1° settembre

Stamane Dolly si è tradita.

Il primo del mese è il giorno in cui pago i conti. Il mese scorso Antoine mi ha ricordato che prima della guerra era questa la mia abitudine, e io ho ricordato la svogliatezza con cui mi distaccavo dalle mie meditazioni sul prato per entrare in casa e fare le addizioni. Oggi invece l’ho fatto volentieri. Sono entrata in casa con animo lieto.

«Oggi è la giornata dedicata alla contabilità» ho annunciato a Mrs Barnes mentre stava per mettersi alla guida della processione diretta alle sedie. «I conti mi prenderanno gran parte della mattina, per cui credo ci rivedremo a pranzo».

«Poveretta» ha esclamato Mrs Barnes comprensiva. «Che seccatura per voi. I giorni terribili della chiusura dei conti. Li ricordo bene, e anche come li temevo».

«Sì» è intervenuta Dolly. «Reines Glück genießt doch nie/ Wer zahlen soll und weiß nicht wie.* Povera Kitty. Noi sappiamo bene cosa vuol dire, vero?» E ha cinto la sorella con il braccio.

Dolly si era tradita.

Ho ritenuto meglio non soffermarmi, ma dirigermi in tutta fretta dai miei conti.

Il suo accento era perfetto. Conosco abbastanza il tedesco per poterlo dire.

2 settembre

Per via di quanto accaduto ieri, oggi i nostri rapporti sono stati tutto il giorno un po’ tesi. A pranzo Dolly era abbattuta, e per la prima volta non sorrideva. Credo che Mrs Barnes l’abbia redarguita con più severità del solito. È evidente che Mrs Barnes non desideri affatto che io venga a sapere di Siegfried. Mi chiedo se sia il caso di introdurre con delicatezza l’argomento tedeschi nella conversazione e lasciarle capire che ho intuito del marito di Dolly e che la cosa non mi preoccupa minimamente. Perché dovrei preoccuparmi del marito di qualcun’altra? Una donna rispettabile si preoccupa solo del proprio. Tuttavia non conosco due argomenti più difficili da affrontare con tatto se non i tedeschi e i mariti; quando poi si sommano il coraggio mi viene meno.

Oggi pomeriggio la nostra passeggiata è stata piuttosto deprimente. Mrs Barnes era guardinga, Dolly mansueta. Io cercavo di essere pimpante, ma non è facile essere pimpanti da soli.

3 settembre

Questa notte è scoppiato un temporale e, per la prima volta da quando sono arrivata, al risveglio ho trovato pioggia e bruma. La bruma si riversava in camera dalle finestre aperte, e la stanza era fredda. Quando ho guardato il termometro appeso fuori, ho visto che era sceso sui venti gradi.

Siamo talmente abituati a un’organizzazione da bel tempo che il cambiamento improvviso ha provocato uno sconvolgimento. Ho sentito del trambusto al piano di sotto, e quando sono scesa per colazione ho trovato la tavola apparecchiata in soggiorno. Dopo i nostri radiosi pasti all’aperto, sembrava di essere in una tomba. La porta d’ingresso era chiusa; la pioggia batteva sui vetri; e addossata ai vetri, a frapporsi tra noi e il mondo come un’enorme tenda di flanella grigia, era sospesa la bruma. Avrebbe benissimo potuto essere una di quelle detestabili mattine di dicembre in Inghilterra.

«C’est l’automne» ha annunciato Antoine nel portare in casa le tre sedie di giunco e disponendole attorno al tavolo da tè su cui era apparecchiata la colazione.

«C’est un avertissement» ha annunciato M.me Antoine nel portare il caffè.

Antoine ha poi aggiunto che riteneva possibile che Madame e ces dames avrebbero gradito il caminetto acceso. Per confortare. Per rallegrare.

«Ve ne prego, non accendetelo apposta per noi» ha subito detto Mrs Barnes in tono fervente. «Io e Dolly non soffriamo affatto il freddo, ve l’assicuro. Vi prego, non accendetelo apposta».

«Ma non trovate che sarebbe accogliente…» ho cominciato io; in quanto a calore sono come i gatti.

«Preferirei davvero che non lo accendeste» ha ribadito Mrs Barnes con il viso aggrondato. «Pensate alla legna!»

«Ma basterebbero pochi ciocchi».

«Al giorno d’oggi nulla è più prezioso della legna. E poi è troppo presto per accendere il fuoco. Solo la scorsa settimana eravamo ancora in agosto. In piena canicola».

«Ma se abbiamo freddo…»

«Io e Dolly saremmo creature ben misere se nell’esatto istante in cui smettessimo di avere caldo avessimo freddo. Vi prego di non pensare che non apprezziamo la vostra gentilezza nel voler accendere il caminetto, ma io e Dolly ci sentiremmo alquanto in difficoltà se a causa nostra voi foste costretta ad accendere il fuoco così presto.

«Ma…»

«Conservate i ciocchi per più avanti, ve ne prego».

Così abbiamo rinunciato al fuoco; siamo rimaste sedute, Mrs Barnes con lo scialle finalmente adibito al suo uso legittimo, tutte e tre impegnate nello sforzo di non tremare.

Dopo la colazione, sparecchiata in un sol colpo, tavolo e tutto quanto portati via da in mezzo a noi dagli Antoine – cosicché ci siamo ritrovate sedute una di fronte all’altra attorno a un vuoto spazio circolare con una curiosa sensazione di improvvisa nudità –, ho immaginato fosse arrivato il momento di Merivale, per cui mi sono alzata, ho approntato una sedia comoda per Dolly e ho acceso la luce.

Con mia grande sorpresa ho scoperto che Mrs Barnes preferiva rinunciare alla lettura piuttosto che usare la mia corrente elettrica di giorno. Sarebbe stato un imperdonabile sperpero, ha dichiarato. Dolly poteva benissimo lavorare a maglia. Per lavorare a maglia nessuna delle due aveva bisogno di guardare.

L’ho trovato molto commovente. Fin dal primo giorno ha mostrato una commovente, e al tempo stesso imbarazzante, sollecitudine a non farmi incorrere in spese evitabili, ma mai fino a tal punto. So bene quanta importanza lei dia alle letture. Diamine, se ce ne stessimo sedute al buio senza far niente potremmo persino finire per dirci delle cose. Sì, l’ho trovato davvero molto commovente.

Del resto Mrs Barnes commovente lo è. Ed è proprio perché è così commovente nel suo desiderio di non dare mai fastidio e di renderci felici che continuiamo a fare esattamente come vuole lei. Io sarei disposta a fare quasi qualsiasi cosa pur di non dare un dispiacere a Mrs Barnes. E pur di tenerla tranquilla; quanto all’attenersi a un comportamento di inscalfibile altruismo, beh, cercare di farglielo abbandonare sarebbe solo fatica sprecata.

L’ho imparato un po’ alla volta.

Da principio, durante i pasti, trascorrevo buona parte del tempo a rassicurarla che le pietanze non erano state cucinate appositamente per lei e Dolly, e poiché non rimanevo che io per cui cucinarle appositamente, le mie rassicurazioni avevano la conseguenza di farmi apparire esageratamente ingorda. Credevo di condurre una vita frugale, quassù, ma Mrs Barnes deve aver vissuto in modo talmente più frugale da farle sospettare che qualunque cosa io le metta davanti sia una lussuosa forzatura imposta dal mio senso di ospitalità.

Per esempio era così convinta che le albicocche fossero state, per usare le sue parole, comprate apposta, che alla fine per calmarla ho dovuto dire a M.me Antoine di non servirne più. Proprio quando giù a valle se ne raccolgono in abbondanza. Poi, per frutta, abbiamo avuto ribes rossi: Mrs Barnes si è tranquillizzata, sapendo che provenivano dal giardino; però non li mangiava nessuno perché non ci piacevano.

Inoltre ogni giorno veniva portata in tavola una caraffa di limonata, per lei costante oggetto di preoccupazione. In quel periodo non parlava altro che di limoni e zucchero, e di tutti i limoni e di tutto lo zucchero che sarebbero stati risparmiati se lei e Dolly non si fossero trovate qui; così per rassicurarla ho detto a M.me Antoine di darci solo dell’acqua.

I dolci che accompagnavano il tè sono scomparsi una settimana fa. A colazione le uova sono sopravvissute, e così pure il miele, ma solo perché Mrs Barnes, sentendo le galline e avendo visto le api, sa che non sono prodotti comprati apposta. Mangia con animo sereno patate, cavoli e qualunque altra verdura dell’orto, ma se c’è della carne diventa recalcitrante; ieri, un cosciotto di montone l’ha fatta piombare nella disperazione, e nulla al mondo è riuscito a toglierle dalla testa che se fossi stata da sola, a tavola, al suo posto, ci sarebbe stata solo una cotoletta.

«Lasciamo stare i cosciotti di montone» ho detto dopo pranzo a M.me Antoine. «Bastano tre cotolette».

Temo che M.me Antoine sia scandalizzata per l’inospitale austerità che immagina io applichi alle mie ospiti. Il mio ordine ad Antoine di stamattina di non accendere il fuoco avrà di certo alimentato i suoi crescenti sospetti sulla mia trasformazione in una Madame alquanto spilorcia. Deve avere esposto i suoi timori ad Antoine, perché l’altro giorno, quando le ho chiesto di eliminare lo zucchero e i limoni dalla limonata e di servire solo acqua, lei l’ha guardato, e mentre mi allontanavo l’ho sentita dirgli sottovoce – avendole senz’altro lui spiegato che un tempo non ero così, e incapace di darsi un’altra spiegazione – «C’est la guerre».

Verso le undici, essendo ben poco d’aiuto la mia presenza in soggiorno, in cui regnava uno sconforto tale da avermi spinto all’incauta esclamazione che avrei voluto fumare la pipa – al che Dolly ha subito risposto: «Sarebbe una vera consolazione» e Mrs Barnes l’ha ripresa con un: «Dolly» –, mi sono diretta in cucina col pretesto di chiedere cosa ci fosse per pranzo, ma in verità per stare qualche istante in un posto dove c’era un fuoco acceso.

M.me Antoine è stata a guardarmi con un’espressione di rispettosa disapprovazione mentre mi scaldavo le mani.

«Madame devrait faire faire un peu de feu dans la halle» ha commentato. «Ces dames auront bien froid».

«Ces dames non vogliono che lo accenda» ho cercato di spiegare con il francese più appassionato che mi è riuscito di mettere insieme. «Ces dames mi implorano di non accenderlo. Ces dames si rifiutano di accendere il fuoco. Ces dames sono ferocemente contrarie ad accendere il fuoco. La determinazione di ces dames a non voler accendere il fuoco finirà per uccidermi».

Ma era chiaro che M.me Antoine non mi credeva. Lo vedevo bene: era convinta che stessi mettendo in atto una disgustosa grettezza ai danni di due povere ospiti indifese. Sono stati i dispiaceri della guerra, ha concluso, ad aver mutato la natura di Madame. Era la spiegazione più gentile, l’unica possibile.

Sera

Ho sentito bussare alla porta. Pensavo fosse M.me Antoine, venuta a farmi qualche domanda di natura domestica, per cui ho detto Entrez, invece era Mrs Barnes.

Era la prima volta che entrava nella mia camera da letto. Spero di non esserle parsa troppo sorpresa. Ma credo non sia passato neppure un secondo dal momento in cui ho manifestato stupore al momento in cui mi sono ripresa e mostrata ospitale.

«Oh… avanti» ho detto. «Che bella sorpresa».

È in queste splendide vesti di urbanità che gli esseri civili ammantano i loro veri sentimenti.

«Non saremo state io e Dolly a cacciarvi via dal soggiorno, spero» ha esordito Mrs Barnes in tono preoccupato.

«No, avevo bisogno di salire un attimo» ho spiegato. «Stavo giusto per scendere».

«Oh, che sollievo. Temevo che…»

«Vorrei non aveste sempre tutta questa paura di cacciarmi» l’ho esortata in tono amabile. «Vi sembro forse una persona cacciata via?»

Ma vedevo che non badava molto alla mia affabilità. Aveva in mente qualcosa. E sembrava riluttante, ma al tempo stesso costretta.

«Pensavo» ha annunciato in tono solenne, «che se avete un momento libero potrebbe essere l’occasione per fare quattro chiacchiere. Vorrei parlarvi un attimo».

Ed è rimasta lì a guardarmi, gli occhi traboccanti di riluttante ma indomita coscienziosità.

«Ma certo» l’ho incoraggiata con cortese entusiasmo. «Ma certo».

Ho pensato fosse la conseguenza del lapsus in tedesco di Dolly dell’altro giorno, e che finalmente mi avrebbe raccontato di Siegfried.

«Perché non vi accomodate su questa sedia?» ho chiesto spingendogliene vicino una comoda e sedendomi sul bordo del divano.

«Grazie. Sono venuta a dirvi…»

Poi ha esitato. Ho immaginato che affrontare l’argomento Siegfried dovesse riuscirle difficile, e mi sono lanciata impulsivamente in suo soccorso.

«Sappiate che a me non importa nulla dei…» ho esordito.

«Sono venuta a dirvi…» ha ripreso un secondo prima che io pronunciassi la fatidica parola, «per farvi notare… che il tempo è notevolmente rinfrescato».

L’uscita era così lontana da Siegfried che per un attimo l’ho guardata ammutolita. Poi ho intuito ciò che stava per arrivare, e ho cercato di sviare il discorso.

«Ah» ho esclamato – temevo infatti che mi stesse per riversare tutta la sua gratitudine per la lunga ospitalità – «allora dopo tutto non vi dispiacerebbe accendere il fuoco in soggiorno».

