5.

«Il duca d'Oragua!... Il deputato, il patriotta!... Dov'è? Dov'è?... Eccolo lì!... È ingrassato!… Manca da quasi tre anni!... Viene da Torino?... Signor duca!... Eccellenza!...» E qui saluti ed inchini a destra e a sinistra, certuni che si tiravan da canto una decina di passi prima d'incontrarlo, e si scoprivano come al passaggio del Santissimo Sacramento: tutti che si voltavano a seguirlo un pezzo con gli occhi quand'era già passato. Pochi godevano il privilegio di poterlo accostare, di stringergli la mano, di chiedergli le sue notizie; pochissimi, gli eletti, potevano onorarsi d'accompagnarlo, di scortarlo, di mescolarsi al codazzo degli intimi ammiratori ed amici che lo seguivano su e giù, alla prefettura, al municipio, ai circoli. Ed egli teneva il centro della strada, quasi ne fosse il padrone, ascoltato devotamente da quanti gli stavano a fianco, aspettato da tutta una corte intenta a tessere e a ritessere le sue lodi quando, per un piccolo bisogno imperioso, egli s'accostava a un cantone. Al palazzo, lo stesso andirivieni d'un tempo: elettori, sollecitatori, delegazioni di società politiche che tornavano a ringraziarlo a voce, dopo averlo ringraziato per iscritto, del bene che aveva fatto al paese ed ai concittadini: grazie a lui, la prima ferrovia a cui s'era messo mano in Sicilia era quella da Catania a Messina, e il porto aveva numerosi approdi di piroscafi, e la città era stata dotata di numerose scuole, d'una ispezione forestale, d'un deposito di stalloni; e un istituto di credito, la Banca Meridionale, stava per sorgere; e il governo prometteva d'intraprendere una quantità d'opere pubbliche, di aiutare il municipio e la provincia; e i buoni liberali, i figli della rivoluzione, ottenevano a poco a poco quel che chiedevano: un posto, un sussidio, una croce.

La sua popolarità toccava l'apice. Alcuni, è vero, gli rimproveravano l'assenza durante i fatti del '62, addebitandola alla paura, e tiravano in ballo le storie del Quarantotto, lo accusavano d'essersi finalmente rammentato del collegio adesso che, sciolta la Camera, voleva gli riconfermassero il mandato; ma questi mormoratori erano gli eterni malcontenti, i pochi repubblicani, qualche garibaldino sfegatato, tutta gente che non poteva perdonargli la sua iscrizione al partito conservatore. Nelle conversazioni politiche egli difendeva infatti a spada tratta la politica moderata, «ora che abbiamo fatto la rivoluzione e raggiunto lo scopo»; e celebrava l'azione prudente del governo, deplorava le intemperanze di Garibaldi, biasimava il malcontento contro la Convenzione di settembre, affermava che la lega dei buoni era necessaria per salvar la nazione dai nemici esterni ed interni. Più che nei primi tempi della deputazione, faceva colpo mentovando i suoi grandi amici politici: «Quando andai da Minghetti... Rattazzi mi disse... In casa del ministro...» Però non citava più il barone Palmi; se gli parlavano delle gesta del nipote Raimondo, faceva con le spalle e col capo un breve moto che poteva dir tutto, secondo l'umore dell'interrogato: approvazione, compatimento, biasimo. Ma oramai la situazione di Raimondo e di donna Isabella era legittima, e tutti i parenti, dopo l'esempio del principe, li trattavano come marito e moglie. In meno di sei mesi, la Corte vescovile, riconosciuto che il matrimonio era stato contratto per forza e con la paura, aveva liberato la Fersa.

Per quello di Raimondo con la Palmi c'era stato un poco più da fare. Da principio, aspettavano che il barone si decidesse anche lui a chiedere l'annullamento del matrimonio della figlia, asserendo di averla forzata a contrarlo; ma il barone, «testa di villan cocciuto», spiegava Pasqualino, aveva e avrebbe detto di no, fino al momento di tirar le cuoia, quantunque sua figlia — felice memoria — si fosse finalmente posto il cuore in pace, specialmente apprendendo che il primo matrimonio non esisteva più e che il conte aveva un figlio da legittimare. La signora donna Matilde — giustizia innanzi tutto! — nonostante le sue stravaganze era ragionevole in fondo, e sapendosi del resto malata, comprendendo che un po' prima un po' dopo il conte sarebbe rimasto libero, s'era persuasa di pregare il padre che consentisse allo scioglimento del matrimonio civile. Del religioso, no, perché aveva certi suoi scrupoli un po' curiosi sulla santità del sacramento; ma basta! suo marito si sarebbe contentato dello scioglimento civile. I conti eran però fatti senza la mulaggine del barone villano, il quale giurava di voler prima morta la figliuola che consentire alla liberazione del genero!... Ah, no? E allora il contino aveva chiesto lui d'essere sciolto, adducendo che la madre lo aveva costretto a prendersi quella moglie!

Sapevano tutti che donna era stata la principessa, con quanta prepotenza s'era imposta ai figli. Non aveva violentato la volontà di Chiara, per darle il marchese di Villardita? Così aveva violentato quella di Raimondo per dargli la Palmi! Decine, centinaia di testimoni affermavano che il contino mai e poi mai aveva voluto prender moglie: prima di tutti la parentela, il principe, le sorelle, i cognati, gli zii, le cugine; poi gli amici, poi la servitù, poi tutta la città. Ma per ottenere lo scioglimento del matrimonio bisognava dimostrare che all'atto di pronunziare il sì che lo legava per sempre don Raimondo avesse provato un timor grave: e allora il cavaliere don Eugenio era venuto innanzi al magistrato per testimoniare che la principessa sua cognata aveva fatto accompagnare il figliuolo alla parrocchia da due campieri armati, i quali, se egli avesse risposto no, dovevano legarlo, buttarlo in fondo a una carrozza che stava ad aspettare vicino alla chiesa e portarlo in campagna per usargli le maggiori sevizie. Dai feudi di Mirabella erano venuti due campai a confermare la testimonianza, e il cocchiere l'avea suffragata per suo conto, e il sagrestano pure. Così il tribunale aveva fatto giustizia.

E certa gente — Pasqualino non se ne dava pace! — pretendeva che quelle testimonianze fossero false, che i campai fossero stati pagati, che don Raimondo avesse dato una bevuta di trecent'onze allo zio don Eugenio! Quasi che don Eugenio Uzeda di Francalanza, Gentiluomo di Camera di Sua Maestà Ferdinando ii (senza esercizio perché Ferdinando non era più di questo mondo e i suoi discendenti avevano ricevuto il benservito) fosse capace di un'azione di questa fatta! Quasi che i giudici fossero gente da accettare deposizioni non vere! Altri volevano dare a intendere che, come uomo, il contino non poteva spaventarsi delle minacce, e che non s'era mai dato il caso d'un annullamento di matrimonio per costrizione della volontà dello sposo. Non s'era ancor dato, e adesso si dava: oh bella, che ci trovavano da ridire? Non ci aveva trovato da ridire neppure il barone Palmi, che non aveva preso parte alla causa! Le male lingue rincaravano che il barone aveva lasciato correre per amore della figlia, la quale era in fin di vita; ma Pasqualino, com'è vero Dio, certe cose neppur intendeva come potessero capire in mente umana! Che c'entrava la malattia della signora donna Matilde col silenzio del barone? Forse che a saper dissolto il matrimonio, la signora Matilde sarebbe guarita dalla contentezza? Era morta, invece — salut'a noi! — qualche mese dopo le giuste nozze del conte e di donna Isabella! Dunque il barone era rimasto zitto perché sapeva che il genero diceva la verità!

Subito dopo la pace col principe, Raimondo e donna Isabella s'erano riconciliati con una gran parte degli antichi oppositori; la cugina Graziella, specialmente, s'era messa a difenderli con maggior calore dello stesso Pasqualino, dimostrando che la passione è «cieca», che gli uomini «sono fatti di carne» e le donne pure, e che la colpa di tutto quel che si succedeva andava attribuita tutta alla leggerezza, «per non dir altro», della Palmi. Tuttavia, buona parte della nobiltà restava a fare il viso dell'arme a Raimondo ed all'amica; ma la cugina assicurava che a poco a poco tutti si sarebbero addomesticati, specialmente quando i tribunali avessero fatto giustizia, accordando i divorzi; e non contenta di dare assicurazioni, faceva propaganda, persuadeva i tentennanti, teneva fronte ai borbottoni.

Frattanto, ringraziato Ferdinando dell'ospitalità che gli aveva accordata, Raimondo s'era preso in affitto un quartiere nel palazzo Roccasciano e v'era andato a stare insieme con la futura moglie. Giacomo, il Priore, il duca avevano veramente consigliato loro di non farne nulla, di restar piuttosto alla Pietra dell'Ovo fino al giorno della loro legittima unione e poi andar via, a Napoli, a Milano, a Torino, in mezzo a gente nuova. Ma donna Isabella, a cui le schifiltose avevano fatto troppi affronti, voleva prendere la rivincita ed assaporare il trionfo. Raimondo, impegnato a spuntarla contro tutti e tutto, faceva ancora, suo malgrado, ciò che ella voleva. Fermo proposito di lui era d'andar via al più presto, non già per le ragioni di prudenza suggerite dai parenti, ma perché non ammetteva di poter vivere due giorni di seguito, senza una estrema necessità, nel paese nativo; poche parole dell'amica bastarono a dissuaderlo. I suoi parenti non consigliavano forse quel partito perché, nonostante la pace, avevano mediocre piacere di trattarla e preferivano saperla lontana? Non c'erano tuttavia tante persone che la salutavano freddamente, che evitavano di parlarle?... Ed egli cominciò a far spese pazze per metter su una casa, volle che il matrimonio si celebrasse con la massima pompa, quasi sfidando chi prima aveva sostenuto impossibile la riuscita della sua impresa. Fu una festa sontuosa alla quale molti di quelli che si erano ostinati nel biasimo sollecitarono il grande onore di poter assistere, e così donna Isabella assaporò la voluttà di vederseli ai piedi. Peccato che la cugina Graziella, la quale aveva tanto contribuito a quest'effetto, non potesse goderne anche lei, poiché suo marito, pochi giorni prima, aveva preso un raffreddore che pareva all'inizio una cosa da nulla, ma che giusto la notte degli sponsali degenerò in polmonite e tre giorni dopo lo ammazzò.

Tutti gli Uzeda furono da lei in quella dolorosa circostanza; il principe, specialmente, nonostante l'abituale freddezza, mostrò di prendere molta parte al dolore della cugina. Ella pareva veramente inconsolabile, raccontava a tutti piangendo la gran bontà del povero marito suo, il grande amore che gli aveva portato, l'irreparabile sciagura che quella morte era per lei. Soltanto la vista dei suoi «cari cugini», i conforti della «famiglia», lenivano il suo cordoglio: i «cugini», gli «zii» erano ormai i soli che le restavano. Ella mise per ogni dove i segni del corrotto, per poco non si tinse di nero la faccia, e durante un buon numero di mesi rifiutò ostinatamente di prender aria, neanche in carrozza chiusa, di sera. Ma la sua prima visita fu al palazzo del principe dove, a poco a poco, riprese l'abitudine di venire spesso a confortarsi. Si prendeva in braccio Teresina ed esclamava, con voce rotta: «Figlia mia! Figlia mia!... Se il Signore mi avesse concesso una figlia come te, non sarei rimasta sola al mondo!... Il Signore ti conservi sempre all'affetto di tua madre... Figlia! Figlia mia!...» tanto che la principessa Margherita, molto impressionabile, si metteva a piangere anche lei. Col tempo, nondimeno, quel grande dolore si calmò, divenne più composto, tale da consentirle di occuparsi delle cose mondane. Suo marito l'aveva lasciata erede universale d'una discreta sostanza, talché ella non aveva da inquietarsi per l'avvenire; piuttosto, non sapendo come disbrigare gli affari dell'eredità, rivolgevasi al cugino principe, il quale glieli metteva in piano. Pertanto ella veniva adesso tutti i giorni al palazzo, certi giorni più d'una volta; ma, quantunque non avesse affari, andava pure spesso da Lucrezia, dalla «zia» Ferdinanda e dalla «cugina» Isabella. In casa di costei tuttavia, a causa del lutto, non compariva il lunedì, giorno nel quale la contessa «riceveva».

