3.

A San Nicola, dopo la sistemazione del governo italiano, si faceva la stessa vita di prima, come al tempo dei napolitani; anzi era questo uno degli argomenti sfoderati dai liberali contro i sorci, durante le discussioni politiche che s'impegnavano continuamente all'ombra dei chiostri.

«Avete visto? A darvi ascolto doveva succedere il finimondo, dovevano mandare all'aria il convento, e invece è sempre ritto...»

Pel momento i monaci seguitavano a far l'arte del Michelasso. Il principino, crescendo, indiavolava. Prepotente coi fratelli, incuteva adesso un vero terrore ai camerieri, dai quali pretendeva le cose più proibite: coltelli arrotati per lavorar canne delle quali faceva, cerchiandole di fil di ferro, schioppi e pistole; polvere da sparo per caricare queste armi che gli potevano scoppiare, Dio liberi, tra le mani e accecarlo di tutt'e due gli occhi; razzi e tric-trac e altri fuochi artifiziati per cavarne la polvere, oppure zolfo, salnitro e carbone per farla da sé. Aveva una inclinazione istintiva e invincibile per la caccia: nel giardino, durante la ricreazione, non potendo far altro, tirava sassate agli uccelli, a costo di spaccar la testa a qualche compagno, o s'arrampicava sui muri per distruggere i nidi dei passeri a rischio di fiaccarsi il collo egli stesso. E quando i camerieri non lo contentavano, non gli procuravano le reti, il vischio, la polvere, li strapazzava, li denunziava al maestro per colpe inventate di pianta, li metteva a più dure prove buttando all'aria ogni cosa nella propria camera dopo che essi l'avevano rifatta... La smania di fumare non gli era neppure passata. Attribuendo alla cattiva preparazione del tabacco l'ubriacatura presa al tempo della rivoluzione, volle fumare sigari per davvero, e prese un'ubriacatura più terribile della prima. Scoperto anche questa volta, il maestro si decise a dargli un gran castigo, vietandogli di uscire per una settimana; ma poi la settimana fu ridotta a tre giorni, grazie all'avvicinarsi del Natale.

Ogni anno, per questa ricorrenza, ciascuno dei novizi doveva recitare una predica, e riceveva in premio un'onza di quattrini, quasi tredici lire della nuova moneta, più una scatola di cioccolata e due galletti vivi. La predica di Natale toccava quell'anno '61 a Consalvo Uzeda: l'aveva scritta il Padre bibliotecario, che era letterato, perciò invece che nelle poche paginette degli altri anni, consisteva in un bel quadernetto. Egli che aveva una memoria di ferro e una faccia tosta a tutta prova aspettava la cerimonia con una tranquillità e una sicurezza ignote ai compagni, ai quali i regali costavano quindici giorni d'ansia e uno di vera paura. Il giorno della funzione, il Capitolo dove i monaci avevano già preso posto nei loro stalli fu invaso dalla consueta folla dei parenti maschi: le donne, per via della clausura, restavano accanto, nella sacrestia, della quale lasciavansi spalancate le porte. Tutti esclamarono piano: «Che bel ragazzo! Com'è franco e sicuro!» quando il principino, vestito della candida cotta piegolinata, salì sul pulpito, guardò tranquillamente la folla degli spettatori e spinse uno sguardo alla sacrestia rigirandosi tra le mani il rotoletto del manoscritto e tossicchiando un poco, prima di cominciare. Sotto lo stallo dell'Abate, in mezzo al principe, al duca d'Oragua, a Benedetto Giulente, don Eugenio diceva: «Guardate che padronanza! Se non pare un predicatore consumato!» Ma la stupefazione crebbe a dismisura quando il ragazzo, aperto il fascicolo e datavi un'occhiata, lo abbassò, recitando a memoria: «Reverendi Padri e fratelli dilettissimi, era una notte del più rigido verno, allorquando in una stalla di Nazaret...» e tirando poi via sino in fondo senza guardare neppure una volta lo scartafaccio, gestendo, facendo pause, cambiando il tono della voce come un oratore provetto, come un vecchio attore sul palcoscenico. Finito che ebbe, risceso che fu, per miracolo non lo soffocarono dagli abbracci, dai baci; la principessa aveva le lacrime agli occhi, donna Ferdinanda anche lei era commossa; ma, quantunque muta, l'ammirazione del deputato, al quale la sola idea della folla serrava la gola e annebbiava la vista, non era la meno profonda. «Che presenza di spirito! Che franchezza!...» e tutte le signore lo attiravano, l'abbracciavano, lo baciavano in viso: egli lasciava fare, restituiva i baci sulle guance fresche e profumate, torceva il muso dinanzi alle flosce e grinzose; e oltre ai regali del convento intascava le lire che gli davano gli zii. Il più contento, con tutto questo, era fra' Carmelo: gli pareva d'essere l'autore di quel trionfo, d'aver diritto ad una parte degli applausi, delle congratulazioni, dei baci delle signore. Non aveva covato con gli occhi quel ragazzo nei cinque anni del noviziato? Non aveva vantato il suo ingegno, predetto la sua riuscita? I maestri si lagnavano perché non amava lo studio: doveva dunque fare il medico o l'avvocato o il teologo? Ai Benedettini ci stava per ricevere l'educazione conveniente alla sua nascita; poi sarebbe andato a casa sua a fare il principe di Francalanza!

E questo era il giorno che Consalvo aspettava; per l'impazienza di non vederlo arrivare, per farsi mandar via, egli sfrenavasi sempre più, metteva con le spalle al muro non più i fratelli e i camerieri, ma lo stesso maestro. Durante la rivoluzione e subito dopo, i Tignosi avevano tolto dal convento Michelino, i Cùrcuma Gasparino, i Cugnò Luigi; né altri novizi erano entrati, fuorché Camillo Giulente, giacché dicevasi che il governo avrebbe soppresso i conventi. Restavano soltanto coloro che le famiglie destinavano a professarsi, Giovannino Radalì, fra gli altri, il «figlio del pazzo». Morto suo padre, la duchessa, per amore del primogenito, destinava il secondo a farsi monaco. Ma Consalvo, che non doveva professarsi, voleva andar via, al più presto, subito; e invece suo padre, ogni volta che egli gli domandava: «Quando tornerò a casa?» rispondeva col solito suo fare secco e freddo che non ammetteva replica: «Ho da pensarci io!» E non ci pensava mai, e il ragazzo sentiva crescere l'avversione che quel padre rigido, del quale non rammentava una buona parola, gli aveva ispirata. Quando andava a casa in permesso, egli stava un momento con la mamma, poi se ne scendeva giù nella corte, passava in rivista i cavalli e le carrozze, domandava il nome di tutti gli arnesi delle scuderie; e la tonaca gli pesava, perché non gli permetteva di salire a cassetta e d'imparare a guidare. Aveva tempo di spassarsi, gli diceva Orazio, il nuovo cocchiere, poiché Pasqualino era partito per Firenze al servizio dello zio Raimondo; ma egli voleva spassarsi subito, sottrarsi alla tutela dei monaci, fare quel che gli piaceva. E all'idea di dover tornare nella prigione del convento, invidiava perfino le persone di servizio, il figlio di donna Vanna, Salvatore, che era entrato in casa Uzeda come mozzo di stalla, e passava tutto il santo giorno a cassetta, scarrozzando per la città. Consalvo lo invidiava e lo ammirava per le tante cose che sapeva, per le male parole che diceva liberamente; e fra' Carmelo, sonata l'ora di ricondurlo al convento, doveva sgolarsi un bel pezzo prima di stanarlo dalla stalla o dalla scuderia.

«Che hai fatto?» gli domandavano la mamma e la zia.

«Nulla,» rispondeva, un po' rosso in viso.

Era stato ad ascoltare i discorsi di Salvatore, che gli narrava le gesta di tanti Padri Benedettini:

«La notte se n'escono per andare a trovar le amiche, e certe volte le conducono con loro, nello stesso convento, avvolte nei ferraioli: il portinaio finge di capire che son uomini!... Vostra Eccellenza che c'è dentro non le ha mai viste?...»

Non aveva visto nulla, lui; e tutte quelle cose apprese in una volta lo stupivano e lo turbavano.

«Ma non è peccato?...»

«Eh!...» faceva il famiglio. «Se avessero cominciato essi! Hanno fatto sempre così, i monaci! I fratelli non sono quasi tutti figli dei vecchi Padri?»

«Anche fra' Carmelo?»

«Fra' Carmelo?... Fra' Carmelo è un'altra cosa... È bastardo del bisnonno di Vostra Eccellenza, fratello spurio di don Blasco...»

«Perciò mio zio?»

«E Baldassarre anche lui... fratello bastardo del signor principe... Si sono spassati i signori Uzeda!... Poi, quando sarà grande, si divertirà anche Vostra Eccellenza!...»

Ah, come aspettava di crescere! Con quanta impazienza, con qual rancore verso il padre vedeva scorrere i giorni, le settimane, i mesi e gli anni, in quella prigione! Con qual animo udiva adesso le prediche severe dei monaci, dopo aver saputo la loro vita! Spesso discorreva di queste cose secrete con Giovannino, gli diceva quel che avrebbe fatto appena fuori del convento; e Giovannino stava a sentire con aria stralunata, quasi non capisse. Era così quel ragazzo, alle volte furioso come un diavolo, alle volte inerte come uno scemo. Voleva anche lui andar via dal convento, e dava, a giorni, in ismanie terribili; ma poi si persuadeva dei ragionamenti della duchessa sua madre, che i quattrini di casa erano tutti del fratello Michele, che a San Nicola sarebbe stato da signore, fra tanti altri signori, e si chetava, non pensava più a scapparsene, non invidiava la futura libertà di Consalvo.

Finita l'agitazione politica, era venuta meno una gran causa di risse al Noviziato e tra i Padri; ma questi avevano trovato un'altra ragione di battagliare. Le voci relative alla prossima soppressione dei conventi erano state confermate da Roma; non poteva passar molto che il governo degli usurpatori avrebbe messo le mani sui beni della Chiesa. Don Blasco s'era nettata la bocca contro i liberali, i fedifraghi, nemici di Dio e di loro stessi, che non avevano voluto dargli retta. Adesso però, più che gridare, bisognava prendere un partito in previsione di quell'avvenimento. A San Nicola s'era sempre speso allegramente tutta la rendita del convento, nella certezza che la cuccagna sarebbe durata sino alla fine dei secoli; ma col mondo sottosopra, col pericolo che il governo abolisse dabbero le corporazioni religiose, non era più conveniente moderare le spese, perché il più corto non rimanesse poi da piede? L'Abate, come sempre, aveva preso consiglio prima di tutto dal Priore. Padre don Lodovico, modestamente, non aveva voluto pronunziarsi: «Che posso dire a Vostra Paternità? L'avvenire è nelle mani di Dio. Dalla nequizia dei tempi c'è tutto da aspettarsi. I nemici della Chiesa son capaci di questo e d'altro. Non mi stupirei se ricominciassero le persecuzioni dell'infernale Ottantanove.» Egli era sincero nel suo livore contro il nuovo ordine di cose, che da principio aveva appoggiato per politica, per tenersi bene con la nuova potestà temporale. Ma la soppressione dei conventi distruggeva tutti i suoi sogni di rivincita, di predominio, d'onori. Che cosa gl'importava ora mai del bilancio di San Nicola, mentre pericolava tutto il proprio avvenire, il frutto di quindici anni di politica, mentre egli doveva pensare a una nuova via da battere, a un altro scopo verso il quale dirigere la propria attività? E quel poveromo dell'Abate insisteva per avere la sua opinione sulle miserie della spesa quotidiana! «Dimmi tu come debbo regolarmi! Che cosa faresti al mio posto?...» Un momento, don Lodovico provò la tentazione di levarselo dai piedi; ma, chinato il capo, con maggiore umiltà di prima, rispose: «Vostra Paternità è troppo buona! Le economie mi sembrano sempre lodevoli. Se il Signore non permetterà che i suoi servi siano messi alla prova, avremo qualche cosa di più da destinare alle opere buone...» Così l'Abate s'era pronunziato pel risparmio, d'accordo col Capitolo; ma i monaci non furono tutti d'un sentimento. Tra quelli che non credevano possibile la soppressione, tra gli altri che temevano di dover rinunziare al lusso di cui avevano sempre goduto, il partito delle economie trovava molti oppositori. In mezzo ai due campi don Blasco non voleva né tenere né scorticare, scaraventandosi a un tempo contro gli uni e gli altri. Combattere il sistema delle economie con la speranza che il governo non commetterebbe la spogliazione, egli oramai non poteva più, se questa spogliazione aveva prevista e rinfacciata ai traditori liberali; e del resto le economie destinate ad essere spartite tra i monaci in caso di scioglimento erano nel suo modo di vedere, poiché egli avrebbe avuto la propria parte, uscendo dal convento; però non voleva rinunziare allo scialo cui era avvezzo, e poi lo stesso fatto che questo partito era capitanato dall'Abate e dal nipote Priore e da tutti quelli del Capitolo faceva che egli si scagliasse contro di loro, chiamandoli «lerci straccioni», gridando: «Vadano a fare i locandieri o i bottegai! Si mettano a vender l'olio, il vino e il caciocavallo! A questo son buoni! Per questo mestiere sono nati!...» Udendo dall'altro canto i patriotti cullarsi nella certezza che il governo, in ogni caso, avrebbe pensato a loro, s'evacuava: «il governo vi butterà fuori a pedate e vi porgerà il sedere da baciare! Giuda vendé Cristo, ma n'ebbe almeno trenta denari. A voialtri toccheranno calci nel preterito per giunta!...»

