disinteressato, di spingere il nipote a fare ciò che egli stesso voleva come se invece non gl'importasse nulla di nulla, e il Municipio diventava così, a costo di patenti ingiustizie, di manifeste violazioni della legge, un'agenzia elettorale, una fabbrica di clienti. Per rispetto e per soggezione, soprattutto per la speranza di raccogliere l'eredità politica dello zio, Benedetto non osava contrariarlo; se, per qualche fatto più grave degli altri, egli esitava un momento, il duca vinceva quegli scrupoli, o adducendogli le necessità della lotta politica, o impegnandosi a riparare più tardi, o facendogli semplicemente comprendere che, in fin dei conti, a quel posto l'aveva messo lui, perciò conveniva che facesse ciò che a lui piaceva. Per compenso, gli garantiva l'appoggio del governo e della prefettura, lo sosteneva in consiglio, tesseva i suoi elogi perfino in famiglia, tenendo fronte a Lucrezia, che lo vilipendeva dinanzi a tutti. Costei, per far la corte allo zio, rispondeva che un po' di bene suo marito lo faceva solo quando seguiva i consigli di lui; viceversa, da sola a solo con Benedetto, gli rinfacciava la cieca obbedienza prestata al duca.

«Bestia! Sciocco! Stupido! Non capisci che ti spreme come un limone? Che vuol prendere la castagna dal fuoco senza scottarsi?... Almeno, sapessi farti dare la tua parte!»

E gli consigliava di mettersi nei loschi affari del deputato, di vendere la propria autorità, di farsi pagare gli atti che era in dovere di compiere; e ciò senza scrupoli, come una cosa naturalissima, come avevano fatto i Viceré al tempo della loro potenza. Così, un po' per la moglie, un po' per lo zio, Giulente commetteva ingiustizie d'ogni sorta rifiutandone il prezzo, metteva a rischio la sua bella riputazione di liberale disinteressato, di «ferito del Volturno». Ma l'ambizione lo accecava, egli voleva rappresentare una parte in politica, e il Parlamento era la mèta per la quale sopportava il Municipio. Poiché presto o tardi il duca si sarebbe ritirato, egli voleva sostituirlo; tutta la parentela uccellava i quattrini messi assieme dal deputato, egli aspirava all'eredità politica; il seggio alla Camera sarebbe stato la conferma, il riconoscimento del suo patriottismo, della sua capacità. Pertanto, il disprezzo di sua moglie cresceva: ella non capiva che si potesse esercitare un ufficio pubblico pel piacere di esercitarlo, senza specularci sopra, perdendoci il tempo, trascurando per esso ogni altra occupazione, non badando agli affari propri, non andando mai in campagna, lasciando fare ai castaldi e agli affittaiuoli. Quasi che potesse permettersi questo lusso! Quasi fosse il principino di Mirabella!...

Consalvo, sì, poteva fare e faceva quel che gli piaceva. Non solo egli non badava agli affari di casa — ché suo padre ci pensava per lui — ma non stava in casa se non per dormire — quando ci dormiva. Lasciata la camera che aveva occupata al ritorno dal convento, s'era accomodato un quartierino al primo piano, dalla parte del secondo cortile, sfondando muri, murando finestre, aprendo una nuova scala, disordinando ancora un altro poco la pianta del palazzo. Il principe l'aveva lasciato fare. Non contento di starsene così interamente segregato dal resto della famiglia, con persone di servizio esclusivamente addette alla sua persona, adesso desinava solo, dichiarando che le ore di suo padre non gli convenivano. E il principe si piegava anche a questo, con grande stupore di quanti conoscevano la sua prepotenza, il suo bisogno d'assoluto comando. Il giovanotto faceva la bella vita: cavalli, carrozze, caccia, scherma, giuoco ed il resto. Finito, dopo l'incendio del Sessantadue, il Casino dei Nobili, egli aveva fondato, insieme con qualche dozzina di compagni, un club che era la risurrezione più elegante e più ricca dell'antica istituzione: quantunque solo i nobili autentici vi fossero ammessi, Consalvo vi aveva ficcato due o tre giovanotti che non appartenevano alla casta, ma gli facevano da mezzani. Accordava la sua protezione e la sua amicizia solo a quelli che lo servivano, che lo ammiravano, che gli facevano la corte. Come al Noviziato, anche adesso derideva i meno nobili e meno ricchi di lui: un motivo di cruccio contro suo padre era appunto l'avarizia di costui che si lasciava prender la mano dai nuovi arricchiti. Il lusso esteriore degli Uzeda, che prima del Sessanta pareva straordinario, adesso cominciava ad esser agguagliato se non superato dalla gente rifatta, e mentre al palazzo i mobili di cinquant'anni addietro cadevano a pezzi e le livree del secolo passato servivano al pasto delle tignole, c'era gente che spendeva un occhio del capo a metter su case ed equipaggi col gusto moderno. Ma agli occhi del principe la vecchiaia dei mobili e delle livree era come un altro titolo di nobiltà; e se tutti tenevano adesso il guardaportone, mentre vent'anni addietro c'era in città solo quello di casa Uzeda, chi aveva nel vestibolo la rastrelliera?... Del resto, Consalvo lavorava per conto suo a distruggere gli effetti della spilorceria paterna. Quando, dall'alto di un break o d'uno stage, attillato negli abiti venuti apposta da Firenze, guidava come il più esperto cocchiere un tiro a quattro, fermandosi per far salire gli amici che incontrava lungo la via, avanzando poi tutti gli altri equipaggi, frustando come i suoi antenati i cocchieri che osavano contrastargli il passo, la gente si fermava ad ammirare, a ripetere il suo nome e il suo titolo con un senso d'alterezza, quasi un poco del suo lustro si riversasse su chi poteva salutarlo, su chi lo conosceva almeno di nome, sulla stessa città che gli aveva dato i natali. Se egli comperava o vendeva una pariglia di cavalli, se mandava via o riprendeva un servitore, se vinceva o se perdeva al giuoco, le notizie di questi avvenimenti facevano le spese delle conversazioni; la sua antipatia per la madrigna gli era ascritta generalmente a lode, spiegata com'era col rispetto da lui portato alla memoria della madre; tutti avevano interesse e premure di dargli moglie, e di tanto in tanto la voce d'un possibile matrimonio circolava per ogni dove, finché, ripetuta dinanzi a lui, lo faceva scoppiare in una risata. Per ora egli voleva divertirsi; ci sarebbe poi stato tempo ad incatenarsi. E le sue visite assidue a questa od a quella signora, i vistosi regali che faceva alle cantanti ed alle attrici spiegavano la sua risposta: tornavano per Pasqualino Riso i bei tempi del contino Raimondo: il padroncino gli faceva guadagnare il pane.

Le sue gesta avevano anche un altro campo, meno elegante, ma altrettanto famoso. Insieme con gli amici più scapestrati, aveva combinato una compagnia che era, la notte, il terrore di mezza città. Armati di stocchi, di rivoltelle o anche di semplici coltelli, portavano a spasso le ciarpe d'infima classe, cantando a squarciagola, spegnendo i fanali del gas, attaccando briga coi passanti, facendo aprire per forza, a furia di schiamazzi e di sassate ai vetri, le taverne e le case pubbliche, giocando al tocco o a briscola coi bertoni, ordinando cene che finivano con la rottura di tutte le stoviglie: i padroni li lasciavano sbizzarrire perché, se facevano danni, sapevano anche risarcirli. Certe volte, però, per capriccio, pel gusto di commettere un sopruso, per esercitare l'ereditaria prepotenza dei Viceré, il principino non voleva pagare lo scotto, o lo pagava a legnate; e, mentre profondeva i quattrini con le donne, era capace di portar via a certe povere diavole, per spasso, i pochi soldi che avevano in tasca — salvo a compensarle un'altra volta — lasciandole intanto piangenti o vomitanti un sacco di sozzure che lo facevano ridere a crepapelle.

Spesso scendeva con la sua comarca al porto, andava a far baccano nelle taverne dove i marinai inglesi s'ubriacavano come bruti: egli saliva sopra una tavola, prendeva la parola senza soggezione, predicava la Regola di San Benedetto, ripeteva le sentenze politiche dello zio duca e di Giulente; senza sapere una parola d'inglese teneva lunghi discorsi, serio serio, ai marinai foggiando per proprio uso e consumo una lingua che nessuno intendeva; la cosa spesso finiva con una partita di box e relative ammaccature di costole e rotture di stoviglie... Se lo avesse visto fra' Carmelo! il fratello appariva di tanto in tanto al palazzo, sempre più magro e stralunato, per ricantare il consueto: «Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...» Non gli strappavano di bocca nient'altro. Quando nelle sue escursioni notturne Consalvo andava dalle parti di San Nicola, lo incontrava immancabilmente, errante per le vie del quartiere come un'anima in pena o fermo a considerare la massa scura del convento; il principino, alterando la voce, gli dava la baia, lo chiamava: «Padre Priore!... Padre Abate!... Dove sono i porci di Cristo?...» tra le risa della comitiva.

Egli ne era l'anima, il capo riconosciuto e obbedito. Giovanni Radalì veniva spesso con lui; ma quantunque ora fosse libero, ricco e barone, non aveva l'umore costante: talvolta faceva pazzie straordinarie, talaltra frenava i compagni; più spesso, prendendo parte ai bagordi, aveva la ciera funebre, un riso falso. Di tanto in tanto scompariva, se ne andava ad Augusta, nelle terre lasciategli dallo zio, donde nessuno riusciva a scovarlo, se egli stesso, mutata fantasia, non si decideva a tornare. Allora Consalvo lo trascinava ai bagordi.