Quest'uso di ricevere in un giorno determinato era una gran novità della quale si discorreva molto. Donna Isabella, che non s'appagava del trionfo d'una sola sera e voleva piegare le ultime ostinate oppositrici, l'aveva introdotto, riuscendo così a dare al suo salotto un tono speciale, un'importanza straordinaria, tale che le più restie brigavano finalmente l'onore di esservi ammesse. Talché, dopo appena tre anni che era venuta in una volgare camera d'albergo, moglie della mano manca, osteggiata da tutti, ella troneggiava in quell'inverno del '65, autentica contessa di Lumera, fra una corte di ammiratori.

«Grazie! Grazie!...» diceva a Raimondo, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a sé. «Tu l'hai voluto e ottenuto!... Grazie! Grazie!...»

Egli restava di marmo sotto quelle carezze. Vinta la partita, cessata la febbre che lo aveva animato contro le difficoltà, i contrasti e le opposizioni d'ogni genere, faceva il conto di quanto gli costava quel risultato. Confusamente, sordamente, poiché non poteva convenire di esser stato tanto cieco, sentiva d'aver lavorato a ribadirsi al collo una nuova e più pesante ed infrangibile catena, quando invece la sua personale aspirazione, il suo unico ardente desiderio sarebbe stato quello di liberarsi del tutto. Scontento, irrequieto, nervoso, frenavasi dinanzi alla gente; ma in casa, coi familiari, trovava nelle circostanze più futili un motivo di sfogarsi, di gridare, di maltrattare qualcuno; Pasqualino riceveva sulle spalle il fitto della gragnuola; donna Isabella sentiva la tempesta minacciare anche lei, ma la stornava a furia di sommessione, secondando sempre e comunque l'umore del marito.

Adesso, l'incosciente rancore di cui Raimondo era animato contro di sé rovesciavasi sui parenti; egli sapeva che in modo diverso, per diverse ragioni, incoraggiandolo o contraddicendolo, avevano contribuito al suo danno e, non potendo accusare se stesso, se la prendeva con quelli. Sua moglie, per evitare che egli pensasse ad altro, gli parlava male di tutti gli Uzeda. E la materia era inesauribile. Chiara, per esempio, che aveva fatto la scrupolosa quand'essi non erano uniti legittimamente, adesso dava da parlare a tutta la città per le cose vergognose che tollerava in casa sua. Con l'utero fradicio dopo l'estirpazione della ciste, non poteva più essere toccata dal marito, e di che si lagnava quella pazza? Forse della condizione in cui era ridotta? Del male che la minacciava sordamente? Nossignore: il suo gran dolore era di non poter servire a Federico! E comprendendo che questi, il quale non aveva niente di fradicio, anzi era sanissimo come una lasca, non poteva far quaresima tutto l'anno, che aveva pensato? Di scegliergli lei stessa certe fiorenti cameriere, una più bella dell'altra, e gliele metteva nel letto, e le trattava a zuccherini, quasi le serviva lei stessa invece di farsene servire!... «Son cose vergognose!... È pazza!...» esclamava donna Isabella, rammentando a Raimondo la storia del matrimonio di Chiara con quel marchese aborrito, la violenza che la principessa madre aveva dovuto farle. «E gli altri? E le altre?» Infatti, dove metter Lucrezia? La pazzia di costei era andata tutt'al rovescio: dopo aver fatto cose dell'altro mondo per sposare Giulente, adesso, a poco a poco, era arrivata quasi a disprezzarlo, gli dava dell'asino a tutto pasto, non poteva soffrire la sua politica che prima l'aveva accesa, gli diceva sul muso: «Ha pur da tornare Francesco ii che vi legherà tutti quanti!...» E le speculazioni di don Eugenio? Costui, facendo pagare un occhio del capo al principe di Roccasciano cocci ed imbratti, li riprendeva per due baiocchi dalla moglie che, invasata dal demonio del giuoco, li sottraeva dagli scaffali... E la metamorfosi di Ferdinando? Pareva che la passione per le Ghiande non potesse finirgli mai: un bel giorno le aveva piantate, aveva lasciato in asso tutti gli esperimenti agricoli e meccanici e se n'era venuto a stare in città. Non mancava ai lunedì della cognata, andava tutte le sere al teatro, frequentava le donne e, per non metter più piede nel podere che gli era stato tanto a cuore, lasciava che il suo fattore gli rubasse gli occhi. «È pazzo?... Son pazzi?...» Donna Isabella non parlava d'altro, sapendo d'appagare il rancore di Raimondo. Egli l'aveva, sì, con tutti, ma il suo astio più grande era serbato al principe.

Giacomo non aveva prodotto solo un danno morale al fratello, gli aveva anche fatto pagar salato il suo appoggio. Nei momenti in cui era impegnato a spuntarla contro tutti, a trionfare degli immensi ostacoli di cui era irta l'impresa dello scioglimento dei matrimoni, Raimondo non aveva neppur calcolato quel che gli costava la pace col fratello maggiore; era tanto, allora, il suo impegno, che egli avrebbe forse consentito a cedere tutto quanto possedeva. Adesso che faceva il conto e tirava le somme, vedeva che Giacomo gli aveva preso un buon terzo del suo. Come a Lucrezia, aveva presentato a lui la nota dell'ospitalità accordatagli, una nota molto lunga perché comprendeva le spese fatte per la Palmi e le bambine; poi aveva tirato fuori le solite cambiali apparse dopo la morte della madre, addebitandogliene la metà; e nei conti della procura aveva dimostrato d'esser rimasto creditore di parecchie migliaia d'onze, per gl'interessi accumulati degli anticipi: così s'era preso i due fondi di Burgio e Burgitello. Ma la magagna più grossa era stata operata nella divisione, perché egli aveva messo, secondo gli conveniva, i prezzi alle terre, e tenuto per sé le migliori e le più vicine. In cambio di altre proprietà gli aveva ceduto rendite fradice, di difficile ed incerta riscossione, e non contento di tutto ciò gli aveva anche imposto di rinunziare all'uso del quartiere nel palazzo avito, a quella clausola del testamento materno che gli stava come un bruscolo negli occhi... Passata pertanto la foga della lotta, Raimondo era animato da un sordo astio contro di lui; ma donna Isabella, parlandogli male del fratello, non rammentava già queste cose, comprendendo che l'argomento era a due tagli e si poteva ritorcere contro di lei. Invece criticava il carattere prepotente del cognato, la sua severità verso la moglie, il suo disamore per tutti, la sua doppiezza con gli zii. Curiosa per indole, vigile per interesse, ella veniva scoprendo, adesso, in casa di lui, qualche cosa di nuovo che le dava buono in mano. «Hai visto?... Hai visto?...» diceva al marito tutte le volte che tornavano a casa dopo essere stati al palazzo. «E faceva il moralista anche lui! Bisognava sentirlo, quando predicava!... E quella stupida di Margherita che non s'accorge di nulla!...»

La principessa, infatti, non pareva notasse che da un pezzo la vedova cugina veniva a consolarsi «in famiglia» tutte le sante mattine che il Signore mandava e tutte le sante sere. Il principe s'occupava di metterle in ordine l'eredità, e perciò, avendo bisogno di parlarle, l'andava spesso a trovare per suo conto; certe volte la riconduceva con sé al palazzo. La sera ella restava fino all'ultimo nella Sala Gialla, dove la solita società si riuniva. Nessuno degli Uzeda, pel momento, vi mancava: il matrimonio di Raimondo pareva avesse ricondotto la pace in tutti gli animi. Il duca pontificava, aggiustava l'Europa in quattro e quattr'otto, le finanze italiane in men che non si dica, e Giulente stava a udirlo come il Messia, lasciandosi rimorchiare sempre più, disertando il suo partito per corteggiare lo zio, aspettando di prenderne il posto. Il duca, infatti, gli aveva detto: «Quando sarò stanco, lascerò a te il collegio»; e questa era la secreta brama di Benedetto: esser deputato, mettersi nella grande politica. Per dargli pazienza, il duca lo aveva fatto eleggere consigliere comunale, e discorreva con lui anche delle cose del Municipio, delle riforme da introdurvi. Quantunque il Parlamento fosse in piena sessione, egli non parlava d'andar via, occupato a sbrigare i suoi affari. Il patriottismo gli era costato: per sussidiare i perseguitati, per comperar fucili e cartucce, per offrire rinfreschi alla Guardia nazionale, aveva fatto qualche debituccio, ipotecata la sua magra proprietà: ora la rimetteva in ordine. Dove trovava i quattrini? Dicevano che spartisse negli appalti fatti accordare a Giulente zio; ma quei guadagni, quantunque grossi, non potevano bastare alle grandi operazioni che disegnava. Fondata la Banca Meridionale di Credito e di Depositi, aveva sottoscritto per cento azioni di mille lire l'una; è vero che non aveva versato se non un quarto; ma nello stesso tempo egli parlava d'una grande compagnia di navigazione a vapore, d'una società per la lavorazione degli zolfi, di un'altra pel taglio dei boschi etnei. Don Blasco e donna Ferdinanda, ciascuno per conto proprio, s'ingegnavano con ogni mezzo di appurare come facesse; fu il marchese Federico quello che li mise sulla buona strada.

Con le economie del suo largo reddito, il marchese faceva ogni anno qualche acquisto; ultimamente aveva comperato una villa al Belvedere, per stare a casa propria durante la villeggiatura, e gli era rimasta tuttavia una sommetta della quale non sapeva che fare. Era troppo esigua per comprare una proprietà; darla a mutuo non voleva; che cosa bisognava farne? «Acquistane rendita pubblica!» gli aveva consigliato il duca, spiegandogli i vantaggi dell'impiego, offrendogli di farla venire da Torino. «Vostra Eccellenza ne ha dunque comprata?» gli domandò il marchese. «Ne ho comprata, ne ho venduta... secondo i corsi... capisci bene...» poi, quasi pentito d'avergli fatto comprendere che ci aveva speculato su durante i cinque anni passati a Torino, col comodo delle notizie appurate nelle anticamere dei ministeri, aveva mutato discorso. Il marchese titubò un pezzo, un po' per fedeltà al principio borbonico, molto più per paura di perdere i suoi quattrini, frutto e capitale, con l'idea che l'Italia fosse sempre sul punto non che di fallire, ma di andare a rotoli; finalmente un giorno, incontrato il duca che veniva a riscuotere le cedole del semestre scaduto, vistolo venir via con un bel rotolo di biglietti, si decise. E la sera che annunziò al palazzo l'acquisto, bisognò sentir don Blasco!

«Ah pezzo di pagliaccio! Anche tu? Con l'Italia anche tu? Sei impazzito anche tu?»

«Perché?» tentò rispondere il marchese. «Al Sessantasei, il capitale frutta il sette e mezzo per cento... Le cedole sono pagate puntualmente alla scadenza...»