In fondo, all'idea della spartizione dei quattrini, di possedere finalmente qualcosa di suo, era per le economie, pure combattendole. Del resto a San Nicola la spesa era grande non tanto per il valore delle cose acquistate, quanto pel modo regale di sperperare i quattrini, di compensare il più piccolo lavoro, di far godere ai primi venuti il ben di Dio accatastato nei sotterranei del convento. Con un certo ordine, lasciando che i cuochi rubassero un po' meno di prima, che i fratelli destinati al governo dei feudi s'arricchissero in un tempo un poco più lungo del consueto, c'era da riporre, ogni anno, una somma che avrebbe fatto l'agiatezza di parecchie famiglie. Ma le case regalate ai protetti dei monaci, per esempio, non bisognava toccarle: don Blasco avrebbe voluto veder proprio questo, che avessero tolta la bottega e il quartierino alla Sigaraia! E né lui né gli altri volevano rinunziare ai loro diritti: spesato ed alloggiato, ciascun Padre aveva tre rotoli d'olio al mese, una soma di carbone, una salma di vino, tutta roba che andava a finire dalle amiche. Ora i risparmi stavano bene; ma ciascuno pretendeva il suo.

L'Abate, o di buona o di mala voglia, doveva lasciarli fare. Egli del resto chiudeva adesso un occhio, perché aveva da propiziarseli. Camillo Giulente, compiti vent'anni ed espressa la ferma decisione di pronunziare i voti, era passato al Noviziato formale. C'era stato bisogno di una votazione, per questo, e l'opposizione contro l'intruso, scatenatasi più violenta, aveva gridato e minacciato alto per impedire la sanzione dello scandalo. Ma l'Abate aveva insistito personalmente presso tutti i Padri, raccomandando quel ragazzo, facendo rilevare le sue eccellenti qualità, il profitto ricavato negli studi, la sua triste situazione di orfano povero. Ai capoccia aveva fatto parlare dal Vescovo e scrivere dai parenti, dalle persone che potevano esercitare qualche influenza sull'animo loro: così qualcuno s'era piegato, altri aveva dato una promessa in aria, e insomma nonostante le grida e i complotti, Giulente era stato ammesso, ma per pochi voti. La notizia aveva fatto chiasso: i nobili improvvisati, di fresca data, se ne erano rallegrati come di una fortuna loro propria, riconoscendo l'influsso dei nuovi tempi, l'azione spregiudicata dei Padri liberali; ma, tra i puri, lo scandalo durava ancora.

Adesso, passato l'anno di prova, innanzi che il novizio potesse pronunziare i voti, bisognava che il Capitolo rinnovasse lo scrutinio. L'Abate, quantunque sicuro del fatto suo, pure trattava tutti con le molle d'oro, s'affidava a don Lodovico, gli esponeva le nuove ragioni che dovevano indurre i monaci a dire di sì. Dopo un primo voto favorevole era mai possibile darne uno contrario, se durante tutto questo tempo il giovanotto era stato il vivente esempio del rispetto, dell'umiltà, dello zelo religioso? Del resto, se quel che si temeva dovesse realmente accadere, se il governo avesse soppresso i conventi, che fastidio poteva dare il nuovo monaco agli antichi? Era bene, anzi, nelle tristizie dei tempi, far vedere ai persecutori della Chiesa che lo stato monastico rispondeva a un vero bisogno sociale, se, col pericolo di non goderne più i vantaggi, i giovani chiedevano egualmente di sopportarne i pesi...

E l'Abate, assicurato da don Lodovico che tutto sarebbe andato a seconda, dormiva tra due guanciali. Arrivato il giorno della votazione e posta ai Padri la quistione se volevano fra loro il Giulente, trenta sopra trentadue votanti risposero no, e due soli consentirono.

«Per una volta che si ragiona!» esclamò don Blasco quasi sotto il naso di Sua Paternità.

Il complotto era stato preparato sottomano da un pezzo. Alla prima votazione una metà dei votanti s'eran lasciati piegare sapendo bene che quel voto non pregiudicava nulla, che bisognava poi tornar da capo; ma dovendo ora dir sul serio, nessuno aveva più esitato: borbonici e liberali, fautori e avversari dell'Abate, il partito delle economie e quello dello scialo, s'erano tutti accordati nell'opporsi all'ammissione tra i discendenti dei conquistatori del regno e dei Viceré di un pronipote di mastri notari come Giulente. Non importava loro della prossima o lontana fine della cuccagna, né dell'esempio da dare nell'interesse della religione; c'era innanzi tutto il principio di tener alto, «il bestiame da non confondere», come diceva don Blasco; se il giovane era orfano e povero, gli si sarebbe dato da dormire e da mangiare, come a uno di quei tanti parassiti che vivevano sul convento; ma permettere che rivestisse la nobile tonaca benedettina? Che gli si dicesse Vostra Paternità? Che sedesse alla loro mensa?...

E per tutta la clientela del convento corse un lungo sussurro di approvazione: così andava fatto, sin dal principio! Era una bella lezione data all'Abate!... Il giovanotto, dal dispiacere, dalla vergogna, restò un mese senza farsi vedere. Quando riapparve, pallido e con gli occhi rossi, non si seppe che cosa farne. Se i Padri non l'avevano voluto, non era più possibile rimandarlo tra i novizi, alla sua età e dopo quello scandalo, specialmente, che attirava sul povero diavolo le beffe e gli insulti del principino e dei suoi compagni. Così l'Abate dovette assegnargli una camera fuori mano, in fondo a un corridoio deserto; e Giulente, lasciato l'abito di San Benedetto per l'umile veste del prete, se ne stava tutto il giorno a studiare sui libri che il suo protettore gli faceva mandare dalla biblioteca. Al refettorio, né i Padri né i novizi volendolo con loro, egli mangiava alla seconda tavola, in compagnia dei fratelli di servizio... Don Lodovico esprimeva il proprio dolore all'Abate per questa persecuzione. Egli si era guardato bene dal far la propaganda della quale Sua Paternità l'aveva pregato, prima di tutto perché il suo proposito di neutralità glielo vietava, poi perché neppur lui voleva Giulente al convento. Nondimeno era stato il solo a votare il sì, per dimostrare al superiore la propria fedeltà, sicuro frattanto dell'unanime opposizione dei monaci. Dopo l'esito dello scrutinio, gettava la colpa sulla doppiezza dei Padri, che dopo tante promesse, all'ultimo momento, per uno «stupido» pregiudizio, s'eran disdetti... E così la baracca andava avanti, col solito armeggio dei partiti, con le solite discussioni più o meno burrascose, quando un bel giorno tutta la frateria fu messa a rumore da un avvenimento straordinario, come al tempo della rivoluzione.

Garibaldi era già in Sicilia a far gente, non si sapeva perché o, meglio, si sapeva benissimo: per andar contro il Papa. Al suo avanzarsi un mal represso fremito si levava tutt'intorno, per le città e le campagne, mentre le autorità si barcamenavano non sapendo a qual santo votarsi, e un po' fingevano d'osteggiarlo, un po' gli cedevano il passo. Quando egli si presentò dinanzi a Catania, la guarnigione che doveva arrestarlo aveva già sgomberato la città, e il prefetto scese al porto per imbarcarsi sopra un legno di guerra. E il Generale entrò coi suoi volontari tra due siepi vive di popolazione che applaudiva e gridava freneticamente, in mezzo a un delirio d'entusiasmo dinanzi al quale le stesse dimostrazioni del Sessanta parevano tiepide e scolorite. Da un balcone del circolo degli operai, dominando il corso gonfio di popolo come una fiumana, egli spiegava lo scopo della nuova impresa, gettava con la voce dolce il grido della nuova guerra: «O Roma, o morte!...» Poi, dove andò egli a porre il suo quartier generale? A San Nicola!

Le grida, il trambusto che ci furono lassù tra i monaci si lasciarono anch'essi molto indietro le dimostrazioni del Quarantotto e del Sessanta. Don Blasco divenne un energumeno; disse cose dei «piemontesi» che non fucilavano Garibaldi e di Garibaldi che non spazzava via i «piemontesi», da far turare le orecchie a un saracino. E la sua più viva speranza, la fede che lo sorreggeva, era quest'ultima: che i due partiti si sterminassero reciprocamente, che i briganti della Basilicata dessero l'ultimo crollo alla baracca, che succedesse così un cataclisma, il diluvio universale non più d'acqua ma di ferro e di fuoco perché il mondo risorgesse purificato dalle proprie ceneri. E i monaci liberaloni, «quei pezzi di scannapagnotte», osavano ancora batter le mani mentre la rivoluzione ordiva la finale rovina dell'ultimo rappresentante delle legittimità, del più augusto, del più sacro: il Santo Padre! Battevano le mani come gli arruffoni, come gli affamati in busca di un'offa, come i galeotti evasi di cui si componevano le nuove bande! E dimenavano i fianchi ingrassati a spese di San Nicola, e si fregavano le mani che la beata cuccagna permetteva loro di mantener bianche e lisce come quelle delle dame!

«Manetta di mangia a ufo che siete, avete forse vinto un terno al lotto? Non capite che più presto l'eresia trionferà, più presto vi butteranno in mezzo a una strada? Di che vi rallegrate, traditori più di Giuda? Non volete capire che avete tutto da perdere e niente da guadagnare?»

«E con questo?»

«Come con questo?»

«Ci piglieremo anche noi un po' di libertà...»

Quando gli dettero quella risposta, il monaco impallidì poi tutto il sangue gli montò alla testa e gli occhi parvero sul punto di schizzare dalle orbite.

«Ah, sì; ve ne manca?» articolava. «Vi manca la libertà...? Siete chiusi in fondo a un carcere, poveri disgraziati?... Che libertà vi manca, d'ubriacarvi come tanti otri? di crepare dalla sazietà? di mantenere le vostre ciarpe?... Non lo sapete, no, come vi chiama la gente?...» E spiattellò loro in faccia l'epiteto popolare col quale erano designati da tutta la città: «Porci di Cristo!...»

In mezzo al baccano delle discussioni che minacciavano di finire a cinghiate, il povero Abate pareva un pulcino nella stoppa, non sapendo come fare, non volendo dar mano ad affrettar lo scempio dei buoni princìpi, ma non potendosi opporre alla venuta dei garibaldini. Pertanto s'afferrava al Priore, si metteva nelle sue mani, non lo lasciava più. Don Lodovico, lagnandosi delle tristizie dei tempi, invocando dal Signore la cessazione di quelle dure prove, prese le redini del convento e preparò il ricevimento di Garibaldi: ordinò che dessero aria al quartiere reale, che approntassero pagliericci e foraggi, che vuotassero le cantine e i riposti. Quando arrivò il Generale, gli andò incontro fino a piè dello scalone, accompagnò ai loro alloggi gli aiutanti e presiedé il pranzo delle camicie rosse, scusando l'Abate che una piccola indisposizione costringeva a letto.