Una notte, per quistione di donne, la banda venne alle mani con una comitiva di popolani, di barbieri, di sensali; piovvero le legnate, luccicarono i coltelli, ma per buona sorte, sopravvenute le guardie, tutti scomparvero. I bastonati, i mariti canzonati, le vittime della loro prepotenza non osavano ricorrere: se qualcuno minacciava di querelarsi, la gente lo dissuadeva, considerando chi erano quei signori: il barone Radalì, il principino di Mirabella, il marchesino Cugnò! E la polizia, se ricorrevano ad essa, faceva accomodar la cosa: qualche biglietto di banca, e tutti lesti. Ma il prestigio di quei nomi era tale che pochi osavano lagnarsi; la più parte si stimavano onorati di competere con quei signori, li ammiravano, parlavano di loro col massimo rispetto. In carnevale, la mascherata favorita dei monelli, dei facchini, era quella del barone: sui calzoni a sbrendoli e sulle camicie rattoppate, un vecchio abito a coda di rondine, un enorme colletto di carta, una tuba di cartone alta quanto una canna di camino: andavano così a crocchi chiamandosi scambievolmente, ad alta voce, fra le risa dei passanti, col nome dei baroni per davvero: «Addio, Francalanza!... Radalì, come stai?... Andiamo al teatro, marchese!...»

Senza quei nobili l'operaio come avrebbe fatto? il loro lusso, i loro piaceri, le loro stesse pazzie erano altrettante occasioni perché la gente minuta lavorasse e buscasse qualcosa! E il principino spendeva e spandeva, regalmente, come se avesse le mani bucate. Suo padre gli pagava i cavalli e le carrozze, i fucili e i cani, e pei minuti piaceri gli passava cento lire il mese; ma Consalvo, alle volte, perdeva in una notte la pensione dell'anno intero; e il domani ricorreva a tutti gli usurai della città, i quali, contro la firma d'una cambialina, gli davano quel che voleva. Quanto ai parenti, essi o lo incoraggiavano a scialare, o non si occupavano di lui, o erano disarmati dalla sua politica, giacché egli sapeva prenderli pel loro verso, secondando le fisime di ciascuno. Solo Benedetto comprendeva che quella vita doveva costargli molto e sospettava qualcosa dei debiti; ma il giovanotto lo tirava dalla sua, sollecitandolo nella sua vanità di patriotta, di ferito del Volturno, di futuro deputato; e del resto se Benedetto manifestava le proprie paure alla moglie perché questa mettesse sull'avviso il principe:

«Di che ti mescoli?» saltava su Lucrezia. «Lascialo fare! Credi che mio nipote sia un pezzente, da non potersi permettere questo lusso? Può pagarli i suoi debiti, se mai!»

Donna Ferdinanda da canto suo andava in estasi per la riuscita del suo protetto e, dalla soddisfazione, gli regalava di tanto in tanto qualche biglietto da cinque lire che il giovanotto, dopo essersi profuso in ringraziamenti, lasciava come mancia al cameriere del Caffè di Sicilia. Il duca, ingolfato negli affari, aveva qualche sentore dei pasticci del pronipote, ma bastava a costui dargli del salvatore del paese, del grande statista o profetargli un posto al Ministero, perché il deputato si chetasse. Più tardi, per ingraziarsi meglio donna Ferdinanda, Consalvo le dava ragione se l'udiva gridare contro il fedifrago; e in questo era sincero, perché, senza mescolarsi nella politica, egli parteggiava pel governo assoluto, protettore dei signori, sciabolatore della canaglia. Questi sentimenti però non gl'impedivano di prender con le buone lo zio Giulente, al quale non dava tuttavia dell'Eccellenza, ma del semplice voi; e più tardi conveniva con la zia Lucrezia se costei lagnavasi di quella bestia del marito. Così, nonostante la freddezza col padre, seguiva l'esempio di lui, pigliando ciascuno pel suo verso, secondando le fissazioni di tutti gli Uzeda. La zia Chiara già parlava d'adottare il bastardo della cameriera: egli approvava questa risoluzione. Lo zio Ferdinando, credutosi affetto da tutte le malattie quando vendeva salute, adesso che deperiva visibilmente credeva invece d'esser sanissimo e non poteva soffrire che la gente gli consigliasse di chiamare un dottore: Consalvo si rallegrava con lui per l'ottima ciera... Quanto a don Blasco, da un pezzo non si faceva più vedere al palazzo. Dacché stava per casa sua, amministrando i propri capitali, la sua smania di criticar tutto e tutti in famiglia era finita: quando capitava tra i parenti, discorreva un poco del più e del meno e andava via presto. Per non star solo, in casa, s'era messo dentro la Sigaraia, suo marito e le sue figlie; talché ora, servito di tutto punto, non aveva più bisogno di nulla. E, da un certo tempo, era diventato addirittura irreperibile. «Che cosa fa lo zio?... Che cosa fa don Blasco?...» ma nessuno ne sapeva niente. Il principe, il marchese, Lucrezia, un po' anche Benedetto, cercavano d'ingraziarselo, per via dei quattrini che doveva aver da parte; ma egli li sfuggiva tutti, e se li udiva alludere, sorridendo, alla sua ricchezza, ripigliava a vociare come un tempo: «Che ricchezze e povertà?... Che...» e giù male parole di nuovo conio.

Un bel giorno però Benedetto, leggendo sul foglio d'annunzi della prefettura l'elenco degli ultimi aggiudicatari dei beni ecclesiastici, trovò il nome di Matteo Garino.

«Non si chiama così il marito della Sigaraia?» domandò alla moglie.

«Credo... Perché?»

«Ha comprato il Cavaliere, una delle migliori terre dei Benedettini.»

Senza esitare un istante, Lucrezia esclamò:

«Garino? Questo è lo zio don Blasco che l'ha comprato!...»

Infatti di lì a poco la verità si seppe; Garino era il prestanome di don Blasco; questi aveva messo fuori i quattrini ed era già entrato in possesso del latifondo... Un monaco, un monaco benedettino, uno che aveva fatto voto di povertà, comprare una terra del suo stesso convento, calpestare in tal modo la legge divina?... Lo scandalo fu straordinario: donna Ferdinanda disse vituperi del fratello; il duca sorrise scetticamente, rammentando le furibonde minacce di dannazione eterna eruttate dal Cassinese; lo stesso principe, quantunque non volesse inimicarsi uno zio che comprava di tali poderi, scrollava il capo; e tutti i cattolici zelanti, i partigiani della Curia, i monaci a spasso, i borbonici un tempo amicissimi di don Blasco gli si misero contro; ma a chi gli riferiva le voci malevole egli gridava:

«Sissignore, il Cavaliere è stato comprato per mio conto: e poi? Chi ci trova da ridire? Mia sorella che ha fatto l'usuraia per cinquant'anni? Mio nipote che ha rubato tutti i suoi? Sono questi gli scrupolosi e i timorati?... Io non ho scrupoli di sorta! Se non avessi comprato io il Cavaliere, l'avrebbe preso un altro: al convento non restava di sicuro, per la buona ragione che il convento non c'è più!... Anzi, in mano mia, è come se fosse di San Nicola; a segno che ho fatto restaurare la cappella, e vi dico la messa tutti i giorni, quando salgo lassù: che se andava ad altri, a quest'ora l'avrebbero ridotta a uso di porcile!...»

La messa, veramente, egli la diceva di tanto in tanto, perché aveva molto da fare: dissodava la chiusa, strappava vecchie piante, scavava un pozzo, ingrandiva la fattoria trasformandola in casina di villeggiatura, spostava il muro di cinta arrotondando a modo suo i confini; doveva quindi stare con tanto d'occhi aperti sugli zappatori e sui muratori perché non lo rubassero. In campagna, per esser pronto ad esporsi all'acqua ed al vento, indossava una giacca corta da cacciatore e portava gli stivaloni fino a mezza gamba; tornato in città, smise la tonaca e lo scapolare, ma si compose un abito nero, da ministro protestante, col panciotto abbottonato fino in cima e il colletto clericale. Pertanto disapprovava quei due o tre antichi suoi compagni che s'erano spogliati del tutto, dandosi senza riguardo alla vita del secolo, come il sanculotto Padre Rocca; o quelli che, senza smetter l'abito, davano da ciarlare alla gente con la loro condotta, come Padre Agatino Renda che stava tutto il giorno in casa della vedova Roccasciano, giocando mattina e sera. Padre Gerbini se n'era andato a Parigi, dov'era stato creato rettore della Maddalena; altri, rimasti in città, facevano la vita dei preti; ma don Blasco proponeva a tutti se stesso come modello. Fra' Carmelo, che, come dal principe, veniva spesso anche da lui, pareva non si fosse accorto del mutamento di Sua Paternità, e ripeteva con gesti disperati il suo eterno ritornello: «Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...» Don Blasco gli dava qualche soldo e gli offriva da bere, confortandolo con belle parole; ma il maniaco, dopo bevuto, ragionava meno, cominciava a prendersela con gli indiavolati che avevano spogliato il convento:

«Assassini e ladri! Ladri e assassini! il più gran convento del Regno!... E quegli altri ladri che si son prese le sue proprietà! All'Inferno! All'Inferno, scomunicati...»

Una volta, delirante più del solito, si mise in ginocchio, declamando, con gran gesti di croce:

«In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! Vi scongiuro per parte di Dio!... Restituite il maltolto a San Nicola!... Ladri!... Schifosi!... Siete cristiani o turchi?... Pensate all'anima! Fuoco d'inferno!...»

Don Blasco, perdendo finalmente la pazienza, lo prese per una spalla e lo spinse fuori:

«Va bene, va bene, abbiamo inteso.., ma per adesso vattene, che ho da fare...»

E sbattutogli l'uscio sul muso mentre sopravveniva donna Lucia:

«Comincia a rompermi la divozione, questo vecchio pazzo!... Se torna un'altra volta, buttatelo giù dalle scale, avete capito?...»

8.

Una notte, mentre Lucrezia, a letto, russava profondamente, e Benedetto studiava a tavolino il bilancio comunale, una scampanellata improvvisa fece sussultare il marito e destò la moglie. Andato ad aprire, Benedetto si vide dinanzi il principino bianco in viso come un foglio di carta.

«Datemi da lavare,» disse allo zio, traendo dalla tasca della giacchetta la destra rossa di sangue.

«Consalvo!... Che è stato?... Che hai?...»

«Nulla, non gridare... Per aprire una finestra... ho rotto un vetro, mi sono tagliato... Datemi da lavare!... È una cosa da nulla...»