Il monaco stava a sentirlo, spalancando tanto d'occhi, come aspettando di vedere fin dove sarebbero arrivate le enormità che quel bestione eruttava: alla fine scoppiò:

«Te ne netterai il fondamento, delle tue cedole!... Andrai a riscuoterle al lungo comodo, pezzo d'asino!...» E rivolto a Chiara, con le mani in capo: «Fallo interdire!... Ti vuol rovinare!... L'impiego al sette per cento!... Se non ne vogliono neppure in elemosina?...» Girando poi uno sguardo tutt'intorno, con amara ironia: «Impiego sicuro, signori miei!... Quando la rendita napoletana era al cento e dieci!... Un altro poco e scenderà al cinque la cartaccia sporca!... Allora con cinque lire di capitale, avremo cinque lire l'anno! Arricchiremo tutti quanti! Viva la cuccagna! Viva il gran Vittorio!»

Il duca, che stava in un angolo con Benedetto spiegandogli le proprie idee sull'avviamento della Banca Meridionale, che sotto la direzione di don Lorenzo Giulente doveva «venire all'aiuto dell'incremento industriale e commerciale» e «cooperare l'opera protettrice del governo», sorrise impercettibilmente, scrollando le spalle, alla sfuriata del fratello; Chiara, preso in disparte suo marito, gli disse:

«Non dar retta a quel pazzo!... Tu hai fatto benissimo: comprane dell'altra.» E dopo un poco lo condusse via, prima che la società si sciogliesse, come faceva da un pezzo, senza che si sapesse la ragione della sua gran fretta di tornare a casa.

La ragione era questa: che Rosa Schirano, la nuova cameriera da lei presa a Federico, un bel pezzo di ragazza della Piana, bianca e rossa al pari d'una mela, era incinta per opera del marchese; e invece di cacciarla via, ella non capiva in sé dal contento. Questa era anzi la secreta speranza che l'aveva indotta a metter tante fresche ragazze a fianco del marito; poiché voleva un figlio di lui e non era buona a farlo, s'accontentava di quello di un'altra, le pareva naturalissimo circondare di cure quest'altra che Federico aveva fecondata, e ne invidiava la sorte. Ella stessa le aveva strappato la confessione dell'errore, e la ragazza, impaurita e tremante, era rimasta, poiché la padrona, invece di buttarla giù dalle scale, le aveva detto: «Non t'inquietare; penserò io a tuo figlio!...» Da quel giorno Chiara non aveva avuto pensieri se non per la cameriera. Un certo senso di rispetto umano le aveva impedito di continuare a tenerla nelle proprie camere col ventre sempre più gonfio; ma giù nel cortile, nelle stanze che la moglie del cocchiere era stata costretta a cederle, la visitava tre o quattro volte il giorno, le mandava i migliori bocconi della sua tavola, la teneva nella bambagia.

Quando la cosa si riseppe, tutti i parenti, specialmente i fiutoni, don Blasco e donna Ferdinanda, cominciarono a fare un diavolìo, gridandole che dovesse cacciare a pedate quella ciarpa; ma Chiara, fingendo che Rosa avesse la tresca fuori di casa, la scusava, e dichiarava di non poterla veder soffrire. «Le tentazioni, per queste povere ragazze, sono tante!... Speriamo che la sposerà, chi è stato... Io so che cosa vuol dire gravidanza... Non ho il coraggio di buttarla in mezzo a una strada...» Ma il più bello era che il marchese si seccava e si vergognava anche un poco di quella paternità clandestina. Col marito, Chiara non aveva tenuto nessun discorso in proposito; ma quando la cugina Graziella si mise anche lei della partita, venendo a dirle di mandar via quella sgualdrina, ella si fece rossa, non sapendo lì per lì che rispondere; ma appena l'altra se ne andò, proruppe, rivolta a Federico:

«Sentila, adesso!... Io faccio quel che mi pare e piace, e tu solo hai il diritto di comandare, qui dentro!... Fa la scrupolosa, adesso, questa non so che cosa! Dopo che ruba Giacomo a sua moglie! Ci vuole la sciocchezza di mia cognata, per non accorgersi di nulla!...»

Veramente, più d'uno ne cominciava ora a mormorare, e tra la servitù delle due case correvano già certe occhiate d'intelligenza, si scambiavano certi commenti che facevano inghiottire a Baldassarre botti di veleno. Il signor principe non poteva dunque fare un atto di carità, sorvegliando l'amministrazione intricata della cugina, che già le lingue di vipera ci trovavano a ridire? Forse perché s'era parlato di matrimonio tanti anni addietro? Ma il padrone aveva fatto la volontà della principessa, sant'anima, e adesso pensava ai suoi figli, rispettava la moglie, aveva tutt'altro pel capo che le galanterie! Se avesse voluto andar dietro alla cugina, ne avrebbe avuto tanto tempo, senza aspettar la morte del marito, perché proprio quel buon diavolaccio del cavalier Carvano non era tipo da metter paura! Non vedevano del resto la principessa? Era la più interessata di tutti a sapere la verità; e se quelle ciarle maligne avessero avuto fondamento, se ne sarebbe rimasta così tranquilla?...

La principessa era più tranquilla che mai, sempre piena di obbedienza verso il marito, sempre aspettando gli ordini che egli le impartiva spesso con una sola guardata. La cugina a poco per volta quasi domiciliavasi a palazzo, dava ordini alle persone di servizio come le pagasse lei, esprimeva su tutti gli affari della casa la propria opinione, della quale il principe teneva più conto che non di quella della moglie; ma donna Margherita, invece di dolersene, respirava più liberamente perché Giacomo la lasciava quieta, non pretendeva ch'ella gli desse ragione in tutto e per tutto, e non la rimproverava se le cose non riuscivano poi com'ei voleva. Pertanto, se qualche giorno la vedova non veniva, ella la mandava a chiamare prima che il principe notasse l'assenza, e la tratteneva tutto il giorno in casa, le affidava Teresina, la trattava come una sorella. Quell'intrinsichezza le procurava un altro vantaggio grande, impagabile, risparmiandole l'orrore di toccar le chiavi, i mobili, gli oggetti. Quando bisognava metter fuori biancherie, o frugare negli armadi, o riporre qualche cosa nelle casse, la cugina faceva tutto lei, andava e veniva con le chiavi alla cintola per la casa, la metteva sossopra, al punto che in sua assenza non si trovava più nulla e bisognava mandare qualcuno a chiamarla.

«Almeno, levassero via la bambina!» diceva donna Isabella, scandalizzata, a Raimondo. «La fanno assistere a un bello spettacolo!...»

E don Blasco e donna Ferdinanda già cominciavano a fare anch'essi i loro commenti; ma quando Rosa Schirano partorì al marchese un bel figlio maschio, bianco e rosso, grosso e grasso, la nuova guerra tra gli Uzeda divenne generale.

Chiara, fuori dei panni dal piacere, riprese vicino a sé la cameriera, le cercò una balia, diede al piccolino tutto il corredo preparato un tempo pei suoi propri figli. Lo teneva mattina e sera in braccio, lo dava a baciare al marito dicendogli: «Guarda com'è bello!... Ti somiglia, eh?...» ma quand'era sola, faceva calare dall'alto dell'armadio la boccia polverosa col mostricciattolo partorito da lei, abbracciava con un solo sguardo l'orribile aborto giallo come il sego e il bambino paffuto che tirava pugni, e due lacrime le spuntavano sulle ciglia. «Sia fatta la volontà di Dio!...» Riposta la boccia, tutte le sue cure e tutti i suoi pensieri si rivolgevano al figlio di Rosa, al quale aveva persino messo il nome di Federico... Ma Giacomo diede della pazza alla sorella; Chiara, sentendosi pungere, si mise a cantare contro il fratello che teneva la ganza in casa e le affidava la figlia; Lucrezia, che aveva già fatto pace con Giacomo al tempo del matrimonio di Raimondo, voltò nuovamente casacca e accusò Giacomo, unicamente perché Benedetto consentiva con lui nel biasimare le stramberie della marchesa; donna Isabella, per distrarre Raimondo, che aveva un umore sempre più nero, rincarò la dose contro il principe, contro Chiara, contro Lucrezia; don Blasco e donna Ferdinanda soffiavano nel fuoco ciascuno per suo conto, ora formando leghe contro Chiara, ora contro Giacomo, ora contro la contessa; e tutti e tutte, giovani e vecchi, fratelli e sorelle, zii e nipoti, ricominciavano a buttarsi addosso, volta per volta, l'accusa di stravaganza, di ossessione e di pazzia. In mezzo ad essi, il Priore portava la sua serena indifferenza per tutte le cose di questo mondo, dopo aver fatto la corte a Monsignore e brigato col coadiutore, col Vicario e coi canonici; Ferdinando, elegantissimo, non parlava più d'altro che di abiti e di sarti forestieri; il duca, udendo tutti senza rispondere a nessuno, scambiava telegrammi coi sensali che giocavano in Borsa per conto suo, e badava a ordinare le sue banche e società; il cavaliere don Eugenio, lasciata in asso l'Accademia dei quattro poeti, si occupava unicamente d'un certo negozio di zolfi che pareva molto lucrativo — con le trecent'onze della falsa testimonianza, dicevano le male lingue — e la principessa era felice di tener per aria le mani bianche e lucide, preservandole da ogni contatto, adoperandole soltanto per abbracciare i suoi figli.

Teresa, adesso vicina ai dodici anni, formava il suo orgoglio, per la bellezza della persona e la bontà dell'animo. Mai un dispiacere da quella bambina; lo stesso principe, che a giorni pareva cercasse col lanternino i pretesti per andare in collera, non la coglieva mai in fallo. Bastava che le dicessero una volta: «Teresina, ciò dispiace a tuo padre», oppure: «Tuo padre vuole così», perché ella chinasse il capo senza fiatare. Per l'obbedienza esemplare, per la dolcezza del cuore, ella raccoglieva dovunque lodi e premi. Cresciuta negli anni, non la mettevano più nella ruota per farla passare tra le monache, a San Placido, ma la conducevano spesso al parlatorio della badìa. Ella che aveva frenato, piccolina, la paura di restar chiusa nello spessore del muro, e il terrore del crocifisso nero, preferiva anche ora, in cuor suo, le belle passeggiate all'aria aperta; ma poiché ai parenti faceva piacere che andasse dalla zia monaca, ella stessa sollecitava quelle visite dietro le grate. Ella passava per prove ancora più forti. La vigilia dei Defunti, tutti gli anni, la famiglia recavasi nelle catacombe dei Cappuccini, a visitare gli avanzi della principessa Teresa, per ordine del principe, il quale da canto suo restava in casa temendo che la vista dei morti gli portasse iettatura. La bambina tremava da capo a piedi. Che spavento, tutti quei morti pendenti dalle pareti, chiusi nelle casse, vestiti come in vita, con le scarpe ai piedi e i guanti alle mani; certuni con la bocca contorta come se urlassero dallo spasimo, altri che ridevano d'un riso sgangherato; la nonna, tutta nera in viso, nella bara di vetro, vestita da monaca, con la testa sopra una tegola e le mani aggrappate disperatamente a un crocifisso d'avorio!... Tremava tutta, la bambina, dallo spavento, dall'orrore, e la notte sognava tutti quei morti che le danzavano intorno; ma nascondeva il proprio spavento poiché il confessore le aveva detto che i poveri morti non possono far male, che è dovere visitarli, che bisogna continuamente pensare ad essi perché un giorno anche noi moriremo e andremo dinanzi al Giudice eterno. Quasi in tutte le chiese, del resto, ella aveva un senso di fredda paura; alla Madonna delle Grazie c'era una parete piena di doni votivi: gambe, teste, braccia, mammelle di cera sulle quali erano dipinte orribili piaghe paonazze; ai Cappuccini, nella cappella della Beata Ximena, vedevasi la bara dove custodivano il suo corpo. Dicevano che si conservasse così fresca, dopo secoli, come se fosse spirata da un'ora; ad ogni centenario della beatificazione scoperchiavano il feretro; ella pensava con terrore che fra dodici anni, nel 1876, sarebbe capitato il terzo centenario. Ma poiché faceva sempre forza a se stessa e niente traspariva delle sue paure, e la vedevano stare lunghe ore in quelle chiese, inginocchiata, pregante, tutti lodavano la sua pietà; alcuni dicevano perfino: «Cresce come la Beata; santa come lei!» E queste lodi, sì, l'inorgoglivano; per guadagnarsele sopportava tutto in pace. Anch'ella, come tutte le altre sue amichette, desiderava le belle vesti nuove, dai colori gai, dalle ricche guarnizioni, o le prime buccole, un anellino; ma suo padre diceva che queste cose guastano le ragazze; e invece di piangere e di gridare, come facevan tante, ella chinava il capo, confortata dalla sua mamma che le prometteva all'orecchio: «Vedrai, amorino mio, quando sarai grande!...»