Don Blasco, giallo come un limone, non potendo più gridare all'arrivo dei garibaldini, s'era tappato una seconda volta al Noviziato. Quasi tutti i ragazzi non c'erano più, ripresi dalle rispettive famiglie, che per paura dei torbidi si mettevano in salvo. Solo il principino, Giovannino Radalì e due o tre altri erano rimasti, mentre gli Uzeda erano scappati al Belvedere, tranne Ferdinando, chiuso come sempre alle Ghiande, e Lucrezia con Benedetto, il quale riprendeva il suo posto di combattimento in quei giorni agitati, tra le poche autorità e i rari notabili rimasti. Egli si sarebbe anzi arrolato, per far la nuova campagna con gli antichi commilitoni, senza il dovere di non abbandonar la moglie. Salito su al convento, il domani dell'arrivo di Garibaldi, andò ad ossequiare il Generale, che lo riconobbe subito, gli strinse la mano, e lo intrattenne un pezzo nonostante l'andirivieni delle commissioni, delle rappresentanze di ogni genere accorrenti incontro all'antico Dittatore. La incertezza e l'inquietudine, le speranze e i timori intorno a quel che sarebbe seguito erano universali. Quali disegni aveva Garibaldi? Quali ordini i rappresentanti dell'autorità? il conflitto, se mai, sarebbe scoppiato a Catania? Che cosa avrebbe fatto la Guardia nazionale?... Non si sapeva nulla; certuni dicevano che il governo fosse secretamente d'accordo con Garibaldi, che facesse finta d'osteggiarlo per l'occhio dei potentati. Benedetto, ripresa la pubblicazione dell'Italia risorta, sosteneva questa opinione, e il silenzio del duca d'Oragua, al quale aveva scritto lettere su lettere pregandolo di tornare in Sicilia, poiché la presenza di lui poteva divenire necessaria, lo induceva a confermarvisi. Aveva pertanto assicurato al Dittatore l'unanime consenso di tutto il paese. Congedandosi e sul punto di riscendere in città, si udì chiamare:

«Eccellenza!... Eccellenza!...» Era fra' Carmelo che gli veniva dietro. All'orecchio, e con aria di mistero, quando l'ebbe raggiunto: «Suo zio don Blasco,» gli disse, «ha da parlarle...»

Rintanato nell'ultima stanza dell'ultimo corridoio del Noviziato, don Blasco volle sentire due volte la voce del nipote prima d'aprire. Serrato l'uscio sul muso del fratello:

«Sei dunque impazzito anche tu, pezzo di bestione?» disse a Benedetto.

Questi aveva appena domandato un perché timido e sommesso, che il monaco ricominciò, con nuova violenza:

«Come, perché? Hai il viso di domandarlo? Con la guerra civile che state per far scoppiare? La città bombardata? Le strade insanguinate? I galantuomini perseguitati?... E mi domandi perché?...»

«Non è colpa...»

«Non è colpa tua? Di chi, dunque? Mia, forse? Sicuro! Li ho scatenati io in persona! Conosco il solito giuoco! Gl'istigatori sono i galantuomini colpevoli di non transigere con la propria coscienza! Mi meraviglio che non son venuti ad arrestarmi!... Vengano, vengano pure!...» e pareva un leone, con gli occhi sfavillanti.

«Vostra Eccellenza si calmi...» balbettava Giulente.

«Ho da calmarmi, anche? Mentre il mio paese è minacciato dell'ultima rovina? Quando vedo una bestia della tua cubatura batter le mani con gli altri, invece di evitare quest'inferno?...»

«Ma in qual modo?»

«In qual modo? Facendoli andar via! Si scannino in campagna, sul mare, dove piace loro, non dentro una città come la nostra, dove i danni sarebbero incalcolabili, dove ne andrebber di mezzo le donne, i vecchi, i bambini, i galant... Vadano via a scannarsi dove gli piace; il mondo è grande!... Ecco in qual modo!...»

Giulente rimaneva perplesso, non osando contraddire allo zio, ma non volendo neppure disdirsi dopo mezz'ora.

«Ma come fare? Tutto il paese è pel Generale...»

«Tutto il paese? Prima di tutto, sei una bestia! Quale paese? I pazzi come te? E poi, quand'anche, ragione di più! Se il paese è per lui, se c'è entrato da trionfatore, che resta a farci? Fosse una piazzaforte, capirei; ma una città aperta ai quattro venti? Se ha da attaccar battaglia, vada altrove! Si porti chi vuole e ciò che vuole, e buon viaggio!...»

Il monaco, a poco a poco, s'era venuto placando, e aveva detto le ultime parole quasi col tono di ogni altro cristiano; ma appena Benedetto osservò:

«E chi lo persuaderà?»

«Ah, sangue di Maometto!» riprese col vocione di prima e un gesto furioso. «Parlo con una bestia o con un essere ragionevole? Chi l'ha da persuadere? Voialtri che gli state attorno! C'è una Guardia nazionale? C'è un'autorità qualunque? Tu, che cavolo sei? Capitano, buon cittadino, il diavolo che ti porta via? Tocca a voialtri parlar chiaro e tondo, dopo che i tuoi conigli piemontesi se la sono battuta, lasciandoci nel ballo! O credi forse che voglia impicciarmi con cotesti assassini, briganti, galeotti, ru...»

Al rumore di un passo risonante pel corridoio, don Blasco ammutolì come per incanto. Si gargarizzò quasi la gola gli prudesse, fece due passi per la camera, si fermò un momento a tender l'orecchio; poi, cessato il rumore, dichiarò:

«Se vuoi capirla, tanto meglio; se no, mettiti bene in testa che a me, come a me, importa un solennissimo cavolo di te, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele, e di quanti siete...»

Giulente tornò a casa sua impensierito ed inquieto. Appena entrato in camera di sua moglie, vide Lucrezia seduta in un angolo, con gli sguardi a terra e gli occhi rossi.

«Che hai?... Che è stato?...»

«Nulla. Non ho nulla.»

«Ma tu hai pianto, Lucrezia! Parla! Dimmi che cos'hai!...»

Ella negava, senza guardarlo in faccia, con la bocca ostinatamente cucita, e se non era Vanna che sopravveniva, Benedetto non sarebbe riuscito a saper niente.

«La padrona non vuol restare in città,» dichiarò la cameriera. «Tutti i suoi parenti se ne sono andati, anche la povera gente si mette al sicuro, e lei sola ha da restare al pericolo?»

«Che pericolo?... Lucrezia, è per questo? Ma se non c'è pericolo di niente? Che temi? Non sono qua io? A me non faranno nulla, in nessun caso! Se ci fosse un pericolo anche lontano, ti lascerei qui? Andremo via se le cose si guastano; ho bisogno di promettertelo?...»

Dopo che ebbe parlato un quarto d'ora, ella articolò:

«Voglio andarmene dai miei parenti.»

«Ma santo Dio, perché? Stamattina eri così tranquilla! Che cosa è mai successo?»

Era successo questo: che la moglie di Orazio, il cocchiere del principe, aveva fatto una visita all'antica padroncina per annunziarle, col fiato ai denti, che scappava anche lei al Belvedere. «Eccellenza, qui non si può più stare. Oggi non sa che cosa è successo? I soldati piemontesi rimasti all'infermeria se ne andavano a raggiungere la truppa. Al Fortino, i garibaldini li vogliono fare prigionieri. Allora, Gesù e Maria, il tenente ordina baionetta in canna! E io che passavo con le creature!... Dallo spavento sto ancora tremando! Ho fatto un fagotto di quei quattro cenci, e stasera me ne vado...» Allora, se la moglie del cocchiere andava via, lei, la sorella del principe era da meno della moglie del cocchiere?... Quest'idea non era sorta improvvisamente nella sua testa. Lottando per sposare Giulente, ella aveva giurato di non aver più che fare con gli Uzeda; tutte le ragioni da loro addotte per denigrare Benedetto e la famiglia di lui l'avevano invece sempre più confermata nel suo proposito. Ma, trionfando delle opposizioni, ella aveva cominciato a rimuginare, nelle lunghe ore d'ozio e d'inerzia, gli antichi argomenti della zia Ferdinanda, di Giacomo, del confessore; la persuasione d'essere discesa, sposando Benedetto, aveva cozzato un pezzo con l'ostinazione antica; in rotta col fratello, il cruccio di non poter più entrare nella casa dei Viceré, di sentirsi quasi posta al bando dai parenti, l'aveva occupata a poco a poco, mentre ella continuava a prendersela con loro. Al principio delle inquietudini pubbliche, la fuga generale dei nobili e dei ricchi aveva colmato la misura, ed ora ella dimenticava ciò che aveva detto contro Giacomo, la freddezza sorta tra loro due, il fermo proposito di non piegarsi: voleva andare al Belvedere, se perfino la moglie del cocchiere c'era andata...

Giulente stava ancora cercando di persuaderla, quando arrivò la posta; in mezzo ai giornali c'era finalmente una lettera del duca. Il duca diceva di non aver più ricevuto sue lettere, in quei momenti di agitazione, che gliele facevano aspettare con impazienza. Le notizie di Sicilia gli avevano messo la febbre addosso, tanto che egli voleva subito far le valige; ma disgraziatamente era impedito da molte e gravi faccende, «tutte d'interesse del collegio e del paese». Del resto, se voleva trovarsi fra i propri concittadini, ciò era per avvertirli di non lasciarsi trascinare da Garibaldi. «Lo dico dunque a te che puoi farlo capire alle teste riscaldate, dove più insistente si cammina a nome del principio utopista, si corre sicuro al naufragio. Altronde il governo è deciso opporsi in tutti modi a simile aberrato. Ed io credo che fa benissimo anzi che ha perduto troppo tempo. Garibaldi dev'essere arrestato a forza; non si può permettere che una nazione di ventisette milioni sia messa in orgasmo da un uomo che ha meriti distinti, ma pare aver giurato di farli dimenticare con una condotta che...» e qui due facciate contro Garibaldi. «Perché poi, voltiamo la pagina, neppure il governo è libero, e non bisogna lusingarsi col non intervento; c'è la Francia che fa un caso del diavolo, Napoleone ha detto... l'Austria aspetta un pretesto... tutta l'Europa invigila...» e un altro foglietto di gravi considerazioni sulla politica internazionale. «Quindi ti raccomando di far comprendere queste verità agli amici, ed anche, anzi soprattutto, agli avversari. Bisogna evitare un serio disastro al nostro paese, e tutti bisognano persuadersi del pericolo della situazione. Pregoti di parlare e occorrendo scrivere in questo senso; anzi sono sicuro che nella tua accortezza ti sarai già messo all'attuazione.»

Per la terza volta in tre ore, qualcuno dei suoi parenti lo spingeva così nella via da cui egli ripugnava. Il duca scriveva, escandescenze a parte, come don Blasco parlava; il monaco borbonico era, in fondo, d'accordo col deputato liberale; e sua moglie, chiusa in camera, gli teneva il broncio, complottava con la cameriera per indurlo ad abbandonare il suo posto.