La ferita era invece profonda; cominciava dal dorso della mano, girava sotto la giuntura del pollice e finiva sul polso. Medicata con taffetà, doveva essersi riaperta, perché del fazzoletto che fasciava la mano non restava neppure un angolo bianco, e il sangue gocciolava, macchiando l'abito e la camicia.

«Non potevo andare a casa, conciato in questo modo...» spiegava il giovinotto, mentre teneva immersa la mano in una catinella, l'acqua della quale s'arrossava; ma ad un tratto, perduta la sicurezza che l'aveva fin lì sostenuto, cominciò a tremare, con la fronte madida di sudor freddo, girando intorno lo sguardo stravolto, dove Giulente leggeva adesso lo sbigottimento di un'improvvisa aggressione, la paura della morte intravista nel baleno d'una lama.

«Di' la verità: com'è stato?...»

«Ancora?... La vetrata rotta, v'ho detto... Chiamate piuttosto Giovannino che m'accompagnò dal farmacista e aspetta giù...»

L'amico, più pallido di Consalvo, confermò la narrazione. La verità si seppe il domani. Da un pezzo Consalvo andava dietro alla figlia del barbiere del Belvedere, Gesualdo Marotta: una ragazza che si tirava su per pettinatrice e, quantunque girasse sempre per le vie, non dava retta a nessuno, con una gran paura dei fratelli poco disposti, articolo onore, a scherzare. Ma il principino, quando concepiva un capriccio, non si chetava se non dopo averlo soddisfatto; e, nonostante le preghiere, gli avvertimenti e le minacce dei Marotta, aveva messo in moto tutte le mezzane della città per vincere la resistenza della giovane e della famiglia, promettendo di toglierla dalle strade, da quel mestiere penoso e pericoloso; di metterle su una bella bottega di modista, assicurandole anche la clientela di tutte le sue parenti ed amiche. Tutto era stato inutile. Allora, vedendo che con le buone non otteneva nulla, egli fece un bel giorno rapire la ragazza e la tenne tre giorni con sé al Belvedere. I fratelli, per un certo tempo, stettero zitti, quasi fossero al buio; solo quella brutta notte, mentre il principino usciva dal Caffè di Sicilia, in compagnia di Giovannino Radalì, s'era sentito urtare e squarciare da una lama tagliente la mano distesa istintivamente per difendersi. «Ci rivedremo!...» aveva detto l'aggressore, scappando alle grida di Radalì.

Il principe non disse nulla quando vide il figliuolo con la mano fasciata: mostrò di credere alla storia della vetrata rotta e si mise a vegliarlo insieme con la principessa, la quale stette al capezzale di Consalvo premurosa ed inquieta come una vera madre. Il giovane dissimulava male il suo fastidio per quelle cure antipatiche e accoglieva come altrettanti liberatori gli amici che venivano a fargli visita mattina e sera. Il pericolo corso, il sangue perduto gli procuravano l'ammirazione di quei suoi compagni di bagordo; però, guarito, egli non mise il naso fuori dell'uscio. I Marotta avevano fatto sapere che erano pronti a ricominciare appena lo avrebbero rivisto, di notte o di giorno, e che la seconda volta non se la sarebbe cavata con una semplice graffiatura, e che, aspettando di farsi giustizia da loro, denunziavano intanto la cosa ai giudici. Tutti gli Uzeda, inquieti per la vita dell'erede del nome, ricorsero al duca: egli solo, con l'autorità che gli veniva dalla posizione politica, poteva ottenere dal prefetto, dal questore, dai magistrati che quei malviventi lasciassero quieto il giovanotto. Il duca, udito il fatto e quel che volevano da lui, invece di dar ragione al pronipote, fece inaspettatamente una gran sfuriata, tanto più strana quanto che non era nel suo carattere.

«Bene gli sta! Queste sono le conseguenze della sua vitaccia! E voialtri che non lo chiudete a chiave! Che vi rallegrate delle sue prodezze! Adesso che volete da me?»

Nessuno lo aveva mai visto così rabbuffato; un altro poco e pareva suo fratello don Blasco. La quistione era che i suoi avversari tentavano con accanimento un nuovo assalto alla sua reputazione e che l'imbroglio di Consalvo dava loro buono in mano. Il deputato non andava da due anni alla capitale, dimenticava interamente gli affari pubblici per badare ai propri. Che gran patriotta, eh? Di quanto disinteresse, di quanto amor patrio non dava prova? Quando aveva avuto da imbrogliare a Torino e a Firenze, se n'era stato sempre lontano, col pretesto degli affari pubblici, anche se la Camera era chiusa a catenaccio e il ministero disperso di qua e di là; pei fatti del Sessantadue nessuno lo aveva strappato da Torino; in patria era venuto solo per essere rieletto; l'ultima volta neppur s'era data questa pena, considerando il collegio come un feudo elettorale la cui proprietà nessuno poteva contrastargli; adesso che gli conveniva accomodare le sue faccende, avevano un bel discutere delle più gravi quistioni, in Parlamento: egli non si moveva. Ma quando pure ci fosse andato? Che cosa avrebbe fatto, lì dentro? Che cosa aveva fatto in otto anni di deputazione? Come un burattino, aveva alzato ed abbassato il capo, per dire sì o no, secondo gl'imbeccavano! E avesse una volta, una sola volta, aperto la bocca! Si scusava col dire che il pubblico lo sgomentava; ma la verità era che non aveva neppur l'ombra di un'idea in fondo alla zucca, che non sapeva scrivere un rigo senza fare sette spropositi; e credeva di poter nascondere la sua supina ignoranza con l'aria di presunzione e di sufficienza! E ad una bestia di quella cubatura affidavano tutti gli affari della città e della provincia, lasciavano dettar sentenze intorno a ogni sorta di quistioni: d'istruzione pubblica, di ingegneria, di musica, di marina!... Non contento di esercitare personalmente tanto potere, ficcava i suoi aderenti da per tutto perché facessero il suo giuoco: così Giulente zio aveva avuto la direzione della banca, così Giulente nipote era stato fatto sindaco!...

Tutte quelle accuse dei suoi nemici giravano per il paese, trovavano credito, erano una minaccia. Giulente prendeva le sue difese, ma adesso non lo ascoltavano più come un tempo; il discredito del deputato si estendeva un poco su lui. Gli davano dell'ipocrita perché pretendeva conservare le antiche amicizie mentre era diventato settario, l'esecutore delle partigianerie, delle ingiustizie del duca. Ipocrita soltanto? I più accaniti assicuravano che teneva anzi il sacco all'onorevole, perché qualcosa doveva entrargliene, perché spartivano gli illeciti profitti, il frutto dei loschi affari!... E, più di ogni altro argomento, questo dei guadagni del deputato aveva la virtù d'infiammare i suoi nemici. Delle cariche pubbliche s'era servito per accomodar le sue cose; i denari impiegati nella rivoluzione gli fruttavano il mille per cento! Così spiegavasi il suo patriottismo, la commedia della sua conversione alla libertà, mentre casa Uzeda era stata sempre covo di borbonici e di reazionari, mentre egli stesso, al Quarantotto, aveva goduto col cannocchiale, come al teatro, lo spettacolo della città agonizzante! Spiegavasi un poco con la paura, col bisogno di dar prova di liberalismo e di democrazia per non essere fucilato — e i gonzi s'eran lasciati prendere dalla famosa abolizione del pane di lusso, durata quindici giorni! — ma la cupidigia era stata più grande della paura; e certuni bene informati assicuravano che una volta, nei primi tempi del nuovo governo, egli aveva pronunziato una frase molto significativa. rivelatrice dell'ereditaria cupidigia viceregale, della rapacità degli antichi Uzeda: «Ora che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri...» Se non aveva pronunziato le parole, aveva certo messo in atto l'idea; perciò vantava l'eccellenza del nuovo regime, i benefici effetti del nuovo ordine di cose! Le leggi eran provvide quando gli giovavano; per esempio, la famosa soppressione delle comunità religiose! A dargli retta, i beni tolti alla Chiesa dovevano permettere di alleggerir le tasse, e far divenire tutti proprietari. Invece, le gravezze pubbliche crescevano sempre più, e chi aveva ottenuto quei beni? il duca d'Oragua, la gente più ricca, i capitalisti, tutti coloro che erano dalla parte del mestolo!...

L'opposizione al deputato si confondeva così, a poco a poco, nell'universale malcontento, nel disinganno succeduto alle speranze suscitate dalla mutazione politica. Prima, se le cose andavano male, se il commercio languiva, se i quattrini scarseggiavano, la colpa era tutta di Ferdinando ii : bisognava mandar via i Borboni, far l'Italia una, perché di botto tutti nuotassero nell'oro. Adesso, dopo dieci anni di libertà, la gente non sapeva più come tirare innanzi. Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonerie, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d'un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l'antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!

