1° agosto

L’ultima volta che sono stata qui il primo di agosto era il 1914. Era una giornata come oggi: tersa, calda, splendente di luce e colori. Inconsapevoli, sereni e fiduciosi nella vita, trascorrevamo come di consueto la giornata in modo piacevole, occupati in letture, conversazioni, gite nei boschi e pasti romantici nel piccolo giardino sospeso come un ciuffo fiorito sul versante roccioso. L’inaccessibilità del luogo ci isolava dal rumore e dall’eccitazione di un mondo che, tra grida di entusiasmo, si avviava sulla strada del suicidio; la lontananza e la ripidezza ci isolavano persino dalla valle dove polverosi soldati svizzeri andavano radunandosi, mentre notizie ufficiose – tra le più disparate – si propagavano come fiamme. Allora come ora, i bellissimi delphinium azzurri svettavano dritti e immobili sul ciglio roccioso, e ai loro piedi erano assiepate le stesse viole color porpora di oggi. Nessuno venne ad avvisarci di nulla. Intorno a noi, soltanto pace. Certo, persino quassù erano giunti, a giugno, una debole eco del clamore per l’assassinio dell’arciduca, e, verso la fine di luglio, il vago interrogativo su quali sarebbero state le conseguenze. Tuttavia sia l’eco sia l’interrogativo si erano stemperati in ciò che sembrava essere la solida, perpetua agiatezza dell’esistenza. Un’agiatezza troppo radicata e profonda per ipotizzare che in futuro qualcosa potesse turbarla. Ne sarebbero scaturiti dei dissidi, ma circoscritti. Beh, anche solo il problema di dover vettovagliare grandi eserciti moderni avrebbe… eccetera. Ai tempi eravamo molto innocenti e fiduciosi. E così patetici, ripensandoci ora, che mi metterei a piangere.

Ma non voglio ripensarci. Il solo ricordo mi spinge a distogliermi con un senso di nausea, di sfinimento. Se non altro sono grata di essere nell’Ora e non nell’Allora. Questo primo di agosto presenta il grande vantaggio di avere alle spalle e non davanti tutto ciò che è venuto dopo quel primo di agosto. Se non altro in questo primo di agosto gran parte degli eccidi, della carneficina di giovani corpi e fulgide speranze, sono terminati. Il mondo è ancora orribile, ma nulla può essere più orribile dell’uccidere.

2 agosto

L’unica cosa da fare con le proprie sofferenze passate è avvilupparle ben bene nel loro sudario, deporle nella tomba, e poi distogliere il viso e volgerlo verso ciò che ha in serbo il futuro.

Ecco cos’ho intenzione di fare. In questo momento mi sento cogliere dalle stesse sensazioni che si impossessano dei convalescenti. Non oso quasi sperare, ma oggi mi sono dedicata a cose che mi paiono tipiche della convalescenza, cose di cui finora non avevo il minimo desiderio di occuparmi.

Sono andata a fare una passeggiata. Una camminata molto piacevole, su nei boschi, dove l’acqua precipita sulle rocce e l’aria profuma di resina. Poi, una volta a casa, mi sono rintanata tra i libri: li ho messi in ordine, beandomi della gioia di toccarli. Sono qui da dieci giorni, e non mi ero mai mossa; finora ero stata lunga distesa senza alcun desiderio di muovermi, senza nessun desiderio, in effetti, se non quello di non avere desideri. Un paio di volte avevo provato vergogna di me stessa, e un paio di volte, nel sonnolento crepuscolo della mia mente, si era accesa una fugace scintilla di sospetto che forse, dopo tutto, se solo avessi aperto gli occhi e mi fossi messa a guardare, la vita avrebbe potuto essere ancora bella, proprio com’era un tempo. Ma la scintilla era subito svanita, spenta dall’umida atmosfera da cripta che regnava là dove si era accesa.

Oggi mi sento diversa; oh, come sarei lieta di riuscire a tornare lieta! Non credo sia mai esistito qualcuno che amasse essere felice quanto lo ero io. Intendo dire che ero del tutto consapevole di essere felice, e lo apprezzavo tantissimo; non mi annoiavo mai, ed ero sempre, costantemente grata per tutta la squisita bellezza del mondo.

Credo sia piuttosto insolito non sapere cos’è la noia. Me ne rendo conto quando sento parlare le altre persone. Di certo non conosco la noia allo stesso modo in cui sembrano conoscerla gli altri quando si ritrovano soli, quando vengono loro a mancare fonti di divertimento esterne; quanto alle persone noiose, persone incontestabilmente noiose, ebbene, in realtà non mi annoiano, mi interessano. Trovo meravigliosa la loro inconsapevolezza di essere noiose. Comunque, di solito sono molto gentili; inoltre, per quanto mi vergogni a confessarlo, io piaccio a quel genere di persone e sono molto sensibile all’altrui apprezzamento, anche quando proviene da persone noiose. Vero, talvolta ho dovuto cercare momentaneo rifugio in ciò che anche il dottor Johnson trovava utile: distogliere l’attenzione; ma si tratta di un’operazione pericolosa, per via dell’occhio inespressivo ed errabondo che inevitabilmente la accompagna. Con l’esercizio, tuttavia, è possibile ottenere buoni risultati combinando risposte sensate con riflessioni private.

Poco prima di partire da Londra, conobbi un uomo il cui destino, da anni, è sedere ogni giorno in tribunale ed emettere sentenze; costui mi rivelò che portava con sé un libro di poesie – preferibilmente Wordsworth – e lo leggeva tenendolo aperto sulle ginocchia sotto il tavolo, traendone notevole ristoro e rinvigorimento dell’animo; era diventato talmente abile a fare entrambe le cose con attenzione che non gli sfuggiva mai una parola detta né una tesi argomentata. Sì, a questo mondo ci sono persone davvero affascinanti. Mi piaceva quell’uomo. Trovo molto saggio e piacevole usare le delicate acque della poesia per lavare via la polvere di quei luoghi tristi, luoghi in cui si recano le persone che un tempo andavano d’accordo e che ora sono piene di rancore. Sono convinta che quell’uomo è il tipo di marito la cui moglie sente un tuffo di gioia al cuore ogni volta che lui torna a casa.

3 agosto

In queste splendide giornate di agosto, immersa in una apoteosi di luce e di colore tale da farmi credere di vivere nel cuore rilucente di un gioiello, mi riesce impossibile non provare un senso di gratitudine. Sono grata di essere qui, di avere questo posto tutto per me. Credo davvero di cominciare a sentirmi diversa, lontana dalle vecchie cose che mi comunicavano infelicità e che mi stavano strangolando a morte; di nuovo in forze; quasi come se in un futuro potessi ritrovare un equilibrio. Ora c’è la luna; la sera mi infilo un soprabito e resto sulla porta, appoggiata un po’ all’indietro sulla bassa poltrona, a osservarla, e a volte riesco persino a dimenticarmi per un’intera mezz’ora che la felicità in cui credevo se n’è andata per sempre. Mi piace stare qui seduta e sentire di tanto in tanto le lievi folate fragranti sul viso; mi sembrano qualcuno che, nel passare, mi dia una delicata carezza. A volte è l’odore dell’erba tagliata e rimasta tutto il giorno al sole, ma più spesso è il profumo dei gigli di sant’Antonio, piantati da Antoine subito fuori dall’uscio, in un settembre di guerra.

«C’est ma maman qui me les a donnés» mi ha detto; e una volta finito di esprimere la mia gioia per tanta bellezza e profumo e il mio apprezzamento per la gentilezza della sua maman nel fare un regalo tanto incantevole al mio giardino, egli mi ha risposto che glieli aveva dati affinché, facendo un infuso con le foglie e applicando l’impacco al momento giusto, lui e la moglie potessero guarire da qualunque ferita in suppurazione.

«Ma voi non avete ferite in suppurazione» ho replicato io stupefatta e delusa.

«Ah, pour ça non» ha commentato Antoine. «Mais il ne faut pas attendre qu’on les a pour se procurer le remède».

Ebbene, se egli affronterà ogni futura contingenza con la medesima prudenza, si ritroverà parecchio affaccendato; la mia impressione è che i lunghi inverni di guerra abbiano sviluppato in lui un’inventiva in stile Robinson per prepararsi a ogni evenienza.

Che frasi belle lunghe ho appena scritto. Non posso essere già convalescente come pensavo. Sono certa che il vigore sia concisione. Non dici solo Accidenti se la tua vitalità è bassa, ma ti trascini tra parole querule, dal sangue annacquato, quali Deplorevole e Increscioso. Ma credo, forse, essendo io nei miei strati esteriori molto adattabile, che siano stati i libri letti nell’ultimo paio di giorni ad avermi spinto a conformare il mio stile al loro. Libri non vecchi, ma anziani sì. Scritti nella grandiosa epoca vittoriana, quando le emozioni si ammantavano di casti abiti lunghi, evitando la sconvenienza di quelli corti.

In questa casa, i libri più diversi sono costretti dalle circostanze a convivere. A volte, in primavera, durante la mia assenza, la risistemazione a casaccio che ne fa Antoine dopo aver spolverato gli scaffali gelerebbe il sangue nelle vene agli autori, se venissero a saperlo. Alcuni stanno a gambe all’aria – Antoine non ha pregiudizi sulla corretta posizione a testa in su di un autore – e buona parte di quelli di cui possiedo l’opera completa sono tutti sparpagliati; ieri ho trovato un Henry James non solo distaccato dal resto di sé stesso, ma distaccato persino, così pareva, dalle convenienze, tenuto stretto tra due signore, Ouida ed Ella Wheeler Wilcox. Le due lo attanagliavano, e ho faticato per sottrarlo alla loro presa. L’ho tirato fuori a forza, leggermente sgualcito, e l’ho rimesso al suo posto ancora scombussolato, malgrado l’avessi accuratamente spianato con la mano. Era Notes of a Son and Brother; era lì da mesi, forse da anni, imprigionato nel loro abbraccio. Terribile.

Quando scendo per la colazione e scopro di essere in anticipo sul café au lait, vago per un po’ nella stanza che contiene più libri – per quanto in verità libri ce ne siano ovunque, persino nei corridoi – e occupo il tempo fino a quando la moglie di Antoine mi chiama affinché le vada in soccorso per qualche questione urgente. Ma mi è impossibile riordinare i libri senza finire col sedermi a terra in mezzo a una gran baraonda e mettermi a leggere. Il caffè si raffredda, l’uovo diventa immangiabile, e io ancora leggo. Apro un libro a caso e vi trovo scritto:

Neppure le più evidenti anomalie sembravano procurare loro fastidio intellettuale, né erano disposti ad ascoltare discorsi sullo spreco di soldi e felicità che la follia causava loro. Mi permettevano di definirli senza mezzi termini dei perenni illusi; loro dicevano che era vero, ma non importava.

Per forza uno va avanti a leggere.

Apro un altro libro a caso:

La nostra ammirazione per re Alfred è fortemente accresciuta dal sapere molto poco su di lui.

Per forza uno va avanti a leggere.

Apro a caso un altro libro ancora:

La vita, ci dicono, si è sviluppata per gradi dal protozoo al filosofo, e questo sviluppo, ci assicurano, è senza dubbio un progresso. Purtroppo tutto questo ce lo assicura il filosofo, non il protozoo.

Per forza uno va avanti a leggere.

Apro… beh, potrei andare avanti così per tutto il giorno. In effetti è così che accade: rimango intrappolata tra i libri, e solo il lontano cinguettio ansioso della moglie di Antoine, che si presenta sull’uscio per sparecchiare la colazione, e scopre che non l’ho neppure toccata, riesce a distogliermi.

Forse sarebbe buona cosa astenermi dal riordinare i libri prima di colazione. Credo causi troppa preoccupazione a quello scricciolo di M.me Antoine, la quale teme, immagino, che se non bevo il mio caffè quand’è ancora caldo io possa avere una ricaduta e ripiombare nello stato comatoso che evidentemente la colmava di disagio e soggezione. Immagino non si aspettasse che la padrona di casa, infine tornata, si sarebbe comportata come una larva di specie aliena inerpicatasi su per la montagna solo per giacere immobile al sole per quasi due settimane. Dopo il primo paio di giorni di tale condotta da parte mia, l’ho sentita spiegare ad Antoine – il quale non è comunque tipo da spiegazioni, data la sua abitudine divina di non stupirsi mai di niente – che c’était la guerre, una comoda scusa che negli ultimi cinque anni è stata accampata per giustificare cose ben più orrende e innaturali di un comportamento da larva.

Oh, questi accostamenti accidentali nella mia libreria! Ho appena localizzato George Moore (Memories of My Dead Life, con le sue delicate amoralità, il suo delizioso paganesimo): da un lato era pigiato contro un libro intitolato Bruey. A Little Worker for Christ di Frances Ridley Havergal, e dall’altro contro un libro americano dal titolo The Unselfishness of God, and How I Discovered It.

La sorpresa di trovare questi tre con le braccia dell’uno, per così dire, gettate al collo dell’altro, mi ha fatto arrivare più vicina all’ilarità di quanto non mi accada da mesi. Se con me ci fosse stato qualcuno, mi sarei messa a ridere. Possibile che oggi abbia fatto così tanti progressi sulla strada della convalescenza da cominciare a desiderare un po’ di compagnia? Qualcuno con cui ridere? Se fosse vero...

Meglio non illudermi troppo.

4 agosto

Se penso a questo stesso giorno di cinque anni fa! Un fremito percorse noi tutti; ci sentivamo fieri dell’Inghilterra, fieri di essere inglesi; tronfi di quel patriottismo particolarmente intenso che coglie chi si trova all’estero.

Chi è lontano da casa prova, in questi casi, qualcosa di molto simile al rinnovarsi di un affetto, al rinfocolarsi di un amore. I veri saggi sono spesso lontani, benché in verità anche la lontananza vada organizzata con assennatezza. Un’assenza troppo prolungata è quasi nociva quanto una troppo breve. Beh, non proprio così tanto; forse sarebbe più corretto dire che un’assenza troppo prolungata ha i suoi inconvenienti, anche se solo all’inizio. Se si persiste, tali inconvenienti si trasformano in meriti; poiché, se la si prolunga abbastanza, non è forse vero che l’assenza conduce infine alla libertà? Tuttavia credo che per la maggior parte delle persone la completa libertà sia una condizione troppo solitaria, per cui l’assenza dovrebbe durare quel tanto da permettere di tornare a vedere con chiarezza. Un breve allontanamento occasionale, niente di esagerato, così da permetterci di mettere a fuoco una volta di più le dilette qualità che tanto abbiamo amato all’inizio, di constatare che sono ancora lì, e brillano sotto i nostri occhi.

Come puoi vedere qualcosa se ci pigi contro il naso? So che quando eravamo in Inghilterra – immersi nella sua esistenza, sconcertati dal clamore quotidiano dei giornali, rintronati dalle grida dei politici, distratti dalle critiche e dagli insulti vibranti nell’aria, inevitabilmente consapevoli della patina di triste pioviggine sui marciapiedi, e di luoghi quali Cromwell Road e Shaftesbuty Avenue e Ashley Gardens, sempre lì, sempre uguali, con i loro incombenti edifici grigi bagnati di pioggia, cupi alloggi temporanei dell’ininterrotta processione di morti viventi – so che quando ci trovavamo in mezzo a tutto questo, o per meglio dire a ridosso di tutto questo, non riuscivamo a vedere con chiarezza, ragion per cui abbiamo dimenticato un lato grandioso della nostra nazione.

Ma quando l’Inghilterra è entrata in guerra noi eravamo altrove; ce ne eravamo andati da mesi. Ecco perché riuscivamo a guardarla di nuovo con occhi patriottici. Era tornata a essere la gemma incastonata in un mare d’argento, l’altro Eden, il mezzo paradiso, l’«Inghilterra, mia Inghilterra», il luogo meraviglioso che aveva dato i natali a poeti meravigliosi, cuore e speranza del mondo. Molto prima di cingersi la spada al fianco – oh, com’è facile scivolare nel vecchio modo di parlare! – molto prima che cominciassero a diffondersi le voci di guerra, unicamente in virtù dell’esserci allontanati, avevamo acquisito di nuovo quell’incedere dello spirito tronfio e aggressivo che è il patriottismo. Ci piacevano gli svizzeri, li stimavamo; e quando superammo il confine italiano ci piacquero anche gli italiani, per quanto li stimassimo un po’ meno, forse perché sembravano meno parsimoniosi e si divertivano di più, mentre noi nutrivamo ancora la vecchia convinzione secondo cui la parsimonia triste e indiscriminata è una virtù. Ma per quanto ci piacessero questi popoli, per quanto li trovassimo simpatici, li guardavamo pur sempre dall’alto di un piedistallo. Sotto sotto il nostro incedere è sempre stato tronfio; sotto sotto ci siamo sempre sentiti superiori. E ogni nuovo giorno trascorso lontano dall’Inghilterra, dalla nostra Inghilterra, faceva aumentare in noi quella deliziosa boria inconscia. Poi, il 4 agosto, quando l’Inghilterra è entrata in guerra, quando ci è entrata circonfusa di gloria per via della promessa fatta al Belgio, dentro a questo chalet si è sprigionato tanto di quell’entusiasmo e orgoglio che lo si sentiva quasi scricchiolare.

Cosa faremo quando andremo in paradiso e non ci sarà più concesso alcun patriottismo? Là saremo certo costretti a essere tutti un’unica grande famiglia. Credo però che non appena Dio si volterà da un’altra parte, il patriottismo di ognuno di noi finirà per erompere. Ci sarà allora qualche miserevole vagabondo inglese, ammesso in paradiso solo perché non abbastanza virile da andare all’inferno, che non perderà occasione di sussurrare a un impeccabile uomo d’affari di Berna dall’inappuntabile vita terrena trascorsa a produrre orologi a cucù e dotato di uno straordinario ingegno meccanico, al punto di essersi persino moltiplicato – così correranno paradisiache voci tra gli angeli miti e stupefatti – attraverso qualche congegno di precisione, che lui, il vagabondo, è un inglese, e che se lui, lo svizzero, prova anche solo a metterlo in dubbio, sarà felice di aspettarlo fuori e di dargli una lezione.

Al che, l’inappuntabile gentiluomo di Berna, su altri argomenti completamente intriso di calma paradisiaca, risponderà all’istante con un furioso ronzio meccanico, assai peggiore e più intimidatorio per il vagabondo di qualunque imprecazione, e difenderà appassionatamente il potere e la grandiosità della Svizzera con un lungo, terrificante whrrrrr.

5 agosto

Ho voglia di parlare con qualcuno. Devo essere migliorata.

6 agosto

Neppure le persone più malridotte, in preda alla più ostinata infelicità, potrebbero resistere all’infinito alla contagiosa beatitudine di questo posto. So che fuori di qui le sventure, al solito, non mancano: crudeltà; persone che si rendono infelici a vicenda senza motivo; il loro amore gettato via o spaventato a morte; l’orrendo tradimento della fiducia, che è poi la sventura peggiore in assoluto. Se mi sporgessi dal mio giardino a terrazza vedrei questi ben noti orrori strisciare giù a valle, cozzare tra loro e ruzzolare a terra in uno spaventoso groviglio. Ma, se non altro, al momento laggiù non c’è anche il mio personale contributo alla sventura generale. L’ho portato quassù con me, l’ho trascinato fin qui, non perché volessi, ma perché mi ha seguito. Spero però che arriverà il giorno in cui riuscirò a farne un bel fagotto, a portarlo in cima a qualche rupe arida, dove mai più metterò piede, e ad abbandonarlo lassù dicendo: «Addio. Ora siamo due entità separate. Ho tagliato il cordone ombelicale. Addio, vecchia infelicità. Benvenuta, nuova vita».

Non posso credere che questo non accadrà. Non posso credere che scenderò a valle uguale a com’ero quando sono salita quassù. Quanto meno sarò più leggera, e più sana dentro. Oh, come vorrei tornare a essere più sana! Ben ventilata, inondata dal sole, non tutta buia, con l’aria resa irrespirabile dai troppi cupi ricordi.

7 agosto

Lo sento, sto migliorando. Ora ogni mattina, quando mi sveglio e vedo la chiazza di luce sulla parete di fronte al letto, promessa di un’altra splendida giornata, il mio cuore prega ardentemente che il mio personale sconforto non finisca per funestare tale benedizione. E mi pare che ciascuno di questi ultimi giorni sia stato un po’ meno funestato del precedente. Neppure una macchiolina, per esempio, ha sbavato questo pomeriggio. Mi sono sentita come se finalmente mi fossi messa a sedere ben dritta e avessi cominciato ad accorgermi di ciò che mi sta intorno. E la prima cosa che ho voglia di fare, il primo modo in cui desidero mettere a profitto l’aver svoltato l’angolo, è parlare.

Che cosa da donne. Eppure amo parlare. Sì, decisamente da donne. Beh, mi piace anche ascoltare. Soprattutto, però, mi piace ascoltare gli uomini. Altra cosa molto femminile. Beh, del resto sono una donna, ed è quindi naturale che sia femminile; e poi gli uomini sembrano dire cose più interessanti. Mi piace sentire parlare anche le donne, ma non troppo a lungo, e non altrettanto spesso. No, decisamente non altrettanto spesso. Non saprei spiegare la ragione di questa mia riluttanza, se non che di solito le donne, nel parlare, sembrano dimenticarsi il sale. E hanno la tendenza a dilungarsi; a volte anche per un bel pezzo dopo che hai cominciato a desiderare che la smettano.

Una delle ultime persone a stare qui con me nel 1914, subito prima dell’arrivo della spensierata combriccola vacanziera di quegli ultimi giorni, fu una donna dalle molte doti – le trop est l’ennemi du bien – la quale, data appunto l’abbondanza di doti e dovendo dar loro libero sfogo, cominciò a parlare alla stazione giù a valle, dove andai a prenderla e, con mio crescente stupore e disappunto, considerato che anch’io avrei voluto dire qualcosa, non smise (tranne quando la notte l’avvolgeva in un beato silenzio) se non dieci giorni dopo, quando per misericordia della provvidenza le andò una briciola di traverso, e si vide costretta a tacere.

Oh, con quale slancio mi infilai allora nella conversazione, dicendo tutto ciò che era possibile dire nel breve istante che le ci volle per riprendersi! Ma la mia voce, rauca per il disuso, aveva pronunciato a malapena tre frasi – frasette di miserrima brevità – che lei già si era ripresa e, puntando gli occhi impazienti e pieni di biasimo su di me disse: «Parlate sempre così tanto?».

Lo trovai davvero ingiusto.

8 agosto

Guarda un po’ cosa mi aveva scritto Henry James. Sissignore, proprio a me! Non riesco ancora a capacitarmi di questo fiore all’occhiello. Anzi, direi che mi ero persino dimenticata di avere un occhiello in cui infilare un fiore, tanto smisurata è stata la mia prostrazione da che mi trovai qui l’ultima volta.