La sera, ad una tempestosa riunione del Circolo Nazionale, dove il partito garibaldino e il governativo erano venuti quasi alle mani, egli s'alzò per parlare. Nell'imbarazzo da cui era vinto, l'argomento suggerito da don Blasco gli parve il più opportuno. Nessuno poteva mettere in dubbio, disse, la sua devozione al Generale, né la coscienza gli permetteva di dare ragione a quelli che volevano schierarsi contro il liberatore della Sicilia; ma bisognava piuttosto dimostrargli, col dovuto rispetto, il pericolo a cui era esposta la città. Delle due l'una: o agiva d'accordo col governo, e allora non aveva nessun interesse di restare a Catania; o il governo gli si opponeva, e allora bisognava chiedere al suo cuore di evitare gli orrori della guerra civile ad una città popolosa e fiorente. E questo era proprio il caso, poiché il governo aveva deciso di opporglisi... Quel discorso scandalizzò i suoi antichi amici; ma, prendendoli a parte uno dopo l'altro quando l'assemblea fu sciolta senza nulla deliberare, egli li esortò a piegarsi, esponendo la verità nuda e cruda, le notizie dategli dal duca. «Perché non viene egli stesso, allora?» domandavano. «Che cosa sta a fare a Torino, mentre qui si balla?» Ed egli lo giustificava, annunziando che si sarebbe messo in viaggio al più presto possibile, ma che intanto bisognava mandare una commissione al Generale per indurlo a sgomberare...

La sua propaganda ottenne l'effetto desiderato. Sul partito ostile a Garibaldi s'erano accumulati molti sospetti, poiché i borbonici, i paurosi senza nessuna fede erano con esso; ora che un liberale provato consigliava non la resistenza, ma la rispettosa esposizione del pericolo, questo consiglio si faceva strada. Benedetto non ebbe tuttavia il coraggio di andare in persona dal Generale ad esporgli la sua nuova opinione; lasciò che andassero gli altri. Costretto a condurre sua moglie al Belvedere, se ne tornò solo in città, aspettando gli avvenimenti, scrivendo e telegrafando al duca per invitarlo a venire. Passarono alcuni giorni senza che la situazione mutasse. Garibaldi, dall'alto della cupola di San Nicola, scrutava spesso la linea dell'orizzonte, col cannocchiale spianato; o, curvo sulle carte, studiava i suoi piani, o riceveva la gente e le commissioni che venivano a trovarlo. Finalmente s'imbarcò con tutti i volontari, non si sapeva dove diretto, se in Grecia o in Albania; ma dopo la partenza, un lievito di scontento restò nella città, una sorda agitazione che le persone influenti e la stessa Guardia nazionale non riuscivano a sedare. Il movimento era adesso contro i signori, contro i ricchi; Giulente aveva arringato i tumultuanti, ma nessuno lo ascoltava più; e il duca gli scriveva ancora che non poteva venire, che stava poco bene, che i grandi calori gli avevano rovinato lo stomaco...

Un pomeriggio che don Blasco aveva arrischiato, per la prima volta, una visita alla Sigaraia, dove, ridiventato un energumeno, augurava il reciproco sterminio dei garibaldini e dei piemontesi, arrivò Garino, giallo come un morto:

«La rivoluzione!... La rivoluzione!... Bruciano il Casino dei Nobili...»

Infatti la dimostrazione era diventata sommossa, le fiamme consumavano il circolo dell'aristocrazia. Il monaco, manco a dirlo, tornò a sbarrarsi al convento, e non lo lasciò più se non quando la truppa regolare rioccupò la città. Ma l'eccitazione degli animi prodotta dall'avvenimento d'Aspromonte, le paure, i pericoli non parevano cessati, e il principe non si moveva dal Belvedere, e Giulente tornava a pregare il duca di farsi vivo, di venire a metter la pace nel paese. Il duca non venne; rispose ancora che i medici gli avevano vietato di tornare in Sicilia. «Sono disperato, non posso trovarmi fra voi come dovrei e vorrei, non solamente per tutto ciò che mi dici di Catania, ma anche per ciò che è avvenuto a Firenze...»

Benedetto non sapeva a che cosa alludesse; lì per lì non pensò neppure che Raimondo era in Toscana. Seppe qualche giorno dopo di che si trattava, quando arrivarono, insieme, il conte e donna Isabella Fersa, e scesero all'albergo, sempre insieme, come fossero marito e moglie.

4.

L'impressione prodotta da quell'avvenimento fu tale che tutt'a un tratto Garibaldi e Rattazzi, Roma ed Aspromonte passarono in seconda linea. Il conte Uzeda con donna Isabella! All'albergo insieme, quasi fossero due innamorati fuggiti di casa per forzar la mano alle famiglie! E la contessa? E il barone? Com'era successo il pasticcio? E come sarebbe andato a finire?

Pasqualino Riso, reduce da Firenze, col padrone, fu assediato di domande. Pareva un signore, Pasqualino: abito tagliato all'ultima moda, biancheria finissima, anelli alle dita, scarpe verniciate, ché se non era la faccia sbarbata, ognuno lo avrebbe preso per un cavaliere. E nelle portinerie, nelle stalle, nei caffè dei cocchieri, nelle anticamere della parentela, diede tutte le spiegazioni desiderate. Che il contino non potesse durarla a lungo con la moglie, egli l'aveva previsto da un pezzo, e tutti avevano potuto accorgersene l'anno innanzi, quando il signor don Raimondo era scappato lontano da quella donna che gli amareggiava l'esistenza. Lo sapevan tutti che egli voleva bene a donna Isabella; dunque la contessa, se fosse stata un'altra, che cosa avrebbe dovuto fare? Usar prudenza, per amore dei figli! Invece, nossignori: pianti, strepiti, accuse, minacce, suo padre sempre tra i piedi: bisognava esser fatti di stucco per resistervi! Ma quantunque la pazienza fosse scappata una prima volta al povero contino, pure egli aveva ceduto — tant'era vero che il torto non stava dalla sua parte! — dimenticando il passato, rassegnandosi a tornar con lei perché i figli ne andavan di mezzo. Gli uomini, si sa, non possono star sempre cuciti alle gonne delle mogli, e il contino non aveva fatto più di ciò che fanno tutti i mariti. Le donne accorte, quelle che hanno due dita di cervello, capiscono queste cose, chiudono un occhio e fanno la volontà di Dio. Invece, quella santa cristiana della contessina, dopo d'aver promesso d'essere ragionevole, aveva cominciato da capo; ma come? Peggio di prima! Suo marito non poteva pigliare un po' d'aria che lei non gli facesse una scenata: se andava al Glubbo a trovar gli amici, a far quattro passi, subito i sospetti, i pianti ed i rimproveri. E gli strepiti per la passeggiata alle Cassine? il contino, che usciva a cavallo, ci trovava donna Isabella in carrozza e, naturale, si fermava a salutarla; giusto in quel punto: ciaff-ciaff, chi spuntava? La carrozza della padrona!... O buona donna, se questo le dispiaceva, perché non se ne andava al giardino dei Popoli, che non è meno bello?... E poi, con le bambine? Con quel diavoletto della maggiore che capiva tante cose come una donna fatta? Le bambine avrebbe dovuto lasciarle alla Missa inglese che il contino aveva preso appunto per questo!... La sera, poi, a casa, un inferno! E il povero contino: santa pazienza, aiutami tu!... La padrona, quando smetteva di andargli dietro, cominciava un'altra musica: chiusa in camera quindici giorni di fila, senza metter fuori la punta del naso, non ascoltando né ragioni né preghiere, senza riguardi per la bambina piccola che aveva bisogno di pigliar aria e non voleva andar fuori se la sua mamma restava in casa! E il conte: santa pazienza!... Ma questo sarebbe stato niente: finché era sua moglie quella che lo metteva con le spalle al muro, il padrone sopportava tutto in santa pace. Un bel giorno, che pensa di fare la contessa? Pensa di chiamare suo padre, di metterselo in casa e di scatenare una guerra tra suocero e genero!... Bisognava che fosse ammattita! Lei, fino a un certo punto, poteva mescolarsi nelle faccende del contino; ma suo padre? Chi era suo padre? Un estraneo, villano rivestito per giunta, e rompiscatole anche! Diciamo le cose come sono: prima di tutto gli mancava l'educazione: uno che aveva imparato alle figlie a dargli del tu! Istigato poi dalla contessa, era diventato una bestia, salvo sempre il santo battesimo, e il conte doveva sorbirsi le sue impertinenze, in casa propria! Un giorno, solo per aver detto che certi affari gli impedivano d'accompagnare la moglie al teatro, il barone villano ardì perfino minacciarlo col bastone! Santo Dio d'amore, era un po' troppo! il contino non gli disse niente, altro che una parola: «Facchino!...» quella che ci voleva, e preso il cappello se n'andò, per sempre, stavolta. Chi poteva più consigliargli di tornare a perdonare? Le figlie, pazienza, sarebbero andate in collegio, o, se la padrona voleva tenerle con sé, il padrone gliele avrebbe anche lasciate... quantunque... quantunque... Perché il più curioso, signori miei, era questo: che la contessa, mentre faceva la gelosa, si divertiva anche lei in società! Non che fosse successo niente; in coscienza, questo non si poteva dire, né il padrone sarebbe restato con le mani a cintola, se mai! ma bisognava vedere che smania di andare ai balli, al teatro; che sfarzo di abiti quando riceveva tanti uomini, tanti scapoli, un certo conte Rossi, fra gli altri, il padrone di casa...

E la storia di Pasqualino passava di bocca in bocca, era ripetuta dai cocchieri ai famigli, dai guatteri ai cuochi, dai portinai agli affittacamere, ciascuno dei quali ci ricamava su qualcosa del proprio, finché, arrivando al gran pubblico, preparava l'opinione, guadagnava simpatie alla causa del conte. Molti però scrollavano il capo, non si lasciavano prendere; e a poco a poco, senza che si sapesse donde, da certe informazioni venute da Firenze e da Milazzo, da certe parole sfuggite allo stesso Pasqualino quando si trovava a quattr'occhi con gl'intimi, dopo aver bevuto, la verità cominciava a venire a galla.