Consalvo non aveva lo stesso carattere della sorella; tutt'al contrario; ma la principessa, scusandolo, lo esortava ad essere buono. Le esortazioni della mamma non davano molto frutto. Sperato invano di tornare a casa pei torbidi del Sessantadue, egli aveva visto passare gli anni uno dopo l'altro senza che il padre mantenesse la promessa di toglierlo dal Noviziato. Tutte le volte che era venuto al palazzo, il ragazzo l'aveva rammentata al principe; ma questi rispondeva invariabilmente: «Più tardi... in primavera... in autunno... non tocca a te pensarci!...» Così rodeva il freno, aspettando la primavera e l'autunno che lo ritrovavano ancora in quella prigione, smaniante, irrequieto, buttato a un tratto col partito dei liberali, nella speranza della soppressione dei conventi. Giovannino Radalì, che, durando la madre nel proposito di fargli pronunziare i voti, nutriva anche lui quest'unica speranza per tornare al secolo, lo aveva convertito; ma l'annunzio della soppressione somigliava alle promesse del principe: ripetute sempre, non si trovavano mai confermate dai fatti. Perciò, continuamente irritato dall'ostinazione del padre, pieno di invidia per quei compagni che ad uno ad uno se ne tornavano in famiglia a godersi la bella libertà, egli diventava il tormento dei maestri, dei fratelli, dei camerieri, di tutto il convento, e rifiutava anche di andare a casa, o, se vi andava, non salutava nessuno, non parlava, stava tutto il tempo della visita con tanto di muso. Ora che al palazzo non si rimoveva una seggiola senza il beneplacito della cugina, costei prestava mano forte al principe, giudicava che il ragazzo, pel momento, stava bene dov'era; gli diceva, con tono d'affetto materno, mentr'egli fremeva d'odio contro quest'altra: «Non dubitare; verrai via a suo tempo; per ora bisogna studiare... Vedi la mia figlioccia'! Anche lei va messa in collegio...»

La signorina Teresina in collegio?... Nella corte, tra la parentela, la notizia, appena risaputa, fu commentata in mille modi: «E perché?... Non sta bene in casa?... Il duca ha voluto così... E che c'entrava il duca?... No, è stato il principe... No, la cugina... La principessa piange da mattina a sera...» Ciascuno diceva la sua, qualcuno soffiava che forse la decisione era stata presa perché un giorno la signorina, entrata inavvertitamente nella Sala Rossa, aveva trovato il principe e la madrina in troppo intimo colloquio... Ma Baldassarre, col suo tono d'autorità che troncava tutte le chiacchiere, dava la versione schietta e genuina: tutte le grandi famiglie di Palermo e di Napoli, al giorno d'oggi, stillano di mettere le signorine in collegio, nei collegi a chic, dove imparano la lingua italiana e anche la francesa: il barone Cùrcuma ci aveva messo la sua ragazza, dunque la figlia del principe di Francalanza doveva andare anche lei in uno di quei collegi. Il signor duca conosceva che quello dell'Annunziata, a Firenze, era il più a chic di tutti, perché infatti costava più caro; e anche il signor don Raimondo e la contessa donna Isabella, che a Firenze c'erano stati di casa, dicevano altrettanto e approvavano che la principessina ricevesse l'educazione conveniente!...

Egli non diceva che donna Ferdinanda, alla notizia della decisione presa a sua insaputa, s'era scagliata con più violenza contro il principe e aveva perdonato a Chiara l'allevamento del bastardo per andare a sfogarsi con lei contro queste stupide novità dei collegi fiorentini, quando ai suoi tempi le ragazze nobili imparavano in famiglia a filar seta e non s'impinzavano di sciocchezze italiane e forestiere; non diceva che don Blasco girava per le case dei nipoti predicando la crociata contro le porcherie che si commettevano al palazzo... Pel Baldassarre, il principe era Dio, e tutto ciò che il padrone faceva era ben fatto. Rispettava anche gli altri parenti e perciò le voci di quelle guerre in famiglia lo contristavano positivamente; voleva che tutti andassero d'accordo per il buon nome, per il prestigio della casata. E negava i piccoli dissidi, scemava importanza ai grandi, imponeva silenzio al basso personale sempre con l'orecchie tese per acchiappare a volo qualche notizia piccante, attribuiva all'invidia delle altre case meno nobili e ricche le voci maligne che circolavano tra i servi. Esse non dovevano a nessun costo arrivare al padrone; se costui domandava perché il tale o tal altro guattero era stato congedato, egli trovava un buon pretesto, oppure diceva che era stato il signor Marco. Stimava pertanto l'amministratore, che era come lui geloso del buon nome della casa e pieno di rispetto verso il principe e di giusta severità verso i dipendenti.

Del resto, alla lunga, gl'invidiosi si stancavano di sparlare. Prima di tutto, alcuni dei parenti andarono via e perciò i motivi di lite scemarono. Il contino Raimondo un bel giorno, senza aver detto niente a nessuno, fece i bauli e se ne partì con la moglie per Palermo, lasciando a Pasqualino l'incarico di vendere la mobilia comperata un anno prima. Poi partì il duca diretto a Firenze e conducendo via anche la principessina Teresa, per metterla al collegio, com'erasi stabilito. La bambina, nel congedarsi, piangeva dirottamente dal dolore di lasciar la sua casa, di entrare nel collegio di Firenze, tanto lontano, dove neppure la domenica, neppur dietro a una grata, come a San Placido, avrebbe potuto vedere la sua cara mamma. La comare però le diceva:

«Non piangere così; non vedi che fai male a tua madre?...» e allora ella inghiottiva le sue lacrime, si ricomponeva. Il giorno della partenza, la principessa ebbe una convulsione di pianto, abbracciando furiosamente la figlia; e la stessa cugina aveva gli occhi rossi, ma faceva coraggio a tutti: «Teresina tornerà fra qualche anno; e poi ogni autunno l'andremo a trovare, è vero, Giacomo?... Verrò anch'io; sei contenta così?... Vedrai poi, quando tornerai istruita ed educata come si conviene, quanto tutte t'invidieranno!... Vedrai anche tu, Margherita, quanto sarai orgogliosa della mia figlioccia!...» La bambina allora chinò il capo, s'asciugò gli occhi, e disse alla sua mamma, seria e composta com'era sempre stata: «Non t'angustiare, mamma mia bella; ci scriveremo ogni giorno, ci rivedremo presto... Vedi che sono ragionevole?..» Un amore di figliuola, quella lì; vera razza dei Viceré!

Poi partì anche il cavaliere don Eugenio per Palermo. La ragione di questa partenza qui non si seppe molto bene. Il cavaliere aveva detto che certe grandi case palermitane lo avevano chiamato per associarlo in grandi e nuove speculazioni dove c'era da arricchire in poco tempo; ma le male lingue, che non tacciono mai, volevano dare a intendere che egli era scappato perché, mangiatisi i quattrini degli zolfi presi a credenza, contro cambiali che non poteva più pagare, correva rischio di prendersi qualche soma di sante legnate... Comunque andasse la cosa, fatto sta che, partite tutte queste persone, la pace tornò a regnare in famiglia. La cugina, affezionatissima, veniva giorno, sera e notte a tenere compagnia e a dare una mano alla principessa, che le era gratissima di tante attenzioni; venivano anche gli altri parenti, non più inviperiti come un tempo; gridavano, è vero, ogni tanto: don Blasco, per esempio, a motivo della soppressione dei conventi annunziata nel programma della nuova legislatura, o la signora donna Lucrezia contro il marito e i liberali; ma niente di positivo. Il principe, da canto suo, badava agli affari dell'amministrazione, ma senza più affaticarsi troppo, senza più tenere le interminabili sedute d'un tempo col signor Marco.

Ora un giorno, che fu giusto il 31 dicembre 1865, Baldassarre corse ad una chiamata del padrone il quale era nel proprio scrittoio in compagnia del notaio.

«Accompagna il notaio dal signor Marco e consegnagli questo biglietto,» gli disse il padrone.

«Eccellenza,» rispose Baldassarre, «è andato fuori mezz'ora addietro...»

«Va bene; metterai dunque il biglietto sul suo tavolino. E voi, notaio, mi farete il piacere d'aspettare un poco... Tu va' a prendere un cartellino col si loca, di quelli delle botteghe; ce ne deve essere, nel magazzino... E attaccalo al balcone della sala del signor Marco.» Baldassarre, nonostante la sua abituale passività nell'obbedienza, restò un momento a guardar per aria. «Il si loca nel balcone della sala: hai capito?» ripeté il padrone che non amava dire due volte le cose.

«Subito, Eccellenza.»

Corso a prendere il cartellino, il maestro di casa salì a quattro a quattro le scale dell'amministrazione, entrò nel quartierino del signor Marco e, lasciato il biglietto sulla tavola, aperse la vetrata e si mise ad attaccar l'appigionasi. Non capiva bene che cosa significasse quell'ordine né quel che stesse per succedere; ma sentivasi inquieto. Giusto mentre finiva di legare la tavoletta, apparve, giù nella via, il signor Marco. Si fermò un istante a guardare in alto, poi cominciò a gesticolare, domandando al maestro di casa che diamine facesse, e Baldassarre gli rispondeva additando le finestre del padrone, per fargli intendere che obbediva ad un suo ordine. A un tratto il signor Marco si mise quasi a correre, e dopo pochi minuti gli arrivò dinanzi pallido e col fiato ai denti.

«Che fai? Perché il si loca? Chi diavolo t'ha detto?»

«Il principe, il signor principe.. c'è anzi una lettera... lì, sulla tavola...»

Leggendo il biglietto, le mani e le labbra tremavano al signor Marco, come se gli stesse per prendere un accidente; e Baldassarre, impaurito, si tirava un poco indietro, pronto a chiamare soccorso; quando, strappato malamente il foglio, l'altro gridò, con voce rotta:

«A me?... Il congedo?... Come a un guattero? L'ultimo del mese? Ladro schifoso! Principe porco!»

«Don Marco!...» balbettò Baldassarre, atterrito.

«A me il congedo?... E il notaio per la consegna?... Credeva forse che gli volessi portar via i suoi denari?... Quelli che ha rubati ai fratelli e alle sorelle?... O le sue carte? Le prove delle sue ruberie? Delle sue falsità? Ladro, ladro, ladrone! E più porco io che gli tenni mano!... Mi manda via perché non ha più da spogliare nessuno?...»