Nel modo bizzarro, quasi fiabesco, in cui continuo a imbattermi in frammenti del passato, di anni fa, come se appartenessero al presente, questa mattina ho rinvenuto la sua lettera in una stanza in cui mi sono ritrovata a vagare dopo colazione. È l’unica stanza al piano terra oltre al soggiorno; spesso mi ci rifugiavo lontano dagli altri spensierati occupanti della casa così da poter aprire e rispondere alla corrispondenza in un luogo in cui il loro allegro chiacchiericcio non mi distraesse troppo; e lì, sul tavolo, intatti e tenuti meravigliosamente puliti da Antoine, c’erano tutti i giornali e le cianfrusaglie di cinque anni fa, esattamente dove li avevo lasciati. C’era persino del cioccolato, che evidentemente avevo cominciato a smangiucchiare, e alcune monetine, e una manciata di sigarette, e sì, anche una scatola di fiammiferi. Era tutto lì, spolverato alla perfezione, tutto come doveva essere stato l’ultima volta in cui mi sono seduta al tavolo. Se non fosse stato per il silenzio, il silenzio totale e soleggiato della casa, avrei certo creduto di aver dormito e aver fatto un brutto sogno, e che da quando avevo sbocconcellato il cioccolato e scritto con queste stesse penne non fossero passati cinque anni ma solo una notte di sonno agitato.

Affascinata e avvinta, mi sono seduta al tavolo e ho ripreso a smangiucchiare il cioccolato. Era buono, fatto con gli ingredienti buoni e, a quanto pare, durevoli di quei tempi. E mentre lo sbocconcellavo, ho passato in rassegna i giornali impilati, sotto i quali ho trovato la lettera di Henry James.

La tenevo sul tavolo a portata di mano perché riceverla mi aveva fatto talmente tanto piacere da volerla rileggere spesso e da voler anche, oserei dire, mostrarla di tanto in tanto agli amici per suscitarne l’invidia; l’avevo ricevuta nel Natale 1913, mesi prima di lasciare l’Inghilterra. Rileggerla ha suscitato in me un certo stupore per il fatto che io, proprio io, sia stata la destinataria di tale missiva. La cosa non può che lasciarmi sopraffatta; mi sono incagliata sugli scogli, e non posso credere che il relitto cadente che sono ora possa essere stato un tempo una barca pronta a prendere il largo, con le piccole vele gonfie della gentilezza e dell’affetto di un uomo strordinario quale Henry James.

Eccola; da parte mia il copiarla e l’aggrapparmi ai suoi deliziosi complimenti non è più vanitoso di quanto non sia per una donna un tempo avvenente e ora sfiorita parlare della sua passata bellezza:

21, Carlyle Mansions, Cheyne Walk, S.W.

29 dicembre 1913

Cara …

Lasciatemi dire quanto abbia apprezzato la vostra deliziosa lettera, bella, affabile e generosa, e che non c’è una sola delle sue dolci parole che non mi abbia arrecato il più sublime piacere. Voi colmate la misura, e come potrei mai spiegarvi quanto io ami la misura colma? Soddisfate il mio insaziabile appetito non con un quarto o con mezzo staio, ma con un’incredibile quantità di grani d’oro, pigiati insieme al punto da spillar fuori e spargersi per ogni dove. Li raccolgo e li rosicchio uno a uno. Vi assicuro, mia cara signora, la vostra lettera è un affascinantissimo, roseo fiore di lettera, giuntomi direttamente dal vostro incombente ammasso di neve. Che voi riusciate a coltivare simili fiori in tali condizioni – oltre a coltivarne con diligenza ed eleganza tanti altri delle più diverse e deliziose varietà – ha come unica spiegazione, naturalmente, che la vostra mente sia un giardino lussureggiante. Siete voi a doverlo vieppiù abitare, com’è logico, insieme ai vostri altri campi di esercizio, così grandiosi, se mi permettete, ma così spietati. Ebbene, avete suscitato in me un bagordo di orgoglio e di gioia, a cui, vi assicuro, mi sono completamente abbandonato; tanto più che qui i bagordi delle festività sono stati così lungi dall’appassionarmi che fino all’arrivo delle vostre ammalianti parole mi sentivo come appollaiato sopra una vetta di solitaria tenebra. Una vetta solitaria sia dal punto di vista sociale che dei sensi, molto simile a una di quelle che si ammirano, suppongo, dalle vostre finestre. Ma ora posso dire che anch’io ho avuto il mio Natale. Resto pertanto il vostro devoto, fedele e mai dimentico, vecchio Henry James.

Chi non sarebbe orgoglioso di ricevere una lettera simile? È stato meraviglioso ritrovarla, meraviglioso come il mento mi si sia sporto all’infuori, come la schiena mi si sia raddrizzata per qualche istante dopo averla letta. E ho riso, oltretutto; non oso immaginare con quale disinvolta esuberanza devo averlo investito! «Al punto di spillar fuori e spargersi per ogni dove». Non fatico a crederlo. Stavo leggendo o rileggendo qualcosa di suo, immagino, e il piacere della lettura aveva annullato in me qualunque sobrietà d’espressione; in quella condizione di instabilità emotiva e focoso apprezzamento dovevo avere afferrato la penna più vicina.

Con quanto calore e affetto riconoscente viene da pensare a Henry James. Difficile immaginare una persona più matura di lui per saggezza, cortesia e arguzia; capace di grande affetto e generosità nell’amicizia. E la sua conversazione, la sua meravigliosa conversazione, ancora più meravigliosa dei suoi libri! Se solo io fossi stato un Boswell! Una sera, dopo cena, in un momento di umore ardito, gli chiesi se mi avrebbe preso come suo Boswell; un devotissimo Boswell la cui incondizionata ammirazione avrebbe forse potuto sopperire ai titoli di studio. Gli dissi – in quell’occasione il mio frivolo coraggio non fu più grande della sua pazienza – che mi sarei travestita da uomo; o, meglio ancora, non essendo abbastanza robusta per passare per un uomo e con poche speranze di crescere tranne, almeno si spera, in grazia, che avrei impersonato un ragazzo un po’ cresciuto; che mi sarei alzata presto, sarei rimasta alzata fino a tardi, avrei imparato a stenografare e a fare qualunque altra cosa al mondo se solo avessi potuto trotterellargli dietro prendendo appunti. Che buffa coppia saremmo stata! E il giudizio che egli espresse in risposta all’incauto suggerimento, dopo averne considerato l’impudenza con un bel po’ di smorfie della bocca straordinariamente mobile, pronunciando il verdetto con una nota di simulata autodeprecazione intesa a chiudermi la bocca – cosa che ebbe effetto forse per un intero secondo – fu: «Cara signora, sarebbe come strizzare lentamente una grossa spugna asciutta».

9 agosto

Questa piccola casetta di legno, aggrappata al fianco della montagna mediante le ciglia – o per essere più precisi le sopracciglia, avendo enormi gronde il cui scopo è, d’inverno, impedirle di finire sepolta dalla neve, e che assomigliano davvero a sopracciglia sporgenti – è compressa in così poco spazio che il giardino lungo il ciglio del fianco roccioso è poco più grande di un fazzoletto. È una striscia d’erba amorevolmente accudita da Antoine, il cui orgoglio è mantenerla verde quando i prati tutt’attorno, sia più in quota che giù a valle, sono secchi e tinti di pallido d’oro, ragion per cui trascorre gran parte delle ore serali ad annaffiarla. Un muretto delimita il ciglio e impedisce eventuali cadute – se qualcuno cadesse non sarebbe simpatico per chi cammina giù a valle, millesettecento metri più sotto – e lungo la base del muretto corre una stretta bordura ospitante i soli fiori che riescono a tollerarci.

Non ce ne sono molti: i delphinium, alcune viole, qualche garofano e parecchi iris color porpora. Quando sono arrivata, gli iris avevano appena terminato la fioritura, ma a giudicare dall’assembramento di steli dovevano essere stati un gran bello spettacolo. È rimasto un unico fiore, squisito, vellutato e riscaldato dal sole, da baciare – cosa che faccio con diligenza, perché bisogna pur baciare qualcosa – e con quel celestiale profumo di miele che è il profumo stesso dell’estate.

Nel giardino non c’è altro. Messo sulla carta non sembra granché, ma dovresti vederlo. Ah, sì, stavo per dimenticarmene. Dietro l’angolo, si aggrappano su per il muretto, che all’inizio della primavera protegge la casa dalle valanghe, dei rampicanti cremisi, brillanti contro l’intenso azzurro del cielo. Lo so, dei rampicanti cremisi non si direbbero nulla di speciale, però dovresti vederli. È il colore del cielo a renderli così strabilianti. Sì. E stavo anche per dimenticarmi i gigli regalati dalla maman di Antoine. Sono vicini alla porta di casa, e in quel punto c’è anche una piccola aiuola di lavanda, al momento in piena fioritura. Per tutto il giorno, sulle spighe sta miracolosamente posato qualcosa rassomigliante a un piccolo angelo radioso, ma che fugge via verso il sole ogniqualvolta mi avvicino: una farfalla bianca. Dev’essere stato Antoine a piantare la lavanda, perché prima non c’era. Non voglio chiedergli il motivo per cui l’ha fatto; non sopporterei di sentirmi spiegare che quell’aiuola di assoluta bellezza è un remède per qualche orrendo malanno.

Se sapessi dipingere mi metterei seduta e passerei tutto il giorno a farlo; ma non ne sono capace, dunque cerco di affidare alla carta ciò che vedo. La cosa mi dà piacere. Non so perché, ma riesce a farmi sentire meno sola. Non lo farei, credo, se non fossi sola. Probabilmente sfinirei me stessa e i miei ospiti a furia di indicare bellezza.

Rispetto a ciò che si intende normalmente per giardino, le minuscole dimensioni e la scarsità di assortimento floreale rendono patetico questo mio fazzoletto di terra. I proprietari di giardini inglesi, con le loro immense bordure di erbacee e l’accorto avvicendamento di varietà di fiori, probabilmente lo disprezzerebbero. Che lo disprezzino pure. Io lo adoro. E se fosse ancor più piccino, se si riducesse a un’unica pianta con sopra un unico fiore, forse non farebbe altro che incantarmi ancor più, perché in tal caso mi concentrerei su quell’unica bellezza, senza lasciarmi distrarre dalla sensazione che qui sempre mi coglie, ovvero che mentre guardo da una parte mi perdo ciò che accade dall’altra. Hai presente le bestie dell’Apocalisse, piene di occhi davanti e dietro? Ecco, vorrei anch’io essere stata costruita in base allo stesso principio di abbondanza.

Eppure quasi nessuno vorrebbe avere un giardino qui, dove Dio fa così tanto. Da questo punto di vista è come l’Italia: una vecchia cassetta di legno piena di viole o un vaso di gigli messo in un qualunque punto, su un davanzale, o ai piedi di una parete, è sufficiente, e va a comporsi all’istante con la meraviglia già presente: la luce, i colori, la forma dei monti. Insomma, dove Dio fa tutto per te, bastano un paio di metri sistemati a tuo piacimento per affermare la tua indipendenza, per mostrare la doverosa determinazione a fare qualcosa di testa tua.

10 agosto

Non so se quassù sia più bello la mattina, quando il calore si deposita a valle sotto forma di delicata bruma, e i rilievi montuosi, uno dietro l’altro, diventano sempre più evanescenti fino a scomparire alla vista, stemperandosi in lontananza in tenui sfumature di violetti e di grigi, oppure di notte, quando guardo oltre il ciglio del giardino a terrazza e vedo le luci a valle baluginare come se si riflettessero nell’acqua.

Ora mi sembra di vedere per la prima volta. Vero, anche prima avevo tutto questo davanti agli occhi, lo percepivo e me ne beavo, ma allora si intrecciava ad altre cose, era solo una parte delle molte felicità di cui quei giorni traboccavano, felicità che reclamavano la mia attenzione e i miei pensieri. Vero, li reclamavano in modo meraviglioso, intriso di speranza, però mi distoglievano parecchio da quello che, in mancanza di una parola più adeguata (una parola più adeguata: ma cosa dico!) non posso che definire Dio. Adesso speranza e meraviglia, insieme alle altre gioie, alle aspettative e alla spensierata fiducia nel futuro sono svanite, ma le ferite che hanno lasciato, i terribili punti dolenti, incominciano a svanire anch’essi. Ora vedo la bellezza con una nuova sensibilità, con un nuovo stupore, come chi, dopo lunghi e brutti sogni, un mattino si svegli e scopra che il delirio è passato, e poltrisce a letto in una condizione di felice e beata riconoscenza, di straordinario, minuzioso apprezzamento per le cose care e meravigliose, le comuni cose della vita: il sole che batte sul copriletto, i profumi del giardino che entrano dalla finestra, la fragranza del caffè preparato per colazione… oh, che gioia, che pura gioia pensare che per questa volta non si è morti, e non si è neppure in punto di morte, dopo tutto, ma anzi si sta guarendo, si vivrà, presto si starà bene e si potrà tornare dagli amici, da coloro che ti vogliono ancora bene…

11 agosto

Oggi ricorre la festa di un santo patrono. Siamo in una parte cattolica della Svizzera, dove ci sono molte vacanze perché ci sono molti santi. Non passa quasi settimana senza che vi sia qualche santo da commemorare; spesso poi ve ne sono addirittura due, a volte tre. Mi accorgo quando tocca a un altro santo perché le campane del paesino vicino cominciano a suonare e si ripetono ogni due ore. Non appena sentono i rintocchi, i contadini smettono di lavorare e i protestanti, gente laboriosa e non gravata da santi, vanno avanti da soli.

In passato la moglie di Antoine era cattolica, ma il sagace Antoine, che non lo è, prevedendo i molti giorni in cui lei avrebbe potuto – se lui non fosse stato carino con lei, o per meglio dire se lei si fosse messa in testa che lui non era stato carino con lei (le paturnie delle mogli, aveva sentito dire, erano virulente e ricorrenti) – far passare per devozione la propria ripicca e rifiutarsi di cucinargli la cena, l’ha fatta convertire al protestantesimo prima del matrimonio. Cosa cui lei si è assoggettata; consapevole, così mi ha detto, di accaparrarsi in tal modo un bon mari qui valait bien ça. Fu così che in un colpo solo Antoine si è assicurato i pasti serali dell’anno e si è sbarazzato del parentado della moglie. Questo, infatti, composto soprattutto da zie, essendo morti entrambi i genitori di lei, se ne è naturalmente avuto a male, e ha tagliato i ponti con gli Antoine. Chi ci è riuscito mi riferisce che tagliare i ponti con i parenti è cosa di grande soddisfazione. Ecco perché ora Antoine vive in quella beata libertà e dignità che sembra esclusivo appannaggio di coloro i cui parenti sono arrabbiati, e oltretutto non ha preti che gli ronzano attorno. Antoine è un uomo molto intelligente.

Durante la mia assenza ha fatto altre cose intelligenti. Ecco un esempio.

I primi tempi in cui venivo qui, due o tre anni prima della guerra, era mio desiderio tenere il posto sgombro dagli odori di fattoria. «Non voglio mucche» dissi.

«C’est bien» rispose Antoine.

«Né polli».

«C’est bien» rispose Antoine.

«E neppure maiali».

«C’est bien» rispose Antoine.

«Surtout» ribadii, poiché mi parve di scorgere nel suo sguardo una sorta di personale rimpianto per i maiali, «pas de porcs».

«C’est bien» rispose Antoine, mentre quella sua espressione svaniva.

Fino ad allora, infatti, buona parte della mia vita era stata pesantemente infestata dai maiali; e per quanto fossero maiali superiori – allevati con tutte le premure, alloggiati e nutriti molto meglio dei contadini del posto – nei giorni in cui il vento soffiava dal punto in cui si trovavano loro verso il punto in cui ci trovavamo noi, per quanto li si tenesse puliti e arieggiati, venivamo investiti da inconfondibili, mefitiche folate di puzza di maiale. Folate che eclissavano i gigli. Che sovrastavano le rose. Nei giorni senza vento, poi, ne udivamo gli strilli, e la quiete di molte serate estive veniva mandata in frantumi dai loro grugniti. Vi erano maialini in gran quantità, dato che purtroppo in quella parte del paese non era tradizione mangiare maialini da latte – un modo comodo e gradevole per metterli a tacere – ed essi strillavano in modo orribile; semplicemente perché erano felici e soddisfatti, immagino, trattandosi di maiali coccolati e senza un motivo al mondo per strillare se non di gioia.

Ricordando tutto questo, decisi che almeno quassù ci saremmo mantenuti scevri dai maiali. E anche dalle mucche; e dai polli. Perché non ricordavo fin troppo bene ciò che mucche e galline mi avevano combinato? Troppe volte le speranze di un intero anno in giardino erano state distrutte da un’unica vacca sbadata e vagabonda; e per quanto avessimo fatto miracoli nel sistemare una rete protettiva e nel nasconderla con dei rampicanti, prima o poi una combriccola di galline concupiscenti, capeggiate da un grosso gallo prepotente, riusciva a entrare e a estirpare i crochi proprio all’inizio della primavera, quando, al termine di un inverno infinito, essi paiono le cose più preziose e importanti al mondo.

Ecco perché avevo tenuto questo posto scrupolosamente sgombro dalle varie bestie. Compravo uova e latte dai contadini, e non mangiavamo salsicce, così i bulbi degli iris rimanevano interrati, e gli unici odori nell’aria erano d’estate quelli di miele e fieno, e d’inverno quello ineffabile, puro e freddo di ciò che, sempre per mancanza di un parola più adeguata, posso soltanto definire come Dio. Poi però c’è stata la guerra, e il nostro precipitoso rientro in Inghilterra; e invece di tornare qui per Natale come programmato non siamo più tornati. Un anno, un altro ancora; un Natale, un altro ancora; e nessuno tornava. Immagino che alla fine Antoine abbia cominciato a pensare che non sarebbe mai più tornato nessuno. Non saprei dire in quale preciso momento egli abbia cominciato ad allungare le antenne in direzione dei maiali, ma è chiaro che a un certo punto deve aver pensato che gli fosse consentito considerare le mie istruzioni anteguerra ormai prive di validità, e si è attorniato di un adeguato assortimento di animali da cortile. Presumo abbia raggiunto questo stadio piuttosto presto poiché, essendosi preso una moglie piccola e rotondetta era determinato, da uomo saggio qual è, a mantenerla tale. Ed essendo inoltre la patrone – il termine locale per designare me – assente, e dunque impossibile da molestare con la presenza di animali da cortile, aveva evitato di farla inquietare mettendola al corrente.

Che soluzione semplice. E intelligente.

Nelle sue lettere mensili non era mai comparsa la parola maiale, mucca o gallina. Scriveva piacevolmente del tempo: c’était magnifique, oppure c’était bien triste, secondo la stagione. Scriveva dei prigionieri di guerra francesi e belgi malati, internati in luoghi disseminati qua e là sui monti che erano un tempo i punti di ritrovo delle feste organizzate da Lunn. Scriveva in tono ammirato dell’utilità e della buona condotta del cane da guardia, una bestia splendida, più grossa di me ma battezzata con un nome da cagnolino da grembo, Mou-Mou. Con dovizia di dettagli descriveva oggetti di scarso interesse quali i baffi del gatto: favoris superbes qui poussent toujours, malgré ces maigres de guerre; e malgrado a volte esprimesse un lieve disappunto per il comportamento dello stomaco di M.me Antoine, qui lui fait beaucoup d’ennuis et parait mal resister aux grands froids, immancabilmente terminava in toni rassicuranti: Pour la maison tout va bien. Madame peut être entièrement tranquille.

Insomma, neppure una parola sugli animali da cortile.

Per cui in Inghilterra c’era Madame entièrement tranquille riguardo alla sua casetta, e ben grata di esserlo: se infatti fosse accaduto qualsiasi cosa a essa, o agli Antoine, le sarebbe stato impossibile intervenire in alcun modo. Bloccata in Inghilterra dall’insormontabile barriera della guerra, se la casa avesse preso fuoco, lei non avrebbe potuto far altro che torcersi le mani; e se lo stomaco di M.me Antoine si fosse arreso del tutto, al punto da obbligare lei e Antoine ad abbandonare il posto di lavoro per correre in pianura dai dottori, lei non avrebbe potuto far altro che restarsene seduta a piangere. Quelle lettere rassicuranti erano state un conforto per cinque anni: Madame peut être entièrement tranquille. Con quanta dolcezza le parole risuonavano, un mese dopo l’altro, in orecchie altrimenti molestate e tormentate!

Sono dovute passare quasi due settimane prima di accorgermi della colazione. Una colazione in effetti squisita. Latte in quantità, e ogni giorno un bricchetto di panna. E dell’incredibile burro. Incredibile non solo perchè freschissimo, ma per il semplice fatto di esserci. In Inghilterra mi avevano detto che qui non avrei trovato burro, che neppure setacciando la Svizzera da un capo all’altro ne avrei trovato un solo etto. Ebbene, invece eccolo lì; fresco di giornata, e in quantità curiosamente abbondante.

Afflitta com’ero da torpore mentale, credo che, di tutte le cose di cui ero circondata, sia stato del burro che mi sono accorta per primo. E la mia intelligenza in fase di risveglio, dopo un periodo di false partenze e ricadute, finalmente una mattina è andata a sbattere contro la certezza che dietro al burro doveva esserci una mucca.

Conclusione cui, in teoria, avrei già dovuto arrivare tramite ragionamento, a quel punto. Ma ciò che ha cominciato a rendermi orgogliosa di me, a farmi pensare che le evidenze di Paley avessero sposato Sherlock Holmes e io fossi il fulgido pegno del loro amore, è stato quando mi sono spinta ancora più in là, senza peraltro muovermi dalla sedia, e per puro ragionamento deduttivo ho capito che la mucca doveva essere molto vicina al burro, altrimenti sarebbe stato impossibile produrne di fresco ogni giorno; talmente vicina che in quel momento stava senz’altro pascolando sul pezzetto di terra di mia proprietà; e che perciò, stando così le cose, l’inevitabile conclusione logica è che anche la mucca doveva essere di mia proprietà.

Dopodiché i miei pensieri hanno preso a saltellare intorno al tavolo della colazione con una certa agilità. Mi sono ricordata che ogni mattina c’era stato un uovo, e che in occasione degli altri pasti non sono mai mancati i dolci a base di uova. Prima della guerra quassù era quasi impossibile procurarsi delle uova; chiaro, quindi, che possedevo anche delle galline. E il miele; ormai sentivo che non mi avrebbe sorpreso neppure la scoperta di possedere delle api, perché questo era vero miele, non uno di quegli intrugli dei negozi di Londra. E le fragole: ogni mattina sulla tavola c’è una grande foglia di cavolo ricolma di fragole, vere fragole coltivate, la cui produzione, a valle, è terminata da un pezzo; e sono piante che mai i contadini si sognerebbero di coltivare su in montagna. Inutile dire che ho annoverato anch’esse tra le mie proprietà celate in qualche angolino fuori mano. L’unico elemento cui non sono riuscita ad arrivare attraverso il ragionamento deduttivo è stato il maiale. Al riguardo il coraggio di Antoine è venuto meno. L’ammonimento da me ripetuto, Surtout pas de porc, dev’essergli riecheggiato nelle orecchie con troppa perentorietà.

