1° ottobre

Ho l’abitudine di leggere, mentre mi vesto. A volte il libro aperto è appoggiato contro lo specchio, e così, poiché gli occhi non possono essere ovunque allo stesso momento, capita che i miei gancetti non siano agganciati a dovere. Potendo, sarei sempre ordinata, ma ci sono altre cose. Stamane il libro era la Bibbia, da cui leggevo: «L’uomo saggio – quanto ancora più saggia, allora, sarà una donna! – ha visto la calamità e si è messo al riparo, lo stolto è passato oltre e deve subire la pena».

Per questo sono arrivata tardi a colazione. Sono rimasta a guardare fuori dalla finestra con le mani in grembo e le sagge parole di Salomone che mi risuonavano nelle orecchie, a riflettere se vi fosse un modo per sfuggire al destino degli stolti.

Ma non c’era. E mi sembrava ingiusto che, pur non appartenendo propriamente alla schiera dei semplici, dovessi comunque condividerne il destino. Era una di quelle mattine fredde e ventose nelle quali i parenti di sesso maschile insistono per portarti a fare quello che definiscono una corsa – nemmeno fossi un cane – al fine di sottoporti al deprimente processo che essi descrivono come liberarsi dalle ragnatele. Io non sopporto l’idea di separarmi dalle mie ragnatele. Non voglio mai liberarmene. Zio Rudolph è mingherlino e attivo, e dalla morte della zia si è notevolmente assottigliato sotto la tonaca; ero certa che dopo colazione intendesse farmi correre su per la montagna, e una volta portatami ansante e incapace di parlare su qualche gelida roccia, sedersi accanto a me e cominciare a dire tutte le cose che temo di dover sentire.

È stato difficile risolvermi a scendere di sotto. Mi pareva di avere messo radici. Sapevo che, ricoprendo lo sventurato ruolo della padrona di casa, il mio compito era indirizzare sorrisi di buongiorno da dietro la caffettiera; ma la certezza di cosa mi aspettava dopo il caffè mi teneva radicata dov’ero nonostante il campanello avesse suonato per la seconda volta.

Tuttavia, dopo la seconda scampanellata, quando lungo il corridoio ho sentito un rapido trapestio diretto alla mia porta, mi sono alzata – sono balzata in piedi, in verità – timorosa di chi sarebbe potuto entrare. Una camera da letto non offre alcuna reale protezione contro gli zii. Quei passi rapidi potevano benissimo essere di zio Rudolph. Mi sono precipitata alla porta e l’ho spalancata, così che uscendo avrei quanto meno arrestato la sua avanzata; ma ho trovato M.me Antoine, la mano già alzata, pronta a bussare.

«Ces dames et Monsieur l’évêque attendent» ha annunciato con espressione di stupito rimprovero.

«Il n’est pas un évêque» ho precisato in tono leggermente irritato, perché sapevo di essere nel torto, a rimanere in camera in quel modo, ed ero ovviamente risentita che non mi si permettesse di starmene nel torto in santa pace. «Il est seulement presque un...»

Mrs Antonie non ha risposto; e facendosi di lato per farmi passare mi ha informata con una certa severità che il caffè era in tavola da un quarto d’ora.

«Comment appelle-t-on chez vouz» ho detto, indugiando nel varco della porta per guadagnare tempo, «ce qui vient devant un évêque?»

«Ce qui vient devant un évêque?» ha ripetuto M.me Antoine con il dubbio nella voce.

«Oui. L’espèce de monsieur qui n’est pas tout a fait évêque mais presque?»

M.me Antoine ha corrugato la fronte. «Ma foi…» ha cominciato.

«Oh, j’ai oublié» ho detto. «Vous n’êtes plus catholique. Il n’y a rien comme des évêques et comme les messieurs qui sont presque évêques dans votre église protestante, n’est-ce pas?»

«Mais rien, rien, rien» ha affermato con energia M.me Antoine, le braccia allargate e la testa affondata tra le spalle a testimoniare la spoglia purezza della sua chiesa, «mais rien, rien du tout, du tout. Madame peut venir un dimanche voir…»

Poi, una volta sgomberata la strada da illazioni, è tornata al caffè. «Le café… Madame désire que j’en fasse ancore? Ces dames et Monsieur l’évêque…»

«Il n’est pas un év…»

«Ah, sei qui!» ha esclamato lo zio, la cui testa è apparsa in cima alle scale. «Venivo a vedere se era successo qualcosa. È qui… sta arrivando, sta arrivando!» ha gridato in tono affabile alle altre; e quando mi sono affrettata per raggiungerlo, non essendo io il tipo che si accanisce contro l’inevitabile, mi ha preso sottobraccio e siamo scesi assieme.

Arrivati ai piedi delle scale mi ha posato le mani sulle spalle e mi ha fatto girare verso la luce. «Bambina cara» ha detto, scrutandomi il viso mentre mi teneva fermamente in posizione, «cominciavamo a preoccuparci per te. Mrs Barnes temeva che fossi malata, e già pensava a quale rimedio…» – qui ho rabbrividito – «invece…» e mi ha rigirato verso Mrs Barnes, «non c’è niente di malato in questa piccola signora, dico bene Mrs Barnes?»

Poi mi ha preso il mento tra pollice e indice e mi ha dato un bacio lieve, gaio persino, su ogni guancia; e dopo avermi lasciato andare, si è sfregato le mani e si è avvicinato a passo vivace alla tavola su cui tutto era avvolto, come di consueto quando sono in ritardo, in tovaglioli o in capi del vestiario di Mrs Barnes.

«Su, vieni, vieni, ora. Colazione, colazione!» ha esclamato lo zio. «Per queste e per tutte le Tue benedizioni, o Signore…» ha recitato tutto d’un fiato con gli occhi chiusi e le mani allargate sopra lo scialle bianco di lana di Mrs Barnes mentre impartiva la benedizione.

Eravamo sopraffatte. Il maschio era arrivato e ci aveva preso in carico. Felicemente sopraffatte, a giudicare dall’espressione di Mrs Barnes. Per la prima volta da quando era con me, la benedizione del cielo era stata impetrata e presumibilmente ottenuta sul suo uovo, e dall’espressione con cui lo mangiava ho compreso quanto avesse sofferto per il consumo giornaliero forzato, a causa delle mie abitudini profane, di uova non santificate. Anche Dolly sembrava contenta, come sempre quando la povera Kitty è felice. Solo io non lo ero. Me ne stavo seduta pensierosa dietro la caffettiera. Sapevo fin troppo bene cosa mi aspettava. Diffidavo dell’allegria dello zio. Durante la notte doveva avere steso il suo piano, e deciso che il miglior approccio al doloroso argomento di cui era venuto a discutere era quello improntato a un’allegra affettuosità. Di sicuro non l’avevo mai visto in uno stato d’animo del genere, ma del resto non ci vedevamo dalla morte della zia.

«Bambina cara» ha detto una volta tolto il tavolo da in mezzo a noi – portato via in blocco dagli Antoine, lasciandoci seduti attorno al nulla con l’improvvisa sensazione di nudità che, come ho già spiegato, questo modo di sparecchiare produce. Lo zio ne è rimasto strabiliato al punto che per un attimo è rimasto a corto di parole – «bambina cara, prima di pranzo vorrei portarti a fare un giretto».

«Sì, zio Rudolph?»

«Per liberarci dalle ragnatele».

«Sì, zio Rudolph».

«So che sei una piccola signora dal passo agile».

«Sì, zio Rudolph».

«Per aguzzare l’appetito camminando».

«Sì, zio Rudolph».

«Poi magari nel pomeriggio l’una o l’altra di queste signore…» ho notato la sua prudenza nel non suggerire entrambe.

«Oh, splendido» si è affrettata ad assicurare Mrs Barnes. «Saremo felicissime di accompagnarvi. Siamo entrambe appassionate escursioniste. E siamo convinte che fare del moto con regolarità porti grandi benefici. Nostro padre ci ha cresciute inculcandocene l’importanza. Se non pensassimo che le giornate debbano per lo più essere impiegate in occupazioni utili, le impiegheremmo, credo, quasi tutte camminando all’aria aperta».