Raimondo aveva giurato di romperla con sua moglie nel punto stesso che lo zio duca lo costringeva a riprenderla. Come tutte le volte che cercavano dissuaderlo da un proposito, egli s'era maggiormente incaponito. Lontano da Matilde e da donna Isabella, aveva goduto l'illusione di quella libertà che gli stava a cuore sopra ogni cosa; costretto a rinunziarvi, s'era promesso di riguadagnarla a qualunque costo, e la sua facile sottomissione ai consigli del duca non aveva avuto altro scopo che dimostrare, con la propria arrendevolezza, il torto della moglie, unico punto in cui la versione di Pasqualino non mentisse del tutto. L'ideale del suo padrone era di liberarsi della moglie e dell'amica ad un tempo; ma il conto era fatto senza l'oste, cioè senza donna Isabella. Fin dai primordi dell'amicizia con Raimondo, fin da quando, in casa del marito, ella resisteva alla corte del giovane, dimostrandogli simpatia ma opponendogli i doveri del proprio stato, gli aveva detto e ripetuto, con un rammarico che doveva dargli la prova dei suoi sentimenti per lui: «Se ci fossimo conosciuti prima, liberi entrambi! Come saremmo stati felici!...» E quelle parole alle quali egli non credeva lo gelavano, e più lo avrebbero gelato se le avesse credute espressione di un sentimento sincero: come il gran torto di sua moglie era il bene che gli voleva, la pretesa di averlo tutto per sé, di far tutt'uno con lui, torto egualmente grave sarebbe stata una simile pretesa da parte dell'amica. Tuttavia, impegnato a vincere le sue resistenze, anch'egli le aveva ripetuto: «Come saremmo stati felici!» e giurato che l'unico suo sogno era di vivere con lei, per lei. Dopo, aveva tentato di dare addietro; ma donna Isabella, perdutasi per lui, senza famiglia, senza protezione, non intendeva che le sfuggisse. Per ricondurre a sé quel tiepido amante, del quale aveva imparato a conoscere a proprie spese la conformazione, le era bastato addebitare la freddezza di lui all'opposizione dei parenti, alla volontà della moglie. Ognuna di queste allusioni era un colpo di sprone nei fianchi del giovane; impegnato a dimostrarle che era libero di fare ciò che voleva, egli faceva ciò che non voleva... E il martirio della contessa Matilde era ricominciato, più atroce di prima, accresciuto dal nuovo disinganno, dall'impossibilità di ricorrere al padre, non già perché ella credesse all'abbandono di cui l'aveva minacciata, ma per una specie d'impegno contratto dinanzi a se stessa di non confessare l'errore, per l'antica paura d'un urto tra quelle due nature violente... Suo padre, quand'ella si sentì più sola e perduta, la raggiunse. Il suo cieco amore per la figlia e il non meno cieco odio pel genero avevano reso vano il suo proponimento d'indifferenza; da lontano egli li seguiva di passo in passo, aspettando l'ora d'intervenire: e quando la misura fu colma apparve. E Pasqualino l'aveva proprio udito, il colloquio fra suocero e genero, la spiegazione definitiva avvenuta, dopo pochi giorni di calma apparente, giù nelle scuderie del palazzo Rossi, per impedire che Matilde, che le bambine udissero. Alle ingiunzioni sordamente minacciose del barone che gli diceva: «Non vuoi finirla? Non vuoi?» Raimondo aveva risposto col tono consueto di sprezzante superiorità: «Di che intendete parlare? Occupatevi di ciò che vi riguarda!...» Sì, di ciò che lo riguardava, rispondeva il barone, della pace di sua figlia che gli stava a cuore sopra ogni cosa, che voleva garantita a qualunque costo, a costo di portarsela via e di romperla per sempre... «E chi vi trattiene? Andatevene pure!» Era appiattato nella stalla, Pasqualino, lì accosto, e se udiva i padroni non poteva vederli; ma a quella risposta del contino, al breve silenzio da cui era stata seguita, aveva sentito un certo senso di freddo in pelle in pelle. «Sì, ce ne andremo... ma prima...» E allora Pasqualino accorse. Col sangue agli occhi, il pugno levato, il barone aveva già agguantato il genero; ma, senza il cocchiere gettatosi in mezzo, era bastato a Raimondo dire una sola parola: «Facchino!...» perché tutt'a un tratto il suocero lo lasciasse. Sicuro, l'aveva detta il conte quella parola, Pasqualino non lavorava di fantasia, riferendola: e bisognava aver veduto l'effetto prodotto sul barone! Quel pezzo d'uomo che con un soffio avrebbe buttato a terra il genero esile e sfiaccato, che lo avrebbe spezzato come una canna tra le mani grosse e villose, pareva diventato un ragazzo dinanzi al maestro: il contino Uzeda, il grazioso e frollo discendente dei Viceré fulminava il barone contadino con quella parola, con quell'insulto che diceva la distanza da cui erano separati il signore vizioso ma bene educato e il manesco villano ringentilito. Facchino, sì, approvava Pasqualino: tra persone d'una certa nascita le quistioni non vanno definite a pugni: e con quella parola appunto il conte rammentava al suocero l'onore fattogli sposando sua figlia; e se il barone restava immobile come una statua era perché subitamente riconosceva d'esser nel torto. La parentela con gli Uzeda non gli era parsa una fortuna? L'orgoglio d'essere entrato nella famiglia dei Viceré non l'aveva accecato al punto di non scorgere per tanti anni il sacrifizio della figlia? Un confuso e quasi istintivo sentimento della propria inferiorità dinanzi al genero non lo aveva impacciato ogni volta che, aperti gli occhi, s'era proposto di rinfacciargli la sua condotta, i suoi vizi, la sua durezza, il sangue avvelenato all'innocente bambina? Facchino, sì, egli meritava l'insulto se, lasciandosi trasportare dall'ira, aveva voluto definire la lite come tra cocchieri; e aveva riconosciuto di meritarlo, ad alta voce, dinanzi al genero, prima di voltargli le spalle. Perché infatti la scena non era finita in quel punto, aveva anzi avuto una codetta che Pasqualino narrava solo a quattr'occhi. «Io facchino... sì...» aveva balbettato il barone; «ma tu?...» E ad un tratto gli aveva buttato in faccia una parola che il cocchiere ripeteva, piano, all'orecchio delle persone... Raimondo lasciò allora immediatamente la sua casa, corse dall'amica, la costrinse a far le valige e la condusse seco in Sicilia.

Dovette costringerla, perché infatti donna Isabella non era ben sicura dell'opportunità di quel viaggio. Ella vedeva che Raimondo voleva condurla al suo paese per rompere clamorosamente e definitivamente coi Palmi; ma comprendeva pure che soltanto l'eccitazione dei contrasti sofferti e l'impeto dell'odio provocato dalla tempestosa spiegazione determinavano l'amico suo a quel passo, e non l'amore di lei; e sentiva anche che l'ostentazione della loro amicizia, laggiù, in una piccola città, le avrebbe fatto torto, che la morale più o meno sincera della provincia si sarebbe ribellata. Pure, essendo ormai tardi, non riuscendo con le sue osservazioni se non a eccitare maggiormente Raimondo, non restandole altro per trarlo a sé che fare assegnamento su queste eccitazioni, ella era venuta. Gli Uzeda, a ogni modo, sarebbero stati per lei.

Appena arrivata, infatti, donna Ferdinanda, che nonostante la mal sedata inquietudine pubblica era in città per una sua causa contro certi debitori morosi, venne a trovarli all'albergo, s'informò dell'accaduto, approvò la determinazione di Raimondo con una sola parola, ma molto espressiva: «Finalmente!...» C'erano in città anche Benedetto e Lucrezia che s'era poi fatto coraggio: Raimondo andò a trovarli il domani del suo arrivo. Lucrezia gli restituì la visita nella stessa serata, non curando l'opposizione del marito. Questi giudicava molto severamente la condotta del cognato e, se avesse osato, avrebbe impedito alla moglie di far quella visita; ma Lucrezia dichiarò che non vedeva nulla di male nel recarsi a trovare il proprio fratello: era forse obbligata a sapere che «accompagnava» una signora? E andarono all'albergo, dove Raimondo li ricevette solo; ma dopo un poco che discorrevano del viaggio e del tempo, egli s'accostò a picchiare all'uscio della camera accanto, e comparve donna Isabella, la quale strinse la mano a Giulente e baciò Lucrezia. Né presentazioni, né spiegazioni, né nulla. Benedetto, sulle prime, era imbarazzatissimo, non sapeva come trattare, con qual nome chiamare la Fersa; ma ella stessa diede il tono alla conversazione, parlando del più e del meno con molta disinvoltura, come tra vecchi amici, anzi come tra veri parenti. Pel momento erano all'albergo; ma non potevano naturalmente restarci. Raimondo aveva intenzione di prendere in affitto un quartiere in città; ella giudicava preferibile una villetta, anche per evitare le indiscrezioni della gente.

Giulente stava per dire che facevano bene, quando Lucrezia esclamò:

«Che c'entra la gente? Se vi nascondete, dirà che avete paura! Parliamo chiaro: vi saranno molti che faranno gli schifiltosi.» Donna Isabella chinò gli occhi. «Se cominciate voialtri a dar loro ragione, è finita!»

Raimondo non disse nulla, aspettando di veder Giacomo che era al Belvedere ed al quale nella mattina aveva spedito Pasqualino per avvertirlo del suo arrivo. Ma il cocchiere tornò con un'aria confusa e mortificata e non sapeva spiccicar parola «È venuto?» gli aveva detto il principe; «e che vuole?...» come ad uno che si presenti per chiedere quattrini. «Niente, Eccellenza... manda ad avvertire l'Eccellenza Vostra... desidera sapere quando tornerà in città Vostra Eccellenza...» Con lo stesso tono di voce il principe aveva risposto: «Comincio adesso la villeggiatura; tornerò a novembre...» e gli aveva voltato le spalle. Raimondo, alla narrazione della scena, si morse le labbra; donna Isabella esclamò:

«Che abbiamo fatto!... Tuo fratello ci disapprova!» Ed incolpando solo se stessa: «Ti ho messo in urto con la tua famiglia!...»

«La vedremo,» rispose brevemente Raimondo.

Le previsioni di lei si avveravano. I più, senza accogliere né rifiutare le scuse e le accuse relative al secondo e decisivo abbandono della famiglia, biasimavano Raimondo per il viaggio fatto insieme con l'amica, il soggiorno nell'albergo, l'unione apertamente confessata, quasi sfidando l'opinione pubblica. Egli poteva aver torto o ragione di lagnarsi della moglie; la passione per donna Isabella poteva scusarsi; però i moralisti, i padri di famiglia, le signore più o meno timorate volevan salve le apparenze; e quantunque ci fosse poca gente in città, pure quegli umori si manifestavano in certi freddi saluti rivolti a Raimondo, in certi ambigui discorsi di servitori. In campagna, nelle ville dove la notizia dello scandalo giungeva, tutti discutevano della condotta da tenere verso la coppia al ritorno in città. Molti dichiaravano che avrebbero troncato ogni rapporto; altri, più intimi, perciò più imbarazzati, facevano dipendere la loro risoluzione dal modo col quale si sarebbe comportata la famiglia. Ora l'improvvisa severità espressa dal principe a Pasqualino significava chiaro che egli ritirava loro a un tratto il suo appoggio. Dinanzi all'ostacolo Raimondo s'impennava, prendeva l'impegno di vincere; ma come donna Ferdinanda gli suggerì di andare personalmente da Giacomo, egli entrò in una sorda agitazione: era disposto a far tutto fuorché a pregare quel birbante che, dopo avergli dato mano, gli si schierava contro chi sa per qual fine, fuorché ad umiliarsi dinanzi a quel fratello dal quale per tanti anni, ai tempi della madre, s'era sentito odiato. Poi il pensiero delle dimostrazioni ostili che si preparavano a lui ed all'amica sua lo arrovellava, gli metteva un'altra smania nel sangue. E un giorno prese una carrozza e salì al Belvedere. Giacomo, vedendolo arrivare, gli disse, non nel dialetto familiare, ma in lingua:

«Buon giorno, come stai?» e senza stendergli la mano.

«Bene, e tu?» rispose Raimondo.

«Benissimo,» e il principe si lisciò la barba.

La principessa che si teneva accanto Teresina intenta a ricamare, rispose a monosillabi alle domande del cognato, sentendo pesarsi addosso lo sguardo del marito.

«Resterete ancora un pezzo?» domandò Raimondo, rosso come un papavero.

«Sì, fino a novembre. Te lo mandai a dire, credo.»

E lasciò di nuovo cadere il discorso. La bambina volgeva lo sguardo a quello zio di cui non rammentava bene le fattezze, che non l'accarezzava, che suo padre trattava come un estraneo.

«Volevo dirti una cosa,» riprese Raimondo esitante, quasi pauroso, e tanto più crucciato contro se stesso quanto più cresceva il suo impaccio. «Volevo domandarti se c'è qualche villetta da affittare... una casetta che faccia per me... non importa se piccola, purché pulita...»

Il principe parve cercare nella memoria.

«No,» rispose. «Tutto è preso, fin da quando passò Garibaldi.»

Raimondo, che si torceva i baffi nervosamente, insisté:

«Cercherò, ad ogni modo.»

E allora il fratello, con voce fredda, senza guardarlo:

«Cerca, se vuoi. È inutile, non ne troverai.»

Raimondo andò via pallido, muto e fremente. S'era umiliato per nulla! Colui gli dichiarava guerra! Non lo voleva vicino!...

Il principe, infatti, aveva spiattellato a tutta la parentela ed a tutte le conoscenze che non trovava parole per disapprovare la condotta di Raimondo. «È uno scandalo inaudito! Come non si vergogna? Ha il viso di tornarsene nel suo paese? Ma quando si vuol fare una di queste pazzie, bisogna nascondersi dove più lontano è possibile, dove non si è conosciuti, dove si può dare a intendere ciò che si vuole!» E alla zia, donna Ferdinanda, che salì un giorno a posta al Belvedere per intromettersi, per indurlo a far come lei:

«La nostra situazione è diversa,» rispose. «Vostra Eccellenza è padrona di pensare ciò che crede, di fare ciò che le piace: può anche prenderseli in casa, non avendo da render conto a nessuno. Io ho mia moglie e mia figlia alle quali non posso metter sotto gli occhi un simile scandalo.»