Che incredibile dimostrazione di intelligenza. Sì, perché ci vuole intelligenza per disubbidire agli ordini in modo coscienzioso e al momento giusto. E io, in tutti questi anni, totalmente inconsapevole, e di conseguenza neppure minimamente preoccupata!

Proprio in quel momento Antoine, annaffiatoio alla mano, si trovava ad attraversare il giardinetto.

«Antoine» l’ho chiamato.

«Madame» mi ha risposto lui, fermandosi e togliendosi il berretto.

«Questo uovo…» ho cominciato indicando il guscio; l’ho detto in francese, ma preferisco non mettere per iscritto il mio francese.

«Ah… madame a vu les poules».

«Questo burro…»

«Ah… madame a visité la vache».

«E il maiale...?» ho chiesto titubante. «C’è anche un maiale?»

«Si madame veut descendre a la cave…»

«Non dirmi che tieni un maiale in cantina!» ho esclamato.

«Comme jambon» ha risposto Antoine calmo e tranquillo, senza traccia di emozione.

Di lì a poco un’orgogliosa M.me Antoine, i cui sentimenti sono meno invisibili di quelli del marito, mi mostrava, appeso a una serie di ganci affissi al soffitto della cantina, ciò che un tempo era stato un maiale. Svariati maiali; per quanto lei ne parlasse come se non ce ne fosse mai stato più d’uno. Chissà, forse ce n’era stato davvero soltanto uno, ma in tal caso doveva avere moltissime zampe.

«Un porc centipède» ho commentato pensosa fissando la foresta di prosciutti.

Lei è scivolata sul ghiaccio sottile del mio commento, lanciandosi in una garrula descrizione di come, appena firmato l’armistizio, lei e Antoine si fossero gettati all’istante sul maiale uccidendolo – sempre maiale, al singolare – aspettandosi, dopo il felice evento, l’arrivo di Madame da un momento all’altro, ben consapevoli che un porc vivant pourrait déranger madame, mais que mort il ne fait rien a personne que de plaisir. E ha sollevato lo sguardo a sua volta, uno sguardo pieno di affetto e orgoglio.

A questo punto non mi è rimasto altro da fare che regolare tutte queste pendenze con un garbato, riconoscente pagamento. Cosa che ho fatto oggi stesso, quando Antoine mi ha presentato il conto accompagnato da complessi calcoli e deduzioni dei costi di latte, burro e uova che lui e M.me Antoine avrebbero altrimenti dovuto acquistare negli scorsi anni.

Non ho guardato troppo da vicino quanto mi è venuto a costare il maiale, essendo il suo prezzo, mentre il mio occhio vi si posava sopra fugace, chiaramente il prezzo di qualcosa di plurale; ho preferito non indugiare. Da sempre io e Antoine ci comportiamo, tra noi, da gentiluomini.

12 agosto

Mi chiedo perché scrivo tutto questo. Sarà perché, a fine giornata, mi pare di chiacchierare con un amico e di raccontare, a lui che è interessato e ama ascoltare, tutto ciò che ho fatto? Credo di sì. Ma anche perché voglio fermare sulla carta questi giorni strani a mano a mano che trascorrono, tanto sono straordinariamente diversi da qualunque altro io abbia mai vissuto prima. Voglio tenerli per un attimo tra le mani e guardarli bene prima di lasciarli andare via per sempre. Allora, forse tra molti anni, quando avrò quasi dimenticato cosa mi ha portato quassù e non mi interesserà più nulla, se non ridere – ridere con tutta la tenerezza di una vecchia signora saggia di fronte ai malintesi, agli errori e ai fallimenti che mi hanno condotta così vicina al naufragio, per quanto sotto sotto fossero pieni di amore – allora aprirò questo quaderno e mi metterò a leggere; citerò il salmo che parla di attraversare la valle di lacrime, presumo, e ne sarò piacevolmente intrattenuta.

13 agosto

Se si volge il viso a ovest e si procede ininterrottamente lungo il fianco della montagna, stando ben attenti a non inerpicarsi né a scendere, e prendendo di conseguenza le cose come vengono, e talvolta dovendo attraversarle – torrenti fragorosi, forre improvvise, alberi giganteschi abbattuti da tormente ormai dimenticate e che ora sbarrano il cammino; insomma, tutto ciò che le montagne tengono nella manica in attesa del tuo arrivo – finalmente, dopo due ore di marcia – una marcia che a causa delle continue asperità del terreno sarebbe stancante, se non fosse per il modo strano in cui qui l’aria riesce a trasportarti, a darti l’impressione di essere sospeso – si approda sul ciglio di un ripido pendio dove sorge un boschetto di larici. Il percorso per arrivarci è quanto mai variegato: comprende minacciosi macigni e tetre foreste; vividi spiazzi di prato trapunto di fiori, scampoli di campi di fieno, gruppetti di alberi da frutto, ampi spazi inondati di sole con all’apparenza niente a frapporsi tra te e le grandi montagne innevate, stretti sentieri dove non filtra quasi luce sufficiente a vedere, il profumo di resina e di aghi d’abete caldi, e tutti gli odori che fanno palpitare il cuore del viandante: l’odore dell’erba tagliata, l’odore dei tronchi segati di fresco, l’odore dell’acqua che cade sulle rocce, l’odore fangoso laddove i contadini hanno parzialmente deviato il corso di un torrente mediante canali poco profondi collegati ai loro campi, l’odore del miele, odori caldi, odori freddi.

Arrivati ai larici ci si siede.

Questi alberi sorgono all’estremità di una lunga propaggine da cui la montagna si è in qualche modo separata; è qui sotto che consumo il mio pasto consistente in un uovo sodo, pane e burro, e che resto seduta, piena di stupore, ad ammirare il panorama. Che è meraviglioso: inquadra una catena montuosa diversa da quella che ammiro dal mio giardino a terrazza; e la vallata, con il suo sottile filo d’argento serpeggiante che so essere un grande fiume impetuoso, è disseminata di strane colline isolate e scoscese che sembrano avere ognuna una luce e un colore proprio, senza alcuna relazione con la luce e il colore degli altri rilievi.

La prima volta che capitai in questo posto la costruzione del mio chalet era già avviata, ed era ormai troppo tardi per correre dall’architetto e dirgli: non potrei mai vivere altrove, solo laggiù. Per un istante, l’incredibile bellezza che avevo scoperto, mi fece sperare che le case svizzere potessero essere come quelle norvegesi di cui si legge nei libri, che si smontano e ricostruiscono altrove quando al proprietario è venuto a noia un posto. Ricordo di avere coperto in tutta fretta il percorso accidentato e, concitata e accaldata, di avere chiesto all’uomo se anche la mia era così. Lui rispose di no, e mi parve piuttosto sconcertato, ammesso che un uomo imperturbabile come lui sia in grado di provare sconcerto, dal mio supporre che il suo operato potesse essere disfatto.

«Questa casa» disse, indicando il cumulo apparentemente senza speranza che alla fine è diventato uno chalet tanto incantevole, «è costruita per i posteri. Sorge sulla roccia e godrà della stessa solidità».

E quando gli raccontai del posto che avevo scoperto, quel posto meraviglioso, più bello di un sogno e cento volte più bello di quello su cui avevamo cominciato a costruire, lui, nativo della zona e a conoscenza di ogni centimetro quadrato di terreno nel raggio di trenta chilometri, mi disse che era così isolato dai centri abitati, e così inaccessibile, che al massimo poteva essere idoneo per delle capre.

«Solo delle capre potrebbero abitare laggiù, e io non lavoro per le capre» concluse sottolineando l’irremovibilità delle sue parole con inequivocabili gesti delle mani.

Fu così che tutta la mia eccitazione si raffreddò di fronte all’inevitabile; in effetti sono ben contenta che la casa si trovi dove si trova e non dove, per alcune forsennate ore, avevo desiderato si trovasse; adesso, infatti, quando mi sento dell’umore giusto, posso andare in quell’altro posto e rimirarlo ogni volta con rinnovato stupore, mentre se l’avessi eletto a mia dimora mi ci sarei abituata già da un pezzo; analogamente a quanto accaduto con altri entusiasmi, trasformati dal possesso in compiacimento. Per dirla in altre parole, questa casa è come una moglie amabile da cui è bello tornare per i pasti e un buon sonno, mentre l’altra è un amore segreto, a cui far visita solamente nel vortice di un’estasi.

Oggi ho preso un uovo sodo, un po’ di pane e burro e sono andata a far visita al mio amore segreto.

Non che l’uovo sodo inviti particolarmente all’estasi, ma costituisce un’ottima base per raggiungerla. L’uovo sodo è fonte di grande virtù. Sazia senza appesantire. Soddisfa senza infiammare. Talvolta, dopo giorni in cui mi nutro di pane e frutta, una fetta di carne poco cotta infilata tra due fette di pane e mangiata senza quasi rendermene conto, mi va dritta alla testa proprio come il vino: ho visto le montagne doppie, triple, e anche malferme in un modo quanto mai imprevisto e destabilizzante, oltre che orribilmente nocivo per l’estasi. Ragion per cui ora diffido dei panini e mi rifiuto di portarli con me; prendo soltanto un uovo sodo. Oh, e delle albicocche, quando riesco a procurarmene. Stavo per dimenticarmi le albicocche. Oggi ne ho prese una manciata: grosse, di un meraviglioso colore rosa dorato, maturate nei villaggi soleggiati giù a valle, un luogo particolarmente adatto alle albicocche. E, affinché ogni parte di me avesse il suo sostentamento, ho portato anche Serious Call to a Devout and Holy Life di Law.

Tra i libri elogiati dal dottor Johnson è il più sottile che ho in biblioteca, ecco il perché della scelta. Ne ho diversi altri elogiati dal dr Johnson, quali ad esempio Prayer di Ogdon, ma la loro mole, anche qualora il contenuto fosse attraente, ne rende sconsigliabile il trasporto. Mentre soppesavo pensosa Law nella mano e ne constatavo la sottigliezza, mi è tornato in mente che, riguardo a Serious Call, Johnson disse di averlo cominciato aspettandosi un libro noioso, forse anche di cui ridere, «mentre invece in Law ho trovato un vero osso duro». Lo sarebbe di certo stato anche per me, se solo avessi cercato di misurarmi con lui, ma non era questa la mia intenzione. Volevo soltanto un libro sottile ma che contenesse abbastanza svago per darmi sostentamento. Nell’aprire Serious Call mi sono subito lasciata assorbire dalla storia di Octavius, un uomo colto ed estroso. Sentendo di non avere ormai molto più tempo da vivere, dice agli amici – i quali pendono dalle sue labbra in attesa di perle di saggezza – di aver smesso, in questa sua fase di decadimento, di frequentare le osterie e di essere diventato molto scrupoloso riguardo ciò che intende bere: ha deciso perciò di rifornire la propria cantina con una piccola quantità del vino migliore, a qualunque prezzo. Ma non appena finisce di esternare il suo proposito, «si sente male e viene affidato alle cure di un’infermiera, la quale si ritrovò a chiudergli gli occhi ancor prima della consegna dei nuovi vini».

L’effetto di tutto ciò su un tale di nome Eugenius è di farlo tornare a casa trasformato, determinato a dedicarsi interamente a Dio; poiché, dice Eugenius, «la saggezza e l’importanza della religione non mi hanno mai illuminato così profondamente come da quando sono stato testimone del modo misero e gretto in cui il dotto Octavius, a causa della mancanza di essa, ha dovuto lasciare questo mondo».

Ecco perché ho preso con me Law, e le sue pagine vivaci. La storia di Octavius non è che una delle tante; ci sono Matilda e le sue figlie infelici («La figlia maggiore visse finché poté sotto la ferrea disciplina» ma dopo i vent’anni scopre di non riuscirci più e muore, «le viscere danneggiate dalla pressione del busto a stecche»); Eusebia e le sue figlie felici, allevate così virtuosamente da avere la soddisfazione di morire vergini; Lepidus, stroncato mentre si veste per andare a una festa; l’ammirevole Miranda, i cui pasti sono appena sufficienti a darle la forza di sollevare occhi e mani al cielo, così che «finché non cambierà religione, non avrà mai occhi gonfi per il troppo cibo né si ritroverà ansante sotto il carico del proprio peso»; Mundamus, che se vede un libro di preghiere se ne tiene al largo; Classicus, che alla luce del sole e senza vergogna preferisce l’erudizione alla fede. Tutte queste pagine briose hanno allietato notevolmente le mie ore. Tuttavia alla fine del giorno, nel rincasare, ho avuto l’impressione che il dottor Johnson, per il quale nessuno ha più amore e meno rispetto di me, avrebbe dovuto trascorrere almeno qualcuno dei suoi anni giovanili, quando ancora poteva essere istradato alla ragione, con, diciamo, Voltaire.

Ora sto per andare a letto, con i piedi indolenziti ma felice, perché il picnic di oggi è stato una vera prova. Volevo sapere quanti progressi ho compiuto nel saper affrontare i ricordi. Quando mi sono messa in cammino ho fatto finta di volermene andare per pura considerazione nei confronti dei domestici, perché almeno per un giorno M.me Antoine non dovesse cucinarmi i pasti. Dentro di me, però, sapevo bene che, piena di trepidazione e di dubbi segreti, stavo per affrontare una prova. Il percorso per arrivare al boschetto di larici pullula di ricordi felici. Sapevo che li avrei trovati ad attendermi in schiere radiose ai piedi di ogni cespuglio, a ogni svolta. Mi dicevo che se non fossero stati tanto radiosi non me ne sarei crucciata troppo. Già, se il cammino fosse stato punteggiato dai ricordi di litigi, sarebbe stato assai più leggero. In tal caso, però, non mi sarebbe venuta affatto voglia di tornare in quei luoghi, perché il mio spirito si ritrae rabbrividendo da dove c’è stata sgarbatezza. È questo il bagaglio felice della mia casetta: mai le sue mura hanno udito una parola poco gentile o addirittura villana, né un pianto. Tutte le altre case in cui ho vissuto hanno avuto i loro dispiaceri, e almeno una di ben peggio; questa, invece, questa mia casetta piena di pace sospesa in alto, in pieno sole e così vicina al paradiso, non ha su di sé neppure una macchia; non vi è mai avvenuto nulla che non fosse inteso con gentilezza. Non voglio considerare la tristezza che ho trascinato quassù con me tre settimane fa come un’interruzione di quel bagaglio felice, come una macchia sulla sua serenità, ma solo come una nuvola passeggera che per un momento oscura il sole. Per quanto abbattuta e infelice fossi, infatti, non ho portato con me rabbia né risentimento. In casa mia, la sgarbatezza non è ancora mai entrata.

Ora sto per andare a letto contenta perché ho superato felicemente la prova. Per tutto il lungo percorso fino ai larici, per l’altrettanto lungo percorso verso casa e per tutto il tempo che ho trascorso là seduta non ho provato che gratitudine, semplice gratitudine per i bei tempi passati. Provavo questo sentimento mio malgrado. Mi veniva naturale come respirare. Non mi sentivo sola. Tutti coloro che ho amato e che non rivedrò mai più erano lì con me. E per tutto il giorno, per tutto quel meraviglioso giorno così colmo di bellezza, sono riuscita a dimenticare i dispiaceri del momento e la dolente infelicità che mi hanno portata sui miei monti come ultima speranza.

14 agosto

Oggi è il mio compleanno, così ho pensato di riscattarmi facendo qualcosa di utile.

È il primo compleanno che passo da sola, senza qualcuno a farmi gli auguri. Mi piace ricevere gli auguri: è come avere qualcuno che ti saluta alla partenza verso un nuovo anno tra sorrisi e parole d’incoraggiamento. Mentre mi vestivo mi sono detta che forse Antoine se ne sarebbe ricordato. Dopotutto negli anni in cui ero qui, festeggiavamo sempre il mio compleanno; non può non aver notato il crescendo di eccitazione, le ghirlande di fiori già all’ora di colazione, la giornata fittamente punteggiata di doni. Forse si sarebbe ricordato, e mi avrebbe augurato ogni bene. E magari, se si fosse ricordato, l’avrebbe detto alla moglie, e anche lei mi avrebbe augurato ogni bene. Non so cos’avrei dato, oggi, perché qualcuno mi augurasse ogni bene.

Ma Antoine, ammesso l’abbia mai saputo, se ne è ovviamente dimenticato. Quando sono scesa, lui era affaccendato con gli iris; e nonostante, prima di colazione, sia uscita e mi sia soffermata lì attorno lui mi ha ignorata; semplicemente, ha continuato a badare agli iris. Immagino quindi di avere assunto un’aria un po’ abbattuta, perché avevo davvero paura di sentirmi sola.

Poi, riscuotendomi dall’autocommiserazione, mi sono detta che quello era il momento giusto per un po’ di lavoro manuale. Mentre bevevo il caffè, ho deciso di festeggiare dando a entrambi gli Antoine un po’ di libertà e sobbarcandomi io i lavori di casa. Chi aveva stabilito che il mio compleanno non potesse essere celebrato con il divertimento di qualcun altro? Che importanza aveva chi era a divertirsi purché qualcuno lo facesse? Gli Antoine si sarebbero presi una vacanza, e io avrei lavorato. Ecco come avrei protetto i miei pensieri da ricordi capaci di mordere. E io, imboccando la facile strada della sudorazione, avrei trovato la pace.

Ma Antoine non voleva saperne di prendersi una vacanza, e mi ha dato parecchio filo da torcere. Non sorprendendosi mai di nulla, naturalmente non si è sorpreso neppure quando l’ho informato della vacanza, però mi ha risposto, con il tono monocorde che infonde alla sua conversazione una calma straordinaria, che era il giorno del taglio del prato.

Gli ho detto allora che l’avrei tagliato io; che sapevo tutto dei prati; che di fatto ero cresciuta tra i prati; anzi, nella smania di anticipare le sue obiezioni, e di indurlo ad andarsene, credo di avergli persino detto di esserci nata, su un prato.

Lui ha obiettato che Madame si sarebbe accaldata troppo, per com’era il tempo; io ho risposto che non era possibile accaldarsi lavorando a un fazzoletto di terra come il nostro prato. E gli ho spiegato anche che mi piace sentirmi accaldata – di nuovo in preda alla smania – che avevo voglia di sentirmi accaldata e che, quando sono accaldata, sono felice. «J’aime beaucoup» ho affermato nel mio brutto francese, troppo presa dalla foga per fermarmi a scegliere una parola più appropriata, «la sueur».

Presumo avrei dovuto dire la transpiration, essendo l’altra parola da me usata ritenuta poco, se non per nulla, adatta alle labbra di una signora, per quanto mi sia convinta che sarebbe stato ancor meglio non toccare affatto l’argomento. Non posso dirlo per certo, a causa dell’indecifrabile espressione di Antoine; ma benché, nell’udire il mio discorso, questa non fosse variata neppure di un impercettibile battito di ciglia, mi è stato in qualche modo fatto intendere che in francese una persona non suda, o se lo fa è meglio non parlarne. Non se quella persona è una signora. Non se quella persona è Madame. Non, volendo salire ancora più in alto nella scala degli attributi che misurano la mia autostima, se quella persona è il dignitoso soggetto definito la patrone.

Trovo difficile essere dignitosa. Quando ci provo finisco con l’eccedere. La mia dignità è sempre in difetto o in eccesso, più spesso in difetto. Tuttavia Antoine, con grande gentilezza e con la sua calma imperturbabile, mi aiuta ad assumere la posizione che ha stabilito debba spettarmi. Non l’ho mai visto sorridere. Credo non possa farlo senza che gli si aprano delle crepe nel volto, tanto è levigata la vetrosità del suo contegno.

Una volta, prima della guerra – tutti i miei gesti allegri e sconvenienti datano prima della guerra, mentre dopo non ho fatto altro che comportarmi in modo esemplare ed essere infelice – non mi comportai con dignità. Diedi una festa in maschera, e su consiglio dei miei amici – solo ora mi rendo conto che fu un cattivo consiglio – acconsentii a travestirmi da diavolo. Io, la patrone. Io, Madame. D’accordo, ero solo un diavoletto, appartenente alle schiere minori, quello che i tedeschi chiamerebbero un Hausteufelchen, ma pur sempre un diavolo. E nel correre di sopra senza preavviso per recuperare la coda che avevo dimenticato, vidi in fondo al lungo corridoio Antoine occupato a riordinare gli scarponi usati nella giornata.

Si fece da parte e attese. Io non potevo tornare indietro, o avrei dato l’impressione di star facendo qualcosa di disdicevole. Per cui avanzai.

Il corridoio era lungo e ben illuminato. Dovevo percorrerlo per intero, con Antoine in fondo ritto in attesa. Provai ad avanzare con dignità. Provai a sperare che non mi riconoscesse. Provai a convincermi che non mi avrebbe riconosciuto. Come avrebbe potuto? Ero tutta nera, tranne che per una parrucca di fiamme arancioni. Ma una volta arrivata alle porte in fondo, fu quella della mia stanza che Antoine spalancò, e io dovetti superarlo dopo che si fu spostato di lato con aria grave. E, particolare bizzarro, il ricordo che più mi disturba è l’umiliazione e la vergogna che provai per non avere la coda.

«C’est que j’ai oublié ma queue…» mi ritrovai a balbettare rivolgendogli un disperato sguardo di scuse.

Ma neppure allora Antoine si mostrò sorpreso.

Oh, beh, dov’ero rimasta? Ah, sì, alla transpiration. Antoine se l’è lasciata scivolare di dosso senza batter ciglio, come ho già detto, e ha portato la mia attenzione sulle galline, che andavano nutrite, e sulla mucca, che occorreva mungere. Forse avrebbe potuto occuparsi lui della mucca al ritorno, ma le galline…

Antoine cominciava ad ammorbidirsi.

Allora gli ho detto in tutta fretta che se avesse preparato il pastone per le galline, io gliel’avrei dato. Quanto alla mucca, perché non concederle un po’ di pausa? Perché, una volta tanto, non evitare di derubarla di ciò che in fondo le apparteneva? E per tagliar corto, sempre più determinata a che il mio compleanno non passasse senza che qualcuno ricevesse un regalo, sono corsa al piano di sopra e sono tornata giù con una banconota da venti franchi che ho ficcato in mano ad Antoine, pronunciando nel frattempo tutto d’un fiato una frase lunga e garrula che ho cominciato con «Voilà» ma che non sono riuscita a mantenere allo stesso livello elevato, in cui spiegavo che i venti franchi erano per le spese sue e di M.me Antoine giù a valle. Ho aggiunto che speravo si sarebbero divertiti e li ho invitati a portare i miei più cari saluti alla maman di lui, alla quale avrebbero fatto senz’altro una breve visita nel corso di quella che confidavo sarebbe stata una giornata lunga, affollata e piacevole.