Con le mani in capo, Baldassarre scongiurava: «Don Marco!... Signor Marco!... per carità!... possono udirvi!...» ma l'altro, fuori della grazia di Dio, tremando dall'ira, buttava fuori quel che aveva in corpo contro il padrone e tutta la sua razza:

«Dieci anni! Dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi e birbanti!... E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l'affezione, il rispetto alle volontà di sua madre; pezzo di Gesuita più di quell'altro Sant'Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell'altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant'è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all'altr'ieri?...»

«Don Marco!» gridò Baldassarre, minaccioso finalmente anche lui, per tentar d'arrestare quella fiumana di male parole che i gesti disperati di preghiera e di paura non erano valsi a frenare. E il signor Marco lo guardò stralunato, quasi accorgendosi in quel punto della sua presenza.

«Mi meraviglio!» continuava il maestro di casa, fermo e contegnoso. «La volete finire, una buona volta?...»

Allora l'altro gli tirò sul muso un'amara sghignazzata.

«Zitto, tu! Prendi le parti di tuo fratello, bastardo?»

Giusto in quel momento comparve il notaio che saliva dal quartiere del principe:

«Signor Marco...» ma l'altro non lasciò dire:

«Venite per la consegna, eh?» riprese a tonare. «Che cosa volete che vi consegni? le carte false del vostro padrone? gli atti carpiti? le transazioni strozzate?... Ecco qui, prendete!...» E cominciò a buttare all'aria tutto ciò che si trovava sulla scrivania, sugli scaffali. «Temete che io li porti via? Non ne ho bisogno. Lo sanno tutti che razza d'imbroglione, di ladro e di falsario è il vostro principe! Voi lo sapete, che ha rubato la sorella monaca e la badia col cavillo dell'approvazione regia, e quell'altra pazza per consentire al suo matrimonio, e il Babbeo perché è babbeo e il contino per dargli mano a quelle altre vergogne!... Voi le sapete meglio di me tutte le trame che ha ordite, le cambiali vecchie pagate dalla madre, fatte ripagare due volte, prima ai legatari, poi al coerede; e i debiti supposti, la procura carpita...»

«Di grazia, signor Marco... un po' di misura...»

«Misura? Sono misuratissimo, sono! O credete che mi dolga del posto perduto?... Ne troverò un altro, non dubitate!... E da per tutto sarò trattato meglio che tra questi arlecchini finti principi... Forse temevano che io li rubassi, eh? Che io m'arricchissi a spese loro?... Lo disse una volta, quel maiale del monaco: vi pare che non l'abbia risaputo?... Io che ci ho rimesso di sacca mia? perché se trovavano un centesimo mancante gridavano un mese durante!... Casa munifica, in verità, da poterci fare il nido!...» E spalancando gli armadi e le cassette riprendeva: «Qui!... Prendete, vi consegno ogni cosa!... Venite a guardare sotto il letto, se c'è il cantero!... Frugatemi addosso, se gli porto via qualche cosa... A voi, chiappate: sono le chiavi delle casse e degli armadi; ditegli che se le...» E le lasciò correre per terra. A un tratto, vide, nell'armadio spalancato, appesa a un uncino di rame dorato, quella della bara della principessa, l'unico regalo fattogli dalla defunta oltre le vecchie tabacchiere, dopo quasi trent'anni di servizi. Afferrarla e scaraventarla contro il muro, fu tutt'uno.

«E questa con l'altre...» gridò, con una mala parola da far arrossire la morta, laggiù, nelle catacombe dei Cappuccini.

6.

Per la via polverosa, sotto il cielo di fuoco, un'interminabile fila di carri colmi di masserizie: stridevano le ruote, tintinnavano i sonagli, e i carrettieri seduti sulle stanghe o appollaiati in cima al carico voltavano tratto tratto il capo, se uno scalpitar più frequente e un più vivace scampanellìo di sonagliere annunziavano il passaggio di qualche carrozza. Allora la fila dei carri serravasi sulla destra della via, e il legno passava, tra una nugola di polvere e lo schioccar delle fruste, mentre le facce spaventate dei fuggenti apparivano agli sportelli.

«Il castigo di Dio!... Tutta colpa dei nostri peccati!... Eran più di dieci anni che vivevamo tranquilli! Assassini del governo!...» La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugar il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull'origine della pestilenza, sulla fuga universale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl'«italiani», untori quanto i borboni. Al Sessanta, i patriotti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s'era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d'oro e d'argento che almeno ricreavano la vista e l'udito, sotto l'altro governo? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Eran questi tutti i vantaggi dell'Italia una?... E i più scontenti, i più furiosi, esclamavano: «Bene han fatto i palermitani, a prendere i fucili!...» Ma la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l'insorta città... E sui monticelli di breccia disposti lungo la via, al filo d'ombra proiettata dai muri, dalla cui cresta sporgevano le pale spinose dei fichi d'India, i fuggenti sedevano un poco, discutendo di queste cose, mentre continuava la sfilata delle carrozze, dei carri e dei pedoni non ancora stanchi. Alcuni tra questi, i più poveri, avevano caricato tutta la loro roba sopra un asinello, e uomini, donne e bambini seguivano a piedi, con fagotti di cenci in capo, o sotto il braccio, o infilati ad un bastone, la bestia lenta e paziente. I conoscenti si fermavano, notizie e commenti erano scambiati anche tra sconosciuti, con la solidarietà del pericolo nella comune miseria. Le donne ripetevano ciò che avevano udito dire dai preti: il colera era la pena dei tempi peccaminosi: gli scomunicati non avevano fatto la guerra al Papa? La Chiesa non era perseguitata? E adesso, per colmar lo staio, c'era la legge che spogliava i conventi! La fine del mondo! L'anno calamitoso! Chi avrebbe creduto una cosa simile! Tanti poveri monaci buttati in mezzo a una via? I luoghi santi sconsacrati? Non c'è più dove arrivare!... Queste erano sciocchezze, giudicavano invece gli uomini. I monaci avevano assai scialato senza far nulla! Mangiavano a ufo! E i muri dei conventi, se avessero potuto parlare, ne avrebbero dette di belle. Era tempo che finisse la cuccagna! L'unica cosa fatta bene dal governo!... Però, tanti santi Padri, che ce n'erano, costretti a vivere con una lira al giorno! I Benedettini, per esempio, avevano di che scialare con una lira il giorno, dopo aver fatto la vita di tanti Re! «E i quattrini che si sono divisi?»

La notizia circolava da un pezzo, e certuni ne davano i particolari come se fossero stati presenti: le economie fatte negli ultimi anni, nella previsione della legge, erano state distribuite a tanto per uno: ogni monaco aveva preso nientemeno che quattromila onze di monete d'oro e d'argento. Poi s'eran spartita l'argenteria da tavola, tutta la roba di valore, e avvicinandosi il momento del congedo avevano venduto una gran quantità delle provviste accatastate nei magazzini: grandi botti di vino, grandi giare d'olio, gran sacchi di frumento e di legumi; altrettanti quattrini intascati — e nondimeno i magazzini parevano ancora colmi! «Han fatto bene! Dovevano forse lasciare anche la cassa ai ladri del governo?...» E le piccole carovane si rimettevano in marcia con le teste riscaldate all'idea dei milioni di milioni d'onze che avrebbe intascato Vittorio Emanuele vendendo i beni di San Nicola e di tutte le altre comunità... Molti mendicanti, profittando del gran passaggio di gente, tendevano la mano dal mucchio di sassi dove stavano sdraiati; i cenciosi bambini che li accompagnavano correvano dietro alle carrozze se da qualcuna di esse cadeva un soldino nella polvere dello stradale. E i pedoni riconoscevano i signori fuggenti, se ne ripetevano il nome, spaventati all'idea del vuoto della città: «il principe di Roccasciano!... La duchessa Radalì!... I Cùrcuma!... I Grazzeri!... Non resterà dunque nessuno?...»

Verso sera, quando l'ardore della giornata si temperò, tre carrozze padronali scappanti una dietro all'altra sollevarono una gran nuvola di polvere dalla città al Belvedere. Nella prima c'era il principe di Francalanza, donna Ferdinanda e la cugina Graziella, invitata alla villa perché non poteva andar sola alla Zafferana, e il principino Consalvo a cassetta, che brandiva trionfalmente la frusta, quantunque portasse ancora la tonaca benedettina perché suo padre s'era deciso a riprenderlo in casa proprio all'ultimo momento, quando i monaci s'eran dispersi e don Blasco e il Priore avevano anch'essi chiesto ospitalità al palazzo. Nella seconda carrozza stava la principessa, senza nessuno a fianco né dirimpetto e solo la cameriera nell'angolo opposto. Il contatto d'una spalla l'avrebbe fatta cadere in convulsione, perciò s'era dichiarata contentissima che il principe accompagnasse la cugina. L'altra carrozza era invece stipata: c'erano il marchese e Chiara, Rosa col bambino e finalmente don Blasco. Questi aveva rifiutato per la campagna l'ospitalità del principe e accettata quella del marchese, allo scopo d'evitare la sorella Ferdinanda; l'avversione non cedeva neppure dinanzi al pericolo del colera, gli faceva preferire la compagnia del bastardello. Il Priore, invece, era rimasto in città, al Vescovato, dove Monsignore lo aveva accolto a braccia aperte: tutte le preghiere e gli inviti dei parenti non erano valsi a farlo fuggire; il suo posto, diceva, era al capezzale degli infermi, accanto a Monsignore. Le maggiori insistenze gli erano venute dal principe, il quale sosteneva, come sempre, che in tutte le circostanze gravi e solenni la famiglia doveva tenersi unita; perciò gl'incresceva di lasciare in mezzo al pericolo qualcuno dei suoi. Che cosa si sarebbe detto? Che egli pensava solamente a se stesso?... Ma, come non era riuscito a rimuovere il Priore, così aveva fatto fiasco con Ferdinando, il quale, preso gusto alla vita cittadina, non voleva sentir parlare neppure di rifugiarsi alle Ghiande. Lucrezia era già partita nella mattina pel Belvedere col marito, il suocero e la suocera. Quanto allo zio duca, era a Firenze, vicino alla nipote Teresina, e poiché il colera non infieriva e non metteva tanto spavento quanto in Sicilia, così egli era e voleva che sua moglie fosse tranquilla. Al cavaliere don Eugenio, che se ne stava ancora a Palermo, nessuno pensava.