Diceva queste cose dinanzi alla principessa e alla bambina, e le insistenze della zitellona lo trovavano incrollabile nella sua indignazione. Anche Chiara disapprovava il fratello poiché Federico lo giudicava immorale; non si parla della cugina Graziella, la quale faceva da portavoce al principe. Tutte le parole di costui, per mezzo della zitellona stomacata, dei lavapiatti dolenti, del servidorame pettegolo, arrivavano all'orecchio di Raimondo, il quale fremeva, entrava in collere mute; ma allora donna Isabella con un sorriso triste:

«Vedi che non puoi durarla!» gli diceva. «Il meglio è che tu mi lasci! Non voglio costarti la pace della famiglia!»

Così egli che sentiva aggravarsi le conseguenze del suo passo falso, che in cuor suo malediceva l'ora e il punto in cui aveva posto mente a quella donna della quale era già stufo, per la quale aveva sofferto l'affronto di rinchinarsi al fratello, si stringeva più a lei, per puntiglio le si dava mani e piedi legati. Non la volevano ricevere? Egli le prometteva che avrebbe visto tutti ai suoi piedi. Parlavano male di lei? Le assicurava che sarebbe stata sua moglie.

Per aver altri parenti dalla sua, andò a cercare dello zio Eugenio. Il povero cavaliere era molto giù, il commercio dei vecchi cocci non rendeva più niente; e Vittorio Emanuele poteva forse dare una cattedra al Gentiluomo di Camera di Ferdinando ii? Così egli aveva lasciato il quartierino dove stava da tanto tempo, s'era ridotto in due camerette più piccole, più fuori mano. Sempre in busca di quattrini, aveva fondato adesso l'Accademica dei quattro poeti, di cui era presidente, segretario, economo e tutto, e nominava a destra e a manca soci promotori, fondatori, protettori, effettivi, benemeriti, corrispondenti, onorari: ciascuno di questi riceveva un diploma, una medaglia di bronzo, lo statuto e una noticina di venti lire di spese; ma sovente la posta, invece del vaglia, gli portava indietro l'involto rifiutato. I parenti lo tenevano un poco a distanza, temendo richieste di quattrini; ma, vedendosi cercato da Raimondo, egli fiutò a un tratto il buon vento. Andò subito a trovare donna Isabella, si dichiarò per lei contro il principe, s'invitò tutti i giorni a colazione e a desinare. Aveva certi abiti che gli piangevano addosso e certe scarpe che, viceversa, gli ridevano ai piedi: pochi giorni dopo mise pelle nuova. Con l'abito fiammante, le camicie di bucato e le mani inguantate accompagnò donna Isabella tutte le volte che ella andò fuori, le fece da cavalier servente, perorò in pubblico e in privato la sua causa dandole della «nipote».

Anche Lucrezia, a dispetto del marito, si faceva vedere per le strade con lei, la sosteneva, si scagliava con violenza contro il fratello maggiore, spiegandone l'opposizione con un motivo semplicissimo. «Per la morale? Per farsi pagare il suo appoggio! Scommettiamo? Io non ho dovuto pagargli il suo consenso al mio matrimonio?»

«Lucrezia!...» avvertiva Benedetto.

«Che c'è? Non è forse vero? Non ho dovuto accettare la transazione strozzata per sposarti? È storia che tutti sanno! Adesso viene la tua volta,» e si volgeva a Raimondo. «Vedrete se sbaglio! Aveva ragione lo zio don Blasco, quando diceva... Oh, a proposito, perché non vai a fargli una visita? E a Lodovico? Quanti più saranno dalla tua, tanto meno varranno gli scrupoli di Giacomo. Andiamo insieme, v'accompagno io...»

E Raimondo rifece la via del Bosco, andò con la sorella e col cognato a Nicolosi, dove i Benedettini villeggiavano, a mendicar l'appoggio del fratello e dello zio monaco. Don Blasco era a giorno di tutto e, dimenticato a un tratto Garibaldi, non faceva altro, lassù, che gridare come indemoniato contro Raimondo che aveva fatto l'ultimo e più grande imbroglio; poi contro Giacomo, non meno imbroglione del fratello, verso il quale, dopo avergli tenuto il sacco, faceva adesso il puritano: perché? Per strozzarlo!... All'arrivo dei nipoti, dopo il refettorio, egli dormiva come un ghiro, quando fra' Carmelo lo destò.

«Che c'è?» vociò. «Perché mi rompi il capo?»

«Vostra Paternità mi scusi; ci sono i parenti di Vostra Paternità.»

Egli venne fuori, e appena vide Raimondo aprì bene gli occhi ancora imbambolati. Come Lucrezia e Benedetto, Raimondo gli baciò la mano. Egli lasciò fare, borbottando:

«Che c'è? A quest'ora? Con questo sole?»

«Siamo venuti a fare una visita a Vostra Eccellenza,» spiegò Lucrezia per tutti. «La giornata non è tanto calda. Vostra Eccellenza sta bene? Sono due anni dacché non venivo più qui... E Lodovico?»

Fra' Carmelo, costernato, venne a dire che Sua Paternità il Priore era in conferenza con l'Abate e che non poteva scendere giù pel momento. Raimondo impallidì: anche quest'altro gli dichiarava guerra; si mettevano tutti contro di lui!... Per questa ragione, quando Lucrezia, accordatasi con lo zio, propose di fare un giro pel giardino, egli disse brevemente:

«No, ho fretta di tornare. Andiamo via.»

Il domani mattina, all'albergo, egli non s'era ancora levato che il cameriere venne ad annunziargli:

«C'è lo zio di Vostra Eccellenza.»

E don Blasco apparve. Per la prima volta dacché viveva, Raimondo vedeva lo zio venirgli incontro, l'udiva domandargli, con voce quasi garbata: «Come stai...?» Non pareva vero al monaco, sentendo riprepararsi una gran lite, di poter rificcare il naso nelle faccende altrui.

C'era adesso da spingere l'uno contro l'altro i due fratelli, da dar mano a disfare un'altra opera della principessa defunta, il matrimonio di Raimondo: egli si sentiva invitato al suo giuoco.

Donna Isabella si mostrò in veste da camera, gli baciò la mano, dandogli dell'«Eccellenza», quasi fosse già suo zio; e il discorso si avviò sul da fare. Udendola ripetere che voleva nascondersi in campagna, il monaco saltò su:

«In campagna? Perché in campagna? Per la villeggiatura, va bene, fino a novembre; ma la casa in città bisogna prepararla! Avete paura della gente? Allora perché siete venuti? Questa è logica, mi pare!»

Il consiglio era di chieder subito i conti a Giacomo, di togliergli la procura e di iniziare la divisione: a quelle minacce il principe sarebbe subito venuto a più miti consigli. Ma proprio il domani della visita del monaco, scese il signor Marco dal Belvedere per dire al conte che il signor principe voleva restituirgli la procura e dargli i conti, una volta che era tornato in patria. Raimondo mandò via l'amministratore con un violento: «Ho capito; va bene!...» e un malumore terribile lo tenne a bocca chiusa per tutto un giorno. Donna Isabella, costernata, gli ripeteva: «Non vedi? Io ti porto disgrazia! Lasciami andare! Sarà di me quel che vorrà Dio...» E allora egli di rimando: «No; ho da vincer io!...»

Giusto Lucrezia, che oramai era tutta una cosa con la cognata della mano manca, fece una pensata:

«Giacché non potete stare sempre all'albergo, e ora è il tempo della villeggiatura, perché non ve ne andate alla Pietra dell'Ovo, da Ferdinando? Ha tanto posto; vi darà due camere. Starete con un parente e la cosa farà buon effetto.»

Tutti approvarono la proposta. Né Raimondo era ancora andato a trovar quel fratello, né Ferdinando sapeva che Raimondo era tornato: dalla tanta indifferenza, dalla tanta diversità di educazione, di gusti, di vita, erano diventati peggio che estranei, ciascuno ignorava l'esistenza dell'altro. Lucrezia, incaricatasi delle trattative, andò alle Ghiande. Non vedendo il Babbeo da molti mesi, rimase. Egli era dimagrato come dopo una lunga malattia, aveva gli occhi infossati, la barba incolta, la voce fioca, una malinconia più nera dell'abituale.

«Venga pure... è il padrone...» rispose alla sorella, senza esprimere nessuna meraviglia pel ritorno di Raimondo, per la richiesta dell'ospitalità.

«Ma, sai, ti debbo dire una cosa...» aggiunse Lucrezia. «Non è solo...»

«È con sua moglie?»

«Con sua moglie, sì... come se fosse sua moglie...»

E gli spiegò che aveva lasciato la Palmi e che viveva con la Fersa. Ferdinando stette ad ascoltarla guardando a destra ed a sinistra, quasi avesse smarrito qualcosa, poi ripeté:

«Va bene, va bene; digli che venga quando gli piace.»

Arrivati che furono alle Ghiande, Raimondo e donna Isabella vollero visitare la casa, il giardino e il podere, e profusero elogi per l'ottima coltivazione della vigna e pel magnifico aspetto del frutteto, approvarono la trasformazione delle colture, ammirarono ogni cosa. Ma le lodi non facevano più sul povero Babbeo l'effetto d'un tempo. Una trasformazione erasi compita nel suo spirito, le cose che prima lo allettavano adesso lo lasciavano indifferente, la vita di Robinson aveva perduto per lui ogni attrattiva, senza di che non avrebbe consentito a prendere altra gente in casa. Il fattore era adesso il vero padrone delle Ghiande, vi faceva quel che voleva, le coltivava a modo suo, ne intascava le rendite mostrando al cavaliere le bucce. Se talvolta, preso da uno scrupolo, gli chiedeva qualche ordine, Ferdinando rispondeva: «Lasciatemi stare! Non mi parlate di nulla! Per me è finita... Avrò sei mesi di vita, forse... Potete prepararmi il cataletto...»

La cosa era andata a questo modo: che il libraio, dal quale aveva comperato le opere d'agricoltura, di meccanica e di storia naturale, trovandosi una quantità di opuscoli di medicina d'ignoti autori, tesi di laurea di dottori asini, vecchi ricettari farmaceutici, fascicoli spaiati di enciclopedie anonime, tutta cartaccia che non si poteva vendere altrimenti che a peso, gliene propose un giorno l'acquisto dandogli a intendere che c'era dentro il fior fiore della dottrina. Egli la pagò salata, e si mise a leggere tutto. Allora la sua mente cominciò a turbarsi. La descrizione dei morbi, l'enumerazione dei sintomi, l'incertezza delle cure lo atterrirono: chiuso nella sua camera, col libro in una mano, egli si teneva l'altra sul cuore per verificarne il numero dei battiti, o si palpava dappertutto con lo spavento di scoprire i tumori, gli incordamenti, le infiammazioni di cui parlavano i medici. A poco a poco, per un colpo di tosse, per una digestione difficile, per un dolor di capo, per un leggiero prurito, per un formicolìo in pelle in pelle credette d'avere tutte le malattie; e quell'idea, ficcatasi nel suo cervello di solitario misantropo, aveva compìto una devastazione. La morte, per lui, era quistione di tempo; e giusto la paura di dover morire solo, il bisogno di vedersi dinanzi un viso amico lo aveva persuaso a prendere con sé il fratello.

Quando costui vide che non mangiava quasi nulla, che stava chiuso in camera, che certi giorni neppur si levava, cominciò a chiedergli che aveva, se si sentiva male; e sulle prime, quasi arrestato da una specie di pudore, egli si tenne sulle negative; messo alle strette, confessò. Aveva un catarro intestinale cronico, un'espansione della milza, una bronchite lenta; l'erpete gli serpeggiava nel sangue, il sistema glandolare gli s'era ingorgato. Come Raimondo rideva di quell'enumerazione, egli soggiunse, con voce triste e quasi con le lacrime agli occhi: «C'è poco da ridere, sai! Credi che siano fantasie? So io quel che soffro!...»

«Allora perché non chiami un medico?»

«Un medico? Che possono fare i medici? Al punto in cui sono ridotto?»