Per combattere queste idee che facevansi strada e che nocevano anche a lui, Giulente le attribuiva all'invidia degli inetti, alla mala fede dei nemici, segnatamente alla propaganda dei suoi antichi amici rivoluzionari. Il gran torto del duca era quello di sostenere la causa dell'ordine, della moderazione, della prudenza! Se, invece di appoggiare il governo, si fosse gettato tra gli esaltati della sinistra, gli avrebbero battuto le mani! Ma predicava ai turchi; per essere ascoltato, per riscuotere approvazioni ed incoraggiamenti, non gli restava altro che rivolgersi ai partigiani del duca. Questi erano sempre numerosi, ma soprattutto più autorevoli, più influenti della folla anonima degli accusatori, tra la quale gli elettori si contavano sulla punta delle dita. Fedeli, anche; e sordi a quelle accuse, e tanto più ligi al deputato quanto che la sua caduta li avrebbe rovinati... Ora, in queste condizioni dell'opinione pubblica, il pasticcio del nipote dava molta noia a don Gaspare. Non già che gl'importasse del pericolo a cui il giovanotto era esposto: egli non provava le tenerezze di donna Ferdinanda o l'interesse degli altri parenti per l'erede del principato; né che temesse veramente di rimaner nella tromba a un prossimo scioglimento della Camera, di non poter continuare a spadroneggiare in paese; ma non voleva esser discusso, presumeva serbare intatto il prestigio dei primi tempi; e giusto per questo la sventataggine di Consalvo lo metteva in un bell'impiccio: poiché, dando mano ad un sopruso, perseguitando i parenti della ragazza rapita, avrebbe sollevato più forti clamori contro se stesso; mentre la rinunzia a difendere il nipote sarebbe stata attribuita appunto alla paura di attirarsi nuove opposizioni. Dopo avere esitato un poco fra i due partiti, facendo sentire a Consalvo il peso del proprio sdegno, ma difendendolo dinanzi agli estranei, egli si apprese al più audace. Il più facinoroso fratello della pettinatrice fu chiamato un giorno da un ispettore di polizia, il quale gli consigliò pel suo meglio di desistere dalle bravate, altrimenti lo avrebbero denunziato per l'ammonizione; nello stesso tempo i testimoni del ratto voltarono casacca, dichiararono invece che la giovane era andata liberamente alla villa Uzeda; e si trovarono poi due contadini che dissero di avercela veduta altre volte, e parecchi altri i quali affermarono che in paese si diceva non esser quella la prima scappata della ragazza. I parenti gridavano vendetta, ma i vicini li persuadevano a desistere, ad accomodarsi con le buone; il principino, quantunque le migliori testimonianze lo sollevassero da ogni responsabilità, pure, per evitar altre noie era pronto a sborsare tremila lire per la bottega di modista.

Ora un bel giorno, mentre s'aspettava da un momento all'altro la notizia che l'imbroglio, un po' con le minacce, un po' con le promesse era accomodato e che il giovanotto non correva più alcun pericolo, il principe, che non aveva ancora mosso un solo rimprovero al figliuolo entrò nella camera di quest'ultimo rosso in viso come un pomodoro spiegazzando un foglio di carta: «A te!... Che significa questa lettera?»

Si riferiva a un debito di seimila lire che Consalvo aveva garentito con una cambiale rinnovata parecchie volte di quattro in quattro mesi; il creditore, volendo esser soddisfatto e profittando della clausura del giovanotto, scriveva al padre avvertendolo della scadenza e invitandolo al pagamento.

Consalvo, nel primo momento, rimase; ma poiché suo padre, animato da quel silenzio, chiedeva spiegazioni gridando più forte, egli rispose freddo e calmo:

«Non c'è bisogno d'alzar la voce. Che cosa le hanno scritto?»

«Sai leggere, sì o no?» esclamò il padre, mettendogli il foglio sotto il naso.

Ma il principino si trasse vivamente indietro, come se fosse minacciato da un contatto impuro. Durante i lunghi giorni che aveva passati sopra una poltrona, tenendo il braccio appeso al collo, nell'inerzia forzata, con l'impossibilità di servirsi della mano destra, rabbrividendo alla vista del sangue che ancora trapelava dalla ferita e macchiava la fasciatura, a poco a poco s'era svegliato in lui ed era cresciuto e s'era fatto irresistibile lo stesso senso di ribrezzo che era stato il tormento di sua madre, la stessa repulsione per tutti i toccamenti, lo stesso schifo per le cose che gli altri avevano maneggiate, la stessa paura dei sudiciumi contagiosi. Come suo padre più gli s'avvicinava porgendo la lettera, più egli si scostava, con le mani dietro la schiena, per evitare di prenderla.

«Va bene... va bene...» diceva, schermendosi, e guardando di sbieco i caratteri; «ho visto... è don Antonio Sciacca.»

«Ah, don Antonio?» gridò il principe. «Dunque è vero? Non ti dài neppur la pena di fingere?... Ed hai il coraggio...»

Consalvo piantò a un tratto gli occhi negli occhi del padre, guardandolo fisso, con un'espressione dura, come di sfida, e lasciato improvvisamente il lei:

«Che cosa volete?...» gli disse. «Avevo bisogno di danari... Me ne date tanti!... Li ho presi: voi che ne avete li pagherete...»

Il principe pareva sul punto di cader fulminato. Rivolgendo al figliuolo uno sguardo non meno fisso né meno duro:

«Pagherò un cavolo... pagherò!...» articolava. «I miei quattrini?... Ti lascerò condannare e legare, bestione! Capisci, bestione?»

Più freddo di prima, Consalvo rispose:

«Va benissimo. Dunque non mi seccate...»

«Ah, ti secco?... Ti secco?...»

E di repente, come uno che riesce a vomitare dopo vani conati, cominciò a sfogarsi. Gonfiava da due anni, per due lunghi anni aveva consentito tutte le libertà al figliuolo; durante tutto quel tempo aveva compresso, soffocato, vinto l'imperioso bisogno che era in lui di comandare, di veder tutti piegare dinanzi alla propria volontà di capo della casa, di padrone, di arbitro assoluto del destino della famiglia; egli che aveva martoriato tutti i suoi, fatto di loro ciò che gli era piaciuto, s'era piegato a lasciar la briglia sul collo al figliuolo, a colui sul quale più legittimamente avrebbe potuto esercitare la propria potestà. Per due anni, fingendo la tolleranza, l'indulgenza, l'affezione, s'era arrovellato sordamente, covando l'antipatia e l'avversione contro Consalvo, ricambiando l'odio che si sentiva portato; adesso finalmente scoppiava. Finché s'era trattato della mala vita del giovane, della sua freddezza verso la madrigna, egli era riuscito a frenarsi; ora invece Consalvo lo feriva nel sentimento più forte di tutti gli altri, attentava non più alla sua autorità morale ma alla sua borsa. Il principe aveva lottato tutta la vita, fin dall'età della ragione, per accumulare nelle proprie mani quanto più denaro gli era stato possibile, per toglierlo alla madre, ai fratelli, alle sorelle, alla moglie; meglio che tutti gli altri Uzeda, egli era il rappresentante degli ingordi spagnuoli unicamente intenti ad arricchirsi, incapaci di comprendere una potenza, un valore, una virtù più grande di quella dei quattrini; e adesso che era riuscito nel proprio intento, che vedeva arrivato il tempo di godere serenamente il frutto delle lunghe e pazienti fatiche, ecco suo figlio cominciare a disporre di quella sostanza come di cosa propria! Se Consalvo gli avesse chiesto le seimila lire, egli le avrebbe date; ma l'idea del debito contratto, della cambiale firmata, degli interessi rilasciati anticipatamente agli usurai produceva una rivoluzione nella testa del padre, gli faceva vedere irreparabilmente pericolante la propria ricchezza, giacché quella cambiale non doveva esser sola, giacché la naturale inclinazione del figlio allo sperpero gli riusciva evidente, giacché quello sciagurato osava parlare alteramente, quasi non avesse fatto se non esercitare un diritto! E non voleva esser seccato per giunta! E rispondeva con quel tono a suo padre!

«Ah, ti farò veder io se ti secco! Come t'accomoderò!... Qui il padrone sono io: càcciati bene questa idea nel cervellaccio pazzo! Qui s'ha da far sempre, unicamente, in tutto e per tutto, la mia volontà! Perché sono stato troppo buono finora?... Ti farò veder io, pezzo d'imbecille!... E la gente, i miei parenti, tutto il paese che mi rinfaccia ad una voce la vitaccia di quest'animale! la vita delle taverne e dei lupanari!... Credi forse che non sappia le tue sporche prodezze?... Come non arrossisci dalla vergogna? Come non vai a nasconderti lontano dalle persone a modo? La dignità del tuo nome calpestata in compagnia dei più schifosi bagordieri! E non parlo dei denari scialacquati, buttati via come fossero sassi! Chi spende per capricci, per divertimenti pazzi quanto questa bestia?... E non basta lasciarlo fare, non dirgli nulla, metter mano tutti i giorni al portafogli!... E ardisce lagnarsi che non ha abbastanza! E invece di scusarsi, di chiedere perdono, vuol rifatto il resto! Oh, con chi credi di trattare, imbecille?... Io non pagherò un soldo! Ed è tempo d'intendersi, sai! Giacché ci siamo, una volta per tutte!... Qui bisogna mutar registro!... Fin a quando starai in casa mia, hai da fare quel che piace a me, comportarti come tra la gente civile!... Questa non è una locanda, da venirci solo per mangiare e dormire! Io non ti posso imporre l'affezione, e non m'importa che me ne voglia ma esigo il rispetto che m'è dovuto; il rispetto che devi a tua madre...»

Consalvo non aveva detto una sola parola, non aveva fatto un gesto durante la sfuriata del principe. Questi aveva un bell'arrestarsi, dopo un'interrogazione o una esclamazione, quasi per dargli il tempo di rispondere qualcosa, di giustificarsi: in piedi presso la finestra, il giovanotto guardava nel cortile di servizio le carrozze tirate fuori dalle rimesse e i famigli intenti a ripulirle: se fosse stato solo nel suo salottino non sarebbe rimasto più impassibile. Ma alle ultime parole del principe, si voltò lentamente.

«Mia madre?»

Aveva sul volto un'espressione indefinibile, di curiosità, di stupore, di dubbio, dominata da un sorriso tenuissimo, di soli occhi.

«Mia madre?... Mia madre è morta. Lei lo sa meglio di tutti.»

Il principe tacque, guardandolo. A un tratto s'udì un fruscio di gonne, e la principessa Graziella, avvertita dalla cameriera che aveva udito le voci, entrò:

«Che c'è? Che cosa avete?...»

Consalvo si mise le mani in tasca e senza dir nulla passò nella camera attigua. Il principe si lasciò condurre via dalla moglie.