«No, no. Non occorre, ve l’assicuro. Se lo accendeste ci fareste dispiacere. Sono venuta per dirvi…» e di nuovo ha esitato, per proseguire subito dopo con più fermezza, «ebbene, per dirvi che poiché il tempo è cambiato e l’ondata di caldo è venuta meno, sono venute meno anche le ragioni che vi hanno spinta a offrirci la vostra squisita ospitalità. Non potremo mai esprimervi tutta la nostra…»

«Dico, non avrete intenzione di darmi la disdetta?» l’ho interrotta io mostrandomi garrula e arrampicandomi su per la sua granitica ostinazione a mostrarsi grata con la gaiezza di un vivace rampicante autunnale. Perché ero nervosa. Quando sono nervosa divento terribilmente garrula. Di certo però rifuggo dalla gratitudine di Mrs Barnes. Mi degrada fino al più basso dei livelli. Mi lascia dolente allo stesso modo in cui la gratitudine di Simon Lee lasciava dolente Wordsworth. Non la sopporto. Che razza di mondo è mai questo, vorrei gridare, che razza di mondo miserabile, vergognoso, perfido e schiacciante è mai questo, se una cosa tanto da poco può rendere tanto felici?

Poi d’un tratto mi sono ricordata che essendo Mrs Barnes così solenne, forse non avrebbe preso l’espressione “dare la disdetta” con lo stesso spirito con cui era stata pronunciata. Colta dal terrore di averla offesa ho afferrato al volo la prima cosa che mi è sembrato potesse placarla, cioè l’offerta di prolungare, con entusiasmo e quasi a tempo indeterminato, la mia ospitalità. «Perché vedete» ho rettificato, travolta dal desiderio di non ferirla, «non accetterei mai una disdetta. Non ho nessuna intenzione di lasciarvi andare. Cioè» ho aggiunto, «sempre che a voi e a Dolly non sia venuta a noia la quiete e la monotonia della vita quassù. Perché non vi fermate fino a quando non partirò anch’io?»

Mrs Barnes ha aperto la bocca per parlare, ma io mi sono alzata alla svelta, l’ho raggiunta e le ho dato un bacio. È stato l’istinto a spingermi ad andare a baciarla, per guadagnare qualche istante, per rimandare il momento in cui dover ascoltare qualsiasi cosa avesse intenzione di dirmi; perché sia che accettasse l’invito oppure lo rifiutasse, sapevo di dovermi aspettare un numero ugualmente smisurato e insostenibile di discorsi di gratitudine.

Ma quando mi sono avvicinata per baciarla, Mrs Barnes mi ha buttato le braccia al collo e mi ha abbracciato forte; e in quel suo gesto improvviso, compiuto da una persona così parca di manifestazioni d’affetto, c’è stato qualcosa che mi ha fatto balzare il cuore in petto, e mi sono trovata a mormorarle nell’orecchio – la sola idea di mormorare nell’orecchio di Mrs Barnes ha dell’incredibile – «per favore, non andatevene, non lasciatemi… per favore, rimanete… ve ne prego…»

E poiché lei non diceva nulla l’ho baciata di nuovo, di nuovo ho mormorato: «Ve ne prego…»

E poiché continuava a non dir nulla, ho mormorato: «Non vi va di rimanere? Oh, ditemi che rimarrete!»

E con mio sommo orrore mi sono accorta che non diceva nulla perché stava piangendo.

Riguardo a Mrs Barnes sono stata ottusa e priva d’immaginazione. Una volta indovinato che Dolly è una vedova tedesca, avrei potuto benissimo intuire anche tutto il resto: la povertà derivante da una simile situazione, le vessazioni e le umiliazioni subite nelle pensioni in cui si è trascinata durante e dopo gli anni della guerra: luoghi in cui il nome di Dolly non doveva essere registrato né la sua nazionalità resa nota; la stanchezza e la solitudine di una vita del genere, senza una vera casa in nessun paese, forzata a vagare all’infinito; con la piccola cerchia di amici di Dulwich che probabilmente l’aveva ripudiata a causa di Dolly, oppure redarguita, nelle rare lettere, per la follia del suo sacrificio; con nulla cui tornare e nulla da attendere con impazienza; con le incessanti pugnalate del ricordo delle perdute glorie di un’esistenza ordinata in patria, in una casa ben provvista, con le campane della chiesa che suonavano la domenica, un vicinato gentile e uno spazzino ossequioso in fondo alla via.

Per tutta la vita, Mrs Barnes è stata rispettabile. In base a quanto mi ha detto, la rispettabilità è stata la sua unica grande ricchezza. Stare a testa alta davanti ai suoi amici, senza neppure un microscopico scheletro nell’armadio da dover giustificare o anche solo da spiegare: questo era per lei il significato della parola felicità. E ora eccola qui, a vagare da un posto all’altro con l’aria di un cane bastonato. Con Dolly. Con l’amata, la difficile, l’imperscrutabile Dolly. Male accetta, indesiderata e probabilmente spesso scacciata dai molti proprietari di pensione ferocemente antitedeschi.

Nei confronti di Mrs Barnes sono stata insensibile. Me ne vergogno. E che io abbia indovinato o meno, lei potrà tenersi i suoi segreti. Non proverò mai più, per quanto buone le mie sciocche intenzioni possano apparirmi, per quanto a mio modo di vedere agevolerebbe i nostri rapporti quotidiani, a insinuarmi a forza in cose che lei vorrebbe tacere. Quando stamane si è messa a piangere, sono rimasta a guardarla confusa ed esterrefatta, poi, a un tratto, ho capito. Ho capito ciò che ho appena scritto come se fosse stata lei a raccontarmelo. Le ho accarezzato la mano e ho cercato di fingere di non essermi accorta di nulla, perché era troppo terribile vederla mettercela tutta per nascondere le lacrime. Continuavo a dirle – perché davvero non sapevo cos’altro dire – «Allora rimarrete… sono così felice… allora è deciso». E ho persino udito me stessa esprimere tutto il mio compiacimento di fronte alla certezza, ora, di poter ascoltare Merivale fino alla fine!

Il nostro colloquio si è poi concluso grazie alla mia brillante idea di allontanarmi col pretesto di dover dare un ordine, lasciandola sola nella mia camera finché non si fosse ripresa a sufficienza per potersi presentare di sotto.

«Vado a dire una cosa a M.me Antoine» ho annunciato all’improvviso. «Stavo per dimenticamene». E mi sono precipitata fuori dalla stanza.

Una volta tanto sono riuscita a comportarmi con tatto. Meraviglioso. Non posso fare a meno di sentirmi compiaciuta per essere riuscita a escogitare questa via d’uscita. Mrs Barnes non desiderava certo far capire a Dolly di aver pianto. Poteva quindi restare tranquilla in camera mia finché non le fosse passato il rossore agli occhi, poi scendere ricomposta e pronta a dare il buon esempio come sempre.

Sempre facendo mostra di tatto, ho evitato di andare in soggiorno, dove c’era Dolly tutta sola e dove avrei avuto per la prima volta l’occasione di parlarle a quattr’occhi, cosa che desidero da lungo tempo; tuttavia non avrei mai potuto fare qualcosa che mettesse a disagio Mrs Barnes, e spero di non farlo mai nemmeno in futuro.

Evitare il soggiorno significava andare nei quartieri della servitù. Ma non avrei potuto trovare asilo, e al tempo stesso anche riscaldarmi, in cucina, perché era l’ora di cena dei domestici. Rimaneva solo la porta sul retro, ultimo rifugio di una padrona di casa. Era aperta; fuori, nel cortile, la pioggia e la cuccia di Mou-Mou si delineavano indistinti nella bruma.

Mi sono diretta alla porta e mi sono fermata sulla soglia a contemplare quel po’ che si vedeva in attesa del momento in cui ho ritenuto che Mrs Barnes potesse essere pronta a lasciare la mia camera. Sapevo che vi sarebbe rimasta finché gli occhi non fossero stati pronti ad affrontare il mondo, dunque sapevo di dover pazientare. Ho indugiato sull’uscio a contemplare quel po’ che si vedeva e a fare esercizio di pazienza. Ma non si può credere quanto sia fredda e penetrante questa bruma di montagna. Sembra davvero arrivare fin nell’animo e renderlo gelido, gelido e intriso di dubbi sul futuro.

4 settembre

Ieri, quando Mrs Barnes, in apparenza arida e granitica come al solito – ma ora io la sapevo più lunga – ha detto in mia presenza a Dolly che le avevo invitate a rimanere finché fossi rimasta anch’io, Dolly ha assunto un’aria preoccupata, mi è parso.

Per fortuna questa volta, a ornamento dell’annuncio di Mrs Barnes, le espressioni di gratitudine sono state poche. Credo non fosse ancora sufficientemente sicura di sé per imbarcarsi in lunghi discorsi. Dolly mi ha scoccato una rapida occhiata, ma senza il consueto sorriso. Io ho detto loro quale gran piacere fosse per me sapere che sarebbero rimaste. «Ti fa piacere rimanere, Dolly?» ho domandato interrompendo all’improvviso il mio discorso, perché i suoi occhi non erano quelli di una persona particolarmente contenta.

Lei ha risposto di sì; certo che sì; e ha dato voce a tutte le cerimoniosità del caso. Ma ha continuato ad apparirmi pensierosa; credo voglia dirmi, o che mi venga detto per tramite di Mrs Barnes, di Siegfried. Credo ritenga io debba essere al corrente di che tipo di ospiti ho in casa prima di decidere se desidero davvero che prolunghino la loro permanenza.

Vorrei trovare un modo per comunicare a Dolly, senza turbare Mrs Barnes, che sono al corrente, e che non m’importa. Ho cercato di mandarle un sorriso rassicurante, ma tanto più io sorridevo tanto più lei diventava seria.

Quanto a Mrs Barnes, ora tra noi due vi è la timidezza e l’affettuosità di un’intesa segreta. Può mostrarsi arida e inflessibile finché le pare, però ci siamo scambiate un bacio con sincero affetto, e ho sentito il suo braccio stringersi attorno al mio collo. Com’è di gran lunga più illuminante, di gran lunga più efficace di qualsiasi parola, di qualsiasi spiegazione, questa semplice cosa, un bacio. Credo che se tutti parlassimo meno e ci baciassimo di più, arriveremmo molto più rapidamente a comprenderci. Manifesto questa mia opinione con una certa titubanza. È più una teoria che una opinione. Non ne ho mai trovato riscontro in letteratura – nella conversazione preferisco evitarla – tranne una volta, e anche in quel caso espressa da un tedesco. Scrisse una poesia il cui primo verso è:

O schwöre nicht und küsse nur!*

L’ho trovato un ottimo consiglio.

5 settembre

Alla fine il tempo non è realmente cambiato. Abbiamo avuto il temporale e una giornata nuvolosa, ma poi c’è stata una schiarita. Il clima non è tornato al calore di prima – per quest’anno non avremo altre ondate di caldo – ma solo a una sorta di fresco, puro oro. Ieri il cielo è andato schiarendosi per tutto il giorno, e verso sera è arrivato un forte vento, che di notte lo ha ripulito completamente, lasciando solo le stelle; e stamattina, quando mi sono svegliata, c’era l’ormai consueta chiazza dorata sulla parete di fronte, ad annunciare un’altra giornata di bel tempo.

E così è stato, con la neve scesa a bassa quota sui monti, e l’aria ancora molto frizzante. Ogni cosa risplende, e si ha come l’impressione di essere noi stessi una sorta di radiosa bolla di luce. In effetti lo è quasi persino Mrs Barnes; oggi è stata gaia in modo sorprendente, impressionante, trattandosi di lei.

«Ah» ha esclamato ritta sulla terrazza dopo colazione, mentre inspirava lunghe boccate d’aria, «ora sì che capisco perché si dica che l’aria buona dia alla testa. Quest’aria sembra champagne».

«Ti fa sentire davvero bene» ho aggiunto io.

Avrei potuto dire molte altre cose, prendendo spunto dal suo commento, ma mi sono trattenuta. D’ora in poi starò ben attenta che le mie comunicazioni con Mrs Barnes non vadano mai oltre un «Sì, sì» o un «No, no», siano cioè brevi e immediate, senza niente che possa essere di incoraggiamento a Dolly. Dolly ha cercato di cogliermi da sola. Da quando ieri Mrs Barnes, durante il tè, le ha riferito il mio invito a rimanere, ci ha provato due volte, ma io l’ho evitata.

«Bene?» ha ripetuto Mrs Barnes. «Direi che fa molto di più. Ti va dritta alla testa. Già mi sembra di vederci doppio, ho quasi il capogiro».

Poi mi ha fatto un indovinello. Mrs Barnes mi ha fatto un indovinello, alle dieci del mattino: proprio a me, una persona ormai da tempo refrattaria agli indovinelli, che hanno smesso di entusiasmarsi dall’età di sei anni.

Come c’era da aspettarsi, ho dato la risposta sbagliata. Sconcertata, mi sono arrischiata a rispondere Brandy invece che Whisky, ma in realtà penso sia già straordinario essere arrivata a una risposta vicina a quella esatta. Non starò a riportare l’indovinello. Era già datato quando Mrs Barnes era giovane; mi ha detto di averlo imparato dal padre, il quale sapeva apprezzare una buona battuta proprio come sa farlo lei.

Ma ciò che più mi ha sorpreso è come l’aria frizzante e soleggiata abbia avuto l’effetto di generare indovinelli in Mrs Barnes. Ai miei ospiti anteguerra non accadeva. Anche loro ringiovanivano, ma non scendevano mai sotto i vent’anni. Mentre oggi Mrs Barnes è tornata all’età del bavaglino. Non me lo sarei mai aspettato da parte sua. Mai avrei creduto che si sarebbe avvicinata tanto a ciò che posso solo definire un’agghiacciante vivacità. E non si è limitata alla mattina, all’inebriamento iniziale di quest’aria così meravigliosamente tersa, ma è andata avanti per tutto il giorno. Sui pendii montani, al momento sdrucciolevoli e difficili da percorrere a causa delle pesanti piogge, oggi pomeriggio si potevano osservare tre figure, due nere e una bianca, ora procedere per un tratto in una fila indiana piuttosto barcollante, ora fermarsi trasformandosi in un gruppetto animato, quindi riprendere il cammino. Quando si fermavano era perché a Mrs Barnes era venuto in mente un altro indovinello.

