X

Il mattino seguente non accadde nessuna delle cose che aveva temuto. Quando oltrepassò la porta della sua camera a tarda ora, risvegliatasi da un sonno pesante dopo un infinito rigirarsi nel letto la sera prima, la porta di fronte era spalancata e nel momento in cui la varcò, chiedendo in tono allegro: «Ebbene, come stiamo oggi?», lady M, ben lungi dall’ignorarla, disse, seppur guardandola con occhi un po’ troppo solenni: «Dobbiamo parlare».

Parlare? Mumsie era estasiata. Non era proprio per quello che si trovava lì?

«Parlare? È quel che dico anch’io!» esclamò entusiasta, meravigliandosi per la quantità e l’intensità delle paturnie, così le definiva lei, che l’avevano assalita la sera prima. «Parlare fino a farci seccare la lingua. Parlare fino alla nausea. Ma prima» aggiunse, soggiogata dal buonumore, «dobbiamo darci un bacio».

Al mattino Mumsie era sempre di buonumore. Il nuovo giorno le dava alla testa come vino. In un nuovo giorno c’erano tante di quelle opportunità, pensava. Era ciò che diceva sempre ai suoi ex mariti quando a colazione, la mattina, si mostravano troppo giù di corda. Un nuovo giorno poteva avere in serbo qualsiasi cosa, spiegava a quelle creature insoddisfatte, esortandole con un gaio battere del cucchiaio sulla tavola per risollevarle d’animo.

E quel nuovo giorno in particolare era la prova di quanto tutto ciò fosse vero. Bastava guardare cosa stava già accadendo, a cominciare dal caffè inaspettatamente buono portato in camera da Scimmiotto quando lei aveva suonato il campanello – per un attimo, nel vedere che entrava in camera lui invece che una donna, le era balenato per la testa che, essendo lui francese, e dunque soggetto a quel genere di cose, aspirava forse a. . . – per passare poi a lady M, la quale aveva pronunciato le esatte parole che lei stessa aveva intenzione di pronunciare alla prima occasione. Ovvio, perciò, che il morale fosse già alle stelle.

«Dobbiamo parlare» disse lady M.

«Ma prima dobbiamo darci un bacio» fu la reazione deliziata di Mumsie.

Eppure, in qualche modo, finirono per non baciarsi. Mentre si avvicinava per farlo lady M, appoggiata ai guanciali e con il piede fasciato posato sul cuscino che Mumsie le aveva infilato sotto la sera prima, la squadrò e le disse: «Perché?»

Una parola che spegneva gli ardori. Sembrava impossibile che una sola parola avesse un effetto tanto scoraggiante. Ma così fu. E rallentò l’avanzata di Mumsie. La indusse a esitare.

«Perché?» ripeté, ancora di buonumore pur esitando. «Perché le persone si baciano?»

«Non sono mai riuscita a capirlo» rispose lady M tra il contegnoso e l’indifferente.

«Oh, suvvia, cosa dite mai» si rianimò Mumsie, memore dello specchio per radersi e occhieggiando l’ampio letto. Inoltre quel mattino quando aveva aperto il piccolo armadio per riporvi gli abiti aveva fatto una scoperta molto interessante: dentro c’era un pigiama di seta giallo. Da uomo.

Perciò a che pro la sua povera amica continuava a fare la santarellina? Il pigiama doveva appartenere a un antico passato, probabilmente, perché il passato invecchia assieme a tutto il resto di una persona; ma al passato doveva appartenere. Dal momento in cui l’aveva visto i suoi sospetti erano diventati certezza, e ora era sicura che quella topaia solitaria e isolata doveva essere stata, in qualche momento della sua vita, il nido d’amore dell’apparentemente virtuosa lady M.

Bè, che male c’era? Mumsie era l’ultima persona al mondo ad avere da ridire sui nidi d’amore. Ciò su cui aveva da ridire, o piuttosto ciò che in quel caso le faceva specie, era l’atteggiamento di superiorità, l’alterigia nell’affermare di ignorare quelli che sono gli inevitabili preliminari a un nido d’amore.

Perché le persone si baciano?

Non sono mai riuscita a capirlo.

Nervi saldi, si disse Mumsie.

Così, come chi non ha intenzione di lasciarsi raggirare, le scoccò uno sguardo saputo; sforzi del genere, però, nel caso di Daisy non sortivano effetto. Erano totalmente estranei alla sua natura. Non le trasmettevano alcun messaggio. «Non volete sedervi? » fu tutto ciò che disse l’altra.

Mumsie prese una sedia e si mise comoda. La porta sprangata e la sera precedente furono subito perdonate e dimenticate, né si risentì per la mancanza di reazione a quel che da parte sua era stato quasi un ammiccamento. Al momento da quella rapa non si poteva cavar sangue, si disse, pronta a dispensare perdono a piene mani; insistere sarebbe stato del tutto inutile, dunque. Ma c’era tutto il tempo necessario. Aveva la rassicurante sensazione di avere tutta la giornata davanti a sé; settimane intere, se fosse stato utile. Il sangue sarebbe arrivato, per proseguire con una metafora che non le piaceva del tutto; però ormai le era entrata in testa: il sangue sarebbe arrivato, non c’erano dubbi, una volta che avessero cominciato a parlare.