Ricominciò al Belvedere la vita allegra della villeggiatura, tanto più che l'allarme destato dalle prime notizie della pestilenza si dimostrò presto ingiustificato: in città c'era appena qualche caso sospetto di tanto in tanto. Il principino, lasciata finalmente la tonaca per gli abiti di tutti gli altri cristiani, cominciò a prendersi quegli spassi che aveva sognati. Prima di tutto, con uno schioppo vero, se ne andava a caccia sui monti dell'Elce o dell'Urna, a sterminare conigli, lepri, pernici ed anche passeri, se non trovava altro; poi faceva attaccare ogni giorno per imparare a guidare, e il suo calessino divenne in breve il terrore di chi girava per le vie di campagna: sempre addosso ai carri ed alle carrozze, lanciato a tutta corsa per lasciare indietro ogni altro veicolo a costo di ribaltare, di fracassarsi, d'ammazzare qualcuno. Quando non guidava, se ne stava nella scuderia a veder governare le bestie, a imparare il linguaggio speciale dei cocchieri, dei cozzoni e dei maniscalchi, a criticare gli animali degli altri signori rifugiati al Belvedere o nei dintorni, gli acquisti recenti di Tizio, gli equipaggi di Filano, e donna Ferdinanda, udendolo parlare con sempre maggior competenza intorno a tali nobili argomenti, s'inorgogliva ammirando: «Queste son le cose che devi imparare!...» Anche la principessa, sebbene piangesse ancora per la lontananza di Teresina, si mostrava orgogliosa dei progressi del figliuolo, ma più la cugina, che prodigava al giovanotto continue carezze, benché Consalvo non solamente non le rispondesse con eguale effusione, ma si studiasse anche di evitarla. Non l'aveva perdonata d'essersi opposta al suo più pronto ritorno nella casa paterna; e adesso, vedendola domiciliata lì come una persona della famiglia, prendere il posto della sua mamma, la sua antipatia cresceva. Donna Graziella, in verità, più che da ospite si diportava da padrona: bisognava vederla la sera, quando veniva gente, come faceva gli onori di casa, specialmente se la principessa sentivasi indisposta E questo accadeva spesso; senza soffrire precisamente di nulla, donna Margherita, dopo la partenza della figliuoletta, accusava un sordo malessere, dolori di capo, una certa difficoltà di digestione. E felice di poter evitare la folla, le vicinanze infette, le strette di mano contagiose, se ne andava a letto, mentre nel salone la gente conversava animatamente, giocava, scioglieva sciarade. Lucrezia, lasciando la villa Giulente, partecipava con la cugina alla direzione delle faccende domestiche. Lei che in casa propria non metteva un dito all'acqua fresca, veniva a darsi un gran da fare per la vanagloria di riprendere il proprio posto nella casa del fratello principe. Chiara tirava su a zuccherini il bastardello, lo vezzeggiava molto più del marchese, il quale provava sempre un certo disagio e una certa vergogna a riconoscere pubblicamente quella paternità, mentre sua moglie quasi se ne gloriava. Se la principessa, o donna Ferdinanda, o qualche altro parente non faceva buon viso al piccolino, ella mostravasi offesa ed era capace di non metter piede per una settimana alla villa, se le passava pel capo che qualcuno incominciasse a criticare quella specie di adozione. Viceversa, era adesso tutt'una cosa con lo zio Blasco, il quale, stando con lei, la approvava implicitamente.

Il monaco, alla notizia della legge che sopprimeva i conventi, durante gli ultimi tempi della vita claustrale e nei primi passati a casa del nipote, aveva fatto cose, cose dell'altro mondo: era parso veramente uno scatenato diavolone dell'Inferno. Le male parole di nuovo conio, le imprecazioni, le bestemmie eruttate contro il governo, a San Nicola, al palazzo, dalla Sigaraia, nelle farmacie borboniche e anche sulla pubblica via, non si poterono neppur noverare; i vituperi evacuati contro il fratello deputato, che aveva dato il suo voto alla legge, si lasciarono mille miglia lontano tutto quello che di più violento gli era mai uscito di bocca. Ma quasi la mostruosità compitasi fosse troppo grande, troppo stordente, egli si ridusse tosto ad un silenzio grave ed incagnato, dal quale non lo toglievano se non le voci, ripetute in sua presenza,  della spartizione delle economie, delle quattromila onze toccate a ciascun Padre. Allora ricominciava a tonare: «Spartite sette paia di corna! Toccate quattromila teste di cavolo!… C'era un cavolo da spartire!… E se pure ci fosse stato qualcosa, nessuno avrebbe toccato niente! Per rendersi complici dei ladroni, ah? del rifiuto delle galere? del sublimato della briganteria?…» Egli parlava così dinanzi agli estranei, alla gente di poco affare, alle persone di servizio; in famiglia, tra gli intimi, confessava la spartizione, ma riduceva la sua quota a poche centinaia di onze, a due posate, a un paio di lenzuola, tanto da non restar sulla paglia. Da San Nicola era venuto via con due casse, delle quali non lasciava mai le chiavi; e il principe, in città, le aveva covate con gli occhi, quasi pesandole e fiutandole, con nuovo rispetto per quello zio che adesso possedeva qualcosa; ma tutto il suo studio per trovare il destro di guardar dentro alle casse era stato inutile, giacché il monaco si sprangava in camera, ogni qualvolta aveva da frugarvi.

Adesso, al Belvedere, anche Chiara e Federico parlavano spesso tra loro di questi famosi quattrini che doveva possedere don Blasco. Il marchese, temendo che li sciupasse con la Sigaraia, avrebbe voluto proporgli di metterli al sicuro, di comperarne altrettanta rendita se il monaco fosse stato un altro, se ogni semestre, avvicinandosi la scadenza delle cedole, don Blasco non l'avesse vessato, punzecchiato, tormentato, profetandogli il subisso di quel titolo. Il corso forzoso, la guerra, il colera, tutte le pubbliche calamità erano stati altrettanti argomenti di giubilo pel monaco, il quale si fregava ogni volta le mani, gridando al nipote: «Addio, la carta sporca! È fritto, il tuo governo! Tu non mi hai voluto ascoltare, ben ti sta!…» Ma il marchese incassava sempre la sua rendita il giorno stabilito, fino all'ultimo centesimo. Cessato del tutto il pericolo del colera, un giorno egli scese in città per qualche affare e per riscuotere il semestre; tornato al Belvedere e passeggiando, dopo pranzo, sulla terrazza, mentre Chiara giocava col bastardello, egli riferì allo zio l'impiego della sua giornata.

«Ho anche preso i quattrini delle cedole... adesso le pagano anticipatamente, per l'affare dell'aggio… A mandarle a Parigi si prenderebbero altrettanti pezzi di napoleoni. Io ho ordinato un'altra partita di cartelle... le divideremo con parecchi amici... perché oggi non c'è come impiegare il denaro…»

Voleva insistere a dimostrar la bontà dell'affare, ma tacque, perché don Blasco, fermatosi di botto, gli piantò gli occhi addosso, come sul punto di scoppiare.

«Potresti cedermene diecimila lire?»

Il marchese, sulle prime, credé d'aver udito male.

«Cederne?... Come?... A Vostra Eccellenza?...»

«Dico se puoi vendermi diecimila lire di cartelle, capisci o non capisci?»

«Ma credo... certo... Diecimila lire di capitale, s'intende?... Eccellenza sì; posso scrivere subito un'altra lettera, per maggior sicurezza, se Vostra Eccellenza le vuole...»

«Quando scriverai?»

«Domani stesso.»

«E verranno subito?»

«In un giro di posta.»

Il monaco gli voltò le spalle e s'allontanò un poco; poi tornato indietro, ripiantatoglisi dinanzi, riprese:

«Senti, giacché ci sei, fanne venire per ventimila lire.»

«Eccellenza sì; quanto vuole Vostra Eccellenza...»

E appena solo, il marchese corse dalla moglie, le disse col respiro rotto dallo sbalordimento:

«Non sai?... Non sai?... Lo zio vuol comprare della rendita! Ventimila lire di cartelle!... M'ha dato la commissione!... Non mi par vero! Mi par di sognare!...»

Chiara rispose, tranquillamente, con una scrollatina di spalle:

«Di che ti stupisci? Non sai che i miei parenti sono tutti pazzi?...»

Sottovoce, l'uno all'orecchio dell'altro, gli Uzeda riprendevano a darsi del matto. Non era matta Chiara che trattava la cameriera come una sorella e il bastardo di lei come un figlio suo proprio? Non era matta Lucrezia che maltrattava quel povero diavolo di Benedetto in tutti i modi? Che cos'era donna Ferdinanda, la quale, senza che gliene venisse nulla, si impacciava di tutti gli affari della parentela? E che dire del principe, il quale, dopo aver dimenticato per tanti anni la cugina, adesso si metteva con lei, sotto gli occhi del figlio?...

Qui consisteva forse il motivo che rendeva la Graziella sempre più antipatica a Consalvo: egli la contraddiceva in tutto e per tutto, dinanzi alle persone; evitava poi di restar solo in sua compagnia, affettava di trattarla come una intrusa quando le persone di servizio gli parlavano di lei. Questo era però l'unico sentimento che egli manifestava; del resto, stava in casa il meno possibile, montava a cavallo quando non usciva in carrozza, inforcava tutti gli asini dei contadini, teneva conversazione con tutti i carrettieri; il cuoco, dalla finestra della cucina, da cui si scorgeva il podere fino alla chiusa degli olivi, lo vedeva rincorrere le donne che venivano a cercare i fasci dei sarmenti vecchi. Con la moglie di massaro Rosario Farsatore, il fattore lo colse quasi sul fatto, un pomeriggio, nel pagliaio: egli non si mostrò per nulla turbato, e la cosa, venuta all'orecchio di donna Ferdinanda, lo rialzò nella stima della zitellona. Il principe finse di non saper nulla: pareva si fosse proposto di lasciarlo sbizzarrire, quasi a compensarlo degli ultimi anni che lo aveva tenuto a San Nicola.

«E fra' Carmelo?» domandavano di tanto in tanto donna Ferdinanda, la principessa, Lucrezia. «Che n'è di fra' Carmelo?...» ma il principino non sapeva né curavasi di sapere che fosse avvenuto del suo antico protettore. A San Nicola, quando aveva roso il freno, aspettando la legge di soppressione come l'unica via di salvezza, egli s'era divertito a tormentare il fratello predicendogli lo sbando dei monaci, la chiusura del convento; ma l'altro, scrollando il capo, sorrideva d'incredulità, non comprendeva come gli stessi Padri potessero credere a una cosa simile. Mandarli via? Vendere le proprietà? Parole, chiacchiere, queste d'ora come quelle d'un tempo! Chi avrebbe avuto tanto ardire? E la scomunica del Papa? la guerra delle potenze cattoliche? la rivoluzione di tutta la cristianità?... E nulla era riuscito a scuotere la sua sicurezza, né le notizie dei giornali, né i preparativi dello sgombero, né la partenza dei novizi. Dopo, Consalvo non aveva più avuto notizie di lui.

Una mattina, al Belvedere, mentre la famiglia si levava di tavola dopo colazione, Baldassarre venne ad annunziare:

«Eccellenza, c'è fra' Carmelo.»

«Fra' Carmelo!»

Nessuno riconobbe il fratello dal faccione bianco e roseo, dalla ciera gioviale, dal pancione arrotondato sotto la tonaca, nel personaggio che s'avanzò verso il principe, con le braccia levate:

«Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...»

In qualche mese era dimagrato della metà, e sul viso giallo e floscio gli occhi un tempo ridenti avevano una strana espressione di inquietudine quasi paurosa.

«Eccellenza, me n'hanno cacciato!... Eccellenza, me n'hanno cacciato!...» e guardava tutti i signori, tutte le signore, quasi a provocare la dimostrazione del loro sdegno contro quella mostruosità. «Dunque era vero?... Ma che non s'ha da far nulla?... Voialtri che siete ascoltati?... Lascerete che quei scellerati rubino San Nicola, San Benedetto, tutti i santi del Paradiso?...»

«Che possiamo farci!...» esclamò Consalvo fregandosi le mani; e donna Ferdinanda aggiunse:

«Avete voluto il governo liberale? Godetene i frutti!»

«Io?... Io, Eccellenza?... Sapevo molto, io, di liberali e non liberali!... Io badavo agli affari miei!... Sessant'anni che c'ero dentro!... Nessuno aveva osato toccarlo, in tante rivoluzioni che ho viste: il Trentasette, il Quarantotto, il Sessanta...»

«Bel terno!...» fece il principino; e come Baldassarre venne a dirgli che il calesse era attaccato, si alzò, esclamando sotto il naso del fratello:

«Adesso c'è la legge, caro mio!...»