«Perché allora non accompagnate voi lo zio stamattina?» ho chiesto loro aggrappandomi a quella misera pagliuzza di speranza. «Io devo ordinare la cena…»

«Oh, no, no… nel modo più assoluto. I desideri del decano…»

Ma in quell’esatto istante, chi si trovava a passare per il soggiorno con le braccia cariche di registri, diretto alla cameretta dove mi occupo dei conti di casa, se non Antoine? Oggi è il primo di ottobre. Giorno dei pagamenti. Me ne ero dimenticata. Almeno per stamattina ero salva.

«Guardate» ho detto a Mrs Barnes indicando con un cenno della testa Antoine e il suo carico.

Ero certa che avrebbe manifestato la più totale comprensione per la solennità, l’indifferibilità della chiusura dei conti che è tipica del virtuoso povero; che avrebbe capito che persino i desideri di un decano venivano secondi a questo sacro rito domestico.

«Oh, che sfortuna!» ha esclamato. «Proprio oggi, il primo giorno di vostro zio».

Ma non c’era niente da fare. Se ne rendeva conto anche lei. Inoltre non era mai esistita donna determinata come me a compiere il proprio dovere.

«Caro zio Rudolph» ho detto con grande affabilità – all’improvviso ero pura affabilità – «non sai quanto mi dispiaccia. È l’unico giorno al mese in cui sono alla catena. Qualsiasi altro giorno…»

E mi sono eclissata nella cameretta ostentando un’aria di riluttante ma indomita virtù, e lì mi sono trincerata al sicuro finché non li ho sentiti uscire.

Un attimo dopo, guardando dalla finestra, li ho visti inerpicarsi su per la salita: lo zio, fallito il suo intento di portarne con sé una sola, con passo energico in testa alla fila; Mrs Barnes che lo seguiva da presso – proprio lei che in occasione delle nostre passeggiate cammina sempre per prima e sceglie i percorsi – con la devozione di una gallina obbediente; e a qualche distanza, con l’aria di chi detesti l’idea di doversi separare dalle proprie ragnatele nella stessa misura in cui lo detesto io, la solitaria Dolly. Poi, una volta ridottisi a tre puntolini neri che si assottigliavano in lontananza sul pendio, mi sono dedicata con vivo piacere alla chiusura dei conti.

Oh registri benedetti! Se solo avessi potuto continuare a pagare all’infinito, per tutto il giorno! Ma una volta terminato, e parlato con Antoine dei polli, delle api e della mucca, consapevole dell’approssimarsi dell’ora di pranzo e che da un momento all’altro avrei visto comparire sempre più ingranditi i tre puntolini che prima si erano sempre più assottigliati, mi è parso di accusare un po’ di mal di testa.

Spesso fare i conti mi dà il mal di testa, soprattutto quando non mi quadrano, cosa che stranamente accade di sovente, persino facendoli due volte di seguito, perciò era del tutto plausibile che mi fosse venuto il mal di testa. Sono rimasta seduta ancora un po’, in attesa di averne la certezza, dopo di che, nell’esatto istante in cui i tre puntolini sono apparsi all’orizzonte, ne sono stata certa, così sono salita quassù e mi sono messa a letto. Perché questa volta, ho ragionato, i semini dell’uva non c’entrano, c’entrano i conti, e Mrs Barnes non può darmi una medicina solo per un po’ di aritmetica; inoltre, per quanto zio Rudolph possa insistere per venire al mio capezzale, non può essere così disumano da tormentare una persona che non sta bene. Da allora sono stata qui al calduccio sotto le coperte, e devo dire che i miei ospiti si stanno dimostrando molto premurosi. Mi hanno quasi sempre lasciata in pace. Mrs Barnes è venuta solo una volta, e quando io, chiudendo gli occhi, ho detto: «Tutta colpa di quei registri» lei si è subito mostrata comprensiva e, limitandosi ad annuire, è scomparsa.

Dolly è venuta ed è rimasta qui seduta per un po’, e avevamo appena cominciato a parlare quando si è presentata M.me Antoine per dirle che lo zio le chiedeva di scendere per il tè.

«Cosa state facendo?» ho chiesto.

«Oh, siamo semplicemente seduti davanti al fuoco, senza parlare».

«Senza parlare?» ho chiesto stupita.

Ma era già andata.

Forse, mi sono detta, non parlano per paura di disturbarmi. Si stavano dimostrando davvero molto premurosi.

Quanto a zio Rudolph, non ha neppure tentato di venire a trovarmi. L’unico segno di vita da parte sua è stato mandarmi su l’ultimo numero di «Nineteenth Century» che aveva con sé, su cui c’è un suo articolo, un ottimo articolo. A parte questo anche lui se ne è stato tranquillo; da allora ho letto, ho meditato e ho scritto tutto questo; nel frattempo si è fatta l’ora di andare a letto, e sto per mettermi a dormire.

Bene, ho guadagnato un intero giorno, ore e ore di pace totale. Una quantità di pace piuttosto sorprendente, in realtà. Già, davvero sorprendente, direi. Che non siano venuti su più spesso per farmi compagnia, intendo dire. Non si è presentato neppure nessuno a darmi la buona notte. E a me piace ricevere la buona notte. Specialmente quando nessuno ha intenzione di darmela.

2 ottobre

A volte ventiquattr’ore producono cambiamenti straordinari. Queste ultime ventiquattr’ore li hanno prodotti.

È di nuovo notte, e di nuovo sono in camera mia, in procinto di andare a letto; ma prima di cascare del tutto dal sonno voglio scrivere quel po’ che riesco riguardo a oggi, perché è stata una giornata decisamente interessante. Lo sapevo: ciò di cui avevamo bisogno era un uomo.

A colazione, alla quale mi sono presentata puntuale, rinvigorita dall’eremitaggio di ieri, corazzata da capo a piedi di tutte le premure accumulate nel corso di tante ore tranquille, molto probabilmente per rendermi immune agli inevitabili attacchi di zio Rudolph, dopo aver recitato le preghiere ed essermi svuotata la mente da ricordi debilitanti ho trovato i miei tre ospiti in silenzio. La loquacità di zio Rudolph, tanto manifesta ieri a colazione, oggi è stata circoscritta al rendere grazie. Tolto quello, non ha parlato. E neppure Mrs Barnes, una volta pronunciato l’amen. Tanto meno Dolly, ma del resto lei non parla mai.

«Il mal di testa mi è passato» ho annunciato infine in tono affabile guardandomi attorno.

Forse volevano continuare a essere premurosi, mi sono detta. O quanto meno Mrs Barnes. Il silenzio dello zio era semplicemente premonitore di ciò che mi aspettava; di quanto, dopo un’ennesima notte di riflessione, soffrisse per le mie questioni e la sua deplorabile condizione dell’esservi coinvolto in virtù del fatto che Dio gli aveva dato me come nipote. Ma Mrs Barnes: perché lei non parlava? Di certo non poteva avere l’intenzione, solo perché una volta ho avuto mal di testa, di camminare in punta di piedi per il resto della nostra vita insieme.

Poiché nessuno sembrava avere badato al mio annuncio, ho aggiunto: «Sto molto bene quest’oggi, grazie».

A queste parole Dolly si è messa a ridere, e al di là del tavolo i suoi occhi mi hanno inviato piccoli baci di buongiorno. Almeno lei sembrava la solita.

«Non…» e ho guardato le altre due teste indifferenti, chine sul piatto della colazione, «non vi fa piacere?»

«Molto» ha risposto Mrs Barnes. «Molto». Ma senza alzare gli occhi dall’uovo, e anche stavolta lo zio non ha detto nulla.

Allora ho pensato di non dire niente neppure io, e mi sono dedicata alla colazione con dignità e standomene sulle mie; per fortificarmi contro ciò che mi aspettava alla fine, di tanto in tanto guardavo il viso distensivo e rinfrescante di Dolly.