 

 

 

Intanto sorrideva radiosa all’amica fasciata.

Tra un attimo le avrebbe sciolto la bendatura.

Checché se ne pensasse, mettere e togliere una fasciatura costruiva un legame forte.

«Come va il piede?» chiese mettendosi più comoda sulla sedia e portandosi una mano ai ricci per controllare che fossero a posto. «C’è bisogno di un altro impacco?»

E senza ascoltare la risposta cominciò ad annusare l’aria con espressione entusiasta, perché si era appena accorta che la stanza, le cui tre finestre erano spalancate, era inondata da molteplici soavi fragranze. Le ultime rose spandevano il loro dolce effluvio dal giardino, i primi gelsomini dai campi. E proprio lì sotto, lungo il sentiero, c’erano i gigli, che fiorivano incolti con la tipica profusione assolutamente squisiti da vedere e odorare.

Che profumi, pensò Mumsie fiutando con apprezzamento. Da donna di città qual era non era in grado di riconoscerli, ma ne ricavava un gran piacere. Se fossero stati appena un po’ più intensi sarebbero stati deliziosi quasi quanto quelli della fabbrica di Grasse. Nonostante le molte manchevolezze, decise, non si poteva negare che, se ti allontanavi dall’aglio, il posto avesse un buon odore. Né, tanto meno ci si poteva lamentare, si disse, colpita dall’intensità dell’azzurro attraverso le foglie argentate degli ulivi, che il cielo non avesse un gran bel colore. Gli alberi, poi, di giorno avevano tutt’un altro aspetto, per niente spaventoso. Strane le paturnie della sera prima; strano che si fosse sentita così a terra; ecco cosa succedeva a una persona quando non aveva un’anima con cui parlare. Naturalmente rimaneva la questione dell’assenza di una vera e propria villa, ma ormai non aveva più importanza, dato che in un paio di giorni lei e lady M sarebbero partite assieme a bordo del Blue Train.

«Un bel posticino, quello che avete qui» affermò compiaciuta, disposta, nella sua benevolenza mattutina, a mostrarsi soddisfatta persino della Fattoria dei Gelsomini. «Comunque non arriverei a definirla residenza» aggiunse.

«Ma io non la definisco tale».

Osservava l’ospite con una sorta di affascinato orrore. Quella Mrs De Lacy, ora lo sapeva, quel personaggio incredibile che la stava perseguitando, le aveva reso un grande servizio arrivando alla fattoria. Le ci era voluto un bel po’, per capirlo. All’inizio il dolore al piede era stato così lancinante che non era riscita a pensare ad altro, ma quando si era gradualmente attenuato, e lei aveva potuto concentrare la sua attenzione sull’accaduto, era talmente accecata dalla rabbia da non riuscire a vedere quanto benefica fosse quella rabbia stessa. E invece benefica lo era. La faceva emergere dalla miserevole ridda di emozioni insulse e infestate di fantasmi in cui stava annegando; la trascinava di nuovo sulla superficie della vita, dove i problemi erano semplici, e le decisioni da prendere non complicate da strazianti dolori personali.

Daisy aveva un bisogno spasmodico di qualcosa che la distraesse dai suoi fantasmi. Quando Mumsie era arrivata Daisy era lì, da sola, da due giorni soltanto, ma avrebbero benissimo potuto essere due anni, tanto numerosi e bizzarri erano i luoghi in cui la sua mente aveva vagato. Anzi, nel momento in cui Mumsie l’aveva incontrata nel viottolo la sua mente era ancor più malridotta della sua persona: un mero ammasso di cianfrusaglie, un cumulo di brandelli. Non aveva ancora trovato la forza di estrapolare un singolo aspetto, né una delle domande disperatamente importanti che, come sapeva, prima o poi avrebbe dovuto dipanare e affrontare.

Aveva camminato all’infinito, in fuga dai pensieri, in fuga da Midhurst. La casa e il giardino traboccavano di ricordi. Ogni cosa che Daisy vedeva o toccava sembrava riportare il marito in vita. Per fortuna non era mai stato appassionato di passeggiate, così i campi e i boschi, se non altro, erano liberi dalla sua presenza; una volta al sicuro laggiù, lui non aveva più alcun potere di tirarla per la manica di continuo, di indicare e sussurrarle: Ti ricordi? nel modo angosciante in cui accadeva alla fattoria.