Per molte settimane padre e figlio non scambiarono più una parola. L'affare del debito, risaputo dai parenti, divise in due campi la famiglia. Il duca, che non perdonava ancora al pronipote l'imbarazzo in cui l'aveva messo, sosteneva il principe, l'incitava a non cedere, a lasciar protestare la cambiale; Giulente anche lui giudicava necessario dare un po' di paura al giovanotto, perché niente avrebbe poi potuto arrestarlo nella via dei debiti, se il principe decidevasi a pagare il primo; ma Lucrezia, pel gusto di contraddire al marito, per dare una lezione di munificenza a quel pezzente che giudicava tutti alla sua stregua, esclamava che Consalvo aveva il diritto di svagarsi; che seimila lire per il principe di Francalanza erano come dieci lire per Giulente, e che in casa Uzeda per nessuna ragione al mondo poteva darsi lo scandalo d'un protesto. Donna Ferdinanda, manco a dirlo, se la prendeva con l'avarizia del principe, che non dando abbastanza al figliuolo lo costringeva a ricorrere al credito, e Chiara dava un poco ragione agli uni e un poco agli altri, secondo l'umore di Federico. Quanto a don Blasco, che da un pezzo era diventato invisibile, un bel giorno venuto al palazzo, cominciò a prendersela non solo contro Consalvo pei debiti e per la condotta scandalosa, ma anche contro il principe e la principessa, alla cui debolezza attribuiva lo sfrenamento di Consalvo.

«La colpa è tutta vostra! Questo non è il modo d'educarlo! Pagargli i debiti? Alzargli la mangiatoia, bisogna!...» E, senza nominarla, si scagliò contro donna Ferdinanda, dandole della bestia a tutto spiano, perché coi vezzi che gli aveva fatti ella era l'origine prima della mala creanza del principino.

Donna Ferdinanda riseppe il discorso tenuto dal monaco nello stesso tempo che il suo sensale le dava una notizia strepitosa: don Blasco, non contento d'aver comprato la tenuta di San Nicola, aveva preso dal Demanio, giusto in quei giorni, una delle case appartenenti al convento: il palazzotto di mezzogiorno, l'antica abitazione della Sigaraia; armeggiando così bene, da farselo aggiudicare per un boccon di pane. Allora, apriti cielo.

«Anche la casa?» gridò la zitellona. «Io l'ho sempre detto che è un porco, un vero maiale! E fa la voce grossa con gli altri, dopo quello che ha sulla coscienza!... Che gli estranei comprino i beni del convento, si capisce: non hanno nessun obbligo; ma lui? che se non l'avessero fatto monaco sarebbe morto di fame? che s'è ingrassato a spese della comunità?...»

«O non era quello,» rincaravano nella farmacia di Timpa, «che voleva mangiarsi i liberi pensatori e bandire una nuova crociata addosso agli usurpatori scomunicati e ridare la roba loro al Papa ed a Francesco ii?»

Ma a don Blasco importava adesso un fico secco se il Re chiamavasi Francesco o Vittorio; ché, entrato nella casa di San Nicola, ci stava da papa: le botteghe le aveva affittate a buoni patti, ed il primo piano anche, a un professore che dava lezioni nella scuola tecnica istituita nel convento. Scrupoli egli non ne provava; perché anzi, se tutti i monaci avessero imitato il suo esempio, accaparrando le proprietà del monastero invece di sciupare i quattrini che ne avevano portato via, i beni di San Nicola non sarebbero andati in mano di estranei. «Questo era il vero modo di riparare all'abolizione e non le vociate inutili e ridicole. Ricompràti i beni da tutti i monaci, l'avremmo fatta in barba al governo!»

Egli se la pigliava ancora con questo governo, specialmente per via delle tasse che gli faceva pagare; però, siccome i fedeli alla causa della reazione predicevano la fine della baldoria e il ritorno allo stato antico e la restituzione del maltolto alla Chiesa, il monaco protestava:

«Come, il maltolto? Io ho pagato il Cavaliere e la casa con bei quattrini sonanti; ho affrancato il censo, avete capito?... Me li hanno regalati, o li ho rubati, perché possano riprenderli?»

«Non dovevate comprarli, sapendone la provenienza! E arriverà il giorno della resa dei conti, del Dies irae: non dubitate!...»

«Chi? Che? Chi ha da venire?...» gridava allora il monaco. «Verrà un cavolo!»

«La mano di Dio arriva da per tutto!... Le vie della Provvidenza sono infinite!...»

Le liti ricominciavano ogni dopo pranzo: quei borbonici e clericali ricevevano certi fogliacci dove la fine della rivoluzione era data come certa ed imminente: gli articoli letti ad alta voce, ascoltati come il Vangelo, applauditi ad ogni periodo, facevano andare in bestia il Cassinese. Un giorno che la brigata, dopo una di quelle letture, gli diede addosso con maggior vivacità del solito, don Blasco s'alzò, fece un gesto molto espressivo, gridò un: «Andate a farvi!...» e se ne uscì per non metter più piede dallo speziale. Il pomeriggio, passando dinanzi alla bottega, affrettava il passo, guardando dritto dinanzi a sé, e se c'era gente seduta al limitare, traversava la strada, per passare dal marciapiede opposto. Egli non metteva neppur piede al palazzo, dove quell'usuraia della sorella gracidava anche lei contro i compratori dei beni ecclesiastici come se fossero altrettanti ladri, e dove quell'altro pezzo di Gesuita di Giacomo gli faceva la corte adesso che lo sapeva ricco, ma non dava torto alla zia.

«Vorrebbe che lasciassi a lui il Cavaliere!» gridava in casa alla Sigaraia, a Garino e alle figliuole. «A prenderlo da me, di seconda mano, non avrebbe scrupoli! Ma gli vorrò lasciare trentasette mazzi di cavoli, a cotesto Gesuita e ladro!»

La Sigaraia, Garino e le ragazze approvavano, rincaravano la dose, parlavan male al monaco di tutta la parentela, affinché egli lasciasse loro ogni cosa. E lo servivano come un Dio, si precipitavano ad un suo cenno, camminavano in punta di piedi quand'egli riposava, gli tenevano compagnia fino a tarda notte se non aveva sonno, lo accompagnavano al Cavaliere, gli lodavano le sue colture, le sue fabbriche, la riuscita di tutte le sue speculazioni.

Una di queste, però, era venuta corta al Cassinese. Il Cavaliere era attaccato, da levante, a un altro fondo del Demanio ancora invenduto, e la linea del confine, consistente in un'antica siepe di fichi d'India, in molti punti aveva soluzioni di continuità. Don Blasco, facendo costruire un bel muro sodo e alto, irto di rovi e di cocci di bottiglie, s'era appropriato qua e là molti ritagli di terra; a un certo angolo, dove non restavano più tracce della siepe, aveva annesso al Cavaliere un bel tratto dell'altro fondo. Ora la cosa, venuta in chiaro all'intendenza di finanza, gli aveva fatto piovere in casa certa carta bollata, per cui il monaco s'era messo a sbraitare come ai bei tempi contro i ladri italiani, e quasi quasi voleva riconciliarsi coi reazionari della farmacia.

«A me l'accusa d'usurpazione? Se la proprietà di San Nicola arrivava fino alle vigne? Vogliono insegnare a me qual era la proprietà del convento, cotesti ladri che hanno spogliato un regno?»

Garino aggiungeva il resto; ma poiché le chiacchiere non facevan andare indietro i reclami del Demanio, e una perizia avrebbe potuto legittimarli, l'ex confidente di polizia, vedendo che il monaco ci s'arrabbiava, gli disse un giorno:

«Vostra Eccellenza perché non ne dice una parola a suo fratello deputato?»

Don Blasco non rispose. Era già stato dal duca.

Da anni ed anni non rivolgeva più la parola al fratello, da un tempo più lungo ancora lo vituperava in pubblico e in privato; don Gaspare dunque rimase, vedendoselo apparire dinanzi. Il monaco entrò nello scrittoio del fratello col cappello in testa, come a casa propria; disse: «Ti saluto», col tono di chi vede una persona lasciata il giorno innanzi e si mise a sedere. Il duca, passato il primo momento di stupore, sorrise finemente, dicendogli con lo stesso tono: «Che abbiamo?» e il monaco entrò subito in argomento.

«Sai che ho comprato il Cavaliere da San Nicola? Non c'era più la linea del confine e feci alzare un muro. Per questo il Demanio m'accusa d'usurpazione!..»

Il duca continuava a sorridere in pelle in pelle, godendosela, e poiché il monaco taceva, credendo di non aver bisogno d'aggiunger altro, egli che voleva avere la soddisfazione di sentirsi richiedere d'aiuto da quell'arrabbiato che gli aveva mossa tanta guerra, fece:

«E...?»

«Non si potrebbe parlare a qualcuno?»

Non era precisamente quel che s'aspettava; ma il duca, in fondo, era un buon diavolo, non aveva il fiele del principe e del Priore, e se ne contentò.

«Va bene. Torna domani con le carte.»

Così, con immenso stupore di tutta la parentela, furon visti i due fratelli andare insieme su e giù per le scale dell'intendenza, della prefettura, del genio civile e del catasto. In pochi giorni la cosa fu avviata bene; ma il duca suggerì al Cassinese una soluzione più radicale:

«Perché non compri addirittura l'altro fondo?»

«E i danari?»

«I danari si trovano!»

Egli li prendeva dalle banche delle quali era amministratore: con essi speculava sui fondi pubblici, riscattava le proprietà prese dalla manomorta, ne comperava di nuove; adesso, per stare anche lui da sé, faceva fabbricare una grande e bella casa in via del Plebiscito... Per suo mezzo, don Blasco fu ammesso allo sconto alla Banca dei Depositi e Crediti, e una cambiale di venticinquemila lire del monaco passò. Il Cavaliere, ingrandito di quasi il doppio, divenne così una proprietà ragguardevolissima, «un vero feudo» diceva Garino, il quale adesso esaltava il duca, i suoi talenti, la potenza a cui aveva saputo arrivare: ma i ciarlatani della farmacia borbonica sbraitavano più di prima e profetavano imminente il giorno in cui don Blasco e gli altri sacrileghi avrebbero dovuto restituire il maltolto. Il monaco li lasciava cuocere nel loro brodo e non passava più nel tratto di strada dov'era la farmacia, ché solo a vederli da lontano gli facevano venir da recere. Però, alla lunga, la mancanza della conversazione gli pesava, e una domenica, incontrato per le scale il professore suo inquilino, lo invitò a venirlo a trovare.

Il professore diceva d'essere stato garibaldino, narrava il fatto d'Aspromonte, non parlava d'altro che di cospirazioni e minacciava anche lui il finimondo, ma solo nel caso che l'Italia non andasse a Roma.