E non ci fu verso di persuaderlo. Allora entrò in scena donna Isabella. Invece di contrariare il maniaco, prese a secondarlo: riconobbe l'esistenza e la gravità delle sue malattie, l'inutilità delle prescrizioni mediche; però, se i dottori ci perdevano il latino, non poteva provare almeno qualcuno di quei rimedi empirici che certe volte fanno miracoli'

«Quand'ero ragazza anch'io ebbi un catarro intestinale lungo e ostinato più del vostro. Sapete come andò via? Con l'insalata di lattughe!»

E gliene fece preparare un piatto, come contorno d'una gran fetta d'arrosto sanguinolento. Ferdinando si mise a mangiare come Cristo all'ultima cena: non aveva fiducia nel risultato, era sicuro che quella roba avrebbe affrettato la sua fine.

«Adesso bisogna farci sopra una bella passeggiata!» e offertogli il braccio, come ad un povero convalescente, lo condusse a spasso pel giardino.

Non parve vero al malato, il domani, di svegliarsi vivo e con un certo appetito. L'insalata e l'arrosto, in poco tempo, fecero miracoli; ma restava da guarire il prurito al quale egli dava il nome di erpete.

«Per questo il rimedio è ancora più semplice: fate un bel bagno d'acqua dolce.»

Da mesi e mesi, egli non si lavava altro che la punta del naso e delle dita, due o tre volte la settimana, per paura di prendere una polmonite; così l'erpete andò via. Il latte, le uova, il moto, la nettezza lo ritornarono in vita, e dalla gratitudine verso donna Isabella gli spuntavano i lucciconi:

«Che donna! Che testa! Che intelligenza!»

Aveva ben poche amicizie, ma tutte le volte che si trovava con qualcuno cominciava a parlar di lei con tanta ammirazione, come fosse la donna più saggia e virtuosa, un angelo sceso dal cielo. Presa l'abitudine di muoversi, se ne andava dalla sorella Lucrezia, cercava la gente apposta per parlare di lei.

«Quanto bene vuole a Raimondo! Che cura ha della casa! Quel che ha fatto per me non si può ridire! Se non era lei, a quest'ora sarei morto e sepolto!»

Un giorno arrivò da Lucrezia mentre moglie e marito discutevano vivamente: al suo apparire essi tacquero.

«Di che parlavate?»

«Si parlava della situazione di Raimondo,» rispose sua sorella, decidendosi di metterlo a parte del secreto. «Non può durare a lungo così. Bisogna pensare a legittimarla, sciogliendo i matrimoni.»

Ella annunziava quel partito con la stessa semplicità con cui Raimondo e donna Ferdinanda lo avevano partecipato a lei. Chiedere ed ottenere il doppio annullamento di matrimonio era, per gli Uzeda, una cosa semplicissima: chi poteva negare ai Viceré ciò che essi volevano? La loro volontà non doveva esser legge per tutti? Non possedevano essi tutti i mezzi materiali e morali per vincere gli ostacoli e le resistenze? Avevano clientele dappertutto, tra i borbonici e i liberali, in sacrestia e in tribunale: i nobili erano con loro per solidarietà, gli ignobili per rispetto: ognuno doveva essere superbo e lieto di render loro servizio. Bisognava, per riuscire in questa impresa, esser bene indirizzati; perciò volevano l'opera di Benedetto. Come la prima volta che gliene avevano parlato, Benedetto titubava, arrestato dagli scrupoli, con la coscienza del male che gli facevano commettere, delle difficoltà enormi dell'impresa, del dispiacere che avrebbe fatto allo zio duca, tanto amico di Palmi; ma sua moglie insisteva a dimostrargli che gli scrupoli erano sciocchi, che anzi l'opera sarebbe stata meritoria.

«Se domani nasce un figlio? Sarà condannato a restare bastardo? Raimondo non riprende più sua moglie, certo com'è certa la morte. Allora? Meglio mettersi in regola con la legge e la società! Non dico bene?»

E Ferdinando, rivolto al cognato:

«Ne dubiti forse?... Ma come ragioni?... Dov'hai la testa?»

Benedetto tentava dimostrare che non ragionavano loro invece; che i figli già nati c'erano e che bisognava pensare a questi prima che ai nascituri, ma Lucrezia e Ferdinando gli davano sulla voce, tutt'e due insieme:

«C'è la famiglia della madre che pensa alle figlie! Nostro fratello le rinnegherà per questo?... E gl'interessi saranno regolati come vogliono i Palmi... Se i matrimoni sono sciolti di fatto, perché non scioglierli di diritto? Chi ci guadagna? La gente che ci fa sopra i suoi commenti!»

E questo era il pungolo di Raimondo. Quanto maggiori difficoltà aveva incontrato nella via per la quale s'era messo, tanto più s'era incaponito a persistervi: l'opposizione del fratello, le mormorazioni degli estranei, il biasimo quasi universale lo spingevano a vincer la partita in un modo imprevisto da tutti e da lui stesso. Egli non pensava più che la sua passione era stata quella della libertà, che donna Isabella, come moglie, gli sarebbe pesata più della moglie, e che gli pesava già come amante; impuntato, accecato dall'opposizione, dalla disapprovazione, dal biasimo, voleva trionfare degli avversari, sbaragliarli con un colpo di cui si sarebbe parlato un pezzo... Dicevano che l'impresa era disperata, che il doppio scioglimento non si sarebbe mai ottenuto, che donna Isabella era condannata a restare in una falsa posizione, bandita dalla società, dalla stessa casa del principe? Egli metteva i piedi al muro, deciso a spuntarla a qualunque costo, contro tutto e tutti. E Lucrezia, Ferdinando, donna Ferdinanda, don Blasco lo aiutavano ciascuno per conto e a modo proprio, congiuravano per vincere le ultime resistenze di Benedetto, che all'idea di contentare sua moglie, di cattivarsi la fiducia, la stima e la gratitudine dei parenti sentiva ammorzarsi a poco a poco i rimorsi.

Al principio dell'inverno, quando il principe tornò dalla villeggiatura, non si parlò d'altro che della rottura tra i due fratelli. Giacomo non solamente non salutò Raimondo, incontrandolo per via, ma non tollerò neppure che toccassero in sua presenza il tasto dei pasticci di lui. Per tanto tempo, mentre il fratello minore era stato in Toscana, o era andato e tornato di qua e di là, col capo all'amica, l'eredità era rimasta indivisa, e il principe l'aveva amministrata anche nell'interesse e per procura del coerede; adesso, per troncare ogni rapporto con lui, gli mandava il signor Marco a notificargli che rinunziava la procura e voleva subito dargli i conti e venire alla divisione. Quella trombetta della cugina Graziella annunziava a tutti queste cose, e dovunque si trovasse, tra parenti od amici o semplici conoscenze, approvava il cugino Giacomo, esprimeva il grande dispiacere che «a noi della famiglia» cagionava l'ostinazione di Raimondo. Come mai poteva egli del resto sperare di ottener l'intento? Dicevano che donna Isabella chiedesse lo scioglimento del matrimonio perché non era stato consumato! Ma a chi volevano darla a bere? Perché non c'erano figli? Non sapevano tutti che Fersa, giovanotto, avea corso la cavallina?... O forse speravano di poter sostenere, come dicevano certi altri, che donna Isabella era stata forzata a sposar Fersa, senza volerlo? Questa doveva essere fatica particolare del Giulente! «Guardate un po' che immoralità! sostenere una causa condannata da tutti, che fa tanto dispiacere alla famiglia! È venuto a ficcarsi tra noi per metter guerre e liti, questo avvocato delle cause perse!...» Ma ella prevedeva un fiasco colossale. Già, cominciamo che il tribunale civile non era buono ad annullare un matrimonio contratto sotto il codice napolitano del 1819; bisognava rivolgersi alla Corte vescovile; ma qui cascava l'asino, perché Monsignor Vescovo, e il Vicario Coco e il canonico Russo e tutti i maggiorenti della Curia erano col principe contro il conte, giustamente, sapendo i torti di Raimondo e della Fersa, non potendo metter mano a sanzionare uno scandalo di quella fatta!...

D'altra parte i fautori del conte e di donna Isabella davano sicura la riuscita. L'impotenza di Fersa, la violenza patita da sua moglie erano affermate da una quantità di persone; ma specialmente Pasqualino sonava la campana per conto del suo padrone. Sissignori: il cavaliere Giulente, e non avvocato, studiava e dirigeva la causa del cognato, piuttosto che lasciarla in mano di qualche strascinafaccende di quelli da quattro il mazzo; ma del resto egli non aveva molto da faticare, perché il motivo della nullità del matrimonio di donna Isabella era chiaro e lampante. Lasciamo stare che Fersa non era precisamente un vulcano, come uomo; ma lo zio di lei l'avea costretta a prenderselo mettendole il coltello alla gola: altro che la storia della signorina Chiara! Almeno la principessa, sant'anima, avea cercato di prendere sua figlia con le buone, ricorrendo alle minacce soltanto all'ultimo, dopo due anni di persuasioni e di preghiere; ma lo zio di donna Isabella? Bastonate mattina e sera, fin dal primo momento che la ragazza aveva detto: «Meglio morta che sposar Fersa!» Come Pasqualino, tutta la servitù, la minuta clientela della famiglia era, nonostante l'opposizione del principe, favorevole al contino; questi, per accaparrarsi simpatie, non faceva più venire, come un tempo, le sue robe da Firenze o da Napoli, ma dava ogni genere di commissioni in città, e il sarto, il calzolaio, il cravattaio, onorati dai comandi del contino Uzeda, lo portavano al cielo, peroravano in favor suo, tenevano fronte agli scandalizzati. V'era gente che rammentava l'amore di donna Isabella per Fersa? Rispondevano adducendo infinite testimonianze contrarie: da Palermo sarebbero venuti tutti i servi di casa Pinto, pronti a giurar sul Vangelo che l'orfanella era stata picchiata di santa ragione dallo zio tutore, perché costui, senza badare che Fersa, se aveva quattrini, non nasceva bene, voleva darglielo per forza. Dicevano che queste testimonianze erano sospette, ottenute per via di quattrini? Enumeravano gli amici palermitani di casa Pinto, don Michele Broggi, il cavaliere Cutica, il notaio Rosa, tutti superiori al sospetto di corruzione, citati da donna Isabella perché attestassero le sevizie usatele, i rifiuti costanti da lei opposti. Che più? Lo stesso zio sarebbe venuto a confermare la violenza esercitata!... «E poi?» esclamava da suo canto la cugina. «Dopo che avranno sciolto questo matrimonio? Credono di poter riuscire a sciogliere quell'altro? Non sanno che cosa ha detto Palmi?» E narrava che quell'attaccabrighe di Giulente gli aveva scritto per ottenere che anche lui, il barone, consentisse allo scioglimento del matrimonio di sua figlia, testimoniando d'averla forzata a prendersi il conte Uzeda. Per amore della verità, spiegava che Giulente s'era dapprima rifiutato, parendogli una cosa proprio enorme, proponendo, se mai, di affidare questa missione al duca che era intimo del senatore. Ma sì, il duca aveva altro pel capo! Se ne stava a Torino, badando ai suoi affari, non voleva tornare in Sicilia per paura che la sua lontananza durante i turbamenti dell'anno precedente gli avesse fatto torto; e quando gli scrivevano dell'affare di Raimondo rispondeva che per nulla al mondo voleva mescolarvisi. Giulente, dunque, per contentar la moglie, il cognato e gli zii, aveva dovuto rassegnarsi a rivolgersi lui al barone. «Sapete quanto tempo ha impiegato a scrivere la lettera?» aggiungeva la cugina, informata di tutti i più piccoli particolari. «Una settimana! Ha stracciato una risma di carta! Sfido io! Come dire a un cristiano: consentite che il matrimonio di vostra figlia si sciolga, che le vostre nipoti restino senza padre!...» Ma la lettera, piena d'espressioni riguardose, di complimenti, di scuse, era partita: e Giulente aspettava ancora la risposta!... L'avrebbe aspettata un pezzo! Ché per mezzo di certe persone di Messina, la cugina sapeva quel che aveva detto il barone a un amico, stringendo il pugno: «Voglio piuttosto veder morire tutti quanti!...» Perché infatti la «povera Matilde», moribonda dai tanti dispiaceri, indifferente a tutto oramai, comprendendo che non c'era più alcun riparo, avrebbe anche contentato l'ultima pretesa del marito! il barone, invece, faceva certi giuramenti tremendi per dire che mai, mai, lui vivente, suo genero sarebbe riuscito a rompere il matrimonio: sapeva bene che era spezzato di fatto, ma voleva che Raimondo restasse incatenato per tutta la vita, che la Fersa non potesse prendere, dinanzi al mondo, il posto della propria figliuola...