Un viso sereno, dolce, pulito; illuminato dalla grazia del mattino. Un viso ideale per la tavola della colazione. Fortunati Juchs e Siegfried, mi sono detta, ad avere avuto la possibilità di guardarlo ogni mattina. Del fatto che non meritassero tale fortuna ne ero patriotticamente certa, mentre osservavo la dolce curva delle ciglia abbassate sopra la fetta di pane tostato che stava imburrando. Eppure loro, entrambi, l’avevano resa felice; o forse era stata lei a rendere felici loro e a vedersi tornare indietro la propria felicità, come di rimbalzo. Con un qualunque marito sufficientemente gentile e per bene dev’essere possibile. Che fosse stata felice era evidente, perché l’infelicità lascia tracce, e a me non è mai capitato di vedere qualcosa così privo di segni, così candido, come la fronte deliziosa e intelligente di Dolly.

Abbiamo terminato la colazione in silenzio; e non appena il tavolo è stato tolto da in mezzo a noi dai rapidi, sconcertanti Antoine, lo zio si è alzato e si è diretto alla finestra.

È rimasto lì con la schiena voltata.

«Si va a fare una passeggiata?» ha chiesto senza voltarsi.

Silenzio di tomba.

Noi tre, ancora sedute attorno al vuoto lasciato dalla sparizione del tavolo, ci siamo scambiate un’occhiata; i nostri occhi domandavano muti: “Starà dicendo a me?”

Ma io sapevo che si era rivolto a me.

«Dici a me, zio Rudolph?» ho perciò chiesto; perché dopo tutto era meglio farla finita al più presto.

«Sì, bambina cara».

«Ora?»

«Se ti va».

«Se proprio biso… cioè, se non pensi che faccia troppo freddo...»

«È tonificante».

Ho sospirato, poi sono andata a mettermi gli scarponi chiodati.

Ah, questi parenti… che diritto aveva lo zio… come se non avessi già sofferto abbastanza… e in un mattino di così brutto tempo… se almeno fossi stata in forma, se ci fosse stato il sole… ma essere portata in cima a una montagna sferzata dal vento tagliente solo per essere resa infelice...

Due ore dopo, al termine di un’immane fatica, mi ritrovavo appollaiata proprio come avevo temuto su una roccia gelida, sferzata dal vento penetrante e spogliata di ogni ragnatela mai accumulata nella vita, nonché indifesa ed esposta a orribili discorsi. Ma dopo un silenzio lungo e terrificante, durante il quale io, tremebonda, passavo in rassegna ogni mia difesa nel vano tentativo di assicurarmi che forse non sarebbe stato poi così doloroso, zio Rudolph si è seduto ai miei piedi e ha detto: «Com’è che si scrive il suo cognome?»

Oh, come siamo fatui. Concentrata su me stessa, non avevo pensato a Dolly.

3 ottobre

Ieri sera era così tardi quando sono arrivata a quel punto del racconto, che sono andata a dormire. Ora è prima di colazione, e voglio riprendere da dove mi sono fermata ieri.

Zio Rudolph mi ha portato in cima alla montagna solo per parlarmi di Dolly. La cosa ha dell’incredibile, ma si è innamorato. A prima vista. A sessant’anni. Sono sicura che a una donna non potrebbe mai succedere, il che è sufficiente a convincermi che lui è proprio un uomo. Tre giorni fa ho scritto in questo stesso diario che un decano non è esattamente la mia idea di uomo. Ritiro. Lo è.

Insomma, mentre rifuggivo e tremavo in attesa che cominciasse a rigirare il coltello nella piaga, lui ha detto invece: «Com’è che si scrive il suo cognome?» gettandomi nella più completa confusione.

L’ho fissato con espressione assente mentre cercavo di riordinare i pensieri in base a questa nuova logica. La questione mi giungeva del tutto inaspettata. Non mi sarei mai neppure lontanamente sognata che potesse accadergli una cosa del genere. Mai avrei immaginato che Dolly potesse avere un effetto così immediato, semplicemente standosene lì seduta, semplicemente esibendo la fossetta al momento giusto. Per quanto attraente, sono i suoi modi, più che il suo aspetto, a essere tanto adorabili; ma in un lasso di tempo così breve cos’ha potuto vedere zio Rudolph? Gli è bastato un sorriso per innamorarsi. A sessant’anni. Lui, uno zio. Stupefacente Dolly; irresistibile, a quanto pare, per gli zii.

«Ti riferisci a Mrs Jewks?» ho chiesto appena recuperata la parola.

«Sì» ha risposto lui.

«Non l’ho mai visto per iscritto» ho risposto, provando sollievo – Dolly mi aveva salvata – per avere avuto la presenza di spirito di tergiversare.

Ero costretta a tergiversare. Con l’occhio della mente vedevo la faccia implorante di Mrs Barnes.

«Secondo me» ha detto lo zio dopo un’altra pausa di silenzio, «si scrive in base alla stessa regola di Molyneux».

«Molto probabile» ho convenuto.

«Fa pensare che il defunto marito fosse di origini francesi».

«Già».

«Forse ugonotto».

«Sì».

«Sono rimasto molto stupito di sapere che è vedova».

«Vedova non una volta ma due…» La frase mi girava in testa come un responsorio, forse perché sedevo così vicina a un decano.

A voce alta, essendomi ora completamente ripresa, gli ho chiesto: «Perché proprio lei, zio Rudolph? Ce ne sono così tante in giro».

«Già. Ma in Mrs Jewks c’è un che di particolarmente virginale».

Ho convenuto che era proprio così. Buona parte del fascino di Dolly sta nella bizzarra impressione che dà di inviolatezza, di gaio riserbo.

Lo zio ha strappato uno stelo di erba secca e ha incominciato a mordicchiarlo. Era sdraiato su un fianco appena più a valle di me, appoggiato a un gomito. Le gambe nere, composte, avevano un’aria buffa allungate sopra l’alta erba ingiallita. Da creatura resistente qual è, si era tolto il cappello: ora il vento gli spingeva i capelli grigi da una parte all’altra, ora glieli appiattiva facendogli calare la frangia sugli occhi. Quando ciò accadeva non aveva affatto l’aspetto di una persona buona; lui li spingeva indietro ogni volta, ravviandoli di nuovo con aria assente, gli occhi fissi sulla vallata molto più in basso. Ma non stava vedendo la vallata.

«Da quanto tempo quella povera giovane donna…» ha cominciato.

«Sarai sorpreso di sapere» l’ho interrotto io, «che Mrs Jewks ha quarant’anni».

«Caspita» ha detto lo zio voltandosi per guardarmi. «Ma pensa. Davvero sorprendente». E dopo un attimo ha aggiunto: «Sorprendente e gratificante».

«Perché gratificante, zio Rudolph?» ho indagato.

«Quando ha perso il marito?» ha chiesto lui senza rispondere alla mia domanda.

Il preliminare a una risposta accurata era naturalmente: quale? Di nuovo però la visione della faccia implorante di Mrs Barnes mi si è parata davanti, e di conseguenza, restringendo il campo al solo Juchs, ho risposto che l’aveva perso appena prima dell’inizio della guerra.

«Ah. Per cui il pover’uomo è stato privato dell’onore di morire per l’Inghilterra».

«Sì, zio Rudolph».

«Pover’uomo. Pover’uomo».

«Sì».

«Pover’uomo. Beh, almeno non ha mai saputo cosa si è perso. Almeno quello. E lei, la sua povera moglie, come l’ha presa?».

«Bene, penso».

«Sì. Non fatico a crederlo. Lei non… sono convinto che lei… non è tipo da far pesare egoisticamente sugli altri le proprie sofferenze».

È stato allora che mi sono resa conto che lo zio si è innamorato. Strano, ma fino a quel momento non mi era mai balenato nella mente. Ora non solo balenava, ma sfolgorava.