«Voi dunque dite che questo governo durerà?» domandava don Blasco, trepidante.

«Se farà il suo dovere! Altrimenti lo manderemo all'aria come gli altri! Gli sbirri non ci spaventano! Abbiamo visto il fuoco. Sappiamo come si fanno le rivoluzioni!»

«C'è però gente che crede si possa tornare indietro...»

«Tornare indietro? Ma bisogna andare avanti, invece! integrare l'unità nazionale! smantellare l'ultima cittadella della teocrazia, l'ultimo baluardo dell'oscurantismo!... L'umanità non torna indietro! Abbiamo sepolto il Medio Evo! Lo Stato dev'essere laico e la Chiesa tornare alle sue origini, perché come disse quel grand'uomo di Gesù Cristo: "il mio regno non è di questo mondo!"»

La conversazione dell'inquilino, quantunque di tratto in tratto gli facesse passare qualche brivido per la schiena, piaceva moltissimo a don Blasco, e un giorno anzi, mentre passava dalla farmacia Cardarella, antico ritrovo di liberali, il professore, che era lì dentro a discutere calorosamente, lo chiamò. Parlavano delle soppresse corporazioni religiose, e il professore non voleva credere che le rendite di San Nicola toccassero certi anni il milione di lire.

«Sissignore,» confermò don Blasco. «Era il più ricco di Sicilia e forse di tutto l'ex regno.»

Allora il professore si scagliò contro i monaci, i preti, i parassiti d'una società che per buona sorte s'era finalmente «seduta sopra altre basi».

Da quel giorno don Blasco prese l'abitudine di frequentare la nuova farmacia. Vi bazzicavano i liberali più arrabbiati i quali gridavano contro il governo, come quegli altri retrogradi, ma per una ragione diversa: perché era un governo di conigli, di lacché della Francia, di lustrastivali di Napoleone iii: perché perseguitava i patriotti veri e faceva il Gesuita nella questione romana. Gli rinfacciavano Aspromonte e Mentana; ma Roma doveva essere italiana a dispetto di tutti, o sarebbero scesi in piazza a ricominciar le schioppettate. «O Roma o morte!» vociferava il professore, il quale aveva sempre notizie di guerre e di moti rivoluzionari pronti a scoppiare, e don Blasco, tra le grida degli altri, sentenziava:

«Il Santo Padre dovrebbe pensarci a tempo, con le buone, e rammentarsi del Quarantotto; ché se allora non dava ascolto ai retrivi, oggi sarebbe il presidente rispettato della Confederazione italiana!»

«Con le buone?» gridava il professore. «Sante cannonate vogliono essere! il sangue di Monti e Tognetti è ancora fumante! Ci vuole il cannone per abbattere l'antro del fanatismo!»

Un giorno, entrò dal padron di casa con un'aria gloriosa e trionfante:

«Questa volta ci siamo! La guerra è pronta!»

Don Blasco, turbato dalla notizia, poiché temeva che d'una guerra fosse minacciata l'Italia, si rassicurò quando l'inquilino gli riferì che l'elezione d'un principe tedesco al trono di Spagna era considerata dalla Francia come un casus belli. «Il nostro dovere...» Ma, mentre spiegava il dovere dell'Italia, venne un servitore di casa Uzeda. Il principe mandava a chiedere notizie dello zio e nello stesso tempo l'avvertiva che Ferdinando stava molto male, e che era bene fargli una visita. Don Blasco, a cui premeva sopra ogni cosa udire il verbo del suo nuovo amico, rispose:

«Va bene, va bene; domani ci andrò...»

9.

Ferdinando deperiva da un anno. Nel viso emaciato, negli occhi gialli, nelle labbra bianche, gli si leggeva da un pezzo un malessere secreto, un'intima sofferenza; ma, come s'era creduto affetto da tutti i mali quando stava benissimo, così adesso che qualcosa si disfaceva nel suo organismo, se gli domandavano che avesse, rispondeva, seccato:

«Nulla! Che ho da avere? Volete che m'ammali apposta?»

E rispose una mala parola al principe il giorno che questi gli consigliò d'andarsene un poco alle Ghiande a respirare l'aria sana della campagna. Non voleva più sentire neppur nominare la sua terra. I libri che gli erano costati tanti quattrini s'impolveravano e tarmavano negli scaffali, gli strumenti s'arrugginivano e si rompevano; solo il podere prosperava, adesso che egli non sperimentava più novità. Incaponitosi a negare le sue sofferenze, i dolori di stomaco, i disturbi viscerali, li attribuiva a cause fantastiche: alla poca cottura del pane, allo spirare dello scirocco, al fresco della sera; ma egli cadeva in una tristezza lugubre, in una funebre ipocondria. Per lunghe e lunghe giornate non diceva una parola, non vedeva anima viva: chiuso nella sua camera, buttato sul letto, se ne stava immobile a seguire il volo delle mosche; quando la crisi passava, faceva grandi scorpacciate di roba indigeribile. Una notte d'estate, il cameriere spaventato da un vomito nerastro e da una diarrea sanguinolenta, mandò il figliuolo al palazzo, per avvertire la famiglia.

All'arrivo del principe e alla proposta di mandare a chiamare un medico, l'infermo gridò che non voleva nessuno, che s'era rimesso interamente. Ma adesso tutti comprendevano che il caso era grave. Lucrezia, la compagna della sua fanciullezza, ebbe un bell'insistere per dimostrargli la convenienza di una visita medica; egli minacciò di chiudersi in camera e di non ricevere più nessuno. Ma il suo polso scottava dalla febbre. Per vincere quell'ostinazione dovettero ricorrere a un artifizio, come con un fanciullo o con un pazzo: finsero che un ingegnere dovesse rilevar la pianta della casa e introdussero così un dottore in camera sua. Il dottore scrollò il capo: la condizione dell'ammalato era molto più grave che non credessero. A trentanove anni egli se ne moriva: il sangue vecchio e impoverito dei Viceré si corrompeva, non nutriva più le flaccide fibre. Per tentar di combattere la discrasi, una cura e una dieta severissima erano necessarie; ma il maniaco non ascoltava nessuno, tanto meno i parenti. Se essi insistevano, egli gridava: «Non la volete finire?» Fittosi in capo che stava benissimo, se coloro pretendevano per forza che fosse ammalato voleva dire che desideravano, che aspettavano la sua morte. Perché? Per raccogliere l'eredità! Egli confidava la cosa al cameriere; gli diceva, quando gli Uzeda andavano via:

«Credi che costoro vengano qui per amor mio? Vengono per la roba! Un'altra volta dirai loro che non ci sono.»

Ma la sua roba era già bell'e andata. Dapprima per le speculazioni stravaganti che avevano rovinato la terra, poi per le spese matte di libri e d'ordegni, più tardi per le ruberie del fattore; quand'egli non aveva voluto veder le Ghiande neppure da lontano, s'era messo a fare qualche debituccio. Senza stupirsene, senza indagarne la ragione, si vedeva attorno gente che gli offriva denaro, dentro una certa misura, beninteso. Ed egli firmava cambialine, e le cambialine andavano a finire in mano del principe, il quale, adocchiando le Ghiande e comprendendo che quel matto non avrebbe fatto testamento, se le accaparrava a quel modo. Il maniaco, incapace di calcolare a qual tasso prendeva quei quattrini, credendosi ancora padrone della roba, era persuaso che i parenti gli stessero attorno aspettando la sua morte: appena li vedeva apparire, pertanto, voltava loro le spalle tranne che al nipote Consalvo.

Il debito di costui era stato finalmente pagato, e tutti attribuivano a donna Ferdinanda la largizione. Ma la zitellona non aveva dato un soldo. Sarebbe crepata d'accidente se avesse dovuto metter fuori non seimila lire, ma seicento, ma sessanta!... I quattrini erano stati realmente sborsati dal principe, al quale, con una generosità che edificò tutti, la principessa Graziella persuase di perdonare il figliastro. Era mai possibile che la firma del principino di Mirabella fosse protestata? Lei vivente, questo non sarebbe accaduto; piuttosto, se Giacomo si fosse ostinato a dir di no, avrebbe pagato lei del suo! Per Consalvo, come anche per Teresina, ella sentiva l'affezione d'una vera madre, quantunque non lo avesse portato in grembo e il figliastro la ripagasse così male. «Ma che ci posso fare? Non si comanda al cuore! Basta, un giorno o l'altro egli s'accorgerà che non merito simile trattamento...» Così ella aveva indotto il principe a pagar la cambiale, ma aveva pure trovato l'espediente di far credere alla generosità della zitellona, perché Consalvo non facesse assegnamento in avvenire sulla debolezza paterna. Tra padre e figlio l'avversione era cresciuta frattanto di giorno in giorno; Consalvo, per sfuggire la compagnia del principe e per darsi contemporaneamente l'aria di un sacrificato, disertava la casa paterna; ma invece di andarsene con gli amici al caffè, al club, andava dallo zio, al quale portava i giornali e leggeva le notizie politiche. L'infermo s'appassionava moltissimo alla guerra minacciata, era quello anzi l'unico tema che avesse la virtù di sciogliergli la lingua. Don Blasco, venuto finalmente a visitare il nipote, discuteva anche lui con passione intorno a quel soggetto, ripetendo gli argomenti del professore; ma il duca assicurava che si trattava d'un falso allarme e che guerra non ci sarebbe stata, con un'aria così convinta come se Napoleone gliel'avesse confidato in gran secreto.