«Ma è giusta legge questa?... I beni della Chiesa?... Allora io me ne vengo in casa delle Vostre Eccellenze e mi piglio ogni cosa?... Si può fare una legge così?...» E raccontò confusamente ciò che era avvenuto all'atto dello spogliamento: «Quel delegato, per la consegna... L'Abate non volle esser presente, ed ha ben fatto: una simile vergogna!... E s'è coricato nel letto di Sua Paternità, lo straccione: cose da non credersi... Venne il Priore, e gli ha dato tutte le chiavi, Eccellenza: della chiesa, della sacrestia, dei magazzini, del museo, della biblioteca... E tutto venduto, sulla pubblica piazza: le tavole, le seggiole, i servizi, la lana, il vino, i letti, quasi fossero di nessuno!... E i candelieri del coro, quel ladro, credendoli d'oro, di notte non li portò via?... Lo legarono, gli altri ladri più di lui!... E non c'è più niente!... I soli muri!... Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...»

La principessa cercava di confortarlo, con belle parole; il principe gli offrì da bere; ma egli rifiutò, riprese a narrare le stesse storie imbrogliandosi più di prima; poi se ne andò alla villa del marchese, da don Blasco, ricominciando:

«Ce n'hanno cacciato!... E Vostra Paternità non fa nulla?.. Il Priore suo nipote?... Monsignor Vescovo?... Perché non scrivono a Roma?... Ha da finir così?...»

Don Blasco, al quale il giorno prima era arrivata la rendita, tonò:

«Come vuoi che finisca?... Quando io gridavo a quei ruffiani: "Badate ai fatti vostri? Non scherzate col fuoco! Ci rimetterete il pane!..." mi davano del pazzo, è vero? E si confortavano con gli aglietti, le bestie, dicendo che il governo non li avrebbe toccati, che avrebbe passato loro una lauta pensione, se mai!... E i tuoi compagni che facevano anch'essi i sanculotti, quel porco di fra' Cola che distribuiva bollettini ai novizi? Quell'altro collotorto di mio nipote che faceva salamelecchi a Bixio e a Garibaldi? Quell'asino con diciotto piedi dell'Abate che si grattava la tigna, e pareva un pulcino nella stoppa?... Adesso che volete? Se siete stati i vostri propri nemici?... Il governo è ladro, e doveva fare il suo mestiere di ladro: che meraviglia? La colpa è di quelle testacce di cavolo che lo aiutarono, che gli proposero: "Venite a rubarmi!..." e gli aprirono anzi le porte!... Non mi dissero, una volta, che volevano godersi un po' di libertà? Se la godano tutta, adesso!... Nessuno gliela contrasta!...»

«E ce n'hanno cacciato!... Ce n'hanno cacciato!...»

Quando gli Uzeda tornarono in città, al principio dell'anno nuovo, una lettera del duca a Benedetto annunziò che la Camera sarebbe stata sciolta fra poco. Egli non si dava questa volta neppur la pena di venire, incaricava i suoi amici di lavorare per lui. Gli affari non gli consentivano di lasciar Firenze, e questi affari, in fin dei conti, erano più quelli degli elettori che i suoi propri. I suffragi dovevano quindi andare a lui, come al naturale, al legittimo rappresentante del paese; era assurdo supporre che qualcuno pensasse a contrastarglieli. Quanto a render conto del modo col quale aveva esercitato l'ufficio ed a spiegare le proprie convinzioni politiche ed a studiare i bisogni o ad ascoltare i voti del collegio, uno scambio di lettere con Giulente zio e nipote, con qualcuno dei pezzi grossi, bastò. I soliti malcontenti tornavano a fargli stupide accuse, tentavano un'altra volta di rivangare le vecchie storie; i repubblicani, i sinistri, gli rimproveravano il suo servilismo verso il governo, tentavano contrapporgli qualcuno dei loro; ma incontravano da per tutto forte resistenza, erano costretti a battere in ritirata. Un giornaletto satirico settimanale, il Ficcanaso, faceva ridere la gente, dicendo che l'onorevole d'Oragua aveva fatto alla Camera quanto Carlo in Francia senza neppure aprir bocca; ma il Pensiero italiano, successo all'Italia risorta, dichiarava che il Paese non sapeva che farsi dei chiacchieroni, e preferiva i cittadini intemerati che votavano senza ascoltare altra voce se non quella della propria coscienza. Esso non nominava mai il duca senza chiamarlo l'eminente patriotta, l'insigne patrizio, l'illustre deputato; e all'annunzio dello scioglimento della Camera ne cominciò il panegirico. Fra i tanti meriti del «cospicuo Cittadino» quello d'aver contribuito precipuamente all'istituzione della Banca Meridionale di Credito non era certo il più piccolo; e don Lorenzo Giulente, nel suo gabinetto di direttore, raccomandava alla gente che veniva a prender quattrini l'elezione del duca. «C'è bisogno di rammentarcelo?...» Ma, considerando la velleità d'opposizione, gli amici del deputato volevano ottenere una vittoria strepitosa; infatti gli misero insieme quasi trecento voti. Il duca, riconoscente, fece cadere sul collegio una nuova strabocchevole pioggia di croci di San Maurizio e Lazzaro; Benedetto ne ebbe una tra i primi, e la cosa non gli fece certo dispiacere, quantunque egli si stimasse cavaliere per nascita; ma dal giorno di quell'annunzio sua moglie non gli dette più requie: «Cavaliere!... Senti, cavaliere!... Che fai, cavaliere?... Cavaliere, vogliamo andar fuori?...» gli diceva a quattr'occhi e in presenza d'estranei, a proposito e a sproposito. E se c'erano altre persone, aggiungeva invariabilmente: «Perché adesso, non sapete? mio marito è cavaliere, sissignori: senza cavallo...»

La vera, la prima origine della durezza con la quale ella lo trattava da un pezzo era la persuasione finalmente radicatasi nel suo cervello che egli non fosse abbastanza nobile per lei. A poco a poco, giorno per giorno, aveva riconosciuto che i suoi parenti dicevano giusto quando denigravano i Giulente; e, dimenticate le accuse rivolte al principe, aveva fatto la pace, cedendo per la prima, affinché non si dicesse che gli Uzeda sdegnavano di trattarla. E quanto più Benedetto le stava dinanzi sommesso, tanto più ella riconosceva di avergli accordato una grazia speciale, sposandolo. Le opinioni liberali di lui, un tempo ammirate, adesso l'esasperavano come una prova di volgarità. I puri erano tutti borbonici; lo zio duca e qualche altro facevano i liberali perché ci speculavano su. Se il patriottismo avesse fruttato qualche cosa a suo marito, un grande onore o molti quattrini, meno male; ma quei principi da straccione professati senza costrutto dimostravano insieme la bassa origine e la sciocchezza di Benedetto. Adesso, per vantarsi di quel ciondolo, di quel titolo di cavaliere toccato agli ultimi scalzacani, bisognava sapersi discendenti da mastri notari! Benedetto ci rideva un poco, ma a malincuore, e una volta, anzi, da solo a sola, le disse:

«Potresti smetterlo, questo scherzo.»

«Scherzo? Che scherzo? T'hanno fatto cavaliere, sì o no? È verità o è menzogna?»

E per farsi un vanto del suo rigorismo, non contenta d'aver messo in ridicolo quella nomina, andava a dire dinanzi a donna Ferdinanda o a don Blasco:

«Del resto, egli non ha bisogno della croce! È già cavaliere di natura...»

Ma il più bello era che donna Ferdinanda, adesso, non le dava più retta, anzi parteggiava a viso aperto per Benedetto, il quale la serviva in quella stagione, per via della famosa legge sul corso forzoso. Con gli anni, quanto più il suo peculio era cresciuto, tanto più cupida ella era divenuta: adesso dava i danari al trenta, al quaranta per cento, gridando poi al ladro se qualche povero diavolo ritardava di qualche giorno il pagamento. Ora, della «carta sporca», come chiamava i biglietti di banca, ella non voleva sapere, non riconosceva altra moneta dai colonnati e dai dodici tarì in fuori; se i suoi debitori, alle scadenze, venivano a pagarle gl'interessi in tanti stracci, ella rifiutava di rinnovare il prestito, pretendeva sotto il colpo la restituzione del capitale, si faceva suggerire dal nipote avvocato il modo d'eludere la legge e d'obbligare la gente a pagare in argento sonante... Quanto a don Blasco, anch'egli aveva altre cose pel capo, e i Giulente cominciavano a entrare nelle sue grazie. Tornato dalla villeggiatura, s'era preso in affitto un quartierino verso la Trinità, per esser libero e restar vicino alla Sigaraia, come quand'era a San Nicola; ma gli bisognava frattanto ammobiliar la casetta. E vomitando maledizioni contro i «piemontesi» che lo avevano buttato in mezzo ad una via, con l'elemosina d'una lira e mezza il giorno, chiedeva qualcosa a ciascuno dei parenti: un divano al principe, un paio di poltrone al marchese, un armadio a Benedetto. Comprata un po' di biancheria, la distribuì alle parenti perché gliela facessero cucire; cucita che fu, chiese qualche piccolo ricamo per giunta; e tutti si facevano un dovere di contentarlo, rivaleggiavano anzi nel rendergli quei servizi, se lo ingraziavano, adesso che aveva anch'egli il suo gruzzolo. Quanto avesse non si sapeva con precisione; ma alla scadenza del primo semestre della sua rendita, visto che le cedole eran pagate puntualmente — in carta, è vero, ma la carta correva come moneta — egli disse al marchese di fargli comperare altre diecimila lire di cartelle. E gridando contro il governo ladro teneva sotto il guanciale i suoi titoli.

Al principio dell'estate, benché la Camera fosse ancora aperta, arrivò il duca. Ricominciarono le solite dimostrazioni degli amici e degli ammiratori; egli saliva in cattedra con maggior sicumera di prima e commentava l'opera del Parlamento. La soppressione delle società religiose era il gran fatto dei tempi moderni; egli ne enumerava e dimostrava gli immensi vantaggi. Prima d'ogni cosa, i latifondi tolti alla manomorta avrebbero raddoppiato e migliorato i loro prodotti «a vantaggio dell'agricoltura, industria e commercio, sorgente precipua di ricchezza sociale»; in secondo luogo tutti, anche coloro che non avevano capitali, potevano diventar proprietari aggiudicandosi piccoli lotti da riscattare con lo stesso frutto della terra; finalmente il governo, con l'utile della vendita, avrebbe scemato le tasse «a sollievo della finanza pubblica e privata». Era come un'altra «legge agraria»: egli citava i romani, Servio Tullio; e la gente che non capiva batteva egualmente le mani, in attesa della cuccagna.

Egli frattanto si preparava a comperar qualche lotto — dicevano anzi che fosse venuto proprio per questo — e consigliava al principe, a Benedetto, al marchese di fare altrettanto. Quando don Blasco ne ebbe sentore, fece cose da pazzo:

«I beni della Chiesa, razza di miscredenti e di dannati? Volete dunque tenere il sacco ai ladri, ah? Non avete paura per l'altra vita? Che faccia una cosa simile quel farabutto», ormai non chiamava altrimenti il fratello deputato, «non è meraviglia, dopo che ha votato la ladreria. Nel più c'è il meno, e neppure Domineddio può cavarlo dal fuoco eterno! Ma voialtri! Guai a tutti! Fuoco dall'aria sui vostri capi! Arse l'anime!...»

Donna Ferdinanda, da canto suo, era contrarissima, per scrupolo religioso; e minacciava anche lei le pene infernali ai compratori dei beni della Chiesa; la principessa, che stava peggio in salute, appoggiava la zia; e un giorno venne il Priore al palazzo, a posta per distogliere i parenti dall'acquisto col linguaggio della persuasione evangelica.

«Non vi lasciate indurre in tentazione. Vi diranno che l'occasione è propizia per fare qualche guadagno materiale; ma la salute dell'anima è il sommo dei beni. Il Signore vi compenserà in altro modo, vi darà da un altro canto quello che ora rinunzierete...»