Dolly era molto svelta nel rispondere, talmente svelta da farmi venire il sospetto di essere cresciuta a indovinelli, com’è senz’altro stato, mentre io ho fatto una pessima figura. Ho cercato di compensare la mia scarsa predisposizione con tanta buona volontà. Il buonumore di Mrs Barnes era troppo raro e prezioso, mi dicevo, per non ricevere la dovuta accoglienza; e poiché non avevo risposte da dare, frugavo disperatamente nella memoria alla ricerca di domande, così da poter fare a mia volta degli indovinelli.

Ma per qualche strano meccanismo perverso del ricordo mi venivano in mente solo alcune risposte, non le relative domande. Frugando nella mente trovavo saldamente ancorate cose come questa, ovviamente risposte a ciò che un tempo erano stati indovinelli:

Perché la coda gli esce dalla testa.

E così fece l’altro asino.

Prese un calesse e andò a casa.

Orleans.

Non avendo niente di meglio da offrire a Mrs Barnes, le ho offerto questa, invitandola a trovare lei la domanda.

Ma lei reputava sovversivo e difficile questo modo di affrontare gli indovinelli. Dolly ha cominciato a ridere. Mrs Barnes, satolla di aria rinvigorente, si è messa a ridere anche lei. Era la prima volta che udivo la sua risata. L’ho ascoltata con timore reverenziale. È evidente che ride molto di rado, perché Dolly ha preso un’aria incredibilmente compiaciuta; ed è evidente che la risata ha reso la giornata memorabile per Dolly, poiché sul suo viso, quando felicemente sorpresa si è girata verso la sorella, c’era la stessa espressione di una madre il cui piccolo faccia all’improvviso qualcosa di insperato e gratificante.

Per cui eccoci lì, a gesticolare allegre sul pendio scivoloso.

È uno strano posto, questo, dagli effetti imprevedibili. Credo sia perché si trova a un’altitudine di millesettecento metri e gode di una notevolissima quota di sole.

6 settembre

Alcune lettere arrivate oggi dall’Inghilterra hanno cancellato tutta l’allegria di ieri; lettere che mi hanno fatto ricordare. È stato come se, dopo aver sperato che si fosse ormai dissipata, quella gelida bruma fosse di nuovo tornata e avesse cancellato ogni luce. È stato come se un peso mi fosse calato di nuovo sul cuore, schiacciandolo e rendendomi impossibile respirare proprio quando cominciavo a sperare che si fosse sollevato per sempre. Sto male. Sto male perché mi attanaglia la solita sofferenza, perché ho paura di essere tornata prigioniera della sua morsa, senza via di scampo. Mi chiedo se sia così. Oh, speravo tanto di essere ormai in via di guarigione! Tornerò mai a sentirmi bene come prima? Malgrado tutti gli sforzi, tutto il perseverare nella lotta, non sarà al massimo un rattoppo più o meno abile, un rimettere assieme i cocci alla bell’e meglio? Credevo che sarei tornata integra. Credevo che avrei smesso di sobbalzare. E invece queste lettere…

Ridicolo, odioso e ridicolo avere così poca padronanza sul proprio corpo da dover essere costretta a guardare impotente le proprie mani tremare.

Voglio dimenticare. Non voglio ricordare. È la mia unica possibilità di salvezza, la mia unica speranza di fuga. Dimenticare, dimenticare fino a riavere indietro la mia anima sana e salva, fino a essere di nuovo me stessa, non più una cosa semidistrutta. O perlomeno io la chiamo anima. Ma non so bene cosa sia. Mi sento molto infelice.

Sono i dettagli che trovo impossibili da sopportare. Fintanto che nella mia mente tutto è un immenso, cupo ricordo confuso, ho qualche possibilità di stare tranquilla, di tornare strisciando lentamente, per gradi, alla pace. Ma i dettagli mi provocano fitte di ricordo troppo intense, riportano sprazzi acutamente nitidi della vecchia angoscia. Avrei dovuto aspettare di essere sola, prima di aprire quelle lettere. Ma ero felice di averle ricevute. Adoro ricevere lettere. E la calligrafia era di amici. Come potevo supporre, nel vederle sul tavolo della colazione, che il loro aspetto innocente nascondesse tale dose di dolore? E dopo averle lette, quando ho preso la tazza e cercato di comportarmi come se nulla fosse, come se stessi bevendo il mio caffè in tutta tranquillità, quella stupida della mia mano ha cominciato a tremare così forte che Dolly se ne è accorta.

I nostri sguardi si sono incrociati.

Non riuscivo più a posare quella maledetta tazza sul piattino senza rovesciare il caffè. Se è così che ricomincio a comportarmi, a che è servito venire quassù? Non è stato tutto tempo sprecato? La cura si è dunque dimostrata un fallimento?

Sono salita in camera mia. Non riesco a stare di sotto. Stamane non sopporterei di rimanere seduta ad ascoltare leggere. Devo cercare di inventarmi una scusa alla svelta. Mrs Barnes potrebbe arrivare da un momento all’altro per chiedermi… oh, mi sento braccata.

È un conforto poter scrivere. Per qualche strana ragione, scrivere fa sentire meno soli. Eppure doversi guardare allo specchio per avere compagnia, non significa forse avere raggiunto il più basso livello di solitudine?

Sera

Il risultato immediato di quelle lettere è stato far finalmente avvicinare me e Dolly. Questa mattina mi ha seguita nell’orto, dove sono andata dopo essere riuscita a ricompormi un po’. Nell’uscire ho detto a Mrs Barnes, con l’espressione più tranquilla che riuscissi a ostentare, che avevo alcune cose da discutere con Antoine, per cui mi scusavo ma per quella volta non avrei presenziato alla lettura.

Sapevo che Antoine stava lavorando nell’orto, un pezzetto di terreno fuori dalla visuale della casa ai piedi di un ripido declivio; sono andata da lui e gli ho chiesto se potevo aiutarlo. Gli ho detto che ero disposta a fare qualunque cosa: vangare, sarchiare, raccogliere lumache, davvero qualunque cosa, purché mi facesse lavorare. Oggi dedicarmi a un lavoro manuale all’aria aperta era l’unica cosa che avrei potuto sopportare. Non per la prima volta ho pensato che si può trovare la pace anche in mezzo ai cavoli.

Antoine ha sollevato obiezioni, naturalmente, ma alla fine ha acconsentito a lasciarmi raccogliere i ribes rossi. Un compito facile, e anche utile, perché avrebbe fatto risparmiare tempo a Lisette, l’aiutante, cui altrimenti sarebbe toccato. Ho scelto i cespugli più vicini al punto in cui lui stava vangando perché sentivo il desiderio di stare vicino a qualcuno che né parlava né indagava, qualcuno di vivo, buono e gentile che non avrebbe badato a me, e ho cominciato a raccogliere gli strani, piccoli frutti tardivi, che a valle erano già stati tutti raccolti e dimenticati da almeno due mesi.

È stato allora che ho visto Dolly scendere i gradini intagliati nella cotica erbosa. Teneva la lunga gonna nera sollevata da terra. Era a capo scoperto, e il sole le batteva negli occhi, ridotti a due fessure, mentre si fermava immobile un istante sul gradino inferiore a cercarmi con lo sguardo. Ho notato la scena pur china com’ero sui cespugli.

Poi è venuta da me e mi si è messa accanto.

«Non dovresti essere qui» ho esordito senza guardarla e senza smettere di raccogliere ribes.

«Lo so» ha risposto lei.

«Allora non sarebbe meglio che rientrassi?»

«Sì, ma non ho intenzione di farlo».

Ho continuato a raccogliere le bacche in silenzio.

«Hai pianto» ha proseguito.

«No» ho negato.

«Forse non hai pianto con gli occhi, ma col cuore sì».

Di fronte alle sue parole mi sono sentita molto simile a come dev’essersi sentita Mrs Barnes quando ho cercato di indurla a parlare schiettamente.

«Sai cosa mi ha detto tua sorella l’altro giorno?» le ho chiesto senza interrompere la raccolta. «Che lei dà grande importanza alla discrezione».

«Già, ma io no» è stata la sua risposta.

«E neppure io» ho dovuto ammettere.

«Bene, allora» ha detto Dolly.

Mi sono raddrizzata, e ci siamo guardate negli occhi. I suoi emanano una specie di dolce radiosità. Siegfried doveva essere stato ben felice di riceverla tra le braccia dopo averla vista calarsi col lenzuolo.

«Non devi raccontarmi per forza tutto, se non vuoi» ha proseguito Dolly con i suoi dolci occhi sorridenti, «ma non potevo vederti così infelice e non venire… beh, a consolarti».

«Non c’è niente da raccontare» le ho detto, sentendomi già meglio alla sola idea di essere consolata.

«Sì che c’è».

«Ma no, davvero. È solo che un tempo… oh, ma a che pro? Non voglio pensarci… voglio dimenticare».

Dolly ha annuito. «Sì» mi ha detto. «Sì».

«Vedi, sono venuta a rifugiarmi quassù per guarire dai ricordi, e pensavo di essere guarita. Ma questa mattina ho scoperto che non lo sono, e… e ci sono rimasta male».

«Non devi piangere, sai» mi ha ripreso Dolly con dolcezza. «Non mentre raccogli i ribes. C’è quell’uomo…»

E ha guardato in direzione di Antoine, intento a vangare.

Ho tirato su col naso e ricacciato le lacrime senza tradirmi con il fazzoletto, e sono riuscita a sorriderle.

«Continuiamo a comportarci da sciocche» ho detto in tono mesto.

«Oh… sciocche!» mi ha fatto eco lei con un gesto teso a includere il mondo intero.

«Diventeremo mai adulte?» ho chiesto.

«Non lo so. Io non lo sono ancora».

«Tu pensi sia possibile imparare a sopportare il dolore senza voler correre in lacrime dalla mamma?»

«Penso sia difficile. Sembra ci voglia più tempo» ha proseguito con un sorriso, «di quanto io ne abbia avuto a disposizione, e ho già quarant’anni. Sapevi che ho quarant’anni?»

«Sì, mi è stato detto, ma non ne ho mai avuto la dimostrazione».

«Oh, non ho mai potuto dimostrare un bel nulla» ha detto.

Poi ha sbandierato un’aria determinata che avrebbe messo in allarme Mrs Barnes e ha aggiunto: «E ci sono altre cose su di me di cui tu non sei al corrente, e dato che siamo finalmente sole posso dirti quali. Anzi, non ho intenzione di allontanarmi da questi ribes finché non te le avrò dette».

«Allora sarà meglio che mentre parli mi aiuti a raccogliere». Ho sollevato il cesto e l’ho posato a terra tra di noi.

Mi sentivo già meglio. Consolata, rallegrata anche solo dalla sua mera presenza e dalla dolce comprensione che la sua persona sembra irradiare. Si è rimboccata una manica e ha infilato il braccio nel fitto dei ribes. Per fortuna i ribes non hanno spine, perché se fosse stata uva spina vi avrebbe infilato il braccio con lo stesso slancio.

«Ci hai invitate a restare ancora con te» ha cominciato, «e non trovo giusto che tu non sappia di preciso a cosa potresti andare incontro».

«Se stai per dirmi qual è il tuo vero nome» sono intervenuta, «sappi che l’ho già indovinato. È Juchs».

«Come sei intelligente!» ha esclamato inaspettatamente.

«Beh, se questo è intelligente» ho ribattuto con modestia, «aspetta di sentire alcune altre conclusioni a cui sono arrivata».

Dolly ha riso. Poi ha ripreso un’espressione seria e si è messa a strappare i ribes in un modo che per la pianta non era esattamente un toccasana.

«Sì, lui si chiamava Juchs» ha detto. «Kitty lo pronunciava sempre Jewks. Non per la guerra. Non per mascherarlo. Credeva si pronunciasse così. E lo credevano anche gli altri parenti in Inghilterra. Cioè, quando lo pronunciavano, in pratica mai».

«Intendi dire che lo chiamavano Siegfried» ho detto io.

Dolly ha smesso di raccogliere le bacche e mi ha fissato sbalordita. «Siegfried?» ha ripetuto, le mani colme di ribes.

«È un’altra delle cose che ho indovinato» ho annunciato orgogliosa. «Usando l’intelligenza e facendo due più due».

«Non si chiamava Siegfried» ha obiettato Dolly.

«Non si chiamava Siegfried?»

Ora è toccato a me smettere di raccogliere e fissarla sbalordita.

«Ma il nome che hai pronunciato nel sonno…? E in tono così affettuoso…?» ho domandato.

«Non era Siegfried a chiamarsi Juchs. Lui si chiamava Bretterstangel» ha annunciato. «Ho pronunciato il suo nome quel giorno, mentre dormivo? Caro Siegfried». E i suoi occhi, mentre indugiavano nei miei, sono diventati dolcemente evocativi.

«Ma Dolly… se Siegfried non era tuo marito, ti pare il caso… insomma, pensi sia stato saggio sognarlo?»

«Ma lui era mio marito».

Ho sgranato tanto d’occhi.

«Ma se mi hai appena detto che tuo marito si chiamava Juchs?» ho ribattuto.

«Infatti» ha confermato Dolly.

«Infatti? Allora perché… so di essere terribilmente ottusa, ma dimmi, se tuo marito si chiamava Juchs perché non si chiamava Siegfried?»

«Perché Siegfried di cognome faceva Bretterstangel. Lui è quello con cui ho cominciato».

È calato il silenzio. Siamo rimaste a fissarci, le mani piene di ribes.

Poi ho detto: «Oh». E dopo un attimo ho aggiunto: «Capisco». E dopo un attimo ancora ho ripetuto: «Lui è quello con cui hai cominciato».