Lo fissai con rinnovato, stupefatto interesse. «Zio Rudolph» ho detto d’un fiato, non più nipote che parla allo zio di cui diffida, ma persona alla pari, un essere umano che si rivolge a un altro essere umano, «non hai mai pensato di risposarti? Ormai è passato un bel pezzo da quando zia Winifred…»

«Se ci ho mai pensato?» ha ripetuto lo zio con voce per la prima volta semplicemente, normalmente umana, senza la minima traccia del fatale tono da pulpito. «Se ci ho mai pensato? Ci penso di continuo».

Se si escludevano la tonaca e le ghette, poteva essere un qualunque comunissimo uomo solitario che si struggeva per il disperato bisogno di una compagna.

«E allora perché non l’hai fatto? Se c’è un posto dove sarebbe necessaria una moglie, quello è proprio la residenza di un decano».

«Eccome. Con quelle stanze vuote, riecheggianti, una in fila all’altra. Tutto chiama a gran voce una moglie. A gran voce, te lo garantisco. O quanto meno la mia residenza lo fa. Ma non avevo mai trovato… non avevo mai visto…»

Si è interrotto, e ha ripreso a mordicchiare il filo d’erba.

«Eppure il ricordo che ho di te» ho proseguito incalzante, «è quello di un uomo sempre circondato da frotte di donne devote. Possibile che nessuna di loro…»

«No» ha risposto lo zio, brusco. E dopo un istante di silenzio ha ripetuto, a voce così alta da farmi sobbalzare: «No!» E ha proseguito in tono ancor più veemente: «Non me ne hanno mai data l’occasione. Non mi lasciavano in pace un minuto. Dopo la morte di Winifred erano come le mosche. Mi si incollavano addosso… mi davano il voltastomaco… grosse mosche… brulicanti…» È rabbrividito e si è scosso, proprio come se volesse scrollarsele tutte di dosso.

L’ho guardato sbalordita. «Ehi» ho esclamato, «stai parlando come un uomo normale!»

Ma lui, gli occhi fissi sul panorama pur senza vedere nulla, non mi ha dato retta, e l’ho sentito mormorare sottovoce, come se nemmeno fossi presente: «Dio mio, come mi sento solo, la notte!»

Questo ha chiuso la questione. In quel momento ho cominciato ad amare lo zio. Davanti a quel sincero grido di disperazione ho dovuto lottare con me stessa per non chinarmi e stringerlo tra le braccia; volevo consolarlo, dargli calore. Dev’essere terribile avere sessant’anni ed essere così solo.Tutti gli altri ti considerano adulto. Danno per scontato che tu abbia tante risorse, e pochi bisogni; che tu sia a posto sotto ogni punto di vista, e con una carriera ben avviata, e le case, e i domestici, e gli amici, i libri e tutto quanto il resto… un resto vuoto e insignificante, perché in realtà sei il più infelice tra i bambini orfani, e sei al freddo, e sai di non avere una madre, sai che nessuno di morbido, gentile e adorante verrà più a canticchiare sopra la tua culla e a darti il bacio della buonanotte, né si farà trovare di nuovo lì il mattino dopo, a sorriderti quando ti svegli.

«Zio Rudolph…» ho cominciato.

Poi mi sono interrotta, mi sono chinata e gli ho tolto di mano il filo d’erba che stava mordicchiando.

«Smetti di mangiare questa roba» ho detto. «Non ti fa bene».

Gli ho preso la mano e l’ho tenuta nella mia.

«Ecco qua» ho detto, tenendogliela stretta.

Ha sollevato lo sguardo verso di me con espressione distratta, assorto nei suoi pensieri; poi, notando con quanta forza gli stringevo la mano, ha sorriso.

«Bambina cara» ha detto, scrutandomi il viso come se lo vedesse per la prima volta.

«Sì» ho risposto sorridendo di rimando, sempre senza lasciargli la mano. «Mi piace. Non mi piaceva nessuna delle altre bambine care che ero».

«Quali altre bambine care?»

«Zio Rudolph» ho proseguito, «andiamo a casa. Qui è deprimente. Perché ce ne stiamo qui seduti a tremare come disperati quando laggiù c’è tutto quello che ci aspetta?»

L’ho lasciato e mi sono alzata, e ho teso le mani per aiutarlo a tirarsi in piedi a sua volta. Lui era più in basso rispetto a me, per cui i nostri occhi erano allo stesso livello.

«Tutto quello cosa?» mi ha domandato mentre i suoi occhi frugavano nei miei.

«Oh, zio Rudolph! Un bel calduccio. E Dolly, naturalmente».

4 ottobre

Ma non è stato così semplice. Ieri sera non era cambiato nulla. Lo zio non ha aperto bocca. Dolly era lì seduta, pronta a sorridere agli aneddoti che lui non ha mai raccontato. Mrs Barnes sferruzzava a disagio, forse già temendo, per via dello strano silenzio di lui, che in un modo o nell’altro avesse fiutato Siegfried, altrimenti come si spiegava quel silenzio dopo una prima sera e un mattino tanto allegri e meravigliosi?

Sono stata io a condurre la conversazione, io a riprendere la linea, abbandonata dallo zio, di un divertimento moralmente sano. Sono stata io anche a raccontare aneddoti; e una volta raccontati tutti quelli che sapevo, e ancora nessuno diceva nulla, ho cominciato a raccontare tutti quelli che non sapevo. Qualunque cosa, piuttosto che quel silenzio ininterrotto, imbarazzante. Che grande fatica. Ero sudata per lo sforzo. Tranne Dolly, nessuno si degnava di sorridere; e persino Dolly, malgrado sorridesse, specialmente quando mi sono imbarcata nella seconda serie di aneddoti, mi osservava con espressione vagamente indagatrice, come se si stesse chiedendo cosa mi avesse preso.

Sventurata è la padrona di casa sui cui ospiti sia caduta, per qualsiasi motivo, una maledizione.

5 ottobre

Il figlio di Crabbe, nello scrivere la vita del padre, chiede:

Sembrerà meraviglioso, considerata la sua situazione in quel periodo, che con cuore vibrante, un singolare attaccamento alla compagnia femminile e passioni ancora intatte Mr Crabbe, malgrado i suoi sessantadue anni, avesse di nuovo in mente il matrimonio? Sono contento se nessuno resterà seriamente scandalizzato di fronte a tale evidenza di vivacità sentimentale.

Un po’ scandalizzato; ecco la misura che il figlio di Crabbe era pronto a concedere; non però seriamente scandalizzato.

È una fortuna che lo zio non sia vissuto nella stessa epoca: per lui sarebbe stata ben dura. I suoi sentimenti sono più che vivaci: sono violenti.

6 ottobre

Quando Dolly è presente, zio Rudolph non si muove; se ne sta seduto con la bocca cucita a osservarla. Se lei se ne va, lui subito si alza, mi prende per un braccio e mi porta in giardino, dove camminiamo avanti indietro sferzati dal vento tagliente.

Le nostre posizioni si sono completamente ribaltate. Ora sono io la vecchia parente saggia che consiglia, incoraggia e ascolta gli sfoghi. Camminiamo sottobraccio avanti indietro, avanti indietro, a passo rapido per via della vivacità dei sentimenti di zio Rudolph ma anche per via del vento, io cercando di stargli al passo, lui, non curandosi minimamente di cose quali il passo, completamente assorto nella sua situazione, nelle sue speranze, nelle sue paure… soprattutto nelle sue paure. Perché è terrorizzato che, avendo alfine trovato la donna perfetta, lei non lo voglia.

«Perché dovrebbe?» mi chiede in tono quasi collerico, «perché dovrebbe? Dimmi perché mai dovrebbe».

«Non saprei» gli rispondo, dato che ora io e zio Rudolph siamo i più schietti tra gli amici. «Ma d’altro canto non saprei nemmeno dirti perché non dovrebbe. Pensa a quanto sei caro, zio Rudolph. E Dolly è per natura molto affettuosa».

«È perfetta, perfetta» dichiara lo zio in tono ardente.

E Mrs Barnes, che dalla finestra ci osserva camminare, quando rincasiamo mi scruta in viso con occhi ansiosi e indagatori. Cos’avrà mai da dire lo zio con tanta concitazione quando è con me sulla terrazza, e perché una volta rientrato fissa Dolly in un tale silenzio di tomba? Povera Mrs Barnes.