Scoppiò finalmente la notizia della dichiarazione, e il grand'uomo esclamò allora che Bismarck e Guglielmo dovevano aver perduto la testa. O scherzavano? Attaccar Napoleone? L'esercito francese, il primo del mondo, avrebbe sbaragliato, tritato, polverizzato il prussiano, e preso Berlino fra due settimane al più tardi!... Invece, arrivarono i telegrammi annunzianti le vittorie tedesche; e allora gli avversari del deputato ripresero a sbertarlo con maggior lena. Quella bestia con la prosopopea d'un Cavour redivivo non era neppur buono di capire le cose più evidenti; smentito dai fatti, ostinavasi nella sua sciocchezza, annunziava i nuovi piani dei francesi, la loro imminente rivincita, l'intervento delle potenze!... Ferdinando, dal fondo della poltrona che adesso non lasciava più perché le gambe non lo reggevano, stava a udire quei discorsi con tanta ansietà quasi ne dipendesse la sua salute. Tremante dalla febbre, con la fronte in fiamme, una nuova fissazione sconvolgeva il suo cervello esangue: quella delle vittorie napoleoniche che egli voleva a qualunque costo. Comprata una carta del Reno, passava le sue giornate a piantar spilloni in tutti i posti francesi e spille piccole nei prussiani: col bollettino della guerra alla mano, studiava le operazioni dei due eserciti, mutava di posto i segni secondo i mutamenti reali, e a misura che le spille s'avanzavano e gli spilloni retrocedevano, la sua malattia s'inaspriva. Con voce rauca, cavernosa, spiegava quel che i francesi avrebbero dovuto fare per riottenere le posizioni perdute: improvvisava piani strategici, disegnava ogni giorno parecchi teatri della guerra, disponeva a modo suo delle divisioni e dei reggimenti, esclamando: «Questo di qua va là, quello di là va qua...» finché, stanco, abbattuto, con le mani penzoloni e la testa rovesciata, chiudeva gli occhi e schiudeva la bocca quasi fosse sul punto di spirare.

Frattanto il duca, sentendo crescere l'opposizione e venirgli meno il terreno sotto i piedi, comprendendo la necessità di far qualche cosa per rialzare il proprio prestigio, preparava un colpo di mano. Le inquietudini della guerra accrescevano il malcontento comune, gli avversari del governo se ne giovavano per gridare e minacciare più forte. L'opposizione, che nei diversi partiti e nei diversi ordini sociali procedeva da diversi motivi e tendeva ad opposti scopi, s'accordava pel momento nel chiedere a una voce Roma. Come più la fortuna della Francia precipitava, le accuse di fiacchezza e di vigliaccheria al governo fioccavano da ogni parte; le minacce di prendergli la mano parevano dovessero tradursi in atto da un momento all'altro. Ora, mentre quasi tutti i soddisfatti tenevano a bada i malcontenti e consigliavano la prudenza e navigavano tra due acque, una sera il duca, che se n'era stato nelle sue terre, si recò al Circolo Nazionale dove battagliavasi giorno e notte, ed espresse senza esitazioni il suo pensiero: era venuto il momento d'agire! Se il governo si lasciava scappare quest'occasione, non avrebbe più avuto nessuna scusa agli occhi della nazione! Egli aveva sempre combattuto le impazienze del partito avanzato, perché, se erano generose, potevano far male al paese. Oggi però i tempi erano maturi, qualunque indugio sarebbe stato una colpa inescusabile. Se a Firenze non facevano il loro dovere, egli minacciava «di scendere in piazza con le carabine, come nel Sessanta».

«Ah, buffone!... Ah, vecchia volpe!...» esclamavano nel campo avversario; ma, a dispetto dei suoi denigratori, quelle opinioni francamente professate e ripetute ogni giorno a chi voleva e a chi non voleva udirle sostenevano il pericolante credito del duca. Benedetto Giulente era rimasto, udendole; poiché, prevedendo che lo zio avrebbe seguito fino all'ultimo la politica dei temporeggiatori, si era messo con quelli. Rimase ancora peggio quando il duca venne a trovarlo, dicendogli che bisognava ricominciare a pubblicare l'Italia risorta, per spingere il governo sulla via di Roma: i tempi erano maturi e a non secondare la corrente si rischiava d'esserne travolti.

Benedetto, quantunque spendesse tutto il suo tempo al Municipio, mise insieme una redazione d'impiegati comunali e di maestri elementari, e pubblicò il foglio. Lucrezia fece cose dell'altro mondo contro quella bestia che voleva Roma, ora, «quasi potesse mettersela in tasca o portarla a vendere alla fiera!» Ma gli infiammati articoli di Benedetto, il quale diceva che il duca era col popolo, pronto a partire per Firenze se i governanti non volevan udire la voce del paese, procuravano all'onorevole nuova aura di popolarità.

Il giorno che arrivò la notizia della lettera di Vittorio Emanuele al Papa, arrivò pure da Roma, inaspettato ospite, don Lodovico. Egli aveva dato appena una volta l'anno notizie di sé alla famiglia, tutto intento ai doveri del suo ufficio, alla preparazione della sua fortuna che oramai era avviata. In poco più di tre anni era già segretario a Propaganda ed Arcivescovo di Nicea; Pio ix aveva molta stima di lui. Al principe, che nel primo momento lo guardò come uno piovuto dalla luna, egli disse, con tono di dolce rimprovero:

«Ferdinando è in fin di vita, e mi scrivete appena che sta poco bene? Se non fosse stato per Monsignor Vescovo, non avrei saputo la verità!»

E andò a mettersi al capezzale del fratello infermo. Questi non lasciava più il letto; quando chiudeva gli occhi, il suo viso verde e affilato pareva d'un morto; ma rifiutava i rimedi con più ostinazione di prima. Come più il suo corpo si disfaceva, gli ultimi barlumi dell'offuscata ragione si spegnevano: adesso mandava a comprare ogni giorno dozzine e dozzine di scatoline di spilloni e risme di carta e pacchi di matite. Quella roba avrebbe dovuto servirgli per tracciar piani di campagna, per infigger segnali di piazzeforti, di accampamenti e di quartieri generali; ma egli dimenticava lo scopo degli acquisti e ne ordinava sempre nuovi e gridava e smaniava se non l'obbedivano. Con evangelica pazienza, con zelo indefesso, con ammirabile abnegazione, don Lodovico vegliava l'infermo, secondava le sue manie; e frattanto — Baldassarre ne era disperato — le male lingue andavano spargendo che egli era tornato in Sicilia non per amore del Babbeo, al quale non aveva mai pensato, ma per evitare di trovarsi a Roma in quei momenti critici, per poi prender consiglio dagli avvenimenti!...

Gli avvenimenti incalzavano. I soldati italiani avevano ricevuto l'ordine d'avanzarsi nello Stato romano. L'attesa delle notizie era febbrile; il duca, domiciliato alla prefettura, apriva i telegrammi del prefetto e andava poi a diffonderli, quasi li avesse ricevuti direttamente da Lanza.

«È arrivata la fine del mondo!» gridava la zitellona da Ferdinando presso al quale la famiglia adesso si riuniva, in una stanza lontana da quella del moribondo, che non voleva attorno nessuno. E il principe scrollava il capo, e la principessa Graziella si faceva il segno della croce, intanto che Monsignor don Lodovico mormorava, con gli occhi a terra:

«Bisogna perdonar loro, perché non sanno quel si fanno...»

Lucrezia pareva una vipera contro il marito, e nessuno parlava del duca, la cui condotta era una vergogna; ma donna Ferdinanda, incrollabile nella sua fede, si scagliava peggio che mai contro don Blasco, il quale andava anche lui predicando per le farmacie:

«Io l'ho sempre detto, Pio ix,» non gli dava più del Santo Padre, «doveva pensarci a tempo e a luogo, quando era l'arbitro della situazione. Adesso che vuole? Chi è causa del suo mal pianga se stesso!...»

E, fattosi socio del Gabinetto di lettura, ci andava tutti i giorni col professore per saper le notizie e assicurarsi contro il timore di dover restituire la roba di San Nicola; pertanto vociava contro i tiepidi, sosteneva a spada tratta il fratello, leggeva ad alta voce gli articoli di fuoco di Giulente, approvandoli, ammirandoli:

«Eh? Come scrive mio nipote! Questo si chiama scrivere!»

Ma la recente apostasia di don Blasco, l'antico tradimento del duca, non toglievano al resto degli Uzeda la stima dei puri; presso la Curia, specialmente, la loro condotta, la fedeltà prestata ai sani principi, la costante devozione alla buona causa li facevan considerare come figli prediletti. Un giorno, nonostante la tristizia dei tempi, Monsignor Vescovo si recò da Ferdinando per restituire la visita fattagli da don Lodovico, per avere notizie dell'infermo e consolare l'afflitta famiglia. Tutti andarono intorno al prelato e gli baciarono la mano; la principessa dalla commozione aveva le lagrime agli occhi.

«Che notizie del nostro caro ammalato?»

«Non va bene, Monsignore,» rispose Lodovico, sospirando di tristezza. «Abbiamo persino dovuto dispacciare a nostro fratello Raimondo...»

«Ma non ci ha da esser proprio rimedio?»

«Abbiamo provato tutto: l'acqua di Lourdes, le medaglie di Loreto...»

«Bene, bene... ma avete chiamato un dottore? Che farmaci gli avete dato?»

«Oramai!...» parve voler dire Lodovico, aprendo le braccia. «La vita del nostro povero fratello non è più nelle mani degli uomini...»

Egli non disse che Ferdinando era impazzito del tutto. La sorda diffidenza destatasi in lui contro i fratelli, il secreto sospetto che non gli aveva consentito di attribuire all'affezione le loro premure fastidiose, erano cresciuti di giorno in giorno e avevan invaso talmente il suo cervello, che non capiva più nessun'altra idea. Egli che per trentanove anni aveva dato prova di tanto disinteresse da meritar dalla madre il nome di Babbeo, da lasciarsi rubar da tutti, si rivelava a un tratto dei Viceré con quel sospetto buffo e pazzo, adesso che non aveva più nulla da lasciare. Come la sua fibra si infiacchiva e il suo cervello si scombuiava, il sospetto cresceva, finché diventò furiosa certezza all'arrivo del fratello Raimondo.