Alla fine se ne sono andati, ma con riluttanza. Senza più neppure un briciolo di dignità, sono rimasta in piedi sul muretto del terrazzo a salutarli con la mano mentre svoltavano l’angolo in fondo al sentiero.

«Mille félicitations!» ho esclamato, desiderosa che nel giorno del mio compleanno qualcuno avesse l’augurio di ogni felicità.

“Se proprio devo trascorrere un compleanno solitario, che sia davvero solitario, allora” mi sono detta con piglio torvo mentre, completamente vinti dalla mia volontà, gli Antoine scomparivano lasciandomi sola, in balia della casa.

Ho stabilito di cominciare la mia giornata di lavoro rifacendomi il letto, e con piglio risoluto mi sono diretta al piano superiore.

Ma M.me Antoine l’aveva già fatto, di certo mentre discutevo con Antoine. Ho deciso allora di sparecchiare la tavola della colazione, e sempre più risoluta sono tornata da basso.

Ma M.me Antoine aveva già provveduto anche a quello, di sicuro mentre discutevo con Antoine.

Ebbene, perché allora non occuparmi delle patate in vista dell’ora di pranzo? Metterle sul fuoco, qualcosa del genere? Ero sicura che metter su le patate mi avrebbe fatto sudare. Non vedevo l’ora di dare inizio al processo di transpiration, nell’eventualità che se fossi rimasta fredda e inattiva troppo a lungo avrei notato il silenzio e il vuoto che regnavano…

Mi sono affrettata in cucina, un piccolo locale accogliente di piastrelle bianche e tegami in rame, e lì ho trovato due pentole che sobbollivano sulla stufa: in una c’erano delle patate, nell’altra pezzi di ciò che si sarebbe detto pollo. E, già pronto su un vassoio, il resto di ciò che mi occorreva per pranzare. L’unica cosa che rimaneva da fare era mangiare.

Frustrata, ma ancora determinata, mi sono messa in cerca del tosaerba. Non poteva essere lontano; sulla stretta cengia rocciosa che mi appartiene niente può esserlo.

Mou-Mou, accovacciato all’ombra sul retro della casa, mi osservava con interesse mentre cercavo di aprire quella specie di porte esterne che avevano tutta l’aria di tenere rinchiuso un tosaerba.

Erano tutte chiuse a chiave.

Il maestoso Mou-Mou, che imitando Antoine pare anch’egli non stupirsi mai di nulla, per quanto non ostenti la stessa assenza di curiosità, dopo la prima porta ha cominciato a ciondolarmi intorno mentre tentavo con le altre. Mi seguiva, benché legato, grazie al congegno escogitato da Antoine per permettergli di muoversi e allo stesso tempo difendere la casa dai ladri: ha fissato una sbarra di ferro che corre in orizzontale lungo tutto il muro posteriore della casa, e vi ha infilato un largo anello cui è attaccata la catena di Mou-Mou. Il cane può dunque correre avanti e indietro a suo piacere; mentre un ladro, una volta notata la cuccia all’estremità est della parete e Mou-Mou incatenato lì davanti, si troverebbe comunque, nell’accingersi a entrare in casa dal lato ovest apparentemente indifeso, il cane a fronteggiarlo. Un rumore di catene che scivolano, ed ecco apparire Mou-Mou. Un deterrente non da poco. Di un’imprevedibilità raggelante, per il sangue del ladro, capace di paralizzare ogni volontà di peccare. Il tutto orchestrato da Antoine, che non lascia mai nulla al caso. Ladri, qui, non se ne sono mai visti, ma anche in questo caso vale quanto detto riguardo a eventuali ferite in suppurazione: «Il ne faut pas attendre qu’on les a pour se procurer le remède».

Così Mou-Mou mi ha seguito mentre mi spostavo avanti e indietro lungo il lato posteriore della casa provando ad aprire le varie porte. Credo abbia finito col pensare che si trattasse di un gioco, perché ogni volta che una porta si rifiutava di aprirsi e io mi fermavo un attimo in preda alla frustrazione lui emetteva un doppio latrato, proprio come dopo i salmi uno dice Amen.

Antoine aveva messo sotto chiave il tosaerba. Pur di scongiurare il taglio del prato sotto il sole da parte di Madame aveva preferito rimandare il taglio all’indomani. Ho apprezzato la gentilezza delle sue intenzioni, ma ugualmente mi ha molto indispettito che sia riuscito a frustrare i miei piani. E nel giorno del mio compleanno, per di più. A frustrare il piano cui più tenevo, quello incentrato sulla transpiration. Non mi sembrava una pretesa eccessiva per il mio compleanno, quando un tempo non dovevo neppure alzare un dito per ritrovarmi imperlata in ben altri modi.

Indecisa, me ne stavo immobile fissando l’ordinato cortile in cerca di qualcosa con cui affaccendarmi; Mou-Mou, seduto ritto sull’ampio posteriore, mi osservava. È talmente grosso che in quella posizione le nostre teste si trovavano allo stesso livello. Approfittando della situazione, ha sollevato la lingua – che era già fuori, penzoloni per il caldo – e poiché non mi muovevo né dicevo nulla, mi ha dato una gran leccata in faccia. Allora me ne sono andata, perché mi sono proprio infastidita. E poi mi era venuta in mente una cosa.

Nella bordura lungo il muretto dovevano esserci delle erbacce. Le aiuole sono sempre invase da erbacce, ed estirparle è un’impresa faticosa. Inoltre per farlo servono solo le proprie dieci dita, e stavolta Antoine non avrebbe potuto impedirmi di usarle. Ecco, dunque, cos’avrei fatto: mi sarei chinata e le avrei estirpate, dimenticando così la casetta vuota, riecheggiante e illuminata dal sole…

Tuttavia la laboriosità di Antoine è così indefessa, e forse anche così sterile il suolo, che dopo mezz’ora di ricerca avevo trovato solo tre infestanti, ma persino di quelle non ero del tutto certa, e dunque non sapevo se avrei finito per estirpare qualche prezioso esemplare di flora alpina volutamente messo a dimora e tenuto in alta considerazione da Antoine. Sapevo solo che ciò che avevo strappato non erano iris né delphinium né tanto meno viole, ragion per cui ho dedotto doversi trattare di infestanti. A ogni buon conto, ho estirpato tre esemplari alieni e li ho disposti in una fila ordinata, da mostrare ad Antoine. Poi mi sono seduta per riposare.

La ricerca delle infestanti mi aveva fatto accaldare, ma naturalmente non sarebbe durato. E mancavano secoli all’ora in cui dar da mangiare alle galline. Mi sono seduta sul muretto del giardino chiedendomi che altro potessi fare. Un vero peccato che gli Antoine fossero tanto efficienti. A volte anche la virtù può essere esagerata. Un po’ meno zelo, un filo di accorta trascuratezza da parte loro, e io mi sarei ritrovata qualcosa di utile cui dedicarmi.

Il posto era straordinariamente silenzioso. Non si udiva suono. Neppure Mou-Mou, apatico per il caldo, si muoveva sul retro. La luce abbacinante batteva sulla facciata di legno verniciato dello chalet e sulle persiane sbarrate delle stanze vuote. Stanze ormai chiuse da cinque anni. Il sole cocente di cinque estati, e quello non meno cocente di cinque inverni, ha costellato di bolle le persiane. Il colore, un tempo un azzurro vivace e gagliardo, è adesso un grigio smorto. Sono rimasta seduta a osservarle. E se all’improvviso si fossero aperte dall’interno, e le persone che un tempo le abitavano si fossero affacciate?

Ho sentito un leggero brivido corrermi giù per la schiena.

Beh, non ne sarei stata forse felice? Non sarebbero stati i più cari fantasmi al mondo? La stanza d’angolo, per esempio, al momento completamente sigillata, era quella dove dormiva mio fratello quando veniva qui in vacanza. Forse che non mi sarebbe piaciuto vederlo guardar fuori verso di me? Arrivava sempre di umore spensierato; un buonumore motivato dall’essersi lasciato alle spalle il lavoro per un po’ e dalla prospettiva di alcune deliziose settimane in cui non fare altro che stare lungo disteso al sole. Il suo primo gesto, quando entrava in camera, era precipitarsi sul balconcino per controllare se il panorama della vallata verso est, con la catena montuosa innevata sullo sfondo, era ancora celestiale come se lo ricordava; lo rivedo mentre con la testa buttata all’indietro inalava lunghe boccate di aria pura, felice di respirarla, esultante di gioia per essere tornato qui, e mi esortava a raggiungerlo di corsa perché il panorama non poteva mai essere stato così bello, né mai più lo sarebbe stato in futuro, come in quell’istante.

Gli volevo un gran bene. Credo che nessuno abbia mai avuto un tesoro di fratello come il mio. Era svelto ad apprezzare e comprendere, lento all’ira, lucido di mente e buono di cuore. Naturalmente è stato ucciso. Quelli come lui finiscono sempre uccisi, se capitano in una guerra. Si arruolò volontario già all’inizio del conflitto e, malgrado la sua gracilità fosse riuscita a tenerlo al sicuro per un bel pezzo, alla fine fu spazzato via. Accadde nel marzo 1918. Morì nella prima settimana del mese. Gli volevo tanto, tantissimo bene, e lui ne voleva me. Mi chiamava sempre con dolci nomignoli, e mi perdonava qualunque intemperanza.

E nella stanza accanto alla sua… oh, beh, non ho intenzione di riesumare tutti i fantasmi. Di alcuni non riuscirei comunque a scrivere, mi farebbe troppo male. Da quando sono tornata non sono mai entrata in nessuna delle camere chiuse. Non lo sopporterei. Qui all’aperto riesco ad abbracciare una visione più ampia, a recarmi senza troppa sofferenza nei luoghi dei ricordi; so però che quelle stanze sono state scrupolosamente conservate da Antoine com’erano, proprio come ho trovato le mie. Non oso neppure lasciarvi indugiare i pensieri. Per smettere di fissare quelle persiane mi sono costretta ad alzarmi dal muretto, ad allontanarmi: all’improvviso, infatti, mi ero ritrovata sull’orlo dell’orrendo baratro in cui così di sovente temo di piombare; un enorme baratro vuoto, freddo e nero fatto di orrore, di consapevolezza.

Ecco perché scrivo tutto questo, per non pensare…

Ora di andare a letto.

Devo fermare sulla carta cos’è successo dopo. A quest’ora dovrei già essere a letto, ma devo assolutamente raccontare come si è concluso il mio compleanno.

Ebbene, ero qui seduta, e tentavo di scrivere per proteggermi dalla paura strisciante del silenzio tutt’intorno e di quelle camere chiuse e vuote al piano di sopra, quando Mou-Mou si è messo ad abbaiare. All’improvviso, e con furia, il lungo stridore metallico prodotto dalla catena mi segnalò che il cane si stava precipitando, lungo la parete, dall’altro lato della casa.

D’un tratto i miei pensieri si sono fatti lucidi. Sono scattata in piedi. Ecco un ladro, finalmente. Mi sono lanciata oltre l’angolo per accoglierlo. Qualunque cosa sarebbe stata meglio di quelle persiane chiuse, di quel silenzio torrido. La mia mente rinsavita prese a funzionare con tale alacrità che tra il momento in cui mi sono lanciata e quello in cui sono approdata sull’altro lato della casa ho avuto il tempo di stabilire che chiunque fosse, ladro o meno, avremmo fatto amicizia. Se fosse stato davvero un ladro, avrei optato per l’approccio del vescovo nei confronti di Jean Valjean: per salvarlo dal peccato di furto gli fa dono degli oggetti che il poveretto aveva tentato di rubare, approccio che forse, nel caso di un ladro pronto a reagire con violenza a un tentativo di sventare il suo piano, avrebbe salvato anche me. Inoltre, ladro o meno, l’avrei invitato a pranzo; l’avrei costretto a entrare in casa e a condividere il mio pollo di compleanno.

Ma quando ho svoltato l’angolo, sulla sommità della massicciata ho trovato – attente a stare fuori portata da Mou-Mou che strattonava la catena, gli occhi fissi su di lui con pazienza più che timidezza e tenendosi le gonne nere bene all’indietro nel caso con un balzo più lungo il cane fosse riuscito a raggiungerle – due donne. Straniere, non del posto. Forse vedove. In ogni caso persone colpite da un lutto.

Le ho pregate immediatamente di entrare. Oh, quale sollievo e conforto è stato il vederle! Due esseri umani chiaramente rispettabili, persone in carne e ossa, non ladri, non fantasmi, e neppure appartenenti al sesso che siamo soliti associare al saccheggio; soltanto due donne rispettabili, vive, complete in ogni loro dettaglio, al punto che ognuna aveva un ombrello. Avrebbero potuto benissimo trovarsi sul marciapiede di Oxford Street, in attesa di fermare l’omnibus con un cenno, tanto erano perfette, tanto pronte, con il loro abbigliamento, ad affrontare il mondo. Stivaletti coi bottoni, ombrelli… è da quando sono qui che non vedo un ombrello. Di solito quando si parte per una camminata in montagna ci si porta un robusto bastone con il puntale di ferro; ma dopo tutto perché non portarsi un ombrello? Così se piove lo si può aprire, e anche se il sole è insopportabile, e poi anche l’ombrello ha una punta metallica che si può conficcare nel terreno non appena ci si sente scivolare giù da un precipizio.

«Bonjour» ho detto con entusiasmo fissando le sagome nere stagliate contro il cielo. «Je vous prie de venir me voir».

Mi hanno guardato con meraviglia, sempre badando a tenere la gonna a distanza di sicurezza dal cane tutto affannato a saltare.

Forse erano italiane. So che di solito le donne italiane si vestono di nero.

Conosco qualche parola di italiano, so cosa si dice qualora si desideri invitare qualcuno a entrare in casa tua. Ci ho provato.

«Prego, venite avanti» ho detto col fiato sospeso.

Ma non si sono mosse. Sono rimaste dov’erano, a fissarmi.

Non potevano essere inglesi, ho pensato, perché sotto la gonna nera intravedevo una sottoveste di cotone bianca con l’orlo ricamato, del tipo che in Inghilterra non si porta da cinquant’anni e che al momento rimane in uso soltanto in aree remote e religiose del resto del mondo, come ad esempio le più ferventi porzioni della Germania luterana. Che fossero davvero tedesche? Il pensiero mi ha raggelato. Come avrei potuto invitare due tedesche in casa mia? Come avrei potuto sedermi a tavola con persone i cui parenti maschi avevano di recente ucciso i miei? O che forse erano stati uccisi dai miei, a giudicare dai vestiti neri? Comunque sia, tra di noi era corso del sangue. D’altro canto, come avrei potuto non invitarle? Se non l’avessi fatto sarei andata incontro a ore e ore di intollerabile silenzio e solitudine, finché la sera avrebbe riportato indietro i due Antoine, che mai avrei dovuto lasciare andare. E proprio nel giorno del mio compleanno, per giunta.

So qualche parola di tedesco – meraviglioso il numero di lingue di cui io sembri sapere qualche parola – così ho provato a buttarne lì una tra un latrato l’altro di Mou-Mou.

«Deutsch?» ho chiesto loro.

Le due non hanno risposto.

«Basta, non parlo altre lingue» ho annunciato allora in tono disperato.

L’unica cosa che mi restava da fare era provare a comunicare col linguaggio dei gesti, che un po’ conosco; poi però mi sono detta che se non erano né sorde né mute forse non l’avrebbero gradito. Mi sono limitata perciò a guardarle con espressione disperata, e ho allargato le braccia e incassato la testa tra le spalle come fa M.me Antoine quando vuole farmi capire che il burro è finito.

Al che la più anziana delle due – nessuna delle due era giovane, ma una meno dell’altra – mi ha informato in un pacato inglese che si erano perse. Mi ha chiesto se potevo dar loro delle indicazioni e anche dire al cane di non fare tutto quel baccano, altrimenti non avrebbero potuto sentirle. «È una bella bestia» disse, «ma vi saremmo grate se la faceste tacere».

La più giovane è rimasta in silenzio, però mi ha sorriso. Era di bell’aspetto, arrossata e graziosamente imperlata di sudore per la camminata e la calura. L’altra era più rocciosa: considerata la temperatura e la ripidezza del pendio che entrambe avevano appena finito di scalare, oppure di scendere, aveva un aspetto innaturalmente asciutto.

Ho afferrato Mou-Mou per il collare e l’ho riportato alla cuccia.

«Sta’ qui e fa’ il bravo» gli ho detto, pur sapendo che non capisce una parola di inglese. «Non vi farà niente» ho rassicurato poi le due estranee nel tornare da loro.

«Ah» ha esclamato la più grande delle due, aggiungendo: «anch’io dicevo sempre così del mio cane».

Non si erano ancora mosse di un passo, e si tenevano le gonne. La più giovane mi sorrideva.

«Non volete scendere?» ho chiesto loro. «Non volete entrare in casa e riposarvi un attimo? Così potrò spiegarvi meglio la strada. Ecco, prendete quel sentiero, vi porterà dritte alla porta di casa».

«E lì troveremo anche il cane?» ha chiesto la maggiore.

«Oh, no. E comunque non preoccupatevi, non farebbe del male a una mosca».

«Ah» ha detto la più grande sbirciando con la coda dell’occhio Mou-Mou che le restituiva lo sguardo dalla cuccia, «anch’io dicevo sempre così del mio».

La più giovane mi sorrideva. Nessuna delle due accennava a muoversi.

«Vengo su io a prendervi» mi sono offerta, incamminandomi sul sentiero che collega il giardino al pendio.

Una volta constatato che effettivamente il sentiero le allontanava da Mou-Mou si sono decise a seguirmi.

Non appena si sono mosse, Mou-Mou si è messo a correre lungo la sbarra, producendosi in una serie di balzi e latrati.

«È il suo modo per farvi festa. Ha un carattere molto dolce e affettuoso».

«Ah» ha esclamato la più grande. «Anch’io dicevo sempre così…»

«Fate attenzione a quei gradini di pietra, ballano un po’» l’ho interrotta; e ho aiutato prima l’una e poi l’altra a superare l’ultimo tratto di terreno sconnesso fino alla terrazza.

Entrambe avevano le mani infilate in guanti neri di capretto. Nel sentire quei guanti caldi stringermi la mano mi persuadevo sempre più che quello che le due donne volevano era un omnibus che le portasse lungo Oxford Street.

Giunte sul terreno pianeggiante e fuori portata da Mou-Mou hanno preso a camminare con un certa aria di sussiego. Specialmente la più grande. La più giovane, pur facendone mostra, dava più che altro l’impressione di seguire un esempio piuttosto che essere così di suo. Forse erano parenti di un sindaco, mi sono detta. O di un decano. Essere parente di un sindaco fa probabilmente brillare di luce riflessa.

Erano state su in montagna, mi ha raccontato la più vecchia, alla ricerca di un luogo fresco in cui soggiornare, essendo il clima giù a valle insopportabile. Anni fa erano state in questa zona, e ricordavano una pensione nel paesino più alto; dopo una levataccia all’alba e un lungo cammino l’avevano raggiunta, ma solo per scoprire che era stata trasformata in un sanatorio per tubercolotici. Senza viveri per turisti di passaggio, e soprattutto senza alcun desiderio di offrirne. Se non fosse stato per me, ha detto mentre eravamo sedute sul lato in ombra della casa a bere limonata e a mangiare biscotti, se non fosse stato per me e per ciò che la donna ha descritto con ovvia gratitudine – non poteva certo immaginare la mia gioia nel vederle! – come la mia gentilezza, avrebbero dovuto affrontare la faticosa discesa a pancia vuota lungo strade sbagliate, considerato che si erano perse, per ritornare a valle. Non osava immaginare in quali condizioni sarebbero approdate in quel luogo torrido e invivibile. Stanche com’erano. Deluse, e terribilmente accaldate. Come si stava bene quassù. Un luogo delizioso. Che aria pura. E che panorama. E com’era stato piacevole e inaspettato imbattersi in una loro connazionale.

La più giovane sorrideva, a manifestare il suo assenso.

Erano all’estero da tanto tempo, ha proseguito la maggiore, e ormai erano stanche di stranieri, in netta prevalenza numerica. Nella loro pensione c’erano solo stranieri e mosche. Non è che lo chalet era per caso… no, certo, non poteva essere, però forse… – e qui nella sua voce è risuonata un’improvvisa nota di speranza – una pensione?

Io ho scosso la testa, mi sono messa a ridere e ho risposto di no. La più giovane mi ha sorriso.

Ah, no, certo, no, ha proseguito l’altra, mentre la voce le si spegneva di nuovo in gola. E immaginava che non sarei stata neppure in grado di informarla sull’esistenza di una pensione qui in zona dove poter soggiornare fintanto che fosse durato questo caldo, giusto? Giù a valle non girava neppure un filo d’aria. L’albergo migliore, dove si trovavano alcune stanze fresche, era oltre i loro mezzi, ragion per cui al momento soggiornavano in uno di quelli più piccoli, infestati dalle mosche. A quanto pareva quassù di mosche non ce n’erano. E che aria meravigliosa. Chissà che bel fresco c’era di notte. Giù a valle le notti erano estenuanti. Non si riusciva a dormire.

Le ho invitate a fermarsi a pranzo. Hanno accettato con gratitudine. Quando le ho condotte in camera mia perché si lavassero le mani, hanno sospirato di piacere nel trovarla così fresca e tranquilla. L’interno della casa è parso loro gradevolmente spazioso, più ampio – ha detto la maggiore, mentre la più giovane assentiva con un sorriso – di quanto non si sarebbero aspettate vedendone l’esterno. Sono andata a controllare come procedeva la cottura delle patate, lasciandole tra sospiri soddisfatti sul divano in soggiorno, i cappelli e i guanti neri posati su una sedia lì accanto, a guardare il panorama attraverso la porta d’ingresso aperta.

Di lì a poco abbiamo pranzato all’ombra davanti a casa; le due strane signore hanno continuato a mostrarsi oltremodo riconoscenti: la più anziana esprimendo la propria gratitudine a voce, la più giovane sorridendo per assentire. Ammesso fosse possibile preferirne una all’altra, visto con quale entusiasmo mi piacevano entrambe, devo dire che preferivo la più giovane perché sorrideva. Amo molto le persone sorridenti. Di solito il sorriso è indice di dolcezza e affabilità.