7 ottobre

Con Dolly la difficoltà di corteggiarla nasce dal fatto che non si riesce mai a coglierla da sola, mai nemmeno in un angolino fuori portata d’orecchio di Mrs Barnes. Quest’ultima non si allontana neppure per un istante, se non assieme a Dolly. La sua abilità in questo è stupefacente. Vive nel terrore che l’orribile matrimonio col tedesco possa in qualche modo venire scoperto. Se aveva paura che io lo scoprissi, ora ha cento volte più paura che lo scopra zio Rudolph. È talmente ostinata nella sua umiltà, e talmente maestoso e inaccessibile le appare un dignitario, che la reale situazione non le è neppure balenata in mente. Non desidera altro che conservare la buona opinione di quest’uomo santo e insigne, e proteggere Dolly, la sua cara pecorella smarrita, dal giusto ma intollerabile disprezzo di lui. Per questo non si scolla. Dolly non deve essere lasciata sola.

«Un uomo» mi ha detto lo zio tutto infervorato questa mattina, «non può fare una proposta di matrimonio a una donna davanti a sua sorella».

«Quindi sei proprio deciso a farlo?» gli ho chiesto mentre gli trotterellavo a fianco su e giù per la terrazza facendo il possibile per stargli al passo.

«Appena la coglierò da sola. Non ne posso più. Devo sapere. Se mi dirà di no… Dio mio, se mi dirà di no…!»

Gli ho afferrato il braccio in un gesto affettuoso. «Oh, dirà di sì» l’ho rassicurato. «Dolly è una creatura piuttosto abitudinaria, sai».

«Vuoi dire che è abituata al matrimonio…»

«Beh, in effetti è piuttosto abituata, credo. Zio Rudolph» ho proseguito esitando, così come ho esitato non so quante volte in questi ultimi giorni sul dirgli o meno di Juchs – Siegfried sarebbe uno choc, ma Juchs lo distruggerebbe, se non spiegato con estrema cautela – «non pensi… non ti piacerebbe sapere qualcosa di più sul conto di Dolly, prima? Cioè, prima di chiederle di sposarti».

«No!» ha gridato lo zio.

Poi, con più calma, ha detto che, come la maggior parte degli uomini, è capace anche lui di guardare oltre le apparenze, e che Dolly è la donna perfetta per lui. Cos’avrebbe potuto dirgli che lui non vedesse già da sé? Niente, ha detto.

Oh, cosa si può fare con un uomo innamorato? Niente, dico io.

8 ottobre

A volte mi arrabbio con Dolly per aver fraternizzato in modo così seccante con dei tedeschi. Come sarebbe tutto più semplice, ora, se non l’avesse fatto! Ma quando torno calma mi rendo conto che non avrebbe potuto evitarlo. A lei fraternizzare viene naturale come respirare. I caratteri dolci e affettuosi come il suo finiscono sempre per fraternizzare. Immagino che se non fosse stato per la costante vigilanza di Mrs Barnes e il suo stesso desiderio di non provocare ulteriori angosce alla povera Kitty, già all’inizio delle loro peregrinazioni sarebbe diventata l’ardente moglie di un albergatore svizzero. Solo per compiacerlo; solo perché altrimenti lui si sarebbe disperato. Dolly deve essere sposata. È l’unico modo sicuro per salvarla dal matrimonio.

9 ottobre

Nevica. Il vento ulula e la neve turbina, e noi non possiamo uscire e allontanarci l’uno dall’altro. Quando Dolly non è presente, zio Rudolph è costretto a rimanere seduto accanto a Mrs Barnes. Oggi lui non può trascinarmi fuori in giardino. E in questa casa l’unico luogo in cui si possa stare seduti è il soggiorno, perché il locale dove mi occupo dei conti di casa è poco più grande di un armadio.

Se zio Rudolph già fatica a sopportare Mrs Barnes quando ha la possibilità di allontanarsene, oggi non la sopporta per niente. Tutte le qualità in teoria caratteristiche di un decano – pazienza, garbo, gentilezza – gli sono state strappate via dalla brama di dichiararsi e dall’impossibilità di farlo. Non è rimasto più nulla di ciò che era un tempo, a eccezione di quel vuoto simbolo, la tonaca.

10 ottobre

Lo zio freme di corteggiamento represso. E a quest’ora dovrebbe trovarsi in Inghilterra. Sarebbe dovuto ripartire quasi subito. Era venuto per stare solo tre o quattro giorni…

«Sì, giusto il tempo per farmi intendere ragione» ho detto.

«Sì, e per riportarti a casa con me tirandoti per un orecchio» ha risposto lui sorridendo.

Ha degli incontri molto importanti da presiedere a brevissima scadenza, e invece eccolo qui bloccato. La causa è Mrs Barnes, e naturalmente con lei non si comporta in modo particolarmente carino. Invano lei cerca di compiacerlo; ma l’unica cosa che lui vuole che faccia, ossia allontanarsi e lasciarlo solo con Dolly, lei naturalmente non la fa. Se ne sta lì seduta a fare discorsi propiziatori sul tempo, esprimendo un modesto ottimismo, pronta a rinunciare anche a quello se lo zio è di diversa opinione; quando lui prende in mano un libro diventa rispettosamente silenziosa, ma è sempre disposta, nel momento in cui lui lo mette giù, a gioire con lui se lui ha voglia di gioire, oppure a piangere se lui ha voglia di piangere. E tanto più lei si preoccupa di compiacerlo, tanto meno bendisposto lui diventa nei suoi confronti. Non riesce a perdonarle quella sua inspiegabile inamovibilità. La sua ostinata, continua socievolezza gli riesce incomprensibile. Ricondotto alla massima semplicità dall’amore, desidera unicamente stare solo con Dolly. Ed essendo un uomo, non riesce a capire perché, volendolo, non possa ottenerlo.

«Non sei gentile con Mrs Barnes» gli ho fatto notare oggi pomeriggio. «Ha perso la sua spontaneità. È intimorita».

«Non riesco a farmela piacere» è stata la brusca risposta dello zio.

«E sbagli di grosso. Ha avuto gravi problemi, ma è la bontà impersonificata. Credo di non aver mai incontrato nessuno così totalmente altruista».

«Allora vorrei che se ne andasse a essere altruista in camera sua» ha detto lo zio.

«Non ti riconosco più» ho ribattuto stringendomi nelle spalle. «Quando sei arrivato trasudavi unzione e benevolenza, e ora…»

«Perché non mi dà una possibilità?» ha esclamato. «Non vuol saperne di scollarsi. Queste donne che si appiccicano, che non riescono a stare sole… santo cielo, possibile che non abbia delle preghiere da dire, della biancheria da rammendare?»

«In fondo non credo che tu tenga veramente a Dolly» ho detto, «altrimenti saresti gentile con la sorella a cui è così profondamente affezionata».

Questo l’ha riportato alla ragionevolezza. «Ci proverò» ha annunciato. Mi risultava difficile non ridere davanti al ribaltamento delle nostre posizioni: io la saggezza in persona, la coscienza critica; lui il giovane parente testa calda anche se benintenzionato.

11 ottobre

Penso che gli ospiti debbano apprezzarsi; amarsi, preferibilmente, ma almeno apprezzarsi. Anch’essi hanno i loro doveri, uno dei quali è sforzarsi di non alimentare antipatie; viceversa, se a causa di una loro implacabile predisposizione proprio non riescono a evitarlo, non dovrebbero almeno tentare in ogni modo di non darlo a vedere? Dovrebbero mostrare riguardo per la difficile posizione della padrona di casa; di colei che, quantomeno in via teorica, è obbligata a tenere a loro in egual misura.