L’annuncio mi aveva colta alla sprovvista. Le intuizioni che avevo organizzato con tanto ordine nella mente sono finite nel più totale caos.

«Devi sapere» ha ripreso Dolly facendo un visibile sforzo, «che ho continuato a sposare tedeschi. Avrei dovuto fermarmi a Siegfried. Adesso vorrei averlo fatto. Ma quando prendi un’abitudine…»

«Hai…» l’ho interrotta, credo rimanendo a bocca aperta, «continuato?»

«Sì» ha risposto Dolly ergendosi in tutta la sua altezza e assumendo un’aria di sfida. «Ho continuato, ed è questo che voglio tu sappia, prima di decidere se prolungare l’invito. Kitty non potrà restare, se non resterò io. Povera cara, soffre terribilmente per ciò che ho commesso, e io ce la metto tutta per far passare la cosa sotto silenzio, quando siamo con qualcuno, ma finisco sempre per lasciarmi sfuggire qualche frammento. Però non posso e non voglio nascondere a un’amica che così generosamente ci invita…»

«Non starai per cominciare con la solfa della gratitudine, spero» l’ho subito interrotta.

«Non hai idea di quanto sia difficile non sposare i tedeschi, una volta che cominci» è stata la poco pertinente risposta di Dolly, gli occhi dilatati dallo stupore nel ripercorrere il proprio passato.

«Ma… quanti?» sono riuscita ad articolare.

«Oh, solo due. Ma il problema non è tanto il numero quanto la qualità».

«Vale a dire? Junker?»

«Junker? Se lo fossero stati saresti più dispiaciuta? E in ogni caso ti dispiace molto?»

«A me non dispiace affatto. Se tecnicamente sei tedesca a me non interessa un bel niente. Penso solo che forse sia stato… beh… forse un po’ eccessivo sposare un altro tedesco dopo averne già sposato uno. Ma del resto io sono sempre stata un tipo piuttosto frugale. Preferisco di gran lunga i pochi ai molti, il poco al tanto».

«Anche in fatto di mariti?»

«Beh, sì… direi di sì».

Dolly ha sospirato.

«Vorrei essere stata anch’io così» ha detto. «Tutta pena risparmiata per la povera Kitty».

Ha lasciato cadere lentamente nel cesto, una manciata dopo l’altra, i ribes che teneva in mano.

«Non capisco che differenza avrebbe fatto per Kitty. Cioè, una volta cominciato ad avere mariti tedeschi, che importanza poteva averne uno in più o in meno? E poi il secondo non era mo… voglio dire, non aveva già smesso di vivere quando è scoppiata la guerra? Dunque non vedo che differenza avrebbe fatto per Kitty».

«È proprio questo che devi capire» ha ribadito Dolly lasciando scivolare nel cesto l’ultima manciata di ribes.

Mi ha guardato, e mi sono accorta che le si stava imporporando il viso. Un rossore delicato le si diffondeva sul volto, talmente delicato che per un istante non sono riuscita a decidere cos’era a farle assumere un’aria sempre più colpevole, sempre più simile a quella di una bambina che deve confessare, ma una bambina onesta e sincera, del tutto determinata a farcela.

«Ho vissuto in Germania per parecchi anni» ha detto.

«Sì, l’avevo capito».

«E là è diverso dall’Inghilterra».

«Sì, ho anch’io questa impressione» ho convenuto.

«La loro visione delle cose. Le leggi».

«Sì» ho ripetuto.

Si vedeva che faceva fatica a buttar fuori ciò che aveva da dirmi. Ho pensato che non guardarla poteva forse esserle d’aiuto, così ho ripreso la raccolta. Macchinalmente, ha seguito il mio esempio.

«Kitty» ha ripreso mentre eravamo entrambe curve e affaccendate sullo stesso cespuglio, «ritiene troppo orribile ciò che ho fatto. E i nostri parenti inglesi la vedono allo stesso modo. Il motivo per cui sento di dovertelo dire è che anche tu potresti pensare la stessa cosa. Così almeno potrai decidere se vuoi davvero che rimanga o meno».

«Te ne prego, Dolly cara» ho mormorato, «mi stai facendo gelare il sangue…»

«Nel Libro delle Preghiere Comuni è proibito».

«Ma che cosa?»

«Quello che ho fatto».

«Ma si può sapere cos’hai fatto, Dolly?» ho chiesto, ora terribilmente a disagio. Possibile che la sua avventatezza si fosse spinta a un punto tale da andare contro i comandamenti?

Dolly strappava ribes e foglie a manciate e li lanciava alla rinfusa nel cestino.

«Ho sposato mio zio» ha rivelato.

«Cosa?» ho domandato, sinceramente sbalordita.

«Karl… così si chiamava il mio secondo marito, era lo zio di Siegfried, cioè del mio primo marito. Era il fratello della madre di Siegfried, il fratello della mia prima suocera. La mia seconda suocera era la nonna del mio primo marito. In Germania è lecito. In Germania si fa. Ma nel Libro delle Preghiere inglese è vietato. È scritto nella Tavola dei Gradi di Consanguineità e di Affinità che non si può fare. È al punto nove, colonna di destra: il Fratello della Madre del Marito. E Kitty, beh, puoi immaginare come si è sentita Kitty al riguardo. Se si fosse trattato del nostro stesso zio, del fratello di nostra madre, non ne sarebbe uscita più sconvolta e col cuore a pezzi. Ma io non ci avevo pensato. Non avevo messo in conto gli effetti che avrebbe avuto sui parenti in patria. L’ho fatto e basta. Loro sono venuti a saperlo solo a cose fatte. Ho sempre pensato che si risparmiano un sacco di fastidi, a sposarsi prima e a dirlo dopo. Vivevo in Germania da anni. Mi sembrava una cosa naturale. Semplicemente, sono rimasta all’interno della stessa famiglia. Credo sia stata più che altro una questione di abitudine».

Ha gettato alcuni ribes nel cesto, poi mi ha affrontato a viso aperto.

«Ecco» ha concluso guardandomi dritto negli occhi., «ora te l’ho detto, e se pensi che sia inaccettabile me ne andrò».

«Ma…» ho fatto per dire.

Ora il rossore le si era diffuso su tutto il viso, e gli occhi brillavano.

«Oh, come mi spiacerebbe» ha esclamato d’impeto, «se questo fosse la fine per noi!»

«Per noi?»

«Per me e te. Del resto non potevo certo accettare di rimanere e non dirti niente, ti pare? Anzi, sentivo di dovertelo dire proprio perché poteva risultarti tanto inaccettabile. Hai un decano in famiglia. E il Libro delle Preghiere Comuni nel sangue. Se lo trovi inaccettabile capirò, e me ne andrò assieme a Kitty, e non mi vedrai né sentirai mai più, perciò non devi avere paura a dirmi…»

«Ehi, aspetta un momento» ho esclamato. «Io non lo trovo inaccettabile. Né mi dispiace. Lo riterrei odioso, mi sentirei dispiaciuta, solo se fossi io a dover sposare uno zio tedesco. Non riesco a immaginare perché qualcuno dovrebbe voler sposare anche solo uno zio normale, ma se lo fa e non si tratta di uno zio con cui ha legami di sangue, e le usanze del paese lo permettono, perché no? Tu rimarrai qui, Dolly. Non ti lascerò andare. Neppure se avessi sposato cinquanta zii tedeschi. Ti ho voluto bene dal momento in cui ti ho vista in cima alla massicciata con quella buffa sottogonna. Non penserai» ho concluso, all’improvviso fieramente inglese, «che permetterei a un qualsiasi tedesco di frapporsi tra noi due?»

Dopo di che ci siamo scambiate non uno solo ma diversi baci; anzi, a dire il vero ci siamo buttate le braccia al collo. E Antoine, venuto a prendere i ribes per Lisette, sui gradini dell’uscio e intenta già da un po’ a indirizzargli dei cenni con la mano, si è messo tranquillo ad aspettare che terminassimo.

Una volta ritenuto che avessimo terminato è avanzato di qualche passo e ha detto: «Pardon, mesdames», e chinatosi lesto ha sfilato via il cestino tra noi.

Nel farlo il suo occhio si è posato un istante sui rami spogli e spezzati del cespuglio.

Non sembrava sorpreso.

7 settembre

Ieri sera non sono riuscita a terminare il resoconto della giornata. Ero arrivata ad Antoine e al cesto, ma poi ho dato un’occhiata al piccolo orologio sullo scrittoio e mi sono accorta inorridita che era quasi mezzanotte. Allora mi sono precipitata a letto. Cos’avrebbe detto Mrs Barnes se mi avesse visto tenere accesa la luce elettrica e fare ciò che definisce affaticarmi gli occhi a una simile ora? Che siano i miei occhi e la mia luce per lei è irrilevante; in virtù dei suoi crucci Mrs Barnes è diventata la mia coscienza critica. Per me ora è come l’occhio di Dio… è dappertutto. E il mio desiderio di compiacerla e renderla felice si è centuplicato da quando io e Dolly, eludendo ogni sua precauzione, abbiamo finalmente fatto amicizia.

Ieri, prima di andarcene dall’orto, siamo arrivate a questa decisione: la nostra priorità è risparmiare a Mrs Barnes qualunque sofferenza evitabile. Ne ha già avute fin troppe, e altre la aspettano. Ora capisco il dispiacere di Dolly per tutto ciò cui la povera Kitty ha rinunciato e che ha sopportato per amor suo, così come capisco le catene in cui tali sacrifici hanno imprigionato Dolly. È un peso terribile essere tanto amati. Se Dolly fosse dotata di un temperamento un po’ meno sereno sarebbe sottopeso; dopo cinque anni si sarebbe ridotta a un essere incolore, inoffensivo.

Secondo i nostri accordi, Mrs Barnes non deve venire a sapere che sono al corrente dei matrimoni di Dolly. Dolly mi ha detto senza mezzi termini che ne morirebbe. Mrs Barnes considera l’avventata sorella alla stregua di una criminale. Perché ciò che ha fatto è proibito dal Libro delle Preghiere. E si rifiuta di prendere in considerazione i Libri delle Preghiere degli altri paesi. Ecco perché fintanto che resterà qui spero di non lasciarmi mai più sfuggire la parola «tedesco», né di incorrere in discorsi di mariti; forse, per buona misura, sarebbe meglio evitare anche l’argomento zii. Povera me, dovrò stare sempre in guardia. Per la prima volta in vita sua il povero decano è diventato innominabile.

Sto scrivendo queste pagine prima di colazione. Dopo l’incontro nell’orto non ho più visto Dolly da sola. Non so cos’abbia escogitato per placare Mrs Barnes e giustificare la sua lunga assenza, ma qualcosa deve aver escogitato: lo dimostrava la scena idilliaca che mi si è presentata dinnanzi quando, un’ora più tardi, sono rincasata a mia volta. Erano sedute assieme al sole davanti alla porta di casa, e lavoravano a maglia. A giudicare dall’espressione, Mrs Barnes sembrava contenta. Dolly appariva particolarmente radiosa. Credo sia fatta interamente di amore e ilarità, ingredienti pericolosi e accattivanti. Quando sono uscita di casa ci siamo scambiate un’occhiata. L’avere inaspettatamente trovato un’amica così comprensiva è la cosa più consolante, più tenera e calorosa che potesse capitarmi.

10 settembre

Una volta raggiunta la perfetta intesa con qualcuno, non sono necessari grandi discorsi. Me lo hanno detto i saggi. Mi hanno detto che la mera consapevolezza dell’intesa è già sufficiente. Hanno detto che la perfetta intesa non ha bisogno di espressione, che il rapporto perfetto è senza parole. Sarà anche così, ma io ho voglia di parlare. Niente di eccessivo, ma almeno qualche volta. Il dialogo aggiunge garbo e soddisfazione all’amicizia. Potrà non essere necessario, però è decisamente piacevole.

Per quanto mi è dato capire, tranne rare eccezioni non avrò mai occasione di parlare con Dolly da sola. Con tutte le cose che ho da chiederle. Le sue esperienze sono state piacevoli? Oppure, una volta passate, è stato il suo spirito indomito e spensierato a cancellarne ogni segno? Comunque, gli ultimi cinque anni non possono essere stati piacevoli, eppure non hanno lasciato neppure l’ombra di una macchia sulla sua serenità. Ho l’impressione che affronterebbe in modo sereno qualunque argomento la sua mente vivace toccasse. C’è un che di disinfettante in Dolly. Credo riuscirebbe a disinfettarmi dagli ultimi residui di morbosità che potrebbero annidarsi ancora dentro di me.

Lei e Mrs Barnes sono molto povere. Quando è scoppiata la guerra Dolly era in Germania, mi ha riferito quel mattino nell’orto, e vedova da quasi un anno. Non la vedova di Siegfried, ma di Juchs. Nella mia testa tendo a confondere le sue vedovanze.

«Non hai mai avuto figli, Dolly?» le avevo chiesto.

«No» aveva risposto.

«Come mai allora hai tolto di scatto il fazzoletto dalla faccia di tua sorella, l’altro giorno mentre dormiva, e le hai detto “bau” come se fossi esperta?»

«È una cosa che facevo con Siegfried. Eravamo molto giovani, e facevamo un sacco di stupidi giochini».

«Capisco. Continua» avevo detto.

Juchs le aveva lasciato del denaro, appena sufficiente per tirare avanti. Siegfried non ne aveva mai avuto, tolto lo stipendio di impiegato di banca, ma Juchs un po’ ne aveva. Ho dedotto che non aveva sposato Juchs per un particolare motivo, più che altro per accontentarlo. Lo aveva reso molto contento, non fatico a immaginarlo. Anche Siegfried, ai suoi tempi, era stato contento. «Sembra che io abbia il dono di rendere felici i tedeschi» ha commentato con un sorriso. «Entrambi sono stati molto gentili con me. E ho finito per affezionarmi molto a entrambi. Del resto mi affeziono a chiunque mi dimostri gentilezza. In me c’è molto del cane».