Anche Pasqualino sapeva tutto questo; ma al cocchiere di donna Graziella, che, tenendo per la padrona, gli prediceva il fiasco del conte: «Un po' per volta!» rispondeva. «Lasciate che si finisca la prima causa!... Quando la padrona sarà libera, penseremo a liberare anche il padrone!... Adesso non hanno a decidere i canonici, ma i giudici civili. Con la legge di Vittorio Emanuele, il matrimonio dinanzi alla Chiesa vale un fondello, e solo ha peso quello dinanzi al sindaco: abbasso Francesco ii! Viva la libertà!...» Ma donna Ferdinanda, Lucrezia, tutti i sostenitori di Raimondo non si contentavano di una sentenza civile; volevano legittimare la situazione di Raimondo e di donna Isabella dinanzi agli uomini e a Dio. Pertanto Ferdinando, il quale era intimo del canonico Ravesa, pezzo grosso della Curia e proprietario d'una vigna attigua alle Ghiande, gli parlava tutti i giorni a favore del fratello, e don Blasco andava tutti i giorni dal Vicario Coco, intronandolo con le clamorose dimostrazioni della convenienza, della giustizia, della necessità di quell'annullamento di matrimoni: della stramberia, della prepotenza, della birbonaggine del principe che lo contrastava. Il pezzo più grosso da guadagnare era però Monsignor Vescovo; il quale adesso non faceva nulla senza l'approvazione del Priore don Lodovico. Questi, persuaso che l'abolizione delle comunità religiose era quistione di tempo, disinteressatosi di San Nicola, s'era rivolto al Vescovato dove la sua nascita, la sua reputazione d'intelligenza, di dottrina e di santità gli avevano spalancato le porte. In poco tempo, com'era già stato il braccio destro dell'Abate, era diventato il braccio destro del capo della diocesi: la prudenza dei suoi consigli, l'eccellenza della sua posizione, a cavaliere di tutti i partiti, lo avevano reso indispensabile in molte circostanze delicate, quando bisognava conciliarsi le nuove autorità politiche senza tradire le «legittime», salvar capra e cavoli, servir Cristo e Mammone. Ora, se egli avesse detto una parola a favore di Raimondo, il matrimonio di donna Isabella sarebbe stato annullato; ma a donna Ferdinanda, che gli si metteva alle costole per guadagnarlo alla causa della sua protetta, il Priore rispondeva ambiguamente, adducendo le difficoltà da superare, l'imbarazzo in cui lo mettevano.

«Sciogliere un matrimonio è una cosa grave... Vostra Eccellenza sa bene quanto la Chiesa sia giustamente contraria a pronunziare sentenze di questo genere, come vada coi calzari di piombo. Essa non può contentarsi di certe prove e di certe ragioni... Queste potevano forse bastare ai giudici secolari, la cui responsabilità non è impegnata dinanzi alla Maestà Divina. Mi duole moltissimo, in coscienza, di vedere Raimondo messo per una via falsa... Dopo questa causa ne verrà una seconda, lo scandalo è immenso... Io ho i miei doveri da compiere... La mia coscienza...»

«Coscienza?... Coscienza?...» Donna Ferdinanda, che stava a sentirlo a bocca chiusa e a denti stretti, una volta cantò: «Lasciala da parte la coscienza! Di' piuttosto che non gli hai ancora perdonato d'aver preso il tuo posto e gliela vuoi far pagare, ora che l'hai nelle forbici!...»

Il Priore impallidì repentinamente, guardando un istante in viso la zia che lo guardava fisso anche lei, come se gli volesse leggere nell'anima. Poi chinò il capo e portò le braccia in croce sul petto:

«Vostra Eccellenza m'affligge crudelmente... Sa bene che le passioni del mondo sono straniere al mio cuore... che io amo mio fratello come rispetto Vostra Eccellenza!... Dica questo a Raimondo; mi fornisca l'occasione di darne la prova...»

Donna Ferdinanda andò pertanto da Raimondo per dirgli di recarsi personalmente dal fratello e di raccomandarglisi. Un momento, il giovane si ribellò. Era stanco di pregare e di umiliarsi, di far la corte a Ferdinando e a Giulente per guadagnarli alla sua causa, di imbeccare Pasqualino e gli altri portavoce. S'era già umiliato una volta dinanzi a Giacomo e non gli era valso nulla; s'era umiliato anche dinanzi a Lodovico, quando era andato a Nicolosi, e il fratello non s'era lasciato vedere. Adesso bisognava gettarsi ai piedi di cotesto Gesuita, chiedergli perdono del posto sottrattogli, implorarne col perdono la protezione e l'appoggio. Era troppo, non ne poteva più. Le mortificazioni dell'amor proprio gli cocevano più di tutte, gli facevano stringer le pugna e mordersi le dita e quasi spuntar le lacrime agli occhi... Ma giusto, finita la villeggiatura, tornati tutti in città, la parentela e la nobiltà si schieravan col principe contro di lui. La cugina Graziella andava dicendo dovunque che neppure la causa civile sarebbe andata avanti, che i giudici avrebbero essi fatto un processo per falsa testimonianza a chi avesse tentato di provare la mancanza del consenso; figuriamoci poi la causa ecclesiastica!

E una domenica donna Isabella, che era scesa in città per far certe compere, tornò alle Ghiande con gli occhi rossi.

«Che hai?» le domandò Raimondo, quasi bruscamente, quasi pronto a sfogare contro di lei, causa prima di tutto quello che gli accadeva.

«Nulla... Nulla...» e piangeva dirottamente.

Egli dovette alzar la voce per sapere il motivo di quel pianto. La sua amica aveva incontrato per via i Grazzeri e la cugina Graziella; la cugina s'era voltata dall'altra parte, Lucia e Agatina Grazzeri non avevano risposto al suo saluto, fingendo di non vederla... Il giorno dopo egli salì a San Nicola, cercando del Priore.

Lodovico lo ricevette a braccia aperte, lo ascoltò con attenzione benevola. Raimondo gli disse, un po' pallido: «Ti prego d'aiutarmi...» Invocava il suo appoggio per uscire dalla falsa situazione in cui si trovava. Era urgente legittimarla per una potente e nuova ragione che nessuno ancora sapeva, che confidava a lui prima che ad ogni altro: donna Isabella era incinta... Con gli occhi quasi chiusi, il capo un poco piegato, le mani raccolte in grembo, il Priore pareva un confessore indulgente ed amico: non una contrazione del viso, non una dilatazione del petto svelava l'intima soddisfazione di vedersi finalmente dinanzi, sommesso e quasi supplice, il ladro che lo aveva spogliato, pel quale era stato bandito dalla famiglia e dal mondo.

«Tu puoi aiutarmi, mettere una buona parola...» continuava Raimondo, «far considerare che in fondo non si domanda se non giustizia... perché la volontà di Isabella fu violentata; trenta testimoni proveranno la verità...»

«Lo so! Lo so!...» rispose finalmente il Priore. «Io non t'avrei neppure ascoltato se non conoscessi che la religione sta dalla vostra parte!»

«Allora, posso fare assegnamento su te?»

«Certo, certo!... Ma c'è un'altra quistione... Nel caso presente, non si tratta tanto di giustizia astratta, quanto di prudenza mondana. Sicuramente, noi dobbiamo render conto solo a Dio delle nostre azioni, ma perché la nostra coscienza s'acquieti del tutto, non dobbiamo e non possiamo perder di mira l'effetto che i nostri giudizi sono capaci di produrre!... Ora, come vuoi che cotesto provvedimento sia stimato giusto, se nella nostra stessa famiglia, se il capo della nostra casa, non riconosce le tue ragioni e ti condanna con tanta severità?...»

«E se Giacomo si piega?» insisté Raimondo.

«Sarà un gran passo innanzi! Vedrai che l'opinione pubblica lo seguirà, che tutti quelli finora dichiaratisi tuoi avversari ti sosterranno concordi. Allora sarà molto più facile ottenere l'intento. Lo stesso Giacomo potrà giovarti presso i giudicanti molto meglio di me. Sai bene quali relazioni egli ha tra quanti circondano Monsignore... una sua parola varrà molto più della mia...»

E questa era la dimostrazione a cui voleva arrivare attraverso tante parole. L'affare di Raimondo, tutto quel pateracchio di matrimoni da sciogliere e da ristringere non gli piaceva: il biasimo sordo del gran pubblico gli era noto e lo metteva in guardia contro l'errore di sostenere una cattiva causa, il trionfo della quale, del resto, non gli avrebbe menomamente giovato...

Raimondo, tornando alle Ghiande, mandò a chiamare il signor Marco. Chiusi in camera tutt'e due, restarono pochi minuti a confabulare. L'amministratore tornò il domani e poi il giorno dopo, restando sempre più a lungo. Un pomeriggio Ferdinando era buttato sul letto a dormire, quando l'abbaiare dei cani lo destò di repente; il fattore già picchiava all'uscio.

«Eccellenza! Eccellenza!... C'è qui suo fratello... Il signor principe...»

Egli balzò in piedi, stropicciandosi gli occhi. Giacomo da lui? Adesso che c'era Raimondo? E se si fossero incontrati?…

«Vengo subito.. trattienilo tu... ma non dir nulla..»

«Come, Eccellenza?... Se i suoi fratelli stanno parlando insieme?... C'è anche la principessa...»

Sceso giù a precipizio per evitare qualche guaio, Ferdinando entrò nel salotto e trovò i fratelli e le cognate che chiacchieravano allegramente.

«Passavamo di qui,» gli disse il principe, «e abbiamo pensato di farvi una visita...»

Il domani, nella Sala Gialla, la cugina Graziella, venuta prima di colazione e trovata la principessa in compagnia di don Mariano, se la prendeva con più calore del solito contro Raimondo e l'amica sua; narrava i loro nuovi armeggi, le istanze fatte allo zio duca perché prestasse la sua autorità di deputato per ottenere lo scioglimento dei matrimoni, perché persuadesse il suo buon amico Palmi ad acconsentirvi. La principessa, sui carboni ardenti, si faceva di mille colori, alzava, abbassava e girava gli occhi, pareva invocare l'intervento di don Mariano, tossicchiando un poco voleva avvertire la cugina di non insistere; ma questa continuava con nuova lena:

«Almeno, avessero un po' di pazienza! Si libereranno egualmente, perché la povera Matilde sta per morire... Pare che vogliano affrettare la sua fine!... Tutte queste notizie figuratevi che effetto le fanno!... Ma suo padre giura più terribilmente di prima che non acconsentirà mai a fare il comodo loro... Sua figlia lo scongiura di desistere perché anche a lui, quando arrivano di queste notizie, è come se gli pigliasse un colpo apoplettico... Veramente, è un po' troppo!... Qui sotto c'è lo zampino della zia Ferdinanda!... Non credete giunto il punto di avvertirli che siano più prudenti?...»

La principessa non ebbe il tempo di rispondere, di nascondere il nuovo imbarazzo in cui quella domanda la gettava, quando Baldassarre, entrato senza far rumore, annunziò con la consueta sua bella serenità:

«Il signor conte e la signora contessa.»

La cugina restò di sale. Raimondo? La contessa? Quale contessa?... E donna Isabella apparve, andò incontro alla principessa che le veniva incontro, l'abbracciò e la baciò sulle due guance.

«Come stai, Margherita? Ero impaziente di restituirti la tua cara visita di ieri...»

Si davano del tu! La Fersa trovava modo di dire che Margherita era già stata da lei! E il principe sopravveniva, stringeva la mano a Raimondo, dicendo:

«Cognata e cugina, resterete a colazione con noi?...»