Vero, prima dell’arrivo dello zio avevamo cominciato a inacidire, però inacidivamo badando alle buone maniere. Io e Mrs Barnes lo facevamo ben attente alla considerazione reciproca e alla buona educazione. Eravamo delle signore. Zio Rudolph non è una signora; e questa casetta, che, presumo, vista dall’esterno, con la neve che cade sul tetto e il fuoco nel caminetto che brilla attraverso le finestre, appaia un quadretto di pace, ribolle di passioni elementari. Paura, amore e collera albergano tutte qui dentro, ora; tutte portate da lui, tutte scaturite dalla mescolanza – in apparenza tanto innocua, così predisposta, verrebbe da pensare, a produrre solo frutti dello spirito – di due vedove e un sacerdote. Incredibile quanto si possa ottenere con mezzi minimi. E ancora più incredibili i secoli che sembrano separarmi dalle giornate di luglio in cui me ne stavo innocentemente sdraiata sull’erba a osservare le nuvole che superavano l’azzurro dei delphinium, quando ancora non avevo conosciuto Mrs Barnes e Dolly, e zio Rudolph, lontano in Inghilterra e neppure lontanamente sfiorato dall’idea di un viaggio, si comportava come di consueto dentro il suo decanato.

Ha fatto quanto promesso, ne sono certa, e ha tentato di mostrarsi più gentile con Mrs Barnes; posso solo giungere alla conclusione che abbia fallito nel tentativo, poiché non noto alcuna differenza. Lui continua a guardarla in cagnesco, lei sferruzza inamovibile. E malgrado il silenzio che regna, tranne quando, in qualche disperato momento, mi sforzo di essere divertente, aleggia la curiosa sensazione che stiamo vivendo in uno stato di pandemonio imbrigliato, in una costante condizione di rissa trattenuta. Ho come l’impressione che basti la minima cosa, il minimo tocco, persino un colpo di tosse, per fare saltare in aria la casa. Mi sorprendo a camminare in punta di piedi nel soggiorno, per non far vibrare il pavimento, per evitare di urtare i mobili. Oh, come mi sembrano rassicuranti e pacifici, ora, e pieni di una grande, splendida semplicità, quei giorni di luglio preospiti!

12 ottobre

Ieri sera sono andata in camera di Dolly – ci sono entrata in punta di piedi perché c’è una porta comunicante con la stanza di Mrs Barnes – le ho afferrato il polso con fermezza e l’ho condotta, senza dire una parola e facendo tutto il possibile per non fare rumore, in camera mia. Lì, una volta chiusala dentro, le ho chiesto: «Allora, cosa pensi di fare?»

Lei non ha neppure provato a simulare incomprensione. La purezza della fronte di Dolly è l’esatto riflesso della purezza della sua mente.

«Riguardo a tuo zio» ha detto annuendo. «Mi piace molto».

«Tanto da sposarlo?»

«Oh, anche. A me le persone piacciono sempre tanto da sposarle». E ha aggiunto, a mo’ di spiegazione per questa tendenza forse eccessivamente affabile: «I mariti sono così carini».

«E tu lo sai bene» ho concesso.

«Infatti» ha risposto Dolly col più dolce sorriso di reminiscenza.

«Zio Rudolph non aspetta altro che di incontrarti da sola per chiederti di sposarlo» l’ho informata.

Dolly ha annuito. Non c’era niente che potessi dirle di cui non fosse già consapevole.

«Poiché a quanto pare ti sei già accorta di tutto» ho proseguito, «immagino tu abbia anche notato quanto sia innamorato di te».

«Oh, sì» ha confermato Dolly placida.

«Talmente innamorato che sembra essersi dimenticato persino di essere un dignitario della Chiesa; quando è solo con me si comporta in un modo che, ne sono certa, la Chiesa disapproverebbe. Caspita, manca poco che imprechi».

«Una buona cosa» ha dichiarato Dolly con aria di approvazione.

«Già. Ora però cosa facciamo riguardo a Siegfried?»

«Caro Siegfried» ha mormorato Dolly.

«E a Juchs?».

«Povero tesoro» ha mormorato Dolly.

«Sì, sì. Ma non pensi che zio Rudolph debba sapere?»

«È naturale» ha risposto Dolly, con uno sguardo di leggera sorpresa di fronte a una domanda così ovvia.

«Mi hai detto che se io fossi venuta a sapere di Juchs Kitty ne sarebbe morta. La cosa non potrà che essere due volte peggio, se a venirlo a sapere sarà zio Rudolph».

«A Kitty non possiamo ancora dir nulla. Non prima di aver chiarito ogni cosa. Mia cara, quando c’è di mezzo il matrimonio non si può continuare a tenere tutto segreto».

«Hai intenzione di dirlo tu stessa allo zio?»

«Certo» ha risposto lei di nuovo con aria sorpresa.

«Quando?»

«Quando mi chiederà di sposarlo. Fino a quel momento non vedo come la cosa possa riguardarlo».

«E non temi… non pensi che per lui il tuo secondo matrimonio possa essere un colpo terribile? È un decano, nutrito alla Tavola dei Gradi di Consanguineità».

«Se lo sarà non posso farci niente. Ma deve saperlo. Se mi ama abbastanza non gli importerà, e se non mi ama abbastanza non gli importerà lo stesso».

«Perché in tal caso la sua disapprovazione nei confronti di Juchs sarebbe più grande del suo desiderio di sposarti?»

«Sì» ha risposto Dolly con un sorriso. «Perché vorrebbe dire» ha proseguito, «che non tiene abbastanza a me».

«E non ti dispiacerebbe?»

Gli occhi le si sono leggermente sgranati. «Perché dovrebbe dispiacermi?»

«No, certo, dato che non ne sei innamorata».

E ho osservato che, pur intuendo che non fosse innamorata di un uomo dell’età dello zio, ritenevo che in tutta la vita innamorata non lo era mai stata. Nemmeno di Siegfried. Di nessuno.

Lei mi ha risposto che è proprio così, e che a lei la gente piaceva troppo per volerla afferrare.

«Afferrare?»

«È quello che si fa quando ci si innamora» ha dichiarato Dolly. «Ci si vuole afferrare».

«Ma anche tu sei stata afferrata, e ti è piaciuto. E zio Rudolph è certamente determinato ad afferrarti».

«Sì. Ma l’uomo lo supera in breve tempo. Afferra ed è bell’e che finita, poi si dedica alle cose davvero importanti, l’affetto e la gentilezza. Per la donna invece non è mai finita. Non riesce a lasciare andare. E la poveretta, per colpa di quello che tu chiami innamoramento, è terribilmente vulnerabile e soffre, soffre da morire».

Dolly ha cominciato a baciarmi e accarezzarmi i capelli.

«Penso però» ho detto, «che sia sempre meglio avere amato senza riserve – chiamalo pure afferrare, se preferisci, non mi interessa quali brutte parole scegli – ed essere state vulnerabili, e avere sofferto, che non avere mai provato emozioni, che essere una sorta di piacevole ameba…»

«Hai mai pensato» mi ha interrotto Dolly continuando a baciarmi – la sua guancia era contro la mia, e mi accarezzava i capelli con grande tenerezza – «che se sposo il tuo caro zietto diventerò tua zia?»

13 ottobre

Ebbene, se Dolly è disposta a sposare lo zio e se lo zio non vede l’ora di sposare Dolly, allora non resta altro da fare che allontanare Mrs Barnes dal soggiorno per un’ora. Un’ora dovrebbe bastare, credo, per coprire tutto quanto: cinque minuti per la proposta, quindici per presentare Siegfried, trentacinque per spiegare Juchs e cinque per la conclusiva, felice accettazione reciproca.

Devo trovare il modo di allontanare Mrs Barnes questa mattina stessa. Come esattamente farlo non saprei, soprattutto per un’ora intera. Del resto Siegfried e Juchs non possono essere spiegati in modo comprensibile in meno di cinquanta minuti tra tutti e due. Sì; un’ora ci vuole tutta.

Negli ultimi giorni ho provato più volte ad attirare Mrs Barnes fuori dal soggiorno, ma inutilmente. È mai possibile che debba arrivare al punto di ferirmi, di farmi qualcosa di spiacevole, qualcosa che richieda del tempo per essere fasciato? L’idea mi ripugna; del resto non si può andare avanti in questo modo.