Allo scoppio della guerra aveva preso armi e bagagli ed era venuta in Svizzera; date le circostanze, non voleva rischiare di rendere felici altri tedeschi. Dall’epoca del suo matrimonio con Juchs tutti i parenti inglesi, tranne Kitty, l’avevano ripudiata; ora per lei si sarebbero aperte solo le porte di un paese neutrale. Per questo Kitty non ci ha pensato due volte a lasciare tutto e tutti e a starle accanto. All’inizio riceveva dalla banca tedesca un’esigua pensione, ma dopo i primi mesi avevano smesso di inviargliela, per cui dipendeva totalmente da Kitty. E tutto ciò che Kitty possedeva erano i soldi ricavati dalla vendita della casa. I tedeschi, mi aveva spiegato Dolly, avevano smesso di mandare soldi fuori dal paese. La guerra era finita, ma da loro Dolly non avrebbe ottenuto più nulla, se non tornando in Germania. Cosa per lei impossibile. Kitty ne sarebbe morta; e lei, pensava, probabilmente sarebbe morta a sua volta. Perciò la sua carriera di rendere felici i tedeschi sembra proprio giunta al termine.

«Capisci quindi» aveva detto sorridendo, «che cosa meravigliosa sia stata per noi avere trovato te».

«Sono io a non capacitarmi» era stata la mia risposta, «di avere trovato te».

Ciò non toglie, però, che, avendola trovata, a volte vorrei parlarle.

12 settembre

Siamo immerse in un’atmosfera da combats de générosité. È tremendo. Io e Mrs Barnes continuiamo a fare cose che non vogliamo fare solo perché pensiamo che rendano felice l’altra. Oh, la tirannia dell’altruismo! Mi toglie quasi il respiro.

19 settembre

Penso non vada bene per delle donne stare rinchiuse troppo a lungo senza un uomo. Finiscono per inacidirsi. Persino la più nobile. Se giudichiamo in base alle intenzioni, le donne sono tutte nobili. Vogliamo solo sviluppare direzioni ideali e rimuovere quelli che riteniamo siano gli ostacoli sul cammino dell’una verso l’altra. Ciò nonostante ci inacidiamo. Ma non Dolly. Niente riesce mai a offuscare la sua serenità mentale limpida e inalterabile; ci sono invece momenti in cui ho come l’impressione che io e Mrs Barnes finiamo amalgamate in una sorta di massa appiccicosa. Di tanto in tanto brevi lotte, deboli sforzi volti all’affrancamento, mostrano che in me è rimasto uno spirito vitale non ancora del tutto supinamente benevolo, ma di essi mi pento subito non appena vedo l’espressione di dolore e sorpresa che all’istante appare negli occhi stanchi e patetici di Mrs Barnes, per cui finisco per tuffarmi una volta di più nella bontà.

Ecco perché non ho scritto per tutta una settimana. Questa bontà imperante è collosa. Mi sento incollata. È come se la mia mente fosse immersa nella melassa. Ma poi oggi ho pensato alla mia vecchiaia, all’anziana signora che alla fine degli anni troverò in attesa e che vorrà essere intrattenuta, così ho ricominciato. Ho l’impressione che ciò che più intratterrà l’anziana signora, quel vecchio essere rugoso e filosofico, saranno tutte le volte in cui mi sono sentita a disagio. Perché lei sarà talmente a proprio agio, talmente distaccata da tutto ciò che fu, e sarà una spettatrice così imparziale, che le ribellioni, i contorcimenti e le tribolazioni della creatura di un tempo non avranno altro effetto che farla ridere. Si rotolerà felice nella propria sicurezza. E conoscerà il seguito, saprà come saranno andate le cose e rifletterà, presumo, su quanto vano sia stato il prezzo di tanti crucci ed emozioni. Ecco perché, ovviamente, riderà. «Piccola sciocca che non sei altro!» me la vedo esclamare. «Se solo avessi saputo quanta poca importanza tutto ciò avrebbe avuto!» E riderà di cuore, poiché sono certa sarà un’anziana signora di temperamento allegro.

Ma resta il fatto che qui c’è bisogno di una sporadica alitata di brutalità; del passaggio saltuario e non troppo prolungato di un uomo. Se solo venisse a prendere il tè ogni tanto sarebbe già abbastanza. Sarebbe una ventata d’aria fresca. Sarebbe come spalancare una finestra. Da troppo tempo ci rigiriamo tra premure e manierismi. Ho voglia di sentire il cattivo odore di una pipa, di vedere i cuscini buttati alla rinfusa. Ho voglia di vedere qualcuno che non lavori a maglia. Ho voglia di sentire Mrs Barnes venir contraddetta. Ecco, soprattutto ho voglia di sentire Mrs Barnes venir contraddetta… oh, temo di essere di nuovo non buona!

20 settembre

Nei vigneti che fiancheggiano il fondovalle l’uva è matura. Stamane ho proposto di partire di casa presto e trascorrere la giornata tra le vigne per fare la cura dell’uva.

A Mrs Barnes l’idea è piaciuta molto, e dato che non saremmo tornate fino a sera ci siamo fatte preparare dei panini imbottiti. Ma all’ultimo momento le è venuto il timore che forse giù a valle avrebbe fatto troppo caldo e il suo mal di testa, di cui ultimamente soffre, avrebbe potuto peggiorare. I panini erano già pronti sul tavolo del soggiorno. Anch’io e Dolly eravamo già pronte, stivaletti ai piedi e bastoni in mano. Con nostra grande sorpresa, nel contemplare i panini Mrs Barnes ha detto che essendo ormai pronti non dovevano andare sprecati, per cui avremmo fatto meglio ad andare senza di lei.

Siamo rimaste esterrefatte. Ci siamo sentite come due scolarette in vacanza. Nel salutarci ci ha baciato con affetto, come a voler rimarcare la sua fiducia in noi: in Dolly affinché non mi rivelasse la terribile verità sul suo passato, in me affinché non le suggerissi punti di vista sconvenienti. Ovviamente Mrs Barnes ignorava quanto già fossimo al riparo da tale rischio, quanto meritevoli di fiducia. Niente che l’una avesse detto avrebbe potuto essere motivo di turbamento per l’altra.

«Se Mrs Barnes venisse a sapere il peggio, se venisse a sapere che sono al corrente di tutto, non sarebbe più tranquilla?» ho chiesto a Dolly mentre scendevamo di buona lena verso valle. «Non si libererebbe di almeno una parte di ansie, delle paure quotidiane che io venga a sapere?»

«Ne morirebbe» ha dichiarato Dolly categorica.

«Eppure sono convinta…»

«Ti dimentichi che considera un crimine quello che ho fatto».

«Ti riferisci allo zio».

«Oh, credo non se la prenderebbe troppo se tu venissi a sapere di Siegfried. Farebbe tutto il possibile per evitarlo, per via dell’orrore che prova per i tedeschi e dell’orrore che è certa anche tu provi per loro. Ma una volta saputolo si rassegnerebbe. Il problema è l’altro…» e qui ha scosso la testa. «Ne morirebbe» ha ribadito.

Siamo arrivate a un declivio erboso trapunto di crochi autunnali, e ci siamo sedute per ammirarli. Ultimamente queste corolle incantevoli e delicate hanno preso a sbocciare ovunque sui monti, all’inizio uno qua e uno là, poi a frotte: pallidi calici di luce color lilla su steli bianchi che si spezzano appena li si tocca. Come i mandorli nei giardini di Londra, che fioriscono quando i venti sono più aspri, così i crochi autunnali sembrano troppo fragili per affrontare le notti gelide di questo periodo; eppure spuntano proprio quando il clima si fa più inclemente. Li si vede, ovunque nei prati montani, fiorire a profusione quanto più le settimane si avvicinano all’inverno.

Quel particolare campo era talmente bello che di comune accordo io e Dolly ci siamo sedute per ammirarlo. Non è possibile non fermarsi davanti a tanta bellezza. Credo siamo rimaste almeno mezz’ora totalmente assorbite dai crochi, dal pianoro soleggiato e dal modo in cui le cime dei pini sul pendio sottostante si stagliavano contro l’azzurra vastità della valle. Eravamo molto contente. Il sole era caldo, l’aria straordinariamente fresca e pura. Già solo il respirare era felicità. Penso di avere ricevuto una grande benedizione, nella vita: a volte anche il solo respirare è felicità.

Ora che io e Dolly potevamo parlare a piacimento, tutto sommato non parlavamo poi tanto. D’un tratto mi sono ritrovata priva di curiosità riguardo ai suoi tedeschi. Non mi andava di averli lì, tra i crochi. In un presente così radioso il passato, sia suo che mio, sembrava poco importante, opprimente e superfluo. Credo che se non avessimo preso con noi un cesto da riportare a Mrs Barnes pieno di uva non saremmo neppure scese giù ai vigneti, ma avremmo trascorso l’intera giornata dove ci trovavamo. Ma il cesto andava riempito, dovevamo riportarlo colmo. Sarebbe stata la prova che avevamo fatto quanto convenuto. Dolly ha detto che se non ci fossimo attenute al piano originario sua sorella si sarebbe agitata. E avrebbe temuto che, se non avessimo passato la giornata a mangiare uva come d’accordo, probabilmente avremmo usato le nostre bocche oziose per dire cose che lei avrebbe preferito lasciare taciute.

«La povera Kitty si agita sempre tanto?» ho chiesto.

«Sempre» ha risposto Dolly.

«Per ogni minima cosa?»

«Sì, per ogni minima cosa» ha confermato. «Passa la vita a consumarsi in paure, e tutto per colpa mia».

«Eppure almeno finché sta qui da me potrebbe prendersi una vacanza dalle paure, se le dicessimo che sono al corrente del matrimonio con tuo zio e che l’ho accettato senza scompormi».

«Ne morirebbe» ha ribadito Dolly categorica.

Abbiamo pranzato tra i vigneti, con l’uva come dessert. Ne abbiamo mangiata parecchia con entusiasmo, e abbiamo continuato a mangiarne attraversando uno dopo l’altro tutti i decrescenti livelli di gradimento, fino ad averla in odio. Per cinquanta centesimi ogni proprietario di vigneto ci ha dato il permesso di mangiare uva anche fino a morirne, se così ci andava. Per un franco in più abbiamo avuto il permesso di riempire il cesto per Mrs Barnes. È stata la nostra coscienziosità a farcelo riempire fino all’orlo, perché niente poteva indurci a credere che qualcuno potesse avere voglia di mangiare così tanta uva. Poi abbiamo cominciato ad arrampicarci di nuovo su per la montagna, sotto il pesante doppio carico, interno ed esterno.

Abbiamo impiegato più di tre ore per tornare a casa. Trasportavamo il cesto a turni di mezz’ora ciascuna; ma bisogna tener conto anche di quell’altra uva, invisibile, che doveva venire con noi comunque. Sono convinta che chi faccia la cura dell’uva dovrebbe starsene seduto tranquillo per il resto della giornata, oppure camminare esclusivamente in piano. Dover portare il proprio rimedio con sé su per un dislivello di millesettecento metri è faticosissimo. Neppure questa volta parlavamo, non ne saremmo state in grado. Eravamo in grado solo di ansimare e sudare. Era un pomeriggio splendente, e una volta lasciati i vigneti il percorso su per il fianco della montagna si snodava attraverso abeti stentati che non facevano ombra, lungo stretti viottoli tappezzati di aghi secchi di abete, la cosa più scivolosa al mondo su cui camminare. Facendosi strada attraverso gli alberi caldi e senza frescura, il sole batteva sulle nostre figure chine e sovraccariche. A ogni sosta l’una vedeva la faccia paonazza e sudata dell’altra, e scoppiavamo a ridere.

«Kitty non avrebbe dovuto preoccuparsi tanto che potessimo parlare» ha commentato un’ansimante Dolly durante una pausa, gli occhi semichiusi dal ridere al mio stato di liquefazione.

Guardando lei, intuivo quale doveva essere il mio aspetto.

Abbiamo raggiunto il prato coi crochi che erano già le cinque, e ci siamo sedute nel punto in cui ci eravamo sedute la mattina; eravamo mute, sudate e sopraffatte dall’uva. Per un bel pezzo non abbiamo aperto bocca, felici di starcene lì sull’erba fresca, senza dover trasportare pesi. Il sole, basso in cielo, batteva obliquo quasi allo stesso livello del prato, e brillando sui petali sottili dei crochi trasformava ognuno in una piccola stella. Non conosco gioia più grande del trovarsi dinnanzi alla bellezza in compagnia di qualcuno capace di vederla e apprezzarla come la apprezzi tu. Siamo rimaste lunghe distese sull’erba in silenzio a osservare lo splendore farsi sempre più radioso finché, raggiunto l’apice, si è smorzato all’improvviso. Il sole è sceso sotto i monti a ovest, la luce è calata nel giro di un istante, in un battibaleno. E i crochi, ora ritti in un campo incolore, sembravano un’infinità di candele spente.

Dolly si è tirata su a sedere.

«Ecco» ha detto. «È finita. Adesso sembrano ciechi e opachi come una donna lasciata dall’amante. Ti è mai capitato di vedere una donna lasciata dall’amante?» ha chiesto girando verso di me la testa ancora appoggiata all’uva di Mrs Barnes.

«Certo che sì. La gente viene lasciata di continuo».

«Io intendo dire appena lasciata».

«Sì, l’ho vista, certo».

«Ha esattamente questo aspetto» ha proseguito Dolly indicando i crochi con un cenno del capo. «Come scolorito. Senza più luce, vita, bellezza. Una cosa morta in un mondo morto. A me l’amore non piace».

Di fronte a tali parole mi sono tirata a sedere anch’io, e ho cominciato a rassettarmi i capelli per rimettermi il cappello. «Il sole se ne è andato, fa freddo. Andiamo a casa» ho detto.