A fine pranzo, mentre sparecchiavo la tavola dopo aver rifiutato la loro cortese offerta di aiuto – si erano a quel punto rese conto che ero da sola in casa, situazione su cui non hanno fatto commenti malgrado dovessero essersene stupite – sono tornate dentro e si sono accomodate sul divano, i cui morbidi cuscini dovevano parer loro particolarmente attraenti; e quando sono tornata dopo aver raccolto le briciole e tolto la tovaglia le ho trovate entrambe addormentate, la maggiore con un fazzoletto sul viso.

Poverette. Com’erano stanche. E io ero ben lieta che potessero riposare e rinfrescarsi. Un sonnellino avrebbe fatto loro un gran bene.

Mi sono allontanata in punta di piedi con l’ultimo carico tra le braccia, e in cucina sono stata attenta a non fare rumore. Avendo ospiti a pranzo, non era stata mia intenzione lavare i piatti e riporre tutto quanto, bensì attardarmi a tavola a chiacchierare. Non parlo con nessuno da parecchio tempo, e vedermi due donne inglesi piombare così inaspettatamente dal cielo mi era parsa una benedizione, e un regalo di compleanno particolarmente gradito. Finora ero stata indaffarata, prima a dissetarle con della limonata, poi a sfamarle con il pranzo, e il tempo tra queste due attività se n’era andato tra le esternazioni di gratitudine della maggiore e i commenti sulla casa e su quelli che definiva gli esterni. Avevo dunque atteso con impazienza un’ora di vera conversazione dopo pranzo, prima che per loro arrivasse il momento di mettersi in cammino e cominciare la lunga discesa che le avrebbe riportate alla pensione, un’ora in cui – per quanto nessuna di noi fosse una brillante conversatrice, se ne sarebbe accorto chiunque – avremmo quantomeno potuto raccontarci qualcosa di divertente riguardo, che so, ai sindaci. È vero che io non ne conosco, benché conosca una persona il cui fratello ha sposato la sorella di un sindaco; ma nel caso in cui avessero tirato fuori dalla manica un sindaco, come sospettavo, da parte mia avrei potuto rilanciare con un decano. Forse non altrettanto appariscente, però decisamente più durevole. E poi avevo voglia di parlare. Sono stata zitta così a lungo che credo avrei potuto conversare di qualunque argomento.

Ebbene, dato che le poverette stavano facendo un riposino, intanto avrei rassettato la cucina, e una volta finito si sarebbero sentite ristorate e pronte per una piacevole mezz’ora di pettegolezzi.

Mentre rassettavo, di tanto in tanto andavo a sbirciare se si fossero svegliate, ma ogni volta il loro sonno sembrava casomai più profondo. La più giovane, col viso arrossato affondato nel cuscino, i capelli chiari un po’ spettinati, aveva una patetica aria inerme di fanciulla; la maggiore, discretamente velata dal fazzoletto, dormiva con più rigidità e determinazione e con minore abbandono. Poverette. Ero davvero lieta che quel sonnellino ridesse loro forza in vista della lunga e faticosa discesa a valle; di lì a poco, però, ho cominciato a desiderare che si svegliassero.

Ho terminato di rigovernare, e sono tornata in soggiorno. Le due dormivano da quasi mezz’ora. Mi sono aggirata titubante lì nei pressi. Poverette, dovevano essere distrutte, per dormire a quel modo. Avevano un’aria talmente indifesa che non mi sembrava bello stare lì a fissarle; allora ho preso un libro e ho cercato di leggere. Non riuscivo però a impedire al mio sguardo di continuare a superare la sommità del libro e dirigersi verso il divano, ove mi si ripresentava sempre la stessa scena di sonno profondo.

Dopo qualche istante, ho posato il libro e sono uscita in giardino, dove mi sono fermata un po’ a guardare il panorama. Sembrava anch’esso immerso nel torpore pomeridiano. Allora ho fatto il giro della casa e sono andata da Mou-Mou, per poi riaffacciarmi in soggiorno a dare un’occhiata alle mie ospiti. Tutto come prima. Ho preso le sigarette, questa volta senza badare a non fare troppo rumore, e sono uscita di nuovo per sedermi sul muretto di cinta in un punto dove potessi tenere d’occhio il divano e notare eventuali movimenti.

Non fumo mai, tranne quando sono annoiata, e poiché non mi annoio mai non fumo mai. Ma oggi pomeriggio era il tipo di frangente che non riesco a gestire, il tipo di situazione che non so come trattare, per cui la noia ha preso il sopravvento. Mi sono seduta sul muretto e ho fumato tre sigarette, mentre la pace sul divano rimaneva totale. Che fare? Cosa poteva fare una padrona di casa di fronte a due ospiti inesorabilmente addormentate? Svegliarle deliberatamente era impensabile. Eppure ero sicura – dormivano ormai da circa un’ora – che quando si fossero svegliate, educate com’erano, sarebbero inorridite nello scoprire di aver dormito. Inoltre il pomeriggio stava ormai passando. E le aspettava una lunga marcia. Se solo Mou-Mou si fosse svegliato e messo ad abbaiare… invece regnava il silenzio più totale. Il pomeriggio torrido soffocava le montagne in una quiete senz’aria.

Sono ritornata sul retro della casa e, fermandomi un istante dietro l’angolo così da agire in modo ancor più inaspettato, sono balzata all’improvviso davanti a Mou-Mou.

Ma, da cane intelligente qual è, non si è preso neppure il disturbo di aprire più di un occhio, e anche quell’unico è stato subito richiuso.

Oltraggiata, sono tornata a sedermi sul muretto e ho fumato un’altra sigaretta. La scena sul divano era sempre la stessa: un quadretto di pace perfetta. Oh, beh, poverette… ma io avevo voglia di parlare. E dopo tutto era il mio compleanno.

Finita la sigaretta sono rimasta per un istante a riflettere col viso tra le mani. Una persona dotata di tatto… ah, ma io ne sono priva; non ne ho neppure un briciolo, il che è stata la mia rovina nelle occasioni più importanti della vita. Beh, anche immaginando che fossi una persona di tatto, cosa avrei potuto fare? La risposta mi è subito balenata alla mente: andare a urtare involontariamente contro un tavolo.

Ecco. Mi sono alzata e mi sono diretta in soggiorno, dove ho urtato contro un tavolo, dapprima con una certa delicatezza, poi, non ottenendo risultati, con più determinazione.

La maggiore delle due, nascosta dietro il fazzoletto, ha continuato a emettere respiri profondi e regolari, ma con mia grande gioia la più giovane si è mossa e ha aperto gli occhi.

«Oh, spero di non avervi svegliato!» ho esclamato nel fare un entusiastico passo avanti in direzione del divano.

Lei mi ha guardato con espressione incerta, ed è ripiombata nel sonno.

Sono tornata in giardino e mi sono accesa un’altra sigaretta. Con questa facevano cinque. Non ho mai fumato tanto in un solo giorno. Mi sentivo molto dissoluta. E proprio nel giorno del mio compleanno. A sigaretta conclusa, le ombre sul prato suggerivano l’avvicinarsi dell’ora del tè. Forse era un po’ presto, ma l’acciottolio delle tazze avrebbe contribuito al risveglio delle ospiti, e mi pareva che un invito per il tè sarebbe stato un modo delicato e cortese per svegliarle.

Questa volta non ho attraversato il soggiorno in punta di piedi, ma ho camminato normalmente, e ho aperto la porta della cucina facendo un bel po’ di rumore. Mi sono voltata verso il divano per controllare il risultato. Tutto come prima.

Di lì a poco il tè era pronto, apparecchiato sulla tavola dove avevamo pranzato. Sono passata avanti e indietro nel soggiorno almeno sei volte, le ultime due portando oggetti che tintinnavano e che io incoraggiavo a tintinnare. Le due estranee sul divano dormivano come se nulla fosse.

Non mi restava che toccarle. Non avrei saputo cos’altro fare. Senonché a me non piace toccare gli ospiti; non durante il loro relax. Non l’ho mai fatto. Soprattutto quando non mi stanno guardando. E quando si tratta di estranei.

Mi sono avvicinata al divano con riluttanza e, incerta, mi ci sono fermata davanti. Poverette, dormivano entrambe come sassi. Sembrava un tale peccato interromperle. D’altro canto, dovevano già essersi riposate: dormivano profondamente ormai da due ore. E se non le avessi svegliate il tè si sarebbe raffreddato. Inoltre, se non si fossero incamminate al più presto, come avrebbero fatto a tornare a casa? Restava il fatto che non mi piace toccare gli ospiti. Specie se non li conosco bene…

Ma, era evidente, non c’era altro da fare, così mi sono chinata sulla più giovane – l’altra, con il fazzoletto sulla faccia, mi metteva troppa soggezione – e con una certa cautela le ho messo una mano sulla spalla.

Non è successo nulla.

Ci ho riprovato, questa volta con più enfasi.

Con mio grande imbarazzo, anziché aprire gli occhi la donna ha appoggiato affettuosamente la guancia sulla mia mano e ha mormorato qualcosa che, a sorpresa, è suonato come Siegfried.

So chi è Siegfried perché vado all’opera. Era un tedesco. E lo è tuttora, nella persona di Siegfried Wagner, e non è certo l’unico; una volta qualcuno mi disse che quando i tedeschi volevano abbandonarsi all’irriverenza nei confronti del Kaiser – ai tempi non era ancora un ex Kaiser – senza finire arrestati per lèse majesté, lo ingiuriavano apertamente a gran voce con il nome di Siegfried Meye, le cui iniziali, S.M., sono le stesse di Seine Majestät; con questo semplice stratagemma tutti avevano la possibilità di sfogarsi, e nessuno finiva male. Ecco perché, quando la mia ospite addormentata ha mormorato Siegfried, sono per forza di cose arrivata a dedurre che stava sognando un tedesco; e quando, proprio in quel mentre, mi ha posato la guancia sulla mano, non ho potuto fare a meno di concludere che stava sognando di lui in termini affettuosi. La cosa mi ha sbalordito.

Intrisa di patriottismo – il patriottismo andato accumulandosi nelle settimane trascorse lontana dall’Inghilterra – ho sentito immediatamente il dovere di svegliare questa signora inglese da un sogno che non le faceva onore. Lei stessa sarebbe stata la prima, non avevo dubbi, a deplorare un sogno del genere. Ho sfilato allora la mano da sotto la sua guancia – neppure per errore avrei mai permesso che la si scambiasse per la mano di un Siegfried – e, chinandomi, le ho pronunciato nell’orecchio a voce alta e scandendo bene le parole: «Venite a prendere il tè?»

Questo, alfine, l’ha destata. Si è tirata a sedere di sobbalzo, e per un attimo mi ha guardato stupita.

«Oh» ha detto con espressione confusa, «mi sono addormentata?»

«E io ne sono ben lieta» ho risposto sorridendole, poiché anche lei mi stava già sorridendo. «L’arrampicata di questa mattina avrebbe ucciso chiunque».

«Oh, sì, però che cosa orribile entrare in casa vostra e mettersi a dormire…» ha detto, alzandosi subito e rassettandosi i capelli.

Si è girata verso la compagna e per la seconda volta mi ha stupito togliendole il fazzoletto dal viso con un unico rapido movimento e dicendo esattamente ciò che di solito dice una madre quando gioca col proprio piccino: «Bau!». Quindi è tornata a voltarsi verso di me, mi ha sorriso e non ha detto altro, sapendo, immagino, che la più vecchia, destata con tanta maestria, si sarebbe sobbarcata lei tutto l’onore della conversazione; cosa che effettivamente ha fatto essendo, come temevo, sconvolta e inorridita dallo scoprire non solo di avere dormito, ma di averlo fatto per ben due ore.

Abbiamo preso il tè; e per tutto il tempo, mentre la maggiore parlava del fastidio che temeva di avermi arrecato e della vergogna che provava per essersi addormentata, nonché della gratitudine per quella che definiva un’ospitalità prolungata e paziente, io riflettevo sull’altra. Ogni volta che intercettava il mio sguardo assorto e indagatore mi sorrideva. Aveva occhi dolcissimi, grigi, gentili e intelligenti, e ogniqualvolta sorrideva comparivano piacevoli fossette. Mettendo a buon frutto il mio lato alla evidenze di Paley e Sherlock Holmes, ho dedotto che la più giovane era, o era stata, madre, questo per via della dimestichezza in cui aveva tolto il fazzoletto dal viso dell’altra e detto «Bau!»; che era vedova, o non vedeva il marito da tempo, per via dell’affetto con cui nel sonno aveva posato la guancia sulla mia mano; e che le piaceva la musica e andava spesso all’opera.

Dopo il tè, la più grande si è alzata con movimenti rigidi – aveva già camminato fin troppo, e chiaramente non era nelle condizioni di fare molta altra strada –, mi ha chiesto le indicazioni e ha annunciato che era ora di mettersi in cammino per tornare a valle.

A queste parole, la più giovane si è messa obbediente il cappello e ha subito aiutato l’altra a fissare il suo con gli spilloni. Erano le cinque: se non si fossero smarrite per la seconda volta sarebbero arrivate al loro albergo alle sette e mezza, appena prima della fine del table-d’hôte, ha detto la maggiore, un pasto funestato dalla presenza di numerose mosche. Se invece avessero sbagliato strada sarebbero arrivate ben più tardi, probabilmente col buio.

Le ho invitate a rimanere.

A rimanere? La maggiore, impegnata ad abbottonarsi gli aderenti guanti di capretto, ha detto che era molto gentile da parte mia, ma proprio non potevano trattenersi oltre. A causa del loro increscioso sonno si era già fatto fin troppo tardi.

«Intendo dire per la notte» ho detto; e ho proseguito spiegando che sarebbero state loro a fare una gentilezza a me, e che ciò premesso non avrebbero dovuto badare troppo se quell’invito poteva sembrare poco convenzionale. Se se ne fossero andate, infatti, sarei rimasta sveglia tutta la notte a figurarmele smarrite in qualche punto tra i precipizi, o persino precipitate in uno. Sarebbe stato di gran lunga preferibile scendere a valle in tutta calma alla luce del giorno; inoltre ero in grado di prestare loro tutto ciò di cui potevano aver bisogno, tra cui tutti gli spazzolini da denti nuovi di questo mondo. Perciò non solo le ho invitate, ma ho insistito, diventando sempre più entusiasta a mano a mano che il mio discorso acquistava slancio.

Per tutto il giorno, infatti, mentre la maggiore parlava e io l’ascoltavo, avevo provato un intimo disagio. Eccomi lì, una donna sola in una grande casa fatta per ospitare raduni familiari, mentre per mancanza di camere le due erano obbligate a morire di caldo giù a valle. Via via che le ascoltavo il mio disagio cresceva. Dopo un po’ ho cominciato a sentirmi in colpa. E infine, mentre le guardavo dormire esauste sul divano, in fondo al cuore mi sono sentita in qualche modo responsabile. Pur sapendo che non è saggio invitare estranei a casa propria.

Hanno accettato con gratitudine. Nel momento in cui nella sua mente si è fatto strada il pieno il significato che le mie parole volevano comunicare con tanta insistenza, la maggiore si è sfilata gli spilloni dal cappello e l’ha posato di nuovo sulla sedia; l’altra l’ha imitata, e mi ha sorriso.

Quando ho sentito i passi degli Antoine sul sentiero, sono corsa fuori per andare loro incontro. A quel punto le mie ospiti, con tanto di spazzolini nuovi, erano già salite nelle rispettive camere. Si erano ritirate molto presto, entrambe doloranti al punto di faticare a camminare. Fino a quel momento, i pochi istanti che ero riuscita a risparmiare dai frettolosi preparativi per offrire loro ogni comodità erano stati occupati, come nel resto della giornata, dalla gratitudine della maggiore. Non si era ancora presentata l’occasione di dedicarci a una vera chiacchierata.

«J’ai des visites» ho annunciato agli Antoine nel silenzio della sera.

Antoine non si è sorpreso. Si è limitato a un: «Ça sera comme autrefois» e ha cominciato a chiudere le persiane.

Invece io sì che sono sorpresa. Non riesco ad andare a dormire, tanto lo sono. Ed eccomi qui seduta a scrivere quando l’ora di andare a letto è passata da un pezzo. Chi avrebbe immaginato che una giornata cominciata in un tale vuoto sarebbe finita con due camere occupate, ciascuna con dentro una vedova? Sono vedove, me l’hanno detto loro: vedove che hanno perso il marito per cause naturali, niente a che vedere con la guerra. Si chiamano Mrs Barnes e Mrs Jewks… perlomeno mi pare sia questo il nome pronunciato dalla più giovane; non sono certa di averlo afferrato correttamente. Sono di Dulwich. Credo che la maggiore abbia nutrito un leggero timore dell’ultimo momento, forse perché, nel ritrovarsi in procinto di mettersi a letto in una casa estranea, appartenente a qualcuno che non conosceva per nulla, si è sovvenuta delle possibili conseguenze per il sindaco; l’ho capito dal suo commento in tono un po’ dubbioso, e dallo sguardo piuttosto diffidente posato su di me, sul fatto che la guerra avesse ormai abbattuto molte barriere, e oggigiorno la gente faceva cose che cinque anni fa non si sarebbe neppure lontanamente sognata di fare.

L’altra non ha detto nulla, però mi ha baciato. Ho sperato non mi stesse di nuovo scambiando per Siegfried.

15 agosto

Le mie ospiti sono ripartite, ma solo per andare a prendere il bagaglio e pagare il conto della pensione, poi torneranno qui e rimarranno con me finché il tempo non sarà un po’ rinfrescato. Ma torneranno domani, non oggi. Sono invischiate in qualche accordo con la pensione, che impedisce loro di partire senza preavviso.

A colazione Mrs Barnes si è presentata sgravata da qualsivoglia timore possa avere nutrito ieri sera, perché quando ho proposto loro di trascorrere qui con me questo periodo torrido ha accettato immediatamente. A furia di pensare a loro io non ero riuscita a dormire. Com’era possibile esentarmi dall’invitarle, di fronte al loro disagio e alla mia abbondanza di spazio? Verso mattina ho finalmente capito che non era possibile: le avrei invitate. Benché, memore dello sguardo di Mrs Barnes di ieri sera, non ero sicura avrebbe accettato. Credevo volesse prima sapere qualcosa di più sul mio conto, per via del modo cauto e circospetto in cui le donne… oh, vorrei tanto che le donne non dovessero essere sempre così caute; che, semplicemente, si andassero incontro sulla strada dell’amicizia! Per prima cosa, credevo volesse essere rassicurata sulle buone ragioni per cui io mi trovo qui da sola. Ma ahimè, non ci sono buone ragioni, soltanto cattive. Per fortuna però essere soli è in genere considerato rispettabile, in barba alle parole che ci riferisce Seneca di quel tale che, nel vedere un giovane camminare tutto solo, gli disse: «Guardatevi dalle compagnie dissolute».

Comunque sia, non penso che Mrs Barnes conosca Seneca. In ogni caso non ha avuto la minima esitazione. Ha subito accettato, e ha aggiunto che, date le circostanze, si sentiva in dovere di darmi qualche informazione sul loro conto.

Nel sentire questo ho subito rispolverato il mio decano per fargli incontrare il sindaco. Ma non sono riuscita a sapere granché, solo che sono sorelle; perché a quel punto, appena avevamo cominciato a parlare, è arrivata Mrs Jewks. Allontanatasi subito dopo colazione, è ricomparsa con tanto di cappello e guanti dicendo che era meglio incamminarsi prima che la temperatura salisse.

Così se ne sono andate, e quassù è stata una splendida giornata: piena di pace, di tranquillità, le montagne delicate come opali contro il cielo pomeridiano, e le ombre che si allungavano giù a valle.

Oggi, a differenza di ieri, non ho voglia di chiacchierare. Mi sento perfettamente soddisfatta di come stanno le cose: il sole, il silenzio, le carezze al buffo gattino bianco con la macchia nera attorno all’occhio sinistro che lo fa sembrare la moglie di qualcuno; la piacevole consapevolezza che le mie nuove amiche stanno per tornare.

Penso sia tale consapevolezza a rendere questo giorno ancor più prezioso. È l’ultimo – almeno per qualche tempo, forse per una settimana, a giudicare dal cielo abbacinante – di una serie di giorni che, adesso che stanno per finire, riconosco esser stati meravigliosi. Grazie alla scala formata da questi giorni, mi sono arrampicata lentamente verso l’alto lasciandomi alle spalle la tenebra che stagnava giù in fondo. È stato come trovare dei gradini sott’acqua mentre stavo per annegare, ed esser riuscita a salirli emergendo all’aria e alla luce. Ma ora che una buona parte di me è emersa all’aria e alla luce, nella speranza di non riscivolare sott’acqua, è arrivato il momento di scuotermi, di tornare a essere attiva, di dedicarmi a qualcosa di fruttuoso. E guarda un po’, proprio mentre mi dico questo, proprio mentre mi dico, ricorrendo a una metafora, che sono matura e pronta per essere colta, ecco che compaiono sulla scena Mrs Barnes e Mrs Jewks, come fossero le levatrici della Provvidenza.

Beh, questo sarà domani. Intanto c’è ancora l’oggi, e ognuna di queste ore tranquille sembra oltremodo preziosa. Mi chiedo cosa piaccia leggere alle mie nuove amiche. Forse… stavo per ipotizzare The Rosary; ma non voglio; e se proprio devo farlo perché non ipotizzare qualcosa di diverso da The Rosary? Perché, per esempio, non immaginare che a loro piaccia Eminent Victorians, e che una sera noi tre ci metteremo sedute e ci solleticheremo a vicenda leggendolo qua e là, agitandoci delicatamente sulla poltrona dal piacere? Viene facile immaginare questa così come qualunque altra cosa, e poiché non conosco ancora i gusti di queste signore, un’ipotesi vale l’altra.

Però non so bene. Stavo per dimenticarmi la sottogonna. Non posso credere che delle amiche di Mr Lytton Strachey portino quel tipo di sottogonna, per quanto eminentemente vittoriana essa sia; e poiché egli non può esserne stato, neanche a dirlo, testimone oculare – visto che ieri non era accanto a me alla base del declivio mentre loro, sulla sommità, si tenevano la gonna sollevata da terra – pur tuttavia ciò che una persona porta sotto l’abito sembra trapelare nel suo comportamento. Una volta, in America, quando un’ondata di caldo mi costrinse ad abbandonare la biancheria da anima immacolata e ad acquistare e indossare chiffon rosa, lo chiffon rosa trapelò all’istante attraverso tutti i miei abiti facendo capolino nel mio atteggiamento, che divenne curiosamente raffinato. Chiunque è in grado di indovinare il tipo di biancheria indossata da una donna semplicemente guardando come si comporta. Sono stata testimone di un caso in cui la consapevolezza di indossare calze di seta ha trasformato completamente una persona abituata a calze di lana, portando dispotismo laddove prima c’era soltanto sottomissione.