Ieri sera ho chiesto a Dolly se non sarebbe opportuno richiamare l’attenzione di Mrs Barnes sulla disperazione dell’amore non ricambiato dello zio; dopo tutto questo matrimonio sarebbe la soluzione di ogni suo problema e non le porterebbe altro che straordinario sollievo e gioia, ma Dolly me lo ha proibito. A suo parere, venire a sapere che lo zio è innamorato getterebbe la povera Kitty nella più totale angoscia: secondo lei nell’esatto istante in cui venisse a sapere di Juchs, l’orrore prenderebbe il posto dell’amore. Come potrebbe un decano della Chiesa d’Inghilterra, direbbe Kitty, arrivare al punto di prendere in moglie una donna che in passato ha contratto matrimonio con un elemento della Tavola dei Gradi di Consanguineità? E la nazionalità tedesca renderebbe il tutto, teme, ancor più terrificante. E poi, ha aggiunto Dolly, sorridente scuotendo il capo, lo zio potrebbe anche non farla, la proposta di matrimonio. Potrebbe subire un nuovo cambiamento. Io stessa sono rimasta sbalordita, mi ha ricordato, di fronte al cambiamento repentino e violento già verificatosi, passando dall’unzione alla quasi imprecazione; potrebbe dunque facilmente subirne un altro, e tornare al punto di partenza; in tal caso che peccato avere disturbato la poca pace di mente della povera Kitty.

«Non ne ha comunque» ho risposto; con insofferenza, temo.

«Non molta» ha ammesso Dolly con aria contrita. «Ed è tutta colpa mia».

Ma io stavo pensando che se Kitty non ha mai avuto la pace della mente è perché non ha una mente in cui avere pace.

Comunque non l’ho detto.

Ho fatto esercizio di tatto.

Più tardi

Ebbene, è successo. Mrs Barnes è uscita dal soggiorno, e in questo preciso istante Rudolph e Dolly sono soli, uno che fa e l’altra che riceve la proposta di matrimonio. Lui le sta dicendo che la adora, e in risposta lei sta richiamando cortesemente l’attenzione di lui su Siegfried e Juchs. Quanto ne sarà dispiaciuto, ammesso se ne dispiaccia? Il suo amore riuscirà trionfante a digerirli entrambi o, una volta mandato giù Siegfried, si ritroverà incapace di ingoiare anche Juchs?

Oh, amo che le persone siano felici! Amo che si amino a vicenda! Spero vada tutto bene. Dolly può dire quel che vuole, ma l’amore è l’unica cosa al mondo capace di fare miracoli. Basta guardare zio Rudolph. Tuttavia sono più dubbiosa di ieri riguardo l’esito, perché ciò che ha causato l’allontanamento di Mrs Barnes dal soggiorno mi rende nervosa su come prenderà la notizia di Juchs.

Mentre aspetto posso benissimo riportare l’accaduto; stando al mio orologio Dolly è a un terzo del cammino, ed è arrivata a Siegfried, dunque mi restano ancora tre quarti d’ora.

Ecco cos’è successo. La mattina è cominciata male, anzi malissimo. Dolly, stufa di essere fissata in silenzio, ha detto di aver bisogno di altra lana, e subito dopo colazione è salita in camera. Lo zio, gettando un’occhiata di disperazione fuori dalla finestra, alla neve vorticante, ha guardato in cagnesco Mrs Barnes per qualche istante, poi ha preso un vecchio numero del «Times» e vi si è trincerato dietro.

Per compensare le orribile occhiatacce a Mrs Barnes, mi sono lanciata in una piacevole conversazione; lei però mi ha subito ripresa, dicendo «Shh… shh», indicando deferente con un ferro da maglia lo zio intento alla lettura.

Irritata da tanta ossequienza, stavo per ribellarmi e insistere a parlare quando lui, apparentemente colpito da qualcosa di natura sanguinaria sul «Times», ha esclamato a voce alta: «Per quanto ce la metta tutta, e ce l’ho messa proprio tutta, non riesco a trovare una sola parola buona da dire a favore dei tedeschi».

È stato come una bomba. Prima d’ora lo zio non aveva mai nominato i tedeschi. Non me l’aspettavo proprio. Sono rimasta ammutolita dallo choc. I ferri da maglia di Mrs Barnes si sono immobilizzati, come pietrificati. Io non ho osato guardarla. Silenzio di tomba.

Lo zio ha abbassato il giornale e si è guardato attorno, verso di noi, aspettandosi manifestazioni di consenso; era insofferente perché non dicevamo all’istante che la pensavamo come lui.

«E tu?» mi ha domandato, dato che, paralizzata, me ne restavo zitta.

Sono riuscita soltanto a scuotere la testa.

«E voi?» ha domandato voltandosi verso Mrs Barnes.

La sua sorprendente risposta – ovvio, sorprendente per lo zio – è stata alzarsi in tutta fretta, lasciare cadere a terra il lavoro a maglia e fuggire su per le scale.

Lui è rimasto a guardare sbalordito la sua fuga. E, sempre sbalordito, una volta scomparsa su per le scale, i suoi occhi hanno cercato i miei.

«Ma dico» ha detto fissandomi esterrefatto, «quella donna è filotedesca!»

Ora toccava a me fissarlo esterrefatto.

«Mrs Barnes?» ho esclamato, spinta a una veemente esclamazione dall’enormità dell’ingiustizia.

«Sì» ha detto lo zio, atterrito. «Sì. Non hai notato che espressione aveva? Santo cielo… se penso che da cinque anni faccio attenzione a non rivolgere la parola a un filotedesco e avevo sperato, a Dio piacendo, di non dovergliela mai più rivolgere, figuriamoci poi…» e qui ha battuto i pugni sui braccioli della poltrona, e il «Times» è scivolato sul pavimento, «di stare sotto lo stesso tetto con uno di loro».

«Beh, evidentemente allora a Dio non piaceva» ho detto, alquanto scioccata.

Ecco che, per l’ennesima volta, l’ecclesiastico manifestava una risorgenza di tutte le qualità tipicamente anticristiane; e io ero talmente mossa a indignazione dalla sua facilità a credere al peggio riguardo a quella povera infelice di Mrs Barnes che ho gettato la prudenza al vento e ho proseguito con voce indignata: «Non è Mrs Barnes a essere filotedesca in questa casa… è Dolly».

«Cosa?» ha gridato lo zio.

«Sì, è Dolly» ho ripetuto annuendo con aria di sfida, perché ora che l’avevo detto avevo paura.

«Dolly?» mi ha fatto eco lo zio, afferrando i braccioli della poltrona.

«Forse filotedesca non è l’espressione giusta» mi sono affrettata ad aggiungere con voce venata di nervosismo, «però non so bene, forse lo è. O forse è meglio dire che… che è animata da un imparziale spirito internazionale…»

Poi d’un tratto ho realizzato che Mrs Barnes se n’era andata. Cacciata via. Probabilmente per un bel pezzo.

Mi sono alzata di scatto. «Ascolta, zio Rudolph» ho detto precipitandomi su per le scale con la stessa rapidità di Mrs Barnes, «chiedilo tu stesso a Dolly. Vado di sopra a dirle di scendere. Chiedile se è filotedesca. Lei te lo dirà. Ma solo…» e sono corsa di nuovo giù da lui e ho abbassato la voce, «se prima ti proporrai. Perché non te lo dirà, se prima non ti proporrai».

Quindi, mentre lui se ne stava seduto sulla poltrona afferrando con forza i braccioli e guardandomi a occhi sgranati, mi sono chinata e ho mormorato: «Ecco la tua occasione, zio Rudolph. Hai sistemato la povera Mrs Barnes per un po’. Perciò non vi interromperà. Ti mando giù Dolly. A presto… buona fortuna!»

E con un bacio al volo mi sono affrettata su per le scale, diretta in camera di Dolly.