Ma lei non si muoveva.

«E a te?»

«A me cosa?»

«A te l’amore piace?»

«Sì» ho risposto.

«Qualunque cosa accada?»

«Sì» ho risposto.

«Quale ne sia la fine?»

«Sì» ho risposto. «E non voglio neppure dire sì e no, come ha fatto la cauta Charlotte Brontë quando le hanno chiesto se le piacesse Londra. Non voglio essere cauta in amore. Non voglio guardare a tutti i motivi per dire no. È una cosa meravigliosa da avere avuto. Ed è meraviglioso aver creduto in tutto ciò in cui si è creduto».

«Anche quando non c’era mai stata alcuna reale giustificazione per credere?» ha indagato Dolly fissandomi.

«Sì» ho risposto; e ho cominciato a fissarmi il cappello in testa con gesti concitati, infilzandomi con gli spilloni per la foga. «Sì. L’importante è crederci. Non aggirarsi prima in punta di piedi e con infinita cautela, così da avere la certezza, prima di credere e confidare, che la tua preziosa convinzione, la tua preziosa fiducia, saranno al sicuro. Al sicuro! In amore non c’è sicurezza. Si rischia mettendo in gioco tutta la vita. Ma l’importante è rischiare… credere e rischiare tutto per quello in cui credi. Cosa importa se poi risulta che in realtà non c’era niente, che sei stata tu a immaginare nell’altro tutte quelle cose belle e gentili sul suo conto, le cose splendide, generose, belle e gentili? Quelle cose non c’erano, ma tu per una volta sei stata capace di immaginartele. Per un po’ di tempo sei stata su in alto tra le stelle, hai toccato il cielo con un dito. E una volta ripiombata giù a terra, ridotta a pezzi e trasformata in un miserevole ammasso di sangue e ossa rotte, con che coraggio dovresti lamentarti? Non hai forse visto meraviglie su in cielo, meraviglie inenarrabili, e avuto gioie supreme? È perché ti trovavi in paradiso che la tua caduta è stata così terrificante e dolorosa. Ma non devi lasciarti uccidere, devi restare viva a tutti i costi, così che per il resto dei tuoi giorni tu possa essere riconoscente e ringraziare Dio di aver vissuto un tempo in cui… vedi» ho concluso d’un tratto, «io credo molto nella gratitudine».

«Oh» ha esclamato Dolly posandomi una mano sul ginocchio e guardandomi con tenerezza, «come sono contenta!»

«E perché mai, ora?» ho domandato voltandomi verso di lei e dando uno strattone al cappello per raddrizzarlo. E ho aggiunto, sporgendo il mento all’infuori: «Quanto alle tue donne morte nel loro mondo morto, dovrebbero vergognarsi, ecco cosa!»

«Sei guarita» ha affermato Dolly.

«Guarita?» ho ripetuto. L’ho guardata con aria severa. «Oh… capisco» ho proseguito. «Mi hai aiutato ad aprirmi».

«Certo. Non sopportavo il pensiero che tu continuassi a essere infelice… a struggerti».

«Struggermi?»

Dolly si è alzata. «Andiamo a casa» mi ha esortato. «Tocca a me portare il cesto. Sì, è un mondo orribile. Nessuno dovrebbe struggersi. Non lo sopporterei, se tu lo facessi. Ho temuto che forse…»

«Struggermi?»

Mi sono alzata a mia volta, e ho preso una posa impettita.

«Passami l’uva» ha detto Dolly.

«Struggermi!» ho ripetuto.

E per il resto del tragitto, lungo il sentiero immerso nella frescura dove il crepuscolo si addensava tra i cespugli e l’erba era umida sotto le nostre scarpe impolverate, abbiamo camminato a testa alta – struggermi, questa è bella! – due donne in totale armonia con la vita e la quiete della sera; donne sagge e intelligenti; donne col giusto orgoglio e amor proprio; donne gentili, buone, gradevoli, amabili, donne contente e soddisfatte; e all’ultimo angolo, quello che ci nascondeva dall’occhio di Mrs Barnes in giardino, Dolly si è fermata, ha posato il cesto e dopo avermi cinto le spalle con entrambe le braccia, mi ha baciato.

«Guarita» ha dichiarato baciandomi su una guancia. «Fuori pericolo» ha detto baciandomi sull’altra.

E abbiamo riso entrambe, liete e fiduciose. In questo stato d’animo lieto e fiducioso sono salita in camera mia. Già: se mi sentivo guarita e Dolly era convinta che lo fossi, perché mai non doveva essere vero?

Struggermi… questa è bella.

21 settembre

Invece non sono guarita. Perché una volta da sola in camera mia, con la casa immersa nel silenzio del sonno, sono stata sopraffatta da un gran senso di solitudine, e le parole belle e spavalde pronunciate nel pomeriggio mi sono sembrate povere cose, povere patetiche cose, come kaiser in camicia da notte. Sono rimasta sveglia per ore, con un unico desiderio: tornare strisciando dentro le mie convinzioni sbrindellate, malgrado costituiscano l’angolino più minuscolo immaginabile. Deve pur esserci ancora un angolino da qualche parte, in cui stringendomi al massimo io possa abitare. Sono talmente piccola. Mi basta pochissimo spazio. Potrei raggomitolarmi. Mi farei piccina piccina. Mi rifiuterei di pensare alle rovine dei luoghi ampi e splendidi in cui ho abitato un tempo; mi accontenterei di pochi centimetri. Oh, fa freddo, freddo, freddo, lasciata chiusa fuori dalla fede in questo modo.

Sono stata sveglia per ore; e vergognarmi di me stessa non è servito a niente, perché all’amore non importa di vergognarsi.

Sera

Ho passato l’intera giornata a strisciare silenziosa e furtiva cercando il momento di poter stare sola con Dolly. Volevo dirle che quello che ha visto ieri era solo un lato di me, e che ce n’è un altro, e un altro ancora; che credevo a ogni parola detta, ma ci sono anche altre cose, del tutto diverse, cose quasi diametralmente opposte, a cui credo in egual misura; che è vero che sono guarita, ma solo in certi punti, mentre nel resto di me, nelle parti ancora malate, a volte vengo travolta da grandi onde di acqua salata che bruciano, bruciano terribilmente…

Ma Dolly, oggi più che mai somigliante a una limpida pozza d’acqua dalla superficie immota, non ha mai lasciato il fianco di Mrs Barnes; credo stia cercando di compensare l’abbandono di ieri.

Verso l’ora del tè mi sono accorta che Mrs Barnes mi guardava con espressione preoccupata, l’espressione preoccupata e ansiosa che tanto bene conosco; suppongo si stesse chiedendo se in occasione del nostro picnic Dolly fosse stata indiscreta, mettendomi a parte di cose che mi avevano scioccata al punto da farmi ammutolire. Allora ho frugato nella mente alla ricerca di qualcosa con cui rassicurarla, e per fortuna mi sono subito ricordata dell’uva.

«Temo di aver mangiato troppa uva, ieri» ho esordito nell’incrociare il suo sguardo preoccupato e indagatore.

Il viso le si è subito rischiarato. Mi sono congratulata con me stessa. Ma la mia soddisfazione non è durata a lungo, perché Mrs Barnes, la personificazione della sollecitudine materna, mi ha chiesto se per caso non avessi ingoiato dei semini; io, intenzionata a rassicurarla il più possibile riguardo al motivo del mio umore pensieroso, le ho riposto che mi pareva proprio di sì; a giudicare da come mi sentivo, dal senso di pesantezza… E lei, prima che riuscissi a fermarla, è sfrecciata in cucina – queste donne asciutte sono terribilmente agili – e prima che potessi anche solo voltarmi o stabilire la mossa successiva, essendomi ormai insospettita, era già di ritorno con M.me Antoine e tutto l’armamentario dell’olio di ricino. Mi è toccato berlo. Ma mi è parso ingiusto che, solo perché mi ero mostrata così benevolmente desiderosa di rassicurare Mrs Barnes, ora non solo mi toccava bere l’olio di ricino, ma anche mostrarmi grata.

“Cosa vuoi che sia” mi sono detta, adocchiando torva la boccetta. Tra me alludevo al Destino.

Mi toccava bere quella roba, perciò tanto valeva berla con eroismo. Così ho fatto, buttandola giù con un certo stile, dopo aver sollevato il bicchiere e augurato salute e felicità ai presenti con quello che speravo risultasse un piacevole discorsetto.

Mrs Barnes, M.me Antoine e Dolly mi fissavano affascinate. Mentre facevo scivolare giù anche l’ultima goccia un brivido le ha percorse.

Poi sono salita in camera mia.

22 settembre

Lascia che richiami la tua attenzione, o anziana signora che siedi al termine dei miei anni, sul colore degli alberi e dei cespugli di questo luogo ove vivevi un tempo, negli autunni ora per te tanto lontani. Ricordi come somigliasse alla fiamma, come l’aria stessa fosse dorata? E i noccioli… te li ricordi? Quelli lungo il sentiero che dalla terrazza scendeva fino al villaggio. Ricordi come ognuno di essi sembrasse un globo di luce? Ricordi come hai trascorso quest’oggi, il 22 settembre 1919, sdraiata su un plaid al sole ai piedi di un nocciolo, felice di stare a guardare le foglie giallo chiaro contro il cielo strabiliante? Te lo sarai scordato, suppongo. Starai pensando solo al prossimo pasto, e a essere messa a letto. Eppure oggi hai trascorso una giornata degna di essere ricordata. Eri molto contenta. E perfettamente in equilibrio nel presente, senza la minima oscillazione verso il passato, un periodo che allora non avevi ancora imparato a guardare con il distacco che ti contraddistingue, né verso il futuro, a cui all’epoca, per quanto tu possa trovare ora divertente un simile atteggiamento, pensavi con dubbi e spesso con timore. Oggi Mrs Barnes, che dà il giusto valore ai privilegi spettanti a chi ha assunto una medicina, ti ha lasciata andare: tu hai preso un cuscino e un plaid – molto attiva, vero? – e sei rimasta lunga distesa per l’intera meravigliosa giornata, il corpo riscaldato dal sole, circondata dall’aria fresca, senza nessun pensiero al mondo tranne cose pacifiche. Come un bebè, un bebè sdraiato sulla schiena che si succhia il pollice e contempla placido il soffitto della nursery. Senonché il soffitto era l’immenso cielo, con due aquile su in alto che volteggiavano nelle sue profondità, e quando hanno inclinato le ali vi si è riflesso il sole, e hanno mandato bagliori.

Sembra un tale peccato dimenticare queste cose. Perché in fondo sono ciò che davvero rendono la vita preziosa. Ma temo che il mio metterle per iscritto non riuscirà a farti provare di nuovo la stessa gioia, vecchia mia. Sarai troppo fragile e piena di reumatismi per contemplare un intero giorno trascorso sull’erba senza provare un fremito di orrore. L’idea di essere costretta a entrare nel tuo corpo di vecchia comincia a infastidirmi; e, a pensarci bene, il tuo distacco filosofico, la tua incapacità di fare alcunché se non ridere di fronte alle speranze, alle sofferenze, ai tripudi, alle delusioni e alle atroci sofferenze del tuo passato, mi fanno venire in mente il ghigno immutabile di un teschio.

23 settembre

Tuttavia Mrs Barnes non può certo, per quanto ce la metta tutta, stare perennemente incollata a noi. Intervalli nella sua presenza si verificano per forza di cose. Oggi se ne è verificato uno; ho colto al volo l’occasione per dire a Dolly, attraverso la sedia di mezzo momentaneamente vuota – eravamo sulla terrazza, dove proseguiva la lettura – «È dal giorno dell’uva che non riesco a parlarti da sola. Volevo dirti che non sono guarita. Ho avuto una ricaduta la sera stessa. Credo in tutto ciò che ti ho detto, ma credo anche in ciò che ho detto a me stessa durante la ricaduta. Meglio che tu sappia il peggio. Ho semplicemente e ineluttabilmente ripreso a struggermi».

Dolly si è lasciata cadere Merivale in grembo, e con aria pensosa ha posato lo sguardo sui monti in lontananza, in fondo alla vallata.

«Sono solo gli ultimi brontolii» ha commentato dopo un attimo.

«Brontolii?» ho ripetuto.

«Sono solo gli ultimi brontolii e borbottii di un temporale che si allontana. Qualunque cosa ti sia accaduta – non me ne hai mai parlato, lo sai, ma a volte in un modo o nell’altro io riesco a capire – è stata simile a un temporale. A un temporale molto violento. Rapido, che si è abbattuto con incredibile furia e si è poi allontanato rombando. E anche se mentre si abbatteva su di te ne eri travolta, tu, come un raccolto altrimenti promettente…»

«Oh» ho protestato; ma non ho potuto fare a meno di ridere.

«…quando se ne è andato, ne hai sentito la mancanza. Non parlerei in questo modo» ha continuato, volgendo su di me i dolci occhi, «non ci scherzerei sopra se non fossi convinta che sei in via di guarigione. Presto raggiungerai lo stadio in cui ci si comincia a rendere conto che disinnamorarsi è in tutto e per tutto piacevole quanto innamorarsi. Perché lo è, sai?, è una sensazione meravigliosa, il graduale ritorno alla libertà, ai propri amici».

«Vedo che proprio non capisci» le ho detto.

Dolly ha detto che invece capiva.

«No, dato che parli di disinnamorarsi. A me è successo ben di peggio. Disinnamorarsi? Cosa vuoi che sia. È ciò che capita di continuo a tutti quanti. Quello che è capitato a me è stato perdere la fede. È stato come perdere Dio dopo anni di fiducia in Lui. Io credevo con tutto il cuore. E ora sono disperata».

Dolly si è limitata a scuotere la testa. «Però non sei disperata come prima» ha detto. «Nessuno che ami tutto questo come lo ami tu» – e ha orientato il viso verso il sole caldo, battendo le palpebre – «può continuare a disperarsi a lungo. E poi… beh, che altro dirti… guarda là».