Il conte arrivò insieme con la moglie ed il figliuolo. Invecchiata di trent'anni, la povera donna Isabella; irriconoscibile come un giorno era stata irriconoscibile la Palmi. In quei cinque anni che erano stati fuori, a Palermo, a Milano, a Parigi, come il capriccio del marito aveva voluto, certe voci di tanto in tanto arrivate in Sicilia dicevano che ella pagasse amaramente il male fatto alla prima contessa; che Raimondo, stufo finalmente di quella donna, l'acquisto della quale gli costava assai caro, non potendo pensare ad infrangere la seconda catena scioccamente postasi al collo, avesse ricominciato a correre la cavallina molto peggio di prima, a portar le ganze fresche nel mutato letto coniugale, a maltrattare in ogni modo la nuova moglie, cui non giovava mostrar prudenza, pazienza, sommessione ed umiltà per schivar l'astio, il rancore, quasi l'odio del marito. Ma quantunque le voci non fossero incredibili, dato il carattere di Raimondo, non avevano trovato tuttavia molto credito, potendo esser messe in giro dagli invidiosi di donna Isabella, dai nemici del conte, dalle eterne male lingue. All'arrivo di Raimondo non fu possibile persistere nel dubbio. Egli scese all'albergo, come sette anni innanzi, quando aveva definitivamente abbandonata la prima famiglia; ma questa volta accompagnato da quattro o cinque tra governanti, bonnes e cameriere: giovani tutte, una più bella dell'altra, svizzere, lombarde, inglesi, un vero harem internazionale. Aveva una camera separata da quella della moglie, e quando i parenti andarono a fargli visita, udirono che dava a costei del voi, lessero in viso a donna Isabella le sofferenze espiatorie. Ella era mutata oltre che nelle fattezze anche nei modi: parlava adagio, evitava di guardare il marito, pareva timorosa di spiacergli perfino con la sola presenza. E Raimondo non nascondeva i propri sentimenti verso di lei: quel voi era già molto eloquente, ma egli affettava di non rivolgerle la parola, di non udire quel che ella diceva: quando andò a vedere il fratello infermo le disse, in presenza dei parenti:

«Non occorre che veniate anche voi.»

Ora il Babbeo, che non ragionava più, alla vista del fratello ebbe un assalto di manìa furiosa. Con gli occhi stravolti, coi capelli arruffati sul viso scarno e pauroso, si mise a gridare:

«Assassini! Assassini!... I prussiani!... Vogliono avvelenarmi!...»

Gridò così tutta la notte, delirante; ma, cessata la crisi, l'idea rimase fissa, incrollabile. E per paura del veleno, colla manìa della persecuzione, non schiuse più bocca: tutte le volte che gli si appressavano per dargli del cibo stringeva i denti, urlava, trovava nelle braccia, spaventosamente magre, la forza di respingere i tentativi di fargli ingoiare un sorso di brodo o di latte.

«Aiuto!... Bismarck! Assassino!...»

Lucrezia gli si metteva accanto, lo prendeva per mano, gli domandava:

«Ma di chi hai paura? Non ci riconosci?... Credi che ti voglia avvelenare io? O Giacomo? O Raimondo?...»

Il pazzo sorrideva d'incredulità, ma quando ritentavano di fargli prendere un boccone, per prolungargli di qualche giorno la vita, perché non morisse di fame, ricominciava a urlare: «Assassino!... Aiuto!... Assassino!...»

Una sera, mentre don Blasco stava per uscir di casa insieme col professore, il cocchiere del principe venne a dirgli, col fiato ai denti:

«Eccellenza, l'aspettano dal Cavaliere... Sono tutti lì... Portano il viatico al signorino Ferdinando...»

Il monaco aveva una gran fretta di andare al Gabinetto per sapere che c'era di nuovo. Le ultime notizie dicevano che le truppe italiane erano dinanzi a Roma; e se la curiosità universale era vivamente eccitata, don Blasco smaniava addirittura. Nondimeno, a quell'annunzio di morte, stava per rispondere che sarebbe subito andato, quando arrivò a precipizio un altro messo da parte del duca.

«Sua Eccellenza l'aspetta subito a casa... È affare urgentissimo...»

«Vengo.»

Il professore, declamando contro il tribunale del Sant'Uffizio, lo accompagnò fino alla nuova casa del duca, dove questi s'era domiciliato dal primo del mese. Giunto dinanzi al portone, il monaco chiese permesso al compagno, il quale restò ad aspettarlo passeggiando su e giù. Dopo due o tre minuti riapparve don Blasco, pallido in viso, correndo e agitando un pezzo di carta:

«È nostra!... È nostra!...»

«Chi?... Che cosa?...»

«Venite!...» esclamava il Cassinese allungando il passo e ansimando. «Al Gabinetto! Roma è nostra! La breccia è aperta!...»

«Come?... Aspettate!... Fatemi vedere...»

«Avanti!... Avanti!... Mio fratello ha ricevuto il dispaccio... Le truppe sono entrate... Andiamo al Gabinetto!...»

Piovve lì, tra la gente seduta sul marciapiede al fresco, come una bomba:

«È nostra! È nostra! È nostra!... Roma è nostra!...»

Tutti s'alzarono, circondandolo, parlando insieme, levando le braccia. Egli spiegava il pezzo di carta dove il duca aveva riadattato il telegramma ricevuto dal prefetto per togliergli il carattere ufficiale, mutando l'indirizzo per far credere che fosse venuto a lui; e la gente accorreva dal fondo delle sale, i passanti si fermavano, la folla ingrossava da un momento all'altro. Tutti volevano leggere la notizia, ma don Blasco non dava a nessuno il dispaccio che nella ressa correva pericolo d'essere stracciato in mille pezzi.

«Leggete!... Leggete!... Vogliamo sentirlo!...»

Salito allora sopra una seggiola, il monaco lesse col suo vocione: «Firenze, ore 5 pomeridiane: Onorevole d'Oragua, Catania. Oggi alle ore dieci antimeridiane, dopo cinque ore di cannoneggiamento, truppe nazionali aprirono breccia cinta di Porta Pia... Bandiera bianca alzata su Castel Sant'Angelo segnò fine ostilità... Nostre perdite venti morti, circa cento feriti...»

E un urlo si levò tutt'intorno. Ma don Blasco, dominando le urla, gridò:

«All'Ospizio... per la musica... Fermi!... Le bandiere...»

In un attimo tutte le bandiere del Gabinetto furono recate dai camerieri storditi dalle grida. Don Blasco ne agguantò una, s'aprì un varco tra la folla e vociò nuovamente:

«All'Ospizio!... All'Ospizio!...»

Per via, le grida di Viva l'Italia! Viva Roma! echeggiavano d'ogni intorno, la dimostrazione s'ingrossava; quelli che ignoravano ancora di che si trattasse gridavano per sapere che cos'era successo, e tutti rispondevano:

«La truppa ha preso Roma!... È venuto il dispaccio al deputato, al duca d'Oragua!...»

Quando la banda dell'Ospizio, riunita in fretta e in furia, cominciò sonare, il clamore divenne assordante. E mentre i sonatori e il capo musica domandavano:

«Da che parte?... Dove si va?...»

«Dal deputato...» risposero dieci, cento voci; «dal duca...»

Tutte le finestre illuminate, in casa dell'onorevole; una bandiera che pareva una vela di bastimento sventolante al balcone di mezzo, il deputato che in persona rispondeva salutando col fazzoletto alle grida di:

«Viva Roma capitale!... Viva Oragua!... Viva il deputato...»

A un tratto, mentre alcuni gridavano per ottener silenzio, aspettando un discorso d'occasione, il duca scomparve. Per evitare il pericolo di dover parlare, poiché Giulente non lo poteva aiutare essendo con la moglie al letto dell'agonizzante Ferdinando, egli scendeva incontro ai dimostranti, veniva a mescolarsi tra la folla.

«Evviva!... Evviva!... Alla prefettura!...»

E la marcia ricominciò. Don Blasco, con la bandiera a spall'arme, la tuba un poco di traverso, il colletto monacale madido di sudore, andava in mezzo alla dimostrazione a braccio del professore che lo aveva ripescato e non lo lasciava più.

«Fuori i lumi!...» gridavano i suoi seguaci a ogni passo, e applausi e fischi s'alternavano secondo che le finestre illuminavansi o restavano serrate e buie com'erano. Dinanzi a una bottega di merciaio, la fiumana dei manifestanti s'arrestò un momento: «Le torce!... Le torce a vento!...» E tutte quelle che si trovarono furono distribuite e accese immediatamente. La luce fosca, fumosa si rifletteva contro le case, illuminandole, strappando vivi bagliori ai vetri delle finestre; sul mare delle teste fazzoletti e cappelli s'agitavano; la banda eccitava l'entusiasmo sonando a tutto andare la marcia reale e l'inno di Garibaldi; e le grida echeggiavano più forte, più alte, più spesse intorno all'onorevole:

«Viva Roma!... Viva l'Italia!... Viva Oragua!...»

A un tratto la dimostrazione s'arrestò nuovamente come se qualcuno le contrastasse il passo, e un vario vocìo si levò:

«Ancora!... Avanti!... Abbasso!... Morte!... Chi è?... Che c'è?...»

Da un vicolo era sbucato un frate: alla vista della tonaca i dimostranti che andavano innanzi s'erano fermati e gridavano sul muso al malcapitato:

«Abbasso i preti!... Abbasso le tonache! Viva Roma nostra!...»

Il frate, livido in volto, con gli occhi spalancati, guardò un momento la folla minacciosa e urlante; di repente, alzò le braccia, gridando anche lui, scompostamente:

«Eh!... Eh!...»

«È il matto... lasciatelo andare!...» esclamarono alcuni; ma pochi udirono l'avvertimento, e la folla si mise in moto gridando:

«Morte ai preti!... Abbasso il temporale!... Abbasso!... Morte!...»

Don Blasco, allungato il collo, riconobbe fra' Carmelo, un altro degli Uzeda ammattito, il bastardo che a dispetto della fede di battesimo si rivelava anch'egli della famiglia. E il professore, alla vista della tonaca, se era un energumeno, inferocì come un torello al rosso:

«Morte ai corvi!... Giù i tricorni: viva il pensiero laico!... Abbasso l'ultramontanismo!...»

Il pazzo, alla luce fantastica delle torce, continuava a gestire scompostamente, a gridare: «Eh!... Eh!...» senza riconoscere l'ex paternità di don Blasco, il quale, per non esser da meno del professore che gl'intronava le orecchie, vociava anche lui:

«Abbasso!... Morte!... Abbasso!»