Per via della porta comunicante con la camera di Mrs Barnes ho dovuto essere molto prudente, come ieri sera. Ho fatto esattamente la stessa cosa: sono entrata in punta di piedi, ho afferrato Dolly saldamente per il polso e l’ho condotta fuori senza dire una parola. Lì non ho dovuto far altro che indicare le scale e fare una smorfia – una gentile, spero – alla volta della porta chiusa della sorella, e l’intelligente Dolly ha pensato al resto.

Si è avviata lungo il corridoio con sobria dignità, tanto piacevole per gli occhi, per ricevere la sua proposta di matrimonio. L’esperienza in questo campo l’ha resa perfetta. In cima alle scale si è voltata e mi ha sorriso; la fossetta era adorabile. L’ho salutata con la mano; lei è svanita; e ora eccomi qui.

Sono passati quaranta minuti. In questo momento dovrebbe essere in pieno Juchs.

Notte

Ho sempre saputo che questa casetta è fatta per la gentilezza e l’amore. Fin dal primo momento in cui è stata costruita ho avuto la sensazione che fosse benedetta. È stato senza ombra di dubbio l’istinto che mi ha portato via dall’Inghilterra, che mi ha spinto ad arrampicarmi ostinata su per la montagna per lasciare cadere i miei fardelli in questo posto. Conquista sempre tutti. Nessuno riesce a resistergli. Nessuno va via di qui uguale a quand’è arrivato, a meno che non fosse fin dall’inizio una di quelle persone benedette che portano con sé la pace del cuore ovunque vanno. Fin dall’inizio ho intuito che chi è angustiato non ha che da venire quassù per tornare sereno, chi è solo per tornare euforico, e chi è vecchio per tornare giovane. Ora a questa lista va aggiunto: chi è vedovo per tornare sposato; perché tra zio Rudolph e Dolly è andato tutto bene, e la casa è, ancora una volta, nella consueta condizione di ospitare solo persone felici.

Già, perché anch’io sono tornata felice – totalmente felice, per il momento, e non sarei sorpresa se avessi chiuso una volta per tutte con quegli altri sentimenti – appena ho visto la faccia di zio Rudolph quando sono scesa da basso.

Dolly sedeva presso il fuoco con aria compiaciuta. Lo zio era in piedi sul tappeto; non appena mi ha visto mi ha raggiunto tendendomi le mani, e io mi sono fermata sull’ultimo gradino, con le mani nelle sue, e ci siamo guardati e ci siamo messi a ridere, un riso di pura felicità.

Poi ci siamo baciati, io ancora ai piedi della scala, quindi alla sua stessa altezza; e mentre tutta la sua persona irradiava quel tenero affetto per l’universo tipico di chi è nella sua situazione, mi ha detto: «E pensare che ero venuto qui solo per rimproverarti!»

«Sì, zio Rudolph» ho risposto, «pensa un po’».

«Beh, se sono venuto per sgridare, poi sono rimasto per amare» ha affermato.

«Il che, come dice la Bibbia, è molto meglio» ho commentato io mentre ci scambiavamo ampi sorrisi.

Poi Dolly è salita in camera a dare la notizia a Mrs Barnes – meraviglioso poter cancellare i problemi di chi si ama con una sola frase! – e lo zio mi ha confessato che, quando l’ho lasciato lì seduto per andare a prenderla, per la prima volta un dubbio riguardo a Dolly aveva adombrato l’immagine di lei.

«Pensa un po’… Pensa un po’!» ha esclamato unendo le mani, «lasciare che dei tedeschi – dei tedeschi, dico, – possano anche solo per un istante frapporsi tra noi due».

Ma non appena l’ha vista scendere per andare da lui si è sentito pervadere da un tale amore che si è alzato e l’ha chiesta in sposa ancor prima che fosse arrivata ai piedi delle scale. Ed è stato dalle scale, come da un pulpito, che Dolly, sostenendosi alla balaustra, ha raccontato di Siegfried e di Juchs.

Non aveva voluto scendere finché non avesse finito con entrambi. Immagino che su Siegfried si sia dilungata, e arrivata a Juchs si sia soffermata. Ogni aspetto dei due che più verosimilmente avrebbe potuto far apparire impossibile a un decano prenderla in moglie è stato esposto in lungo e in largo. Non sarebbe scesa neppure di un altro gradino, ha annunciato, finché lo zio non fosse stato a conoscenza di tutti i fatti e li avesse attentamente esaminati alla luce della Tavola dei Gradi di Consanguineità.

«E per te è stato un gran brutto colpo, zio Rudolph?» ho domandato mentre gli stavo accanto e, tenendoci sotto braccio, una posa ormai familiare, davamo la schiena al caminetto.

Lo zio non è un uomo esattamente attraente, eppure in quel momento avrei giurato che avesse il viso di un angelo. Mi ha guardato e ha sorriso. È stato il più meraviglioso dei sorrisi.

«Non so cos’è stato» ha risposto. «Quando lei ha finito ho detto solo: “Mia amata!” e poi lei è scesa».

15 ottobre

È la mia ultima notte qui, ed è l’ultima volta che scrivo nel quaderno della mia vecchiaia. Domani partiremo tutti assieme per Berna, dove lo zio e Dolly si sposeranno; poi lui la porterà in Inghilterra, mentre io e Mrs Barnes partiremo per la stessa destinazione, discretamente, ma lungo un diverso itinerario.

E così le peregrinazioni di Mrs Barnes e di Dolly sono giunte al termine, e Mrs Barnes vivrà la sua idea di perfetta felicità, cioè abitare in seno alla Chiesa con quasi una cattedrale nel giardino sul retro. Perché lo zio, in questo momento disposto ad amare chiunque, ama anche Mrs Barnes, e l’ha invitata a stabilirsi da lui. In verità in questo momento inviterebbe chiunque a stabilirsi da lui, dato che non solo ha invitato anche me, ma l’ho sentito insistere in toni molto cordiali con i particolarmente inamovibili Antoine affinché usino casa sua come loro quartier generale ogni qualvolta capiteranno in Inghilterra.

Credo che la tendenza a invitare scorra nel sangue di famiglia, poiché anch’io ho avuto il mio bel daffare a invitare. Ho invitato Mrs Barnes a stare da me a Londra finché non si stabilirà nel decanato, e lei ha accettato. Faremo il viaggio assieme e una volta là abiteremo assieme, ne sono certa, in quell’unione elogiata dal salmista come cosa buona e piacevole.

Starà con me nelle settimane in cui lo zio vorrà avere Dolly tutta per sé. Conoscendo Dolly penso che saranno molte; ma essere assieme a una Mrs Barnes felice sarà diverso dall’essere assieme a lei com’era qui. È così felice che sembra fatta interamente di radioso affetto. I solchi sul viso, le paure e il nascondersi dal proprio cuore sono svaniti d’un colpo. Ora è semplice e trasparente come un bambino. È sempre stata trasparente, ma senza saperlo; ora è lei stessa a togliersi i veli, e pretende cordialmente che la si guardi da parte a parte per constatare come non vi sia altro che letizia. Che miracoli riesce a fare un po’ di felicità! È mai esistito qualcosa di paragonabile?

Questo è un luogo colmo di benedizione. Quando tre mesi fa mi sono arrampicata su per la mia montagna, sola e infelice, non avevo alcuna garanzia che ne sarei discesa in un gruppo di quattro persone, ognuna delle quali lasciava il piccolo chalet piena di vita rinnovata, di speranza restituita e di salutare aspettativa; con una visione più chiara, rimessa in piedi; e tornata di nuovo utile a sé stessa e al mondo. Alla fine nessuno di noi andrà sprecato. Alla fine il buono che c’è in noi non verrà distrutto dalle circostanze e gettato via come una cosa inutile. Quando sarò così sciocca – se mai lo sarò, perché mi sento completamente guarita – da ricominciare a pensare al passato con un sentimento diverso da una benevola serenità, verrò qui immediatamente, invitando anche i più infelici tra i miei amici, e starò a guardare loro e me stessa tornare di nuovo tutti interi.

Penso che la casa debba essere ribattezzata.

Credo dovrebbe chiamarsi Chalet du Fleuve Jordan.

Ma chissà se i miei ospiti gradirebbero.