E ha indicato le montagne lucenti che tagliano l’estremità orientale della vallata.

«Sì, la bellezza è eterna. Quando verso in quello stato d’animo limpido che, nel guardare le montagne, mi permette di vederle davvero, tutto il resto, lo sconcerto, il pianto, tutto l’aggrapparsi e lo struggersi sembrano effettivamente poco meritevoli di attenzione. Prova a pensare: una persona ha dinnanzi a sé lo sterminato panorama di questo mondo meraviglioso, e invece che muoversi di continuo e liberamente, anziché gioire e levare la lode a Dio, se ne resta seduta immobile in un solo punto a lagnarsi, impantanata nel sedimento».

«Hai detto sentimento?» ha chiesto Dolly.

«Perché, ho detto qualcosa?» ho domandato sorpresa, voltandomi verso di lei. «Credevo di star pensando».

«Allora stavi pensando a voce alta» ha stabilito Dolly. «Hai detto la parola sentimento?»

«No. Sedimento».

«Sono la stessa cosa. Le detesto entrambe».

24 settembre

Che ne sarà di Mrs Barnes e di Dolly, quando tornerò in Inghilterra? Ieri e oggi il tempo è stato un po’ irrequieto, un po’ agitato, come una creatura che si giri e rigiri nel sonno, e mi ha fatto riflettere. Perché qui una volta che il tempo comincia a cambiare non smette più, a questo punto dell’anno. Procede con sempre maggiore inclemenza – vento, pioggia, neve e tormente – finché, passato il Natale, comincia l’inverno vero e proprio, senza una nube, senza un alito di vento, con le sue brevi giornate inondate di sole, le albe e i tramonti un tripudio di colori.

Il gran tumulto, le folate di neve e i venti ululanti altro non sono che i preparativi di una grande calma finale. L’ultima tormenta che si allontana dalle montagne sembra un brutto sipario che viene arrotolato, rivelando un mondo nuovo. Una notte, mentre dormi, tutto l’ululare e lo sbatacchiare cessano di colpo; al mattino, guardi fuori dalla finestra e, per la prima volta dopo settimane, vedi le montagne in fondo alla vallata stagliarsi limpide contro il cielo d’oriente, ammantate di neve fresca dalla testa ai piedi, e, lì dietro, il delizioso verde dell’alba che si prepara. Lo so perché sono stata costretta a trascorrere quassù i mesi di ottobre, novembre e dicembre dell’anno in cui la casa fu costruita e arredata. Mesi orribili, e la loro fine mi parve il paradiso.

Ma che ne sarà di Mrs Barnes e di Dolly quando il clima volgerà infine al brutto?

Non oso immaginarmele mentre trascorrono un inverno tetro e mal riscaldato giù a valle in qualche pensione a buon mercato; un inverno senza fine passato rinunciando a tutto, soppesando ogni franco. Ormai vivono così da cinque anni. Dove prenderà Dolly quella sua dolce serenità? Mi piacerebbe portarle in Inghilterra con me. Ma Dolly non può venire in Inghilterra. È tedesca. È condannata. E Mrs Barnes è condannata a sua volta, inestricabilmente legata al destino di Dolly. Naturalmente intendo pregarle di rimanere quassù, ma mi sembra un’offerta ben misera: vivere qui tra tormente di neve da cui io stessa fuggo. Mi sembra un’offerta di ospitalità ben dubbia. Per renderla credibile dovrei rimanere anch’io. Ma, semplicemente, non ce la farei. Stare tre mesi chiusa in casa con Mrs Barnes, imprigionata dalle tormente… ne morirei, non ho dubbi. Che si prenda pure tutto: la casa, gli Antoine, tutto quanto, tutto ciò che possiedo; ma mi lasci andare.

Mi sento venire meno davanti al compito che mi attende, al pensiero di tutta l’opera di persuasione, di tutte le proteste che dovrò sobbarcarmi. E di Dolly; come potrò lasciare Dolly? A Londra sarò perseguitata dalla visione di loro due quassù, del vento che impazza attorno a casa, della neve ammassata contro le finestre delle camere da letto, a volte tagliate fuori dal paese per un’intera settimana, dato che solo negli sprazzi di calma concessi tra una tormenta e l’altra le figurette nere dei contadini arrivano arrancando sulla neve con i loro badili per disseppellirti. Lo so perché ci sono passata anch’io, quel primo inverno. Ma all’epoca era tutto nuovo per noi; dentro casa eravamo un gruppo allegro e spensierato – cinque persone che si volevano bene e parlavano di qualunque cosa desiderassero – oltre che ampiamente rassicurato da un sacco pieno di lenticchie e da diversi sacchi di patate che Antoine, già allora mio lungimirante braccio destro, aveva accantonato in vista di tale eventualità. Accendevamo grandi fuochi e facevamo fermentare strane bevande. Stavamo seduti in circolo fino alle ore piccole, a raccontarci storie di fantasmi. Ridevamo molto, e dicevamo tutto quello che ci passava per la testa. Ma Mrs Barnes e Dolly? Quassù da sole, senza nessuno che le disseppellisca? Immaginarmele così mi causerebbe infinita angoscia.

25 settembre

Non si è ancora accorta del tempo. O comunque non ne ha ancora tratto alcuna conclusione. Evidentemente pensa che questa incostanza, questi sprazzi di sole seguiti da esitanti rannuvolamenti, siano una cosa passeggera, presto destinata a tornare tale e quale a prima. Senza dubbio starà dicendo a se stessa: è ancora settembre. Ma Antoine la sa più lunga, e io pure: è solo questione di ore prima che il cambiamento si mostri in tutta la sua evidenza persino a Mrs Barnes. Allora avranno inizio i combats de générosité. Non posso, proprio non posso, rimanere quassù solo per indurre Mrs Barnes a rimanere a sua volta con la scusa di allietare la mia solitudine. Ho bevuto l’olio di ricino unicamente affinché potesse mettersi il cuore in pace, ma non riesco a produrmi in altri sforzi, sulla stessa falsariga, finalizzati a tale terrificante magnanimità. Ne morirei.

26 settembre

Oggi ho fumato dodici sigarette con l’unico intento di far prendere alla casa un odore virile. A tal fine le sigarette non sono efficaci quanto la pipa, ma sono sempre meglio del perenne, ordinario odore di pulito delle donne perbene.

Alla fine di ogni sigaretta Mrs Barnes si alzava e, senza dare nell’occhio, arieggiava la stanza. Allora io ne accendevo un’altra.

Inoltre prima di lasciarmi cadere sul divano in soggiorno ho buttato per terra i cuscini, ma subito è arrivata Mrs Barnes a metterli in ordine.

Li ho ributtati per terra.

Verso sera mi ha chiesto se mi sentivo bene. Io non mi sentivo bene, per via delle sigarette, ma non gliel’ho detto. Ho detto che mi sentivo benissimo. Non potevo certo dirle che stavo solo fingendo che ci fosse un uomo per casa.

«Siete sicura che quei semini d’uva…?» ha chiesto con espressione ansiosa.

«Oh, sicurissima!» ho esclamato, e mi sono subito ammansita.

27 settembre

E ora le imprecazioni. Mi pesa doverlo dire, ma a loro difesa ci sono alcune argomentazioni. Sono straordinariamente brevi. Aiutano a superare il momento di malumore. Ripuliscono l’aria. Le donne spiegano, protestano e si aggirano in punta di piedi intorno a ciò che ritengono siano i tuoi sentimenti, e non se ne vede mai la fine. Inoltre se sono donne buone – buone, affettuose e altruiste – hanno un loro modo di perdonarti. Continuano a perdonarti. Incondizionatamente. Con orribile magnanimità. Ieri Mrs Barnes ha insistito nel volermi perdonare le sigarette, il disordine. Non è una bella situazione, credo, trovarsi rinchiusi in una casetta isolata a subire il perdono.

28 settembre

Durante la notte il vento ha fatto tremare le finestre e la pioggia le ha bersagliate, così ho capito che non appena fossi scesa per colazione la lotta con Mrs Barnes avrebbe avuto inizio.

E così è stato. È cominciata appena dopo colazione in soggiorno, dove Antoine, dichiarando in tono fermo «C’est l’hiver», aveva acceso un fuoco ruggente, determinato, questa volta, a ignorare qualsivoglia assurda parsimonia; è poi proseguita per tutto il giorno, con le dovute pause per poterci riprendere.

Non siamo giunte ad alcuna decisione. Non ho ancora la più pallida idea riguardo al da farsi. L’atteggiamento di Mrs Barnes è improntato a un ostinato altruismo. Lei e Dolly, non fa altro che ripetere, non si sognerebbero mai di rimanere qui tranne nel caso in cui sapessero che facendolo mi sarebbero utili tenendomi compagnia. E se io non sono qui, loro non possono tenermi compagnia. Ecco cosa dice, e io devo convenirne.

Già. Ogni volta che me lo ripete – oggi è un giorno di ripetizioni – io ne convengo. Dunque se io me ne andrò se ne andranno anche loro, conclude con una sorta di cupo trionfo nell’assoluta determinazione a non creare fastidi né a pesare sul bilancio; tuttavia non trova le parole, aggiunge (purtroppo per me) per esprimere la sua gratitudine di fronte a tale offerta, ecc. ecc., e mai, per tutta la vita, lei e Dolly dimenticheranno la meravigliosa… ecc. ecc.

Cosa devo fare? Non so. Oh, a volte con quale leggerezza ci si imbarca in un matrimonio o nell’ospitalità, e in quali direzioni inaspettate entrambi si sviluppano! E poi l’altruismo è una cosa terribile. Una volta presa l’abitudine, com’è duro, com’è faticoso da estirpare. Una sola persona ostinatamente altruista basta a rovinare la felicità di un’intera famiglia. È mai possibile che io debba rimanere qui? Con tutte le cose da sbrigare che mi aspettano in Inghilterra.

Nella mia camera c’è il fuoco acceso, e in quest’ultima ora sono stata seduta sul pavimento a fissarlo, in cerca di una soluzione. Perché mentre Mrs Barnes si rifiuta categoricamente di ascoltare anche per un solo istante le mie suppliche a utilizzare la casa in mia assenza, sul suo viso sottile compare l’espressione bramosa di chi vorrebbe accettare, e il solo parlare, per quanto coraggiosamente, di riprendere i vecchi vagabondaggi da senzatetto le fa spuntare le lacrime agli occhi.

Sono arrivata a un tale punto di disperazione che l’ho implorata di rimanere come atto di cortesia personale nei miei confronti, al fine di tenere d’occhio i palesemente efficienti e fidati Antoine. Ma questo è stato il proverbiale aggrapparsi a una pagliuzza, e persino Mrs Barnes, così parca di sorrisi, ha sorriso.

No. Non so proprio che pesci pigliare. Come ulula il vento! Me ne andrò a letto.

29 settembre

Né si riesce a ottenere qualcosa da Dolly.

«Mi hai detto che a volte ti impunti» ho ripreso stamane appellandomi a lei durante una delle brevi assenze di Mrs Barnes. «Perché non lo fai adesso?»

«Perché non voglio» mi ha risposto.

«Ma perché no?» ho domandato esasperata. «Quello che vi sto suggerendo è talmente ragionevole, talmente facile…»

«Non voglio stare qui senza di te» ha dichiarato. «Questo posto sei tu. È intriso di te. Qui, senza di te, mi sentirei perseguitata dal tuo fantasma. Insomma, mi sentirei persa».

«Ma è assurdo! Per come stanno le cose non riusciamo quasi a parlarci…»

«Però ti osservo» mi ha detto sorridendo, «e capisco a cosa stai pensando. Non hai idea di come i pensieri ti si leggano in viso».

«Neppure se questo riuscisse a mettere tranquilla quella povera infelice di tua sorella? Neppure se qui riuscisse a liberarsi dalle sue ansie? Se capisse che qui tu sei al sicuro?» ho provato a farla ragionare in toni ferventi.

«Io non voglio essere al sicuro».

«Oh, Dolly, non starai di nuovo per parlare in modo avventato» ho detto con lo stesso tono preoccupato con cui l’avrebbe detto la povera Mrs Barnes.

Dolly si è messa a ridere. «Non farò mai più qualcosa che possa rendere infelice Kitty» ha dichiarato. «Però mi piace molto la sensazione…» e ha fatto un movimento con le braccia come se fossero ali, «oh, mi piace moltissimo la sensazione di avere spazio!»

30 settembre

Il tempo è migliorato, portando una tregua alla nostra lotta. Entrambe provate dalla stanchezza, io e Mrs Barnes abbiamo desistito, e io ho trovato riposo nel rifugio dei deboli, il rinvio delle decisioni, il tornare ai discorsi sulla posizione e sul panorama. Oh, se solo Mrs Barnes fosse meno buona o più intelligente! Ma la combinazione bontà e poca intelligenza è inespugnabile. Non riesci ad aprirti un varco. Nulla riesce a penetrarla. Ti tocca rinunciare. Ne esci schiacciato. Diventi uno schiavo. E il tuo caso diventa senza speranza se il buono e poco intelligente in questione è allo stesso tempo vittima di un immeritato destino crudele, che sopporta con nobiltà d’animo.

Sera

Oggi è successa una cosa che ha dell’incredibile: la mia preghiera è stata esaudita. Non oserò mai più pregare un’altra volta. Avevo pregato affinché un uomo, un qualsiasi uomo, venisse a rianimarci, e l’uomo è arrivato.

Voglio scrivere tutto bene con ordine.

Oggi pomeriggio, durante la nostra passeggiata, appena uscite di casa, mentre avanzavamo lottando contro le raffiche di vento e le foglie turbinanti in direzione della strada carrozzabile che si inerpica dal fondovalle, Dolly ha detto: «Chi è quel tipo buffo che viene verso di noi?»