19 agosto

Non scrivo da tre giorni perché sono stata troppo occupata con le mie ospiti.

Tra loro si chiamano Kitty e Dolly. Hanno spiegato che, essendo nate una cinquanta e l’altra quarant’anni fa, è inevitabile che siano questi i loro nomi. Io ho chiesto perché mai inevitabile, e loro hanno portato la mia attenzione sulle mode dei nomi, dichiarando che spesso è possibile indovinare l’età delle persone in base al loro nome di battesimo. Se, così mi hanno detto, fossero nate dieci anni prima, si sarebbero chiamate Ethel e Maud; dieci anni dopo sarebbero state invece Muriel e Gladys. Se poi la loro nascita fosse risalita a vent’anni prima, in tal caso erano certe che i loro nomi sarebbero stati Elizabeth e Pamela. A parlare è sempre Mrs Barnes, ma l’effetto è che a farlo siano entrambe, per via di come sorride Mrs Jewks, a manifestare il proprio assenso, deduco.

«I nostri cari genitori, morti molto tempo fa» ha detto Mrs Barnes sistemandosi gli occhiali sul naso, «forse non avevano pensato che un giorno saremmo diventate adulte, perché non ci hanno neppure battezzato Katherine e Dorothy, nomi di cui avremmo potuto riappropriarci una volta cessato di essere ragazze, ma proprio Kitty e Dolly fin dal principio, e tali siamo rimaste dal fonte battesimale in poi».

«Io sono contenta di essere Dolly» ha mormorato Mrs Jewks.

Mrs Barnes l’ha guardata con quello che a me è sembrato un leggero imbarazzo, e l’ha rimproverata. «Beh, non dovresti» le ha detto. «Dopo i trentanove anni nessuna donna dovrebbe essere contenta di chiamarsi Dolly».

«Eppure io mi sento Dolly in tutto e per tutto» ha mormorato Mrs Jewks.

«Purtroppo» ha dichiarato Mrs Barnes scuotendo la testa. «Dopo una certa età è già brutto chiamarsi Dolly, ma rallegrarsene è ancor peggio. Il fatto è» ha detto voltandosi verso di me, «che ci chiameremo così anche da vecchie, quando ci troveremo su una sedia a rotelle, incapaci di camminare e anche di mangiare, se qualcuno non ci imboccherà. Questi nomi ci priveranno della nostra dignità».

«A me non importerà» ha mormorato Mrs Jewks. «Mi sentirò ancora Dolly in tutto e per tutto».

Mrs Barnes l’ha guardata, di nuovo con imbarazzo, mi è parso; anzi, direi piuttosto con un’espressione di preoccupata responsabilità dipinta in viso.

E dopo, quando la sorella era entrata in casa per qualche motivo, mi ha illustrato una teoria in cui crede e la cui fondatezza le è stata spesso dimostrata dagli eventi, ovverosia che i nomi influiscono notevolmente sul comportamento.

“Non certo quanto la biancheria” ho pensato, ma non l’ho detto. In effetti conosco da anni una certa Trixy, il cui costante sconforto e spirito negativo sarebbe difficile eguagliare. Conosco anche un’Isolda, una rispettabilissima signora maritata, di umore pimpante e oltremodo agile a schivare emozioni intense.

«Purtroppo Dolly non ha mai condiviso la mia opinione» ha detto Mrs Barnes. «Se l’avesse fatto, sarebbe stata in guardia come sono stata io, e probabilmente la sua vita avrebbe preso una piega diversa. Sono felice di dire che, da quando ho smesso di essere una bambina, nessuna mia azione è stata anche solo lontanamente associabile al nome Kitty».

Ho ribattuto che era certo una gran cosa da poter dire. Faceva pensare a un passato straordinariamente irreprensibile. Per un attimo mi è balenata in testa la visione di quel diavolo che, nel cercare la coda, si era imbattuto in Antoine nel corridoio. Sono arrossita. Per fortuna Mrs Barnes non se ne è accorta.

«Che cos’ha fatto Dol… che cos’ha fatto Mrs Jewks» le ho chiesto, «per spingervi a pensare fosse il risultato diretto del suo nome di battesimo? Se reputate la domanda indiscreta non ditemelo. Probabilmente lo è, dato che so di esserlo spesso, ma la vostra teoria mi interessa».

Mrs Barnes ha avuto un attimo di esitazione. Credo stesse valutando se concedersi il sollievo della più completa schiettezza o se vagare qualche altro giorno per le periferie della fiducia. Questo accadeva ieri. In fondo era qui da due soli giorni.

Ci ha riflettuto per un po’, poi ha deciso che due giorni non erano abbastanza: «A volte mia sorella è un po’ troppo impulsiva, o forse dovrei dire lo è stata. E gli effetti dell’impulsività si dispiegano per lungo tempo, a volte per tutta la vita».

«Sì» ho convenuto; e ho pensato con mestizia ad alcune conseguenze da me stessa sofferte.

Le sue parole, comunque, mi hanno reso semmai ancora più curiosa riguardo la natura e le qualità che tanto fanno assomigliare Dolly al suo nome. A tutti noi (tranne Mrs Barnes, che sono sicura non lo è mai stata) è capitato di essere impulsivi, e se riuscissimo a essere schietti credo potremmo trarre un certo qual innocente divertimento dal raffronto delle nostre diverse impulsività. Al momento, tuttavia, Mrs Barnes non riusciva a essere schietta, così è tornata sull’argomento già esaurientemente trattato fin dall’arrivo: la meravigliosa aria rinvigorente che abbiamo quassù e il suo immenso, riconoscente apprezzamento.

Oggi è martedì; e il sabato sera, giorno in cui sono ritornate da me con tutto il bagaglio, recapitato su un carretto che ha percorso la lunga strada a tornanti mentre le due, animate dal loro singolare ardimento, hanno preferito il ripido percorso delle scorciatoie, c’è stato quello che si potrebbe definire uno scambio di biglietti da visita. Mrs Barnes mi ha riferito ciò che reputava adeguato sapessi riguardo al suo defunto marito, e io ho risposto con ciò che ritenevo adeguato sapessero riguardo a mio zio il decano.

E c’è così tanto di lui che val la pena sapere che l’operazione ha richiesto un bel po’ di tempo. Lo zio mi ha fatto proprio un gran comodo. Sono davvero lieta di averlo. Un decano, dopotutto, è un parente di eminente rispettabilità. Sotto il suo mantello si possono nascondere un’infinità di punti deboli della famiglia. Puoi prenderlo, sollevarlo alla luce, farlo girare e osservarlo da ogni angolazione: tutto di lui supererà l’esame. Ma non tutti i miei parenti sono al suo pari. E almeno uno, per quanto egli stesso lo neghi, è nato addirittura fuori dal vincolo matrimoniale. Degli altri non siamo troppo certi, ma almeno di questo sì: non è assolutamente nato nel modo in cui si conviene. Tolta la sua caparbietà nel negare, è una persona molto piacevole. Mio zio si ostina a far finta che non esista. Il che rende lui piuttosto incline a detestare lo zio.

Constatando l’effetto soddisfacente che il decano ha avuto sulle mie nuove amiche, sabato sera non mi sono spinta oltre. È evidente che Mrs Barnes tiene in alta stima i decani, e Mrs Jewks, pur non aprendo bocca, mi sorrideva in modo molto piacevole mentre lo esibivo ai loro occhi. Da parte loro non è stato prodotto nessun sindaco. Comincio a sospettare che non ve ne siano. Comincio a sospettare che la loro aria di importanza sia dovuta semplicemente alla consapevolezza di essere inglesi. Non che Mrs Jewks abbia mai detto nulla in proposito, però sorride quando Mrs Barnes parla in toni smisuratamente patriottici. Deduco che manchi dall’Inghilterra da qualche tempo, e che l’assenza abbia avuto l’effetto di ravvivare la fiamma dell’affetto per il loro paese trasformandola in un grande fuoco divampante. So tutto al riguardo. Succede anche a me ogni volta che sto lontana dall’Inghilterra.

20 agosto

Oggi Mrs Barnes ha fornito ulteriori ragguagli su colui di cui parla sempre come Mr Barnes.

Era un uomo d’affari che andava tutti i giorni alla City a fare non so bene cosa con le pelli conciate, così ho inteso, le comprava e rivendeva. E malgrado Mr Barnes traesse il proprio sostentamento da tali pelli ricavando quella che, finché lui era vivo, a Mrs Barnes pareva una grande prosperità e abbondanza, dopo la sua morte si scoprì che già da tempo viveva del suo capitale; di questo la moglie non gliene attribuì la colpa, anzi, la cosa gli faceva onore. Il capitale però giunse alla fine quasi simultaneamente a Mr Barnes, e per tirare avanti a Mrs Barnes non rimase altro che la casa a Dulwich; d’accordo, elegantemente arredata con tutto ciò che rappresentava il meglio; questo perché a Mr Barnes non erano mai piaciuti quelli che Mrs Barnes definiva ammennicoli; lui era tutto mogani e tavole ben imbandite. Ma con il mogano non si tira a campare, ha detto Mrs Barnes, né è possibile tenere una tavola ben imbandita se non ci si può permettere di imbandirla, ragion per cui decise di vendere la casa e, con i proventi, di ritirarsi a vivere nell’anonimato. Senonché il fratello le suggerì di prendere dei pensionanti; in tal modo le sarebbe stato possibile continuare a vivere nella propria casa, anche se su basi leggermente diverse. All’epoca erano in molti ad avere cominciato ad accogliere ospiti a pagamento. Non sarebbe decaduta dalla propria posizione sociale, si disse. Soprattutto se si fosse limitata a persone appartenenti al ceto borghese, che non le avrebbero fatto pesare troppo la sua posizione.

All’inizio non era stato facile, ma poi ci si era abituata, e le cose stavano andando per il verso giusto quando era scoppiata la guerra. Allora naturalmente aveva dovuto stare vicino a Dolly. Così aveva rinunciato alla casa e ai clienti; ora i suoi mezzi erano quanto mai esigui, dato che per qualche motivo, ha commentato Mrs Barnes, non appena uno vuole vendere nessuno sembra voler comprare, ragion per cui era stata costretta a cederla a un prezzo fortemente ribassato.

«Ma perché…» l’ho interrotta, ma mi sono subito zittita.

Stavo per chiederle come mai Dolly non era andata da lei ad aiutarla con i pensionanti invece che essere lei a lasciare tutto e a raggiungere Dolly; ma mi sono trattenuta, pensando che forse una domanda del genere, considerato come loro si astengano dal pormi domande, sarebbe stata considerata piuttosto indiscreta, all’attuale stadio di intimità. No, non posso chiamarla intimità; diciamo allora amicizia. No, non posso chiamarla neppure amicizia; per il momento l’unica parola è conoscenza.

21 agosto

Il contegno delle mie ospiti è così discreto, e così straordinario il loro attento astenersi da ogni curiosità e indagine, che non posso far altro che tentare di imitarle. Non mi hanno fatto ancora una domanda che sia una. Io tento in ogni modo di far prender loro consapevolezza del decano. Ma loro si astengono da qualunque commento non riguardi la posizione dello chalet e il panorama. Se non fosse per questi due argomenti principali, non mi sembrerebbe neppure di avere una vera conversazione. Non siamo nemmeno arrivati all’argomento libri. Ancora non so nulla riguardo a The Rosary. Una o due volte, quando mi sono trovata da sola con Mrs Barnes, lei ha cominciato a parlare di Dolly, la quale sembra occupare gran parte dei suoi pensieri, ma ogni volta si è interrotta nel bel mezzo del discorso e ha ripreso a elogiare la posizione e il panorama. Finora non ho avuto occasione di stare sola con Dolly, né, mentre Mr Barnes mi è stato illustrato con dovizia di dettagli, mi è stato detto alcunché riguardo Mr Jewks.

22 agosto

A volte dentro di me l’impetuosità prende il sopravvento, ed ecco che dalla bocca sta per precipitare fuori una domanda; finora sono riuscita ad acchiapparle tutte e strangolarle prima che fossero articolate. Perché chissà, forse le mie nuove amiche sono state molto infelici, proprio come lo sono stata io, e forse stanno lottando per tirarsene fuori allo stesso modo in cui sto lottando io, e nei loro ricordi vi sono luoghi che, se si osa sfiorarli, fanno ancora troppo male. Forse l’unico modo in cui riescono a mantenersi coraggiose è ricorrere al silenzio e alla riservatezza.

Sui loro visi composti, tuttavia, non si scorge alcun segno di sofferenza; del resto neppure loro riuscirebbero a scorgerne sul mio. Qualcuno dice qualcosa di divertente, e io rido; qualcuno mi fa una gentilezza, e io sono felice. Anche solo il profumo di un fiore, il senso di una frase, qualunque cosa, anche la più irrisoria, è sufficiente a rendere gaio l’attimo presente. Sono certa che, guardandomi, le mie ospiti non possono dire che io sia stata mai altro che allegra; analogamente io, guardando loro, non posso pensare che siano mai state altro che composte: Mrs Barnes composta e seria, Mrs Jewks composta e sorridente.

Ma ormai ho smesso di saltare alle conclusioni come facevo un tempo. Persino riguardo Mrs Barnes, in apparenza un monumento di tranquillità impossibile da scalfire, una grotta di quieti ricordi, non riesco più a essere sicura. Perciò restiamo sedute placide in terrazza, presentabili come una schiera di ordinate casette con le tendine bianche lungo una via rispettabile. Ignoriamo tutto il disordine, il malessere e l’ansia che regna dentro a ognuna di noi. O forse no; forse all’interno le mie amiche sono ordinate e tranquille come lo sono all’esterno. Comunque sia, finora ognuna è stata sulle proprie, come direbbe Mrs Barnes, e assieme siamo uno spettacolo alquanto lodevole.

Il fatto è che io non credo nello starsene sulle proprie. La vita è troppo breve per sprecarla facendo amicizia al rallentatore. Ho una teoria – Mrs Barnes non è l’unica di noi tre ad averne – ovvero che la reticenza sia una cosa opprimente, un intralcio. Eccezion fatta per il dolore più estremo, che come la gioia più estrema è nascosto troppo in profondità presso Dio per poterne parlare, una persona non dovrebbe avere riserve. E se si compie un errore, e l’altra persona risulta indegna di essere trattata con franchezza e se ne va in giro a distorcere quanto sentito, pazienza, bisogna correre il rischio. Perché non è forse preferibile qualunque cosa alla sfiducia, alla lentezza e al timore egoistico che impone prudenza? Non è forse preferibile qualunque cosa al non onorare altri esseri umani con la supposizione che siano tutti gentiluomini e gentildonne?

Che solitudine…

23 agosto

Il sole continua a splendere, e noi continuiamo a rimanere sedute in fila all’ombra.

Mrs Barnes lavora molto a maglia. Sferruzza tutto il giorno, calze per i soldati. Ha preso questa abitudine durante la guerra, quando ne ha spedite non so quante paia all’anno alle trincee, e ora non riesce più a smettere. Presumo andranno a finire a qualche opera pia, dato che, anche se la guerra è finita, come Mrs Jewks ha giustamente detto, a questo mondo di gambe ce ne sono ancora parecchie. Un commento che, nella mente di Mrs Barnes, è stato catalogato sotto la voce “Dolly”, credo, perché la sorella maggiore ha posato un fuggevole sguardo di affettuosa apprensione sulla sorella minore.

Mrs Jewks non ha ancora detto granché, ma finora ogni volta che ha detto qualcosa mi è piaciuta. Parla per lo più sottovoce, come se non volesse farsi sentire da Mrs Barnes, ma allo stesso tempo non riuscisse a trattenersi dal dire ciò che dice. Anche lei lavora a maglia, ma credo solamente perché alla sorella piace vedersela seduta accanto che sferruzza a sua volta, mai troppo a lungo però. La sua occupazione principale, ho scoperto, è leggere ad alta voce a Mrs Barnes.

Nei primi quattro giorni non è mai stato fatto in mia presenza per riguardo nei miei confronti, dato che non a tutti piace sentire leggere a voce alta, mi ha poi spiegato Mrs Barnes; dopo pranzo si ritiravano delle loro camere, per dormire, mi ero immaginata io sapendo quanto bene sanno farlo, ma un po’ alla volta mi sono accorta, sentendo il monotono, pacato brusio che fuoriusciva dalla finestra sotto cui io giacevo sdraiata sull’erba, che non era Mrs Barnes intenta a dare a Mrs Jewks prolissi consigli su come affrontare al meglio i pericoli di chiamarsi Dolly, bensì Mrs Jewks che leggeva ad alta voce.

Allora ho suggerito che lo facesse in giardino, di pomeriggio il luogo più fresco in assoluto; così ora, rassicurate che la cosa non mi disturba minimamente – la buona creanza e il senso di dovere di Mrs Barnes in qualità di ospite non vacillano neanche per un istante – è questo ciò che accade, e anche la mattina. Mrs Barnes, infatti, ritiene sia molto meglio studiare ciò che hanno detto personalità famose piuttosto che sprecare le ore della propria vita a dirne noi stessi.

Leggono biografie e testi riguardanti avvenimenti storici, ma solo quelli non troppo recenti, mi pare; e talvolta, mi ha confidato Mrs Barnes, alleggeriscono quelle che Mrs Jewks ha descritto, con un mormorio, come le figure più solide della storiografia con un bel romanzo.

Interessata, ho chiesto a Mrs Barnes dei romanzi. Quali consideravano davvero belli tra quelli che avevano letto? E sono rimasta lì a pendere dalle sue labbra, perché ecco finalmente un argomento di cui parlare che non fosse né la posizione né il panorama, e che al tempo stesso era discreto.

«Ah» mi ha detto scuotendo la testa, «di bei romanzi ce ne sono davvero pochi. E a noi interessano solo i migliori in assoluto, ma al giorno d’oggi non se ne pubblicano più».

«Credo che i migliori in assoluto non siano pubblicabili» ha mormorato Mrs Jewks, la testa china sul lavoro a maglia: era uno di quei momenti in cui anche lei si trovava alle prese con le calze.

«Un tempo c’erano molti bei romanzi» ha proseguito Mrs Barnes, che forse non l’aveva sentita, «ma al giorno d’oggi sono quanto mai rari. Comincio a temere che non rivedremo mai più un Thackeray o un Trollope. Eppure sono convinta – e questi due scrittori ne sono la dimostrazione – che sia possibile essere sia moralmente sani sia intelligenti.

«Io sono stufa dei soliti Thackeray e Trollope» ha mormorato Mrs Jewks. «Ormai li conosco. Adesso mi piacerebbe vedere qualcosa di diverso».

Una frase troppo lunga perché sfuggisse a Mrs Barnes; la maggiore mi ha scoccato un’occhiata come a dire: “Ecco. Non ve l’avevo detto? È il suo nome a renderla così balzana”.

È calato un breve silenzio.

«Il padre nostro» è intervenuta allora Mrs Barnes con un tono talmente solenne da farmi credere per un attimo che, inspiegabilmente e alle undici del mattino, volesse recitare una preghiera, «conosceva Thackeray. Lo frequentava».

Non sapendo se l’uscita fosse un rimprovero per Dolly o un’informazione a mio beneficio, sono rimasta zitta.

Ma poiché Mrs Barnes non proseguiva, ho pensato che forse si aspettava dicessi qualcosa. Così ho fatto.

«Beh, deve essere stato molto…» e mi sono messa alla ricerca di una parola che denotasse entusiasmo, ma non sono riuscita a trovarla. È deplorabile come non riesca mai a trovare parole più entusiastiche dei sentimenti che provo. Mi scompaiono dalla testa; e incalzata dal desiderio di essere gentile, o di compiacere, finisco per inseguirle frenetica in una mente completamente vuota. Questa mattina non ho trovato niente di meglio che Piacevole. Non ho un’alta stima della parola Piacevole. Lo trovo un termine annacquato; ma non me n’è venuto un altro, così l’ho pronunciato. «Deve essere stato molto piacevole» ho detto, e persino alle mie orecchie la mia stessa voce è suonata priva di emozione.

Mrs Jewks mi ha guardato e mi ha sorriso.

«Era ben più che piacevole» ha dichiarato Mrs Barnes. «Era edificante. Anche Dolly la pensava come me, un tempo» ha aggiunto posando uno sguardo di riprovazione sulla sorella. «Non è colpa di Thackeray se ora non lo pensa più».

«È solo perché con lui ho chiuso» ha detto Mrs Jewks in tono di scusa. «Ora ho voglia di qualcosa di diverso».

«Io e Dolly» mi ha spiegato Mrs Barnes, «non siamo sempre della stessa opinione. Ho una mia teoria, secondo la quale nessuno può chiudere con gli Immortali».

«Sicché voi mettereste Thackeray…» ho abbozzato con una certa diffidenza.

Mrs Barnes mi ha zittito immediatamente.

«Il padre nostro» ha proseguito – e di nuovo ho sentito l’impulso di mettermi a mani giunte – «un eccellente giudice, anzi un vero esperto, se posso permettermi, lo annoverava tra gli Immortali. E io sono ben lieta di lasciarcelo».

«Ma non potrebbe essere devozione filiale invece che…» ho riprovato, ancora diffidente ma pure ostinata.

«In ogni caso» mi ha interrotto Mrs Barnes, alzando una mano come se fossi il traffico, «non dimenticherò mai l’influenza che lui e gli altri grandi autori dell’epoca hanno avuto sui ragazzi».

«I ragazzi?» non ho potuto fare a meno di chiedere.

«Nostro padre insegnava ai ragazzi con un sistema insolito e originale. Non conoscendo i classici, cosa di cui si compiaceva perché in tal modo non doveva passare del tempo a tenerli a mente, era un grande appassionato di lingua inglese. Di conseguenza la insegnava ai ragazzi. Ai ragazzi stranieri, dato che naturalmente quelli inglesi la sapevano già. Il suo metodo consisteva nel portarli a conoscenza di ogni dettaglio dei grandi romanzi, i grandi romanzi moralmente sani dell’epoca. Non c’è stato ragazzo francese, olandese o italiano che non sia tornato a casa…»

«O tedesco» è intervenuta Mrs Jewks. «La maggior parte erano tedeschi».

Mrs Barnes è arrossita. «Dimentichiamoci di loro» ha decretato con un gesto della mano. «Desidero in tutti i modi» ha proseguito guardandomi, «dimenticare i tedeschi».

«D’accordo» ho risposto conciliante.

«Non uno dei ragazzi» ha ripreso, «è tornato al proprio paese senza conoscere l’inglese dell’epoca d’oro, e il pensiero più elevato espresso dai più elevati tra gli uomini, un risultato irraggiungibile con qualunque altro metodo. Nostro padre si definiva un non-grammatista. I ragazzi tornavano a casa ignorando le regole della grammatica, ma parlando un inglese perfetto. Era Thackeray stesso la loro grammatica, e i personaggi dei suoi libri i loro insegnanti. E anche Dickens, ma non nella stessa misura, per via di persone come Sam Weller, che avrebbero finito per insegnare lo slang ai ragazzi. Quando mio padre scrisse a Thackeray per dirgli della scuola, egli si dimostrò immensamente interessato, e una volta, quando si trovava a Londra, lo invitò a pranzo».