Il principe stava a sentire le due campane senza esprimere la propria opinione; il marchese però giudicava eccessivi gli scrupoli; e Chiara, per seguire il marito, non dava ascolto alle ammonizioni del confessore. Lucrezia, da canto suo, spingeva Benedetto a comprare, ad arricchirsi, poiché adesso lo credeva non solo ignobile, ma anche miserabile; uno che non possedeva neppure uno straccio di feudo, mentre in casa Francalanza ce n'erano sedici!...

Frattanto il Parlamento discuteva un'altra legge «a vantaggio dell'incremento pubblico e privato», come spiegava il duca, sebbene non andasse alla capitale: quella, cioè, relativa allo svincolo delle cappellanie e dei benefici laicali; e il principe, zitto zitto, cominciava a tener conferenze col notaro e col procuratore legale, preparava i suoi titoli per ottenere i beni di tutte le fondazioni degli antenati, specialmente della cappellania del Sacro Lume; quando un bel giorno don Blasco, che da un certo tempo non metteva piede al palazzo, vi piovve inaspettato.

«Badiamo, ohi! Se si svincola la cappellania, la roba va divisa fra tutti i consanguinei!»

«Vostra Eccellenza s'inganna,» rispose il principe. «I beni rientrano nel fedecommesso.»

«Che fedecommesso d'Egitto? Dov'è il fedecommesso? Sono quarant'anni che è finito, e i titoli li ho letti anch'io!»

«Ma il diritto di patronato è stato in mano mia.»

«Patronato? Quasi che si trattasse di un ente autonomo!» Don Blasco parlava adesso come un trattato di giurisprudenza. «È una semplice eredità cum onere missarum: hai da spiegarmi il latino? O torniamo coi cavilli che facesti alla badìa per non pagare il legato?... Alle corte, qui bisogna intendersi: se no comincio con un dichiaratorio, e poi ce la vedremo in tribunale!»

Il principe, vistosi scoperto, in un momento che la bile gli tornava a gola, esclamò:

«O Vostra Eccellenza non aveva vietato di toccare i beni della Chiesa?»

«Evviva la bestia!» proruppe il monaco. «Qui la Chiesa che ha da vedere? Le messe si faranno celebrare come prima, anzi meglio di prima! Tu volevi forse intascare le rendite senz'altro?»

Ma non ci fu tempo di approfondire la quistione e di concretar nulla, che una sera d'agosto, mentre al palazzo una folla d'invitati assisteva alla processione del carro di Sant'Agata, arrivò il duca giallo come un morto, annunziando:

«Il colera! il colera!... Un'altra volta!...»

Quello buono, adesso; la dose giusta finalmente trovata dagli untori; perché, Dio ne scampi, non erano passate ventiquattr'ore che già il morbo si dilatava. E che spavento per le vie di campagna, nuovamente percorse, giorno e notte, da torme di fuggiaschi; e che terrore, infinitamente più contagioso della peste, vinceva i più coraggiosi all'annunzio del rapido progredire del male, e li cacciava su, verso la montagna, nei paesi del Bosco, dove, con la consueta fiducia nell'immunità, l'affitto d'una casupola costava un occhio del capo!

Gli Uzeda erano arrivati al Belvedere poche ore dopo la notizia portata dal duca, e questi aveva preso posto nella prima carrozza, tanta tremarella aveva in corpo. La cugina Graziella era ancora una volta coi cugini: la sua presenza adesso diveniva tanto più necessaria quanto che la povera principessa andava peggio, e, o fosse la paura del colera o il disagio della fuga improvvisa, appena arrivata alla villa si mise a letto. Un po' per questo, un po' per la tristezza generale prodotta dal sapere le stragi che faceva in città la pestilenza, non più ricevimenti, non più giuochi, non più veglie. Il giorno passeggiavano nel podere; Consalvo, Benedetto e qualche altro s'arrischiavano per le vie, ma all'ave il principe voleva che tutti fossero in casa e faceva sprangare tutte le porte e tutti i cancelli; don Blasco, alla villa del marchese, si teneva prudentemente nella propria camera, e non andava neppure a litigare con Giacomo, anche per evitare la compagnia di quel «farabutto» del duca. Ma improvvisamente un brutto giorno la costernazione crebbe fuor di misura: la pestilenza era scoppiata al Belvedere; la serva di certa gente venuta tre giorni prima dalla città agonizzava; s'udiva la campanella del Viatico per le vie deserte come quelle d'un paese morto.

«Bisogna scappare!... Scappiamo! Subito!... Alla Viagrande, alla Zafferana...»

Lucrezia coi Giulente partì subito per Mascalucia. Il duca, più morto che vivo, avrebbe voluto andarsene sul pizzo d'Etna, per mettersi bene al sicuro; ma prevalse pel momento il partito del marchese, che diceva d'andare alla Viagrande, dov'erano quasi sicuri di trovare una casa capace di tutta la parentela. Bisognava però che qualcuno passasse innanzi per cercarla; e il duca s'offerse d'accompagnare il principe, non parendogli vero di battersela immediatamente. Giacomo disse alla moglie:

«Vuoi venire anche tu?»

La principessa, da alcuni giorni, aveva lo stomaco rovinato, non digeriva più, si trascinava penosamente dal letto alla poltrona; e appunto perciò tutti convennero che bisognava metterla in salvo prima degli altri. Marito e moglie partirono dunque subito con lo zio e Baldassarre; gli altri restarono a preparare i carri della roba, giacché questa volta, non andando in casa propria, bisognava portare letti, biancheria, tutte le cose d'uso giornaliero. Nella notte tornò il maestro di casa per avvertire che l'alloggio era trovato, e il domani all'alba tutti scapparono dal Belvedere dove il colera già divampava. La casa, alla Viagrande, s'era trovata grazie alle relazioni e ai quattrini del principe di Francalanza: nondimeno, era una catapecchia consistente in tre cameracce e due stanzini a pian terreno, povera abitazione d'un bottaio, dove i «Viceré» furono molto contenti di potersi ficcare. Grazie al nome di Uzeda, l'entrata in paese fu loro consentita, quantunque venissero da un luogo infetto; ma, una volta dentro, il principe, il duca, don Blasco cominciarono a gridare che non bisognava lasciar passare nessun altro, se non si voleva la rovina della Viagrande. Infatti l'epidemia decimava non solamente la popolazione rimasta in città, dove si contavano fino a trecento morti il giorno e non c'era più consorzio civile, nessuna autorità, né deputati, né consiglieri, né niente, ma diffondevasi per la prima volta con violenza straordinaria nel Bosco scampato a tutte le altre invasioni coleriche: era al Belvedere, a San Gregorio, a Gravina, alla Punta, guadagnava le case sparse, non risparmiava i casolari perduti in mezzo alle campagne; e non soltanto i poveri diavoli morivano, ma le persone facoltose, i signori che s'avevano ogni sorta di riguardi; talché la gente atterrita fuggiva da un paesuccio all'altro, come poteva, sui carri, a cavallo, a piedi; ma chi portava addosso il germe del male cadeva lungo gli stradali, si torceva nella polvere e moriva come un cane: i cadaveri insepolti, cotti dal torrido sole estivo, esalavano pestiferi miasmi, mettevano il colmo all'orrore; e i fuggiaschi che arrivavano sani e salvi ai luoghi ancora immuni erano accolti a schioppettate dai terrazzani atterriti; o, se riuscivano a trovare un rifugio, comunicavano ai sani la pestilenza. La siccità aggiungevasi a render disperate quelle tristi condizioni; tutte le cisterne erano asciutte, non si poteva far pulizia, c'era appena di che dissetarsi. Il principe, alla Viagrande, pagava una lira ogni brocca d'acqua; e la principessa pareva diventata un pozzo, tanta ne sciupava, tra per lavarsi ogni ora, in quelle stanze dai pavimenti e dai muri unti e dagli usci luridi, la cui sola vista le metteva i brividi, tra per la sete che la divorava. I dolori intestinali non la lasciavano più; a momenti pareva che avesse già i crampi del colera; tanto che il duca, atterrito, pensava di scapparsene più lontano; ma la paura di lui era fuor di luogo: quei dolori, quelle disposizioni al vomito, la principessa li soffriva da più di un anno, non con l'intensità di adesso, è vero, ma con lo stesso carattere. Il principe, assicurando lo zio, gli manifestava altri timori:

«Margherita non ha voluto mai chiamare un dottore... ma io ho una gran paura... m'hanno detto che forse ha un cancro allo stomaco...»

Ma il duca non gli dava retta; per adesso, aveva da pensare alla propria pelle, perché il colera poteva scoppiare da un momento all'altro alla Viagrande, anzi qualche allarme c'era già stato.

«Andiamo via!...» insisteva; «andiamo più lontano, al Milo, a Cassone, sulla montagna...» e quando finalmente il primo caso fu accertato in paese, mentre tutti ripetevano: «Andiamo via... scappiamo più lontano» egli aveva la cacaiola, dalla paura.

Questa volta le difficoltà per trovare una casa erano ancora più grandi. Il duca andò a cercarla dalle parti del Milo. Il principe si preparò a partire per Cassone.

«Vuoi venire anche tu?» ripeté alla moglie.

Ella aveva passato una notte orribile, senza sonno, tormentata dalla nausea e dal vomito; s'era levata a stento, pallida e disfatta così, che Chiara disse:

«No, lasciala... verrà quando avrai trovato la casa...»

Le stesse cameriere dissero che non era prudente esporla al disagio della ricerca, che meglio le conveniva partire quando si sapeva dove condurla; ma la cugina Graziella fu di contrario parere, udendo che i casi si moltiplicavano rapidamente nel villaggio.

«Io direi invece di allontanarla subito... nelle sue condizioni può opporre meno resistenza al contagio... una casa qualunque Giacomo ha pure da trovarla...»

Donna Ferdinanda era anche lei di questa opinione; ma Consalvo, stretto alla mamma, le diceva, piano:

«No, non andare per ora... è meglio qui... andremo poi tutti...»

Ella carezzava il giovanetto con la mano scarna e fredda, e guardava timidamente il marito, aspettando che egli stesso decidesse.

«Vuoi o non vuoi venire?» le domandò egli, con voce breve, col tono che prendeva quando le decisioni cominciavano a seccarlo; e la domanda, che aveva il suo senso letterale per tutti, ne acquistava un altro per la principessa che comprendeva le intenzioni e i gesti, che intuiva i sottintesi.

«No, t'accompagno...»

Sul punto di vederla andar via, il principino insisté:

«Mamma, resta... o prendimi con te,» e il giovanetto, ordinariamente allegro e spensierato, dimostrava adesso una specie d'inquietudine quasi paurosa.

«Non c'è posto per tutti!» rispose il principe, brusco; e la principessa abbracciò forte il figliuolo dicendogli:

«Resta... resta... domani saremo insieme...»

Si mise in carrozza accanto a suo marito tenendo un pezzo di canfora alle nari; Baldassarre montò in serpa e la carrozza partì.

Fino a sera, non s'ebbe più notizia di loro. A un'ora di notte arrivò un espresso mandato dal duca dal Milo, il quale avvertiva d'aver trovato uno stambugio dove c'era posto appena per lui; li lasciava quindi liberi di raggiungere Giacomo.

Alla Viagrande frattanto smaniavano, perché il panico cresceva contagiosamente. Già accusavano Giacomo d'essersi scordato di loro come quell'egoista del duca; già don Blasco parlava di mettersi a cavallo a un asino e di andarsene non importava dove, quando, all'alba del domani, arrivò Baldassarre, pallido, stravolto e tremante.

«Eccellenza!... Eccellenza!... La padrona, la signora principessa!... Attaccata di colera!... Spirata in tre ore!...»