Ho guardato, e dopo un attimo in cui il mio cuore ha saltato i battiti – perché cos’era venuto a fare? – ho risposto: «Quel tipo buffo è mio zio».

Era proprio lui, lo zio fatto e finito: ghette, tonaca corta, cappello di feltro nero in stile clericale. Si teneva fermo il cappello con la mano, e il vento dispettoso, frustrato nel suo desiderio di scherzare, se la prendeva con la tonaca, strattonandola verso l’alto, facendola gonfiare; con la mano che gli restava, dunque, non poteva far altro che tenersi a posto la tonaca, ed era perciò costretto a reggere l’ombrello sotto il braccio, premuto forte contro il fianco.

«Non vostro zio il decano?» ha chiesto Mrs Barnes con voce venata di timore reverenziale, aggiustandosi in fretta il cappello; questo perché il soffio della Chiesa, un soffio qualsiasi, persino un soffio debole come un curato, per lei è il soffio vitale.

«Sì» ho risposto, stupita e impotente. «Mio zio Rudolph».

«Con un nome del genere potrebbe essere tedesco» ha detto Dolly.

«Oh, non dirgli mai una cosa del genere!» ho esclamato. «Odia i tedeschi profondamente…»

Le parole mi sono uscite di bocca prima che me ne rendessi conto, prima di poterle fermare. Santo cielo, ho pensato; santo cielo.

Ho guardato di sottecchi Mrs Barnes. Era diventata paonazza. Così mi sono lanciata di nuovo nel discorso, desiderosa di rassicurarla. «Cioè, li aveva in odio durante la guerra» ho proseguito. «Naturalmente ora che la guerra è finita sarebbe quanto mai sciocco… ormai non importa più a nessuno… ormai non dovrebbe importare più a nessuno…»

Ma la voce mi si è spenta in gola, perché sapevo, come sapeva Mrs Barnes, che alla gente importa, eccome.

A quel punto eravamo a portata di voce dello zio, e con la gioia che d’istinto si manifesta in tali occasioni ho fatto roteare esultante il bastone e ho esclamato: «Zio Rudolph, che meravigliosa sorpresa!» E ho accelerato il passo per andargli incontro, mentre le altre due davano prova di tatto tenendosi a debita distanza.

Lì, sul fianco della montagna, con il vento maleducato che gli sbatacchiava i vestiti con irriverenza, ci siamo scambiati un bacio; e nel bacio dello zio ho percepito all’istante qualcosa di simile ai discorsi di Mrs Barnes il giorno in cui ho fumato le dodici sigarette: mi stava elargendo il suo perdono.

«Sono venuto per accompagnarti a casa in Inghilterra» ha esordito con l’espressione di chi è disposto a mettere una pietra sul passato. E in quello spirito ha lasciato andare la tonaca per darmi qualche colpetto rassicurante sulla spalla. Immediatamente la tonaca si è gonfiata. La sua mano ha dovuto lasciare di colpo la mia spalla per abbassarsi di nuovo. «Sei in compagnia femminile?» mi ha chiesto un po’ distratto, preso a contrastare la turbolenza del suo abbigliamento.

«Sì, zio Rudolph» ho risposto con aria vereconda. «Spero non ti aspettassi di trovarmi in compagnia maschile».

«Mi aspettavo di trovarti, bambina cara, come ti ho sempre trovata: disposta ad ammettere e a tornare sui tuoi passi. Generosamente disposta ad ammettere e a tornare sui tuoi passi».

«Che caro» ho mormorato. «Avresti dovuto avvertirmi del tuo arrivo. Avrei ucciso delle cose in tuo onore. Cose grasse».

«Non sono certo il figliol prodigo di ritorno» ha detto con voce resa il più possibile gentile, essendo il vento quel che era, «anche se per il tuo bene vorrei tanto esserlo. Rispetto alle tue spalle, così esili, le mie saprebbero sopportare meglio il fardello».

Ma il discorso mi risultava infausto, così ho detto: «Lascia che ti presenti a Mrs Barnes e a sua sorella, Mrs Jewks. Desidero presentarvi» ho proseguito in tono cerimonioso, voltandomi verso di loro, ora fortunatamente abbastanza vicine, «mio zio Rudolph, di cui spesso vi ho parlato».

«Oh, davvero molto spesso» ha replicato Mrs Barnes con tutta la cordialità che il timore reverenziale le consentiva.

Lo zio, provando un evidente sollievo nel non trovare la nipote eccentricamente sola ma affiancata da figure così rispettabili, rassicuranti nelle loro gramaglie vedovili, è stato molto affabile. Mrs Barnes ha accolto le sue parole cortesi con deliziata riverenza; e mentre tornavamo a casa, poiché la prima cosa da fare con chi arriva dall’Inghilterra è offrirgli un bagno, lui e lei si sono scelti spontaneamente come reciproca compagnia sullo stretto sentiero, seguiti da me e Dolly.

Noi due ci siamo scambiate un’occhiata nello stesso istante, intuendo i vantaggi di essere in quattro invece che in tre. Dietro la schiena concentrata e ossequiosa di Mrs Barnes ci guardavamo a vicenda sognando a occhi aperti chiacchierate prive di supervisione.

«Ha le sue abitudini, capisci» ho commentato a bassa voce, per quanto non fosse realmente necessario, dato il vento che tirava.

«Come tutti i decani» ha convenuto Dolly annuendo.

E la mia voglia di ridere – discretamente, sottovoce, pronta a ricompormi e a mettermi a fissare le nuvole nell’esatto istante in cui i nostri rispettivi parenti si fossero voltati – è finita soffocata dal gelido presentimento che l’arrivo dello zio avesse in serbo per me un risvolto doloroso.

Ha intenzione di parlarmi; di parlarmi di cose cui con tanta fatica cerco di non pensare, di cose cui in effetti sto riuscendo a non pensare; e per quanto egli abbia intenzione di affrontare l’infausto argomento con spirito cristiano, come mi dirà, e come forse è persino convinto di credere egli stesso, in realtà lo affronterà con spirito di mera temporalità. Nutre speranze ben fondate di diventare presto vescovo. Io sono sua nipote. Le parenti di sesso femminile dei vescovi dovrebbero passare inosservate, tenere un comportamento che non susciti la minima critica. Per questo sta cercando di far sì che io imbocchi di nuovo una vita di insostenibile infelicità, ma solo affinché il mio “esterno” possa apparire rispettabile.

L’esterno della casa – la casa della nipote di un vescovo – deve a ogni costo essere linda e conforme a tutte le altre della via, cosicché nessuno sappia cosa accade all’interno e i vicini non abbiano modo di chiacchierare su detta nipote.

Se non fossi sua parente ma una semplice, comune anima estranea in difficoltà, lui, questo stesso uomo, si mostrerebbe del tutto comprensivo, anzi, troverebbe impossibile, stante la mia situazione, non preoccuparsi seriamente di aiutarmi a stare alla larga dalla tentazione di, come dice lui, tornare sui miei passi. Così come si preoccuperebbe anche di rafforzare in me lo stato d’animo che sono certa essere quello giusto, e che tanto spesso ricorre, in cui mi sento totalmente priva di risentimento e decisamente felice di avere quanto meno il ricordo delle cose belle in cui credevo. Ma sono sua nipote. E presto lui diventerà vescovo.

Perciò ho seguito a disagio i suoi passi verso casa, paventando ciò che c’era in arrivo. Invece non è arrivato nulla. Non ancora, quanto meno. Me lo aspetto per domani.

Abbiamo trascorso una serata ben poco entusiasmante. Mi sento sonnolenta e completamente sazia di buoni principi ecclesiastici, come se fossi stata tutto il giorno in chiesa. Lo zio, lavato, rasato e ristorato dal tè, si è predisposto a intrattenere. Lui era l’anima decorosa della festa. Si è abbandonato a quell’esuberanza contenuta a cui ricorrono gli uomini retti con la sua vocazione per dimostrare che in fondo non sono poi così diversi dagli altri. Dopo il tè ci siamo seduti davanti al fuoco, e di nuovo dopo cena: io e Dolly una di fronte all’altra alle estremità, lo zio e Mrs Barnes al centro. Nella stanza risuonava sommessa un’allegria decorosa e moralmente sana. “Com’è divertente” sembrava dire lo zio quando, nel guardarci alla fine di ogni pia storiella, mieteva il raccolto del nostro apprezzamento, “com’è divertente soddisfare il bisogno di legittima distrazione. Che bisogno c’è di voler soddisfare quella illegittima?”

In effetti le sue storielle erano così pie che ognuna, prima di generare la sua battuta finale, sembrava esser stata benedetta in chiesa.

Dolly era seduta e sferruzzava; i suoi capelli chiari, da bambina, riflettevano la luce, gli occhi erano abbassati con una docilità da colomba. Al momento opportuno di ogni aneddoto la fossetta faceva puntualmente la sua fugace comparsa. Sembrava capire per istinto quando sorridere; e svariate volte io mi sono accorta che il momento era arrivato solo perché mi capitava di notare la sua fossetta.

Quanto a Mrs Barnes, per la prima volta da che la conosco, aveva il viso completamente sereno. Lo zio si è imbarcato in una sfilza di aneddoti senza mai menzionare la guerra. E neppure una volta ci siamo avvicinati all’argomento tedeschi. Mrs Barnes poteva buttarsi anima e corpo nel più sfrenato divertimento. Sorrideva. Era soffusa di gioia reverenziale. E tutto il corpo, anche il modo stesso in cui stava sulla sedia, mostrava una concentrazione, una tale determinazione a non perdere neppure una briciola di ciò che diceva lo zio, che lui stesso l’avrebbe trovato parecchio gratificante, se non ci fosse ormai così abituato. È da non credere come le vedove si attacchino agli ecclesiastici.

Fin da che serbi memoria, così come nel poema di Wordsworth le apprensioni sono attratte dalla povera Margaret, le vedove sono attratte da zio Rudolph a frotte. La zia soleva inarcare le sopracciglia e chiedermi se sapevo dirle cosa vedessero in lui.

Quando ci siamo augurate la buona notte, nel comportamento di Mrs Barnes c’era qualcosa a dimostrazione che la presenza di un uomo in casa stava già sortendo il suo effetto. Era come arieggiata. L’aria fresca era entrata in lei e circolava liberamente. Davanti alla porta della mia camera mi ha abbracciato con semplice, calorosa affabilità e senza il consueto, doloroso scrutinio del mio viso per controllare se per caso non avesse omesso qualcosa nell’espletamento dei suoi doveri di altruismo. L’arrivo dello zio ha avuto l’effetto di farmi dimenticare i miei pensieri per un po’. Sapevo che avevamo bisogno di un uomo. Non che un decano sia esattamente la mia idea di uomo, ma d’altro canto non è neppure esattamente la mia idea di donna; per il momento il suo arrivo impone una tregua ai combats de générosité tra me e Mrs Barnes. Lui infonde sangue nuovo nel nostro piccolo circolo anemico. Sangue diverso, dovrei forse dire, non essendo il sangue dei decani, credo, mai particolarmente nuovo.

«Buona notte, zio Rudolph» ho detto alle dieci in punto nel tirarmi in piedi e nel porgergli il viso. «Grazie di cuore per la deliziosa serata».

«Oh, assolutamente deliziosa» mi ha fatto eco Mrs Barnes in tono entusiasta, alzandosi a sua volta e arrotolando il lavoro a maglia.

Lo zio ne è stato gratificato. Sapeva di avere dato il meglio di sé, e di esser stato apprezzato.

«Buona notte, bambina cara» ha risposto baciandomi la guancia che gli offrivo. «Possano gli angeli benedetti vegliare presso il tuo letto».

«Grazie, zio Rudolph» ho risposto, chinando il capo sotto tale benedizione.

Mrs Barnes osservava il quadretto domestico con riverente approvazione. Poi è arrivato il suo turno.

«Buona notte, Mrs Barnes» ha detto lo zio con immensa affabilità, stringendole la mano e facendo ciò che la mia insegnante di ballo soleva definire piegarsi al punto vita.

E a Dolly: «Buona notte, Miss…» e ha esitato, annaspando in cerca del nome.

«Mrs» ha pronunciato Dolly, correggendolo con modi squisiti mentre lui le teneva la mano.

«Ah, chiedo scusa. Siete sposata. Queste presentazioni… e con quel vento, poi».

«No… non esattamente sposata» ha precisato Dolly, correggendolo squisitamente per la seconda volta, sempre con la mano trattenuta nella sua.

«Non esattamente…?»

«Mia sorella ha perso suo… mia sorella è vedova» ha soggiunto Mrs Barnes, di getto e in tono nervoso; poveri noi, queste complicazioni di Dolly!

«Già. Già. Davvero molto triste» ha commentato lo zio in tono comprensivo, sempre senza lasciarle la mano. «E così giovane. Eh. Sì. Beh, buona notte, allora, Mrs…»

Ma di nuovo ha dovuto interrompersi e annaspare.

«Jewks» ha detto Dolly con voce soave.

«Perdonatemi. State tranquilla, non sarò più tanto ottuso. Buona notte. Possano gli angeli benedetti…»

E si è fermato per la terza volta; bloccato, immagino, dal pensiero che forse non era del tutto decoroso attirare l’attenzione, per quanto degli angeli, presso il letto di una signora con cui non era imparentato. Si è limitato perciò a stringerle la mano con grande affabilità, mentre lei gli indirizzava il più dolce dei sorrisi.

L’abbiamo lasciato che dava le spalle al camino e ci guardava salire, tenendo in mano, quasi con tenerezza – in fondo bisogna pur consumare la propria compassione su qualcosa – un bicchiere di acqua calda.

Lo zio è un tipo molto compassionevole. Nelle faccende che nulla hanno a che vedere con la sua promozione è estremamente compassionevole. Immagino sia questo il motivo per cui le vedove lo adorano. Se non fosse stata sua moglie, la zia avrebbe saputo il perché.