Non essendomi del tutto chiaro chi era a Londra e chi aveva invitato chi, ho chiesto: «Chi?»

«Fu nostro padre ad andare a Londra» ha specificato Mrs Barnes, «dove fu gentilmente intrattenuto da Thackeray».

«Ci andò perché non si trovava già là» ha spiegato Mrs Jewks.

«Dolly intende dire» ha ripreso Mrs Barnes, «che non abitava a Londra. Nostro padre era un uomo di Oxford. Non nel senso stretto e tecnico che si dà oggi a questa espressione, ma nel senso semplice e naturale che a Oxford lui abitava. Noi siamo nate e cresciute là, in un’atmosfera intrisa di cultura. La vedevamo tutt’attorno a noi, che si manifestava nei vari college, e anche più da vicino, da fonte diretta, a casa nostra. Perché anche noi siamo state cresciute a Thackeray e Dickens, nei quali, diceva nostro padre, avremmo trovato tutto ciò che una ragazza aveva bisogno di imparare e niente di ciò che non avrebbe dovuto».

«Io smaniavo di imparare le cose che non avrei dovuto» ha mormorato Mrs Jewks.

E qui di nuovo Mrs Barnes mi ha guardato con un’espressione strana, come a dire: “Ecco, cosa vi avevo detto? E che razza di verbo, smaniare”.

È caduto il silenzio. Non riuscivo a pensare a nulla che non sembrasse indiscreto o incoraggiante nei confronti di Dolly.

Mrs Barnes siede sempre tra noi due. Questa disposizione delle nostre sedie sul prato si è consolidata in modo apparentemente naturale il primo giorno, e ora sento di non doverla alterare. Ormai lasciarmi cadere sulla sedia in mezzo mi sembrerebbe impossibile. È il posto di Mrs Barnes. Ma io avrei voglia di sedermi vicino a Mrs Jewks e di parlare con lei. O, meglio ancora, di andare con lei a fare una passeggiata. Senonché è sempre Mrs Barnes ad andare a passeggio, sia con me che senza di me, ma mai senza Mrs Jewks. Non ci ha ancora lasciate sole una volta. Se c’è bisogno di andare a prendere qualcosa è sempre Mrs Jewks a farlo. Sembra non abbiano bisogno di scrivere lettere, ma se ne scrivessero mi aspetterei che lo facessero contemporaneamente.

Tuttavia stiamo sviluppando un po’ di intimità, mi pare. Se non altro oggi abbiamo parlato di qualcosa di diverso dal panorama. Non mi sorprenderei se nel giro di una settimana, ipotizzando che l’ondata di caldo duri tanto a lungo, io finisca per chiedere senza mezzi termini a Mrs Barnes cos’ha mai commesso Dolly per averla contrariata in modo così permanente.

Ma se poi rendesse la pariglia chiedendomi…? Oh, sono talmente tante le cose che potrebbe chiedermi alle quali io non potrei rispondere! Tranne che con la risposta umiliante e rivelatrice di un pianto a dirotto…

24 agosto

Ieri sera ho rincorso Mrs Jewks raggiungendola nell’esatto istante in cui stava per ritirarsi in camera e le ho detto: «Ti chiamerò Dolly. Jewks non mi piace. Come si scrive?»

«Cosa, Dolly?» ha chiesto sorridendo.

«No… Jewks».

Ma Mrs Barnes è uscita dalla sua camera domandando: «Ci siamo forse scordate di darvi la buona notte? Che terribile dimenticanza da parte nostra».

Così ci siamo tutte scambiate un sorriso, siamo entrate nelle rispettive stanze e abbiamo chiuso la porta.

25 agosto

È sorprendente il modo in cui si comporta il tempo. Non capisco come a volte riesca a far sembrare le settimane minuti e altre volte a far sembrare i giorni anni. Le settimane che ho trascorso qui da sola mi sono sembrate pochi minuti. Mentre i giorni da che sono arrivate le mie ospiti mi sembrano mesi.

Credo sia perché sono così strapieni. Nessuno, nel risalire il sentiero e nel vedere le tre figure sedute placide in giardino – quella in mezzo intenta a lavorare a maglia, quella a destra a leggere a voce alta e quella a sinistra apparentemente in preda a una sorta di stordimento – penserebbe mai che le giornate di queste creature siano strapiene. Molte oneste lumache animate da lodevoli desideri sembrerebbero più attive di noi. Eppure le giornate sono strapiene. Quanto meno le mie: strapiene di un’immensa monotonia.

Ogni giorno facciamo esattamente le stesse cose: colazione, lettura a voce alta; pranzo, lettura a voce alta; tè, passeggiata; cena, lettura a voce alta; spossatezza; letto. Com’è veloce e breve da scrivere, ma infinito da vivere! Durante i pasti parliamo, e anche durante la passeggiata, o per meglio dire diciamo delle cose. Durante i pasti le cose che diciamo riguardano il cibo, durante le passeggiate riguardano le montagne. Per il resto del tempo non parliamo, per via delle letture a voce alta. Che riempiono ogni spazio, impediscono ogni conversazione.

Non so se Mrs Barnes tema che io faccia delle domande o che Dolly cominci a rispondere a domande che non ho fatto; so solo che sembra aver deciso che l’unica salvezza sta nel mettere un bavaglio alla conversazione. Allo stesso tempo fa ogni possibile sforzo per essere un’ospite amabile, ed è un concentrato di buone maniere; del resto lo sono anch’io: faccio ogni possibile sforzo per essere una padrona di casa amabile, e siamo entrambe così garbate e riguardose che tutto finisce sempre per essere come preferirei non fosse.

Ad esempio, nel trovare Merivale – al momento viene data lettura di Storia dei Romani sotto l’Impero di Merivale – troppo simile a un Gibbon stento e annacquato, un Gibbon svuotato di ogni vigore, privato di virilità e delle note a piè di pagina – ieri dopo colazione non sono andata a sedermi in giardino ma ho preso un volume del vero Gibbon e, uscita dalla porta sul retro, sono andata a fare una passeggiata.

Lo so, non è un bel segno quando la padrona di casa comincia a usare la porta sul retro, ma in questo caso non era un segno di nulla, solo dell’immenso desiderio di allontanarmi da Merivale. Dopo pranzo, rinvigorita dalla mattinata e ben disposta all’ascolto, ho trovato le sedie in giardino vuote, mentre dalla finestra della camera di Mrs Barnes fuoriusciva il familiare, sommesso brusio dei primi giorni.

Allora sono andata a fare un’altra passeggiata, e a riflettere. Il risultato è stato una serie di affettuose, educate proteste all’ora del tè, abbellite da amabili falsità sull’essermi dovuta allontanare da casa per questioni domestiche – Dio mi perdoni, credo di avere detto trattarsi della lavandaia – e una sincera, intensa angoscia da parte di Mrs Barnes al pensiero di avermi cacciata via dal mio giardino, ragion per cui ora, per proteggerla da un pensiero tanto doloroso, dovrò sorbirmi Merivale fino alla fine.

Chiamate giù a cena, per qualche strana coincidenza ho incontrato Dolly lungo le scale – le due sorelle scendono immancabilmente assieme – e le ho chiesto: «Dolly, ti piace leggere a voce alta?»

Gliel’ho chiesto in tutta fretta e sottovoce, con la certezza che ai piedi delle scale ci sarebbe stata Mrs Barnes.

«No» ha risposto, a sua volta sottovoce.

«E allora perché lo fai?»

«E a te piace ascoltare?»

«No» ho detto.

«E allora perché lo fai?»

«Perché…» ho cominciato. «Beh, perché…»

Ha annuito e ha sorriso. «Sì» ha sussurrato, «lo faccio anch’io per lo stesso motivo».

26 agosto

Per tutto il giorno mi sono svuotata di qualunque desiderio personale, e ho cercato di essere una perfetta padrona di casa. Mi sono dedicata completamente a Mrs Barnes: durante la passeggiata l’ho seguita dove ci conduceva, astenendomi dal suggerire diverse alternative quando incrociavamo dei sentieri, questo malgrado io abbia una passione viscerale e segreta per taluni sentieri; ho fatto pausa nel punto esatto da lei scelto pur sapendo essercene uno assai più bello poco più in là e mi sono unita a lei nel declamare le bellezze di un panorama che non mi piaceva affatto. Insomma, accanto a lei sul pendio mi sono spersonalizzata in Mrs Barnes, con lo stesso spirito di Wordsworth quando, nel suo cottage, si sedeva accanto al focolare senza ambizione, speranza o scopo.

27 agosto

Il caldo prosegue imperterrito in tutta la sua torrida bellezza. Ogni mattina, la prima cosa che vedo appena apro gli occhi è la grande chiazza di luce dorata sulla parete vicino al letto, ad annunciare un’altra giornata smagliante. Il cielo è quasi sempre senza nuvole, di un azzurro intenso, irreale. Una o due volte, la mattina presto, nell’affacciarmi alla finestra volta a est, ho visto ciò che ai miei occhi assonnati è apparsa come una schiera di angioletti che galleggiavano lenti sopra le cime dei monti, o comunque, se non proprio angeli, soavi e luminosi ciuffi di piume caduti dalle loro ali. Nell’emergere dal sonno ho constatato trattarsi di nuvole, e ho pensato che forse nella giornata avremmo avuto pioggia. Ma la pioggia non è mai arrivata. Le nuvole hanno continuato a galleggiare lente verso l’Italia, lasciandoci un’altra giornata di calore intenso e rovente.

Credo che il tempo non cambierà. Perlomeno non per un bel pezzo. Perlomeno non prima che io abbia ascoltato Merivale fino alla fine.

28 agosto

La mattina, quando mi alzo e mi affaccio alla finestra per ammirare lo splendore a oriente, non mi curo di Merivale. Non mi faccio scalfire. E mi risolvo a far sì che, per quanto il mio corpo possa essere presente durante la lettura, al fine di evitare di turbare Mrs Barnes e non indurla ad allontanarsi dal giardino – siamo molto meticolose nell’assicurarci che l’una non cacci via l’altra dal giardino – le mie orecchie restino sorde a lui e la mia immaginazione vaghi libera. Chi sarà mai questo Merivale per arrogarsi il diritto di gravare sulla mia memoria con anche solo un briciolo delle sue melliflue imitazioni? Così, scendo per colazione con animo fortificato e luminoso, come chi si alzi dalla preghiera rinfrancato e determinato, e appena fuori, in giardino, mi chiudo le orecchie. Ma credo rimangano degli spiragli, perché poi mi ritrovo la mente infestata, malgrado tutto, da Merivale. Frammenti di lui. Come per esempio questo:

Properzio manca di quel tocco leggero, di quel gusto squisitamente raffinato che caratterizza la sensualità e l’adulazione di Orazio. La giocosità del bardo sabino è quella di un cagnolino da salotto, mentre l’umbro ci ricorda gli scherzi di un quadrupede maldestro e poco tollerato.

Così si scrive se si vuole scrivere come Gibbon e al contempo rimanere rettore e cappellano del presidente della Camera dei Comuni. Questo frammento ha continuato a risuonarmi in testa come una canzonetta durante il pranzo. Mi infastidiva il non saper decidere quale potesse essere un quadrupede maldestro e poco tollerato.

«L’asino» ha risposto Mrs Jewks quando ho interpellato le mie ospiti.

«Sì, sicuramente il… somaro» ha soggiunto Mrs Barnes, la cui scelta delle parole è sempre molto accurata.

«Ma perché mai un asino dovrebbe essere meno tollerato di un cagnolino da salotto?» ho chiesto io. «Io lo tollererei persino di più. E se dovessi tollerare un unico animale, allora quell’unico sarebbe un asino».

«Forse l’autore intende una pulce» ha suggerito Dolly.

«Dolly» l’ha richiamata Mrs Barnes.

«Ma le pulci tirano brutti scherzi e sono meno tollerate dei cagnolini da salotto» ha detto Mrs Jewks.

«Dolly» ha ribadito Mrs Barnes.

«Ma le pulci non hanno più di quattro zampe?» ho obiettato io, per un istante immemore di Mrs Barnes, tanto ero compiaciuta di staccarmi dai soliti discorsi sul cibo che facciamo sempre a tavola.

«Quelli sono i millepiedi» ha detto Dolly.

«Allora hanno due zampe».

«Tipo uccelli» ha detto Dolly.

Ci siamo scambiate uno sguardo e abbiamo iniziato a ridere. Era la prima volta che ridevamo, e una volta cominciato non riuscivamo più a smettere; era quel riso stupido e irrefrenabile che ti colpisce per cose assolutamente sciocche quando sai che non dovresti, e quando non ridi da un pezzo.

E lì c’era Mrs Barnes, granitica, dritta come un fuso, con la costernazione dipinta in viso. Non ha mai riso, e del resto non si capisce perché avrebbe dovuto. Ma più lei rimaneva seria, più noi ridevamo: a crepapelle, di un riso convulso. Era terribile ridere, terribile menzionare cose che la infastidivano per la loro volgarità; e proprio poiché era terribile e noi ne eravamo consapevoli non riuscivamo a smettere. Una volta mi è capitato un analogo attacco di riso convulso solo perché un gatto era entrato in chiesa. E anche di vedere una sventurata donna cadere preda di un inopportuno scoppio di ilarità in occasione di un matrimonio. Abbiamo riso fino alle lacrime. Non riuscivamo a fermarci. Io tentavo in tutti i modi. E provavo una terribile vergogna. Perché stavo facendo la cosa che, lo sento in ogni mia fibra, Mrs Barnes più teme: stavo incoraggiando Dolly.

Dopo, una volta ricomposte e pronte per Merivale, Dolly si è accorta di aver lasciato in camera il libro ed è salita a prenderlo. Allora ho implorato Mrs Barnes di credere che non mi capita spesso di comportarmi in modo tanto sciocco, e comunque che non sarebbe più accaduto.

Lei si è mostrata molto gentile, e per un attimo ha posato la mano sulla mia: una mano ossuta, segnata, così mi è venuto da pensare nell’osservarla, da tracce di devozione e abnegazione. Una mano che non ha mai avuto l’agio di ingrassare. O forse l’ha avuto nella più prospera epoca di Mr Barnes, ma gli anni successivi devono essere stati senz’altro anni magri; e in seguito allo scoppio della guerra e alla vendita della casa, e all’inizio di quell’usurante occupazione che lei definisce lo stare vicino a Dolly, gli anni, questa è la mia impressione, sono stati così magri da essersi, in pratica, ridotti all’osso.

«Forse» mi ha risposto, «ho fatto l’abitudine a stare troppo seria. Credo sia perché Dolly non lo è abbastanza. Se lo fosse un po’ di più io potrei esserlo di meno, e sarebbe meglio per entrambe. Oh, però non dovete pensare» ha proseguito, «che non io sia in grado di apprezzare una battuta con lo stesso buonumore di chiunque altro». E mi ha indirizzato un largo, stupefacente sorriso, un sorriso quanto mai granitico e determinato.

«Ma non c’era nessuna battuta, e noi ci siamo comportate in modo assurdo» ho replicato con aria pentita, questa volta posando io la mano sulla sua. «Perdonatemi. Ogni volta che mi comporto come se avessi dieci anni poi mi dispiace e mi vergogno di me stessa. Cerco di controllarmi, ma a volte è talmente inaspettato…»

«Dolly è un po’ troppo vecchia per comportarsi come se avesse dieci anni» ha ribattuto Mrs Barnes più addolorata che irritata.

«E lo sono un po’ troppo anch’io. È molto difficile quando dentro non ti senti vecchia quanto fuori. Cerco di impormi un comportamento dignitoso da anni, ma in qualche modo finisco sempre per piombare in una specie di incurabile effervescenza naturale».

Mrs Barnes ha preso un’aria solenne.

«Lo stesso problema di Dolly» ha detto. «Proprio così. Una vera combinazione che vi siate incontrate. Perché non è molto frequente. Non posso credere lo sia. Tutti i suoi guai sono nati da questo. Ma non lo considero incurabile. Anzi, la sto aiutando a controllarsi, e rispetto a prima sta facendo passi da gigante».

«Ma cos’avete paura che faccia, ora?» le ho chiesto; ma Dolly, nell’uscire con il libro sotto braccio e quella buffa espressione allegra che trionfa quando lei riesce a dimenticare l’austera gonna nera, mi ha impedito di ottenere risposta.

Tuttavia mi sentivo molto solidale con Mrs Barnes. E quando dopo il tè, nel metterci in marcia per la nostra passeggiata, è capitato un inconveniente allo stivale di Dolly – credo le si fosse staccato il tacco – e lei è dovuta rientrare, io sono stata lieta di proseguire da sola con sua sorella, sperando che continuasse a parlare negli stessi toni confidenziali di prima. E così ha fatto.

«Dolly» ha ripreso quasi immediatamente, quasi ancor prima che arrivassimo al punto in cui svolta il sentiero, «è la persona a cui vanno tutte le mie più premurose attenzioni, tutto il mio amore».

«Lo so. Si vede» ho replicato comprensiva.

«L’ho amata fin dal momento in cui me la misero in braccio appena nata, avevo dieci anni, ed è diventata, via via che cresceva e si sviluppavano in lei le caratteristiche che io associo al suo nome, l’oggetto delle mie premure. Anzi, delle mie preoccupazioni».

«Vorrei» ho detto mentre lei si fermava e io cominciavo a temere che una volta di più non ci sarebbe stato dell’altro, e la saracinesca si sarebbe di nuovo abbassata, «che potessimo essere amiche per davvero».

«Perché, non lo siamo?» ha domandato Mrs Barnes in tono preoccupato, come se temesse di essere in qualche modo venuta meno ai suoi doveri di ospite.

«Oh, sì, siamo amiche, certo, ma quando dico amiche per davvero intendo dire persone che tra loro parlano di qualunque cosa. Quasi di qualunque cosa» ho proseguito esitante. «Della maggior parte delle cose» ho rettificato.

«Do grande importanza alla discrezione» ha detto Mrs Barnes.

«Ne sono certa. Eppure non pensate che a volte l’essenza della vera amicizia consista nel…»

«Mr Barnes ha sempre avuto il suo spogliatoio».

Questo mi è arrivato inaspettato, e mi ha lasciato senza parole. Dopo un istante ho detto, con qualche esitazione: «Oh, capisco. Ma mi stavate dicendo di Dol… di Mrs Jewks…»

«Già» ha sospirato Mrs Barnes. «Beh, non nuocerà né a voi né a lei» ha proseguito dopo una pausa, «se vi dico che la prima cosa che ha fatto Dolly una volta cresciuta è stato un matrimonio avventato».

«Non è ciò che fa la maggior parte di noi?»

«Pochi sono stati altrettanto avventati. Rispetto a quello di Dolly il mio, per esempio, non lo è stato. Il mio è stato la ponderata unione tra affetto e rispetto, presentata al mondo con il dovuto riguardo per le convenienze, e accompagnata dagli auguri di parenti e amici. Quello di Dolly… beh, il suo è stato avventato. Non posso dire mal consigliato, dato che lei non ha chiesto il consiglio di nessuno. Si è lanciata a capofitto – l’espressione non è esagerata, e purtroppo vale anche per alcune sue successive azioni – in un’unione sbagliata, per contrarre la quale si è calata di notte in gran segreto dalla finestra della camera da letto con l’aiuto di un lenzuolo».

Mrs Barnes ha fatto una pausa.

«Che gesto… che gesto ardimentoso» non ho potuto fare a meno di mormorare.

Credo anzi di avere provato una punta di invidia. Nulla del mio passato si avvicina neppure lontanamente a un’impresa simile. E non mi sono limitata a domandarmi se mai avrei trovato il coraggio di affidarmi a un lenzuolo, ma ho anche provato una contrarietà passeggera perché nessuno mi ha mai chiesto di fare qualcosa del genere per amor suo.

«Così ora capirete» ha proseguito Mrs Barnes, «con quale scrupolo io desideri far sì che mia sorella si attenga ai dettami di una condotta rispettabile. È già stata punita fin troppo per essersene allontanata tanto. E vigilo affinché nulla che venga detto le possa sembrare… beh, anche solo lontanamente di incoraggiamento ad azioni o modi di vedere la vita che in passato le hanno procurato infelicità e in futuro potrebbero procurargliene altra ancora».

«Ma perché» le ho chiesto sempre pensando al lenzuolo, «per andare a sposarsi non è uscita dalla porta d’ingresso?»

«Perché mai nostro padre avrebbe acconsentito a che la sua porta d’ingresso venisse varcata per un simile matrimonio. Non dimenticatevi che era una scuola. E che lei stava fuggendo con uno che solo un paio di anni prima era tra gli studenti».

«Oh? Ha sposato dunque uno straniero?»

Il viso di Mrs Barnes è arrossito intensamente, penosamente. È scura di carnagione e ha il viso segnato dal sole e dal tempo, ma sarebbe stato impossibile non notare l’intenso rossore. Evidentemente si era dimenticata di avermi detto, l’altro giorno, che gli studenti erano tutti stranieri.

«Non parliamo male dei morti» è stata la risposta, pronunciata con terrificante solennità; e per il resto della passeggiata non abbiamo parlato che del panorama.

Ma questa sera, in camera mia, ho riflettuto. Ci sono ospiti e ospiti, e alcuni hanno il potere di ossessionare. Le due sorelle appartengono a questa categoria. Forse non mi ossessionerebbero così tanto se potessimo essere amiche per davvero; ma amiche per davvero non potremo mai esserlo, fintantoché mi si impedisce di parlare con Dolly e tra noi si erge la massiccia e finora invalicabile barriera costituita da Mrs Barnes. Forse domani, se ne avrò il coraggio, tenterò in ogni modo di fare amicizia, ciò che Mrs Barnes definirebbe un comportamento imperdonabilmente indiscreto. Perché non è forse insensato per noi tre, quassù assieme, sprecare giorni preziosi in cui potremmo fare amicizia nascondendoci invece l’una dall’altra? Perché non mi si può dire senza mezzi termini che Dolly ha sposato un tedesco? È evidente che l’ha fatto; e se lei ce l’ha fatta a sopportarlo, posso farcela anch’io. Vent’anni fa sarebbe potuto accadere a chiunque di noi. Vent’anni fa sarebbe potuto accadere anche a me, se non fosse che non esisteva tedesco vivente in grado di indurmi a calarmi dalla finestra aggrappata a un lenzuolo. E in ogni caso il tedesco di Dolly è morto; e persino un tedesco non smette forse di essere tedesco una volta morto? Non tenderebbe naturalmente, grazie al mero passare del tempo, a stemperarsi nella neutralità? Mi pare disumano volerlo inseguire nei recessi dell’eternità come nemico straniero. E poi credevo che la guerra fosse finita.

Questa sera sono stata a lungo affacciata alla finestra, a pensare. Quando guardo le stelle non mi preoccupo dei tedeschi. Mi sarebbe impossibile. Se anche Mrs Barnes le guardasse non sarebbe neppure lontanamente preoccupata com’è, credo. Sono convinta che stare affacciata alla finestra per un po’ di tempo prima di andare a letto, e lasciarsi inondare dalla fresca oscurità, sia un ottimo esercizio. Dopo un’intera giornata trascorsa in compagnia, stare da sola è una benedizione. Questa sera il silenzio è smisurato, e io sono rimasta affacciata così immobile che avrei potuto sentire il più lieve frusciar di foglia. Ma nulla si muove. Non soffia alito di vento. Non si ode suono. Le montagne sembrano accovacciate sopra una valle profondamente addormentata.

29 agosto

Questa mattina Antoine mi ha detto che pensava che se ces dames – parla sempre in questi termini per riferirsi a Mrs Barnes e Dolly – si fermeranno ancora a lungo forse sarebbe meglio assumere un’aiutante per M.me Antoine; la moglie, infatti, potrebbe cominciare a trovare la combinazione calore e ospiti un po’ troppo…

«Ma certo» ho risposto. «Ci mancherebbe altro. Mi spiace, Antoine, di non esserci arrivata da sola. Perché non me ne hai parlato prima? Andrò oggi stesso a cercare un’aiutante».

Antoine mi ha risposto che tali fatiche non erano cosa per Madame, e che a cercare l’aiutante ci sarebbe andato lui.

Io ho ribattuto che non poteva lasciare le galline e la mucca, e che a cercare l’aiutante ci sarei andata io.

Ecco dunque cos’ho fatto tutto il giorno: ho trascorso momenti paradisiaci vagando da un villaggio all’altro sul fianco della montagna con lo zaino in spalla e la libertà nel cuore. Lo zaino conteneva del cibo e un libro di Crabbe, essendo impossibile prevedere quanto sarebbe durata la ricerca, e impensabile non avere di che nutrirmi. Ho spiegato alle mie ospiti che probabilmente mi sarei assentata fino a sera, le ho affidate alla straordinaria premura degli Antoine e mi sono incamminata, accompagnata dalla commiserazione di Mrs Barnes per essere costretta a sobbarcarmi tale incombenza in una giornata così torrida, e facendo del mio meglio per non mostrarmi troppo felice.

Sono partita in direzione dei paesini che si susseguono lungo il percorso verso il mio delizioso angolo dei larici, e dopo aver trovato l’aiutante ho proseguito verso ovest, camminando di buon passo, come se qualcuno, saputo che avevo portato a termine il compito per cui ero uscita, potesse acciuffarmi e riportarmi a casa.

Mentre camminavo mi riusciva davvero difficile trattenermi dal cantare. Solo chi ospita può conoscere tale pura gioia. Per provare un’euforia così profonda e straordinaria è necessario avere ospiti da qualche tempo. Prima dell’arrivo delle mie ospiti potevo vagare in lungo e in largo, come più mi aggradava, ma mai mi sono sentita come oggi, mai ho assaporato una simile sensazione di essere in vacanza. Oh, che meravigliosa giornata ho trascorso! Tutto era incantevole. Non ho mai conosciuto boschi tanto profumati né erba altrettanto fresca e soffice come quella su cui mi sono seduta all’ora di pranzo. E quell’affascinante Crabbe… perché non si parla più spesso di lui? Perché non lo si legge di più? Io ce l’ho in ben otto volumi, non dentro a quei libercoli di sunti che in qualche modo riescono a togliergli tutto il vero sapore; no, ce l’ho completo di ogni singola parola dall’inizio alla fine. Nessuno ha mai composto così tanti distici applicabili a così tante occasioni della vita. Sono convinta che potrei descrivere la mia esistenza quotidiana con Mrs Barnes e Dolly esclusivamente ricorrendo ai distici di Crabbe. Per uno strano destino, dovuto all’azione del tempo, i suoi scritti sono passati dal serio al faceto, decomponendosi spassosamente. Oggi pomeriggio sono rimasta sdraiata per ore a divertirmi con i suoi armoniosi distici. Mi avvince. Quando sto con lui non mi accorgo che il tempo passa. È stata colpa sua se sono arrivata in ritardo a cena. Eppure è l’ultima persona che uno porterebbe a passeggio con sé, se non è felice. Crabbe è il barometro della serenità. Per goderne bisogna versare in uno stato d’animo senza nubi. Proprio lo stato d’animo in cui versavo io quest’oggi. Perché ero fuggita.

Ebbene, ho avuto la mia uscita, la mia piccola pausa, e sono tornata dalle mie ospiti con rinnovato zelo. Quando stasera ho augurato loro la buona notte, ero talmente soddisfatta di tutto e mi sentivo così felice e a mio agio nell’essere affettuosa che non solo ho baciato Dolly, ma mi sono avventurosamente imbarcata in un abbraccio con Mrs Barnes.

L’ha accolto con stupore, ma anche con garbo.

Credo abbia pensato che mi stessi comportando in modo un po’ impulsivo.

Forse aveva ragione.

30 agosto

Ai vecchi tempi, prima della guerra, questa casa era quasi sempre piena di amici; in quanto persone invitate erano ospiti, ma nella mia mente non li ho mai classificati come tali, né ricordo di avere mai ricoperto il ruolo di padrona di casa. L’impressione che al momento ho di loro è di un’estrema giovinezza, ma naturalmente giovani non lo erano. Alcuni potevano avere l’età di Mrs Barnes, e un paio di volte ce ne sono stati persino di più vecchi. Tutti però avevano una cosa in comune: qualunque fosse la loro età all’arrivo, al momento della partenza nessuno aveva più di vent’anni.

Il motivo non saprei spiegarlo. Non poteva trattarsi solo dell’aria, per quanto rinvigorente sia, visto che le mie attuali ospiti hanno esattamente la stessa età di quando sono arrivate. Cioè, questo vale per Mrs Barnes. Dolly non ha età; Non ha mai avuto e mai avrà quarant’anni; Mrs Barnes, invece, è una solida cinquantenne, proprio come lo era due settimane fa, mentre di norma agli altri ospiti bastava una sola settimana per lasciare cadere uno dopo l’altro i propri anni, tranne i primi venti.

Sarà la qualità statica e granitica di Mrs Barnes a farla rimanere così caparbiamente ospite, a renderla incapace di trasformarsi in un’amica? Ed è forse giusto che io, a causa della sua insistenza nel voler rimanere un’ospite, debba essere relegata così categoricamente al ruolo di padrona di casa? Io voglio che diventiamo amiche. Mi sento come una coppa traboccante di sentimenti amichevoli. Perché non dovrei lasciarne fuoriuscire un po’? Muoio dalla voglia di essere amica di Dolly, e mi piacerebbe molto essere amica di Mrs Barnes. Non che pensi che io e lei potremo mai diventare intime nello stesso modo in cui, ne sono certa, lo diventeremmo io e Dolly dopo soli dieci minuti passati da sole, ma potremmo comunque sviluppare un certo qual indulgente affetto. Io rispetterei i suoi pregiudizi, e lei perdonerebbe me per averne così pochi, e forse troverebbe interessante aiutarmi a farli aumentare.

Senonché l’impegno spasmodico con cui Mrs Barnes si applica per incarnare il suo ideale di perfetta ospite obbliga me a un analogo impegno spasmodico per incarnare il suo ideale di perfetta padrona di casa. Lo trovo estenuante. Tra noi non c’è nessuna affabilità alla buona, nessuna chiacchierata rilassata, nessuna felice esortazione “fate come foste a casa vostra”, nessuna spontaneità. Ed è poi proprio necessario che un ospite debba mostrarsi così costantemente grato? Una gratitudine che è quasi un rimprovero. Mi fa vergognare di me stessa; nemmeno fossi una possidente, una profittatrice, la pingue proprietaria di una quota superiore a quella a me spettante, una dispensatrice di favori, tutte caratteristiche tra le più odiose che una persona possa avere. Mi sto accorgendo di non avere mai avuto ospiti prima d’ora, solo amici. Per la prima volta sento di stare davvero intrattenendo; o per meglio dire – a causa di quel non so che in Mrs Barnes che mi induce a una curiosa sottomissione, ad accettare l’organizzazione delle nostre giornate da lei stabilita – per la prima volta, non solo in casa mia, ma in qualsiasi casa in cui ricordi di essere stata, io vengo intrattenuta.

Cosa c’è mai in Mrs Barnes da indurre me e Dolly a starcene sedute così buone e tranquille? Oh, non occorre chiederlo, lo so già. È perché è determinata, altruista e sinceramente interessata alla felicità e al benessere di chiunque, e perché è impossibile deludere tale bontà. Di conseguenza siamo legate mani e piedi ai suoi desideri, proprio come se fosse un tiranno.

Dolly, naturalmente, deve avere mille motivi per esserle grata. Mrs Barnes non ha forse rinunciato a ogni cosa per lei? Non ha forse rinunciato alla sua casa, alla sua sussistenza, al suo paese e ai suoi amici per andare a starle accanto? È lei che, magnanima, si accolla l’onere principale del matrimonio di Dolly. Senza avere avuto nessuna delle gioie di Siegfried – non riesco a immaginare Dolly mormorare nel sonno un nome che non sia quello del marito – ha trascorso gli anni della guerra accettando col sorriso le conseguenze delle scelte della sorella, dedicandosi alla vedova tedesca sola e derelitta, spendendo la propria esistenza e le finanze a disposizione per tenerle compagnia nelle tristi pensioni di un paese neutrale, incapace sia di portarla a casa in Inghilterra sia di lasciarla al suo destino dove si trovava.

Un amore e un’abnegazione del genere sono di certo vincolanti. Se le mie congetture sono esatte, Dolly è effettivamente vincolata a Mrs Barnes, e andare contro il suo volere le diventa impossibile. Naturale quindi che indossi quelle sottogonne e quei lunghi abiti neri rispettabili: sono l’idea di Mrs Barnes dell’abbigliamento che più si confà a una vedova. Naturale che vada a fare un’escursione in montagna con l’ombrello: per Mrs Barnes è più prudente e anche più decoroso di un bastone. La gratitudine di Dolly deve manifestarsi in ogni minimo dettaglio dell’esistenza. Sì, credo di capire la sua situazione. Il bene imprigiona in pesanti catene.

A un livello infinitamente minore, la bontà di Mrs Barnes ha messo in catene anche me. Quando parlo devo farmi strada con delicatezza e attenzione tra i suoi sentimenti. Non potrei mai perdonarmi se dovessi ferire una persona gentile, e se tale persona gentile è modellata in uno stampo molto diverso dal mio, e ha idee diverse, gusti diversi e un senso del divertimento diverso dal mio, se non del tutto assente – in tal caso che Dio mi aiuti – allora ci si sente governati da una verga di ferro.

La sola processione di ogni mattina dopo colazione verso le sedie e Merivale, dà la misura della sottomissione mia e di Dolly. Apre la fila Dolly con il libro, seguita da Mrs Barnes con il lavoro a maglia, quindi da me, che lancio sguardi a destra e a sinistra in cerca di una scusa plausibile per liberarmi, ma non riesco a trovarne una che non ferisca i sentimenti. Se mi attardo, Mrs Barnes mi guarda con disagio e quel suo sguardo che dice: “Vi sto cacciando via dal vostro giardino?”; e una volta, quando ho indugiato in casa col pretesto dei lavori domestici, mi ha inseguita con l’ansia dipinta in viso e mi ha pregato di permetterle di aiutarmi in quanto naturalmente erano lei e Dolly, mi ha spiegato, a far sorgere la necessità di lavori domestici supplementari, e lei era angosciata dal pensiero che, a causa della mia bontà nel consentire loro di stare qui, io dovessi privarmi del tempo libero di cui altrimenti avrei goduto.

«E nella vostra incantevole casa svizzera» ha soggiunto col viso aggrondato dal senso di colpa. «Durante le vacanze estive. E dopo un così lungo viaggio per venire quassù».

«Cara Mrs Barnes» ho mormorato in preda alla vergogna; e l’ho rassicurata: dovevo solo impartire un ordine, poi sarei subito uscita per presenziare alla lettura.

31 agosto

Stamani ho fatto un grosso sforzo per essere semplice. Ovviamente farò qualunque cosa in mio potere per rendere felice Mrs Barnes: mi metterò seduta, camminerò, ascolterò le letture, mi terrò a distanza da Dolly e organizzerò la vita per il breve lasso di tempo in cui lei resterà qui nel modo che più darà pace alla sua mente; tuttavia perché non dovrei al tempo stesso essere spontanea? A me viene naturale essere naturale. Se non riesco a dire ciò che voglio mi prende un tremendo imbarazzo, provo una sensazione di soffocamento, di mancanza d’aria. Riesco senza troppa fatica ad astenermi dall’essere naturale se non devo farlo troppo a lungo; per un breve intervallo è infatti possibile manifestare qualunque garbo. Ma rinchiusa per settimane in stretta compagnia di altre due donne in una casa isolata in cima a una montagna, prima o poi devo essere naturale altrimenti, prima o poi, finirò per morire.

Pertanto stamane sono scesa a colazione, fermamente intenzionata a esserlo. Dopo un sonno ancora più profondo del solito, mi sono svegliata con una sensazione di intraprendenza ancora più forte del solito. Mi sono vestita alla svelta, rafforzando la mia risolutezza con svariate buone argomentazioni, dopodiché sono rimasta affacciata alla finestra in attesa di sentire suonare il campanello.

Al primo tintinnio sono corsa di sotto, perché se sono in ritardo anche di un solo minuto, come mi è già capitato un paio di volte, trovo il mio uovo avvolto nel tovagliolo, il caffè e il latte fasciati nello scialle di lana bianco che Mrs Barnes porta sempre con sé, un piatto posato sopra il burro in caso di polvere, un piatto posato sopra il miele in caso di mosche, e Mrs Barnes e Dolly, puntigliosamente intente a dissimulare qualsivoglia espressione di rimprovero o attesa, all’altro capo del giardino a terrazza che, piene di tatto, si interessano al panorama.

Questo mi ha reso molto puntuale: il campanello suona, io compaio. Non compaio prima che suoni a causa della preziosità di ogni istante che posso legittimamente trascorrere nella mia stanza, ma se lo facessi troverei Mrs Barnes e Dolly già pronte. Non so quando scendano, però sono sempre lì, e sempre vengo accolta da Mrs Barnes con il più garbato interessamento riguardo a come ho dormito. Interessamento che ne suscita uno corrispondente in me riguardo a come ha dormito Mrs Barnes; la prima parte della colazione se ne va così in risposte a tali domande e in magnificazioni sul letto e sull’aria pura. Da qui prosegue ribadendo quanto lei e Dolly mi siano grate per la mia bontà. Me lo ripete ogni mattina. Sembra una specie di preghiera quotidiana. All’inizio ne ero sopraffatta, e non sapendo come difendermi da questi ripetuti colpi di gratitudine mi impappinavo, a disagio tra proteste e rassicurazioni. Ora li ricevo in silenzio, seguendo l’esempio delle autorità celesti; ma poiché a differenza loro mi imbarazzo visibilmente, mi produco in un sorriso confuso.

Alle lodi sulla mia bontà seguono le lodi sulla bontà del caffè e del burro, ma anche queste ultime non mi giungono come sollievo, essendo la bontà delle vivande strettamente intrecciata alla mia. Io sono l’Autrice del caffè e del burro; senza di me le due cose non esisterebbero.

Mentre tutto ciò avviene, Dolly non dice nulla e fa colazione. Potrebbe venire in mio soccorso almeno un po’, considerato che questa scena si ripete ogni mattina e che deve aver di certo notato come le mie scorte di pazienza siano ormai in via di esaurimento.

Stamani, determinata a comportarmi in modo naturale, le ho chiesto senza mezzi termini perché non parlasse.

Lei era a metà del suo uovo, e Mrs Barnes a metà di un elogio sulla straordinaria bontà delle uova e dunque, inestricabilmente, della mia bontà, al punto che non c’era modo di capire dove finiva l’uovo e cominciavo io; cogliendo l’occasione di una pausa in cui Mrs Barnes era impegnata a bere il caffè ho chiesto a Dolly: «Perché non parli?»

«Parlare?» ha ripetuto Dolly con un sorriso.

«Sì. Parlare. Dire delle cose. Come potremo mai diventare amiche se non ci diciamo delle cose? Non vuoi che diventiamo amiche, Dolly?»

«Ma certo» ha risposto lei sorridendo.

Mrs Barnes ha posato la tazza in tutta fretta.

«Non siamo già forse…» ha esordito, proprio come mi aspettavo.

«Amiche per davvero» l’ho interrotta. «Perché oggi» ho proposto, «non ci prendiamo una vacanza da Merivale e non ce ne stiamo tranquillamente sedute a chiacchierare? A dirci delle cose» ho proseguito, sempre determinata a essere naturale per quanto già un po’ nervosa, «cose vere. A dirci delle cose sul serio».

«Forse la lettura non… c’è qualche altro libro che pref… Merivale non vi interessa?» mi ha domandato Mrs Barnes con apprensione.

«Oh, sì» l’ho rassicurata, tralasciando per un attimo la naturalezza a beneficio della cortesia, «mi piace molto. Solo pensavo che per una volta sarebbe bello fare qualcosa di diverso. Che sarebbe bello semplicemente fare una chiacchierata. Sederci all’ombra e… oh, beh, dirci delle cose».

«Sì, mi piacerebbe molto» ha risposto Dolly.

«Potremmo raccontarci delle storie, come i personaggi di Il paradiso terrestre. Ma storie vere. Prese dalla nostra vita».

«Sì, mi piacerebbe molto» ha ripetuto Dolly.

«Ebbene» ha concesso Mrs Barnes, «saremo liete di ascoltare qualunque storia vorrete raccontarci».

«Ah, ma così non vale. Anche voi dovrete raccontarne qualcuna».

«Mi piacerebbe molto» ha ribadito Dolly mentre la fossetta faceva una fugace comparsa.

«Di sicuro noi… io e Dolly siamo troppo vecchie per metterci a giocare» ha dichiarato Mrs Barnes con dignità.

«Non direi. Vi piacerà, una volta cominciato. E comunque non posso certo giocare da sola, vi pare?» ho ribattuto, sempre cercando di mostrarmi semplice e spensierata. «E voi non volete farmi sentire sola, giusto?»

Ma stavo balbettando. L’occhio scrutatore di Mrs Barnes era fisso su di me. E sotto quello sguardo era impossibile continuare a essere semplice e spensierata.

I miei balbettii aumentavano. «A volte penso» ho detto quasi timidamente, «che stiamo perdendo tempo».

«Oh, no. Lo pensate davvero?» ha esclamato Mrs Barnes con l’ansia dipinta in volto. «Forse non ritenete Merivale…» (qui, se fossi stata un uomo, avrei detto: Al diavolo Merivale, e mi sarei sentita meglio) «sufficientemente istruttivo? Eppure leggere un testo storico non può essere uno spreco di tempo. O forse lo trovate pesante? Le informazioni sono sempre impartite in modo pittoresco, notevolmente pittoresco. Si può essere troppo vecchi per i giochi, ma fortunatamente mai per imparare».

«Io non mi sento troppo vecchia per i giochi» è intervenuta Dolly.

«Il sentirsi è un conto, l’esserlo un altro» l’ha ammonita Mrs Barnes severa senza voltarsi verso di lei.

«Pensavo solo» ho ribadito, «che invece di leggere oggi potremmo chiacchierare. Solo per una volta… tanto per cambiare. Se non vi piace l’idea di raccontarci delle storie tratte dalla nostra vita, allora chiacchieriamo soltanto. Diciamoci ciò che pensiamo riguardo alle cose… alle cose importanti come… beh, come l’amore e la morte, per esempio. Cose» l’ho rassicurata, «che in questo momento non ci toccano troppo da vicino».

«A me non piace parlare dell’amore e della morte» ha dichiarato Mrs Barnes in tono glaciale.

«Ma perché?»

«Perché mi turbano».

«Ma perché? Potremmo anche solo speculare…»

Lei ha alzato la mano. «Aborrisco le speculazioni. Una volta mio cognato mi disse: Mai speculare».

«Forse intendeva in senso economico».

«Intendeva in tutti i sensi. La speculazione fisica e quella morale, non ho dubbi».

«E va bene, allora non speculiamo. Parliamo delle nostre esperienze. Tutte noi ne abbiamo avute. Sono convinta che non sarebbe meno istruttivo di Merivale, e forse, chissà… forse potremmo anche ridere un po’. Non credete sarebbe bello… ridere un po’?»

«A me piacerebbe molto» è intervenuta Dolly con occhi luccicanti.

«Facciamo finta di essere tre uomini…»

Mrs Barnes, che negli ultimi istanti si era irrigidita sempre più, nell’udire questo è insorta.

«Temo proprio di non riuscire a fare una cosa del genere» ha annunciato.

«Beh, potremmo solo fingere di…»

«Non ho alcun desiderio di fingere alcunché» ha dichiarato Mrs Barnes.

«Beh, allora, facciamo finta che al nostro posto ci fossero qui tre uomini a trascorrere assieme le vacanze estive… riuscireste a immaginare i loro argomenti di conversazione?»

«Riuscirei solo se fossero uomini rispettabili» ha detto Mrs Barnes, «e anche in tal caso a fatica».

«Già. Certo. Ebbene, stamattina proviamo a chiacchierare come se fossimo uomini rispettabili. Di qualunque argomento. Non vedo perché» ho concluso in tono lamentoso, «non dovremmo parlare di qualunque argomento».

Dolly mi ha guardata. I suoi occhi danzavano.

Mrs Barnes sedeva impettita. Era concentrata a rigirare il cucchiaino così da recuperare anche gli ultimi filamenti di miele. Teneva gli occhi incollati su di esso, e se lo sguardo era di rimprovero me lo teneva celato.

«Dovete perdonarmi» ha detto avvolgendo con cura l’ultimo filo di miele, «ma poiché non sono un uomo rispettabile temo di non poter essere della partita. E naturalmente neanche Dolly, per lo stesso motivo. Ma è inutile dire» ha aggiunto con espressione scrupolosa, «che non vedo alcun motivo per cui voi, nel vostro giardino, non dobbiate, se così vi va, fingere di essere un uomo rispettabile…»

«Oh, no» l’ho interrotta, e mi sono arresa. «Oh, no, no. Forse avete ragione. Forse è davvero meglio continuare con Merivale».

Abbiamo terminato di fare colazione tra i soliti convenevoli.

Non ho più cercato di essere naturale.