Ecco perché, fintanto che avesse continuato a camminare si sarebbe tenuta alla larga da Midhurst. La sera, tuttavia, aveva dovuto tornare da lui. Impossibile camminare all’infinito. E l’aveva trovato là ad aspettarla, come aspettavano anche i dubbi ridicoli, assurdi e tardivi, a lei del tutto nuovi, che dalla morte di lui non le avevano mai neppure sfiorato la mente, se avesse fatto bene a essere così… se forse, dopotutto, non sarebbe stato meglio… se non avrebbe dovuto tenere stretto l’amore, qualunque tipo di amore, persino quello che a volte diventava irrequieto, anziché, nell’istante stesso in cui iniziava a dimenarsi tra le braccia, lasciarlo cadere a terra con freddezza…

Che conforto allontanarsi, a furia di camminare, da quei dubbi pieni di fantasmi. Ma era davvero un conforto? I dubbi non calavano, piuttosto, come una tenda triste, ma pur sempre occultatrice, posta tra lei e qualcosa di ben peggio? Incespicando di continuo nelle scarpe poco adatte, Daisy si chiese cosa avrebbe fatto se di lì a poco altri dubbi avessero cominciato ad assalirla, dubbi non su fatti appartenenti a un lontano passato e di conseguenza impossibili da cambiare, ma su fatti recenti, accaduti in un passato ancora vivo e pulsante, che risaliva a non più di una settimana prima, dubbi che l’avrebbero spinta a chiedersi se tutto sommato avesse fatto bene a essere così. . .

Rifuggì da quel pensiero. Il peccato era pur sempre peccato, ribadì con fermezza a se stessa, e di tutti i peccati il più odioso era quello che assumeva le sembianze dell’amore. Lei aveva passato tutta la vita, in conseguenza dell’infelicità che Tom le aveva procurato con le sue incursioni in quel presunto amore, a cercare di mettere al sicuro le persone da esso, e quando queste si rifiutavano di lasciarsi mettere al sicuro, ovvero in pratica quasi sempre, temeva, a voltare loro le spalle. In quel caso doveva rifiutarsi di voltare le spalle alla peccatrice solo perché era sua…?

Non riusciva a pronunciare quella parola, a formulare quel pensiero; farlo l’avrebbe lasciata mezza morta. Correva alla cieca per fuggire; rapida, sempre più rapida, lontana dal ricordo, dalla consapevolezza. . .

In quell’oscura ridda di emozioni Mumsie era piombata come una torcia, accendendo la mente di Daisy di un’onesta, subitanea collera. I fantasmi erano volati via. Midhurst si era tolto di mezzo; e la perversione morale di Terry e Andrew era stata accantonata per forza di cose, dovendo lei ora occuparsi di Mrs De Lacy.

Più tardi, più tardi, si era detta Daisy, fin troppo ansiosa di rimandare ancora per qualche tempo l’inevitabile momento in cui dover guardare in faccia l’orrore, dover sciorinare la vergogna ed esaminarla. Prima bisognava sistemare Mrs De Lacy. E se la presenza di quella donna era un insulto, era anche, avvertiva, svariate altre cose: un’oasi nel deserto dei propri disastri, dove poter sostare un attimo e riprendere fiato; uno stimolo che esortava all’azione; un purgante che sgomberava la mente.

In realtà aveva ogni ragione per essere grata a Mumsie, per quanto le ci volle del tempo per rendersene conto. Fu solo quando le stelle cominciarono a scolorire e il mondo a farsi grigio che cominciò a sospettare che, incredibilmente, l’arrivo di Mrs De Lacy le stava facendo del bene. Al di là del corridoio l’ospite non gradita, che aveva continuato a rigirarsi nel letto, era finalmente piombata nel sonno pesante da cui si sarebbe svegliata tardi il mattino dopo. Nel momento in cui sorse il sole, il che avvenne con la subitaneità di un’esplosione di musica, divampando dietro il profilo violetto delle colline a est come un grande accordo di luce, dovette ammettere che quell’indignazione così semplice e diretta, priva di qualsiasi straziante complicazione, riusciva a farla sentire quasi una persona normale; e quando lo splendido, nuovo giorno ebbe preso pieno possesso della sua stanza e lei, così come ogni altra cosa lì dentro, fu accesa di glorioso fulgore, giunse a pensare di avere un obbligo di gratitudine nei suoi confronti.

Per questo non trovava particolarmente carino industriarsi per liberarsi di lei, ma non poteva farne a meno. Doveva assolutamente liberarsene, e alla prima occasione utile. Ma com’era difficile trovare il modo giusto. Nel cercare una soluzione al problema corrugò le sopracciglia: ora che le ultime tracce di madame Valaise erano scomparse riusciva a muoverle liberamente. In quel luogo isolato, a chilometri di distanza da qualunque altro posto, senza telefono, senza la successione di ampie stanze in cui potersi rifugiare mentre gli altri commettevano le loro sgradevoli azioni; priva delle barricate di servitori e amici che si sarebbero frapposti tra lei e la vergogna; e priva, nel caso in cui si fosse arrivati davvero al peggio, persino del poliziotto all’angolo, com’era possibile sbarazzarsi della donna?

Daisy giaceva sul letto e rifletteva. Immersa nella luce, giaceva e rifletteva su problemi sordidi, mentre la sfarzosa magnificenza del mattino le passava davanti agli occhi che nulla vedevano. Tieni alto il morale, la esortava il solito sussurro, lo stesso che l’aveva esortata il primo pomeriggio. Ora, così come allora, ne era consapevole; ora, come allora, lo liquidò come irrilevante. Le persone nella sua situazione non tenevano alto il morale. E, lei tra tutti, che motivo aveva per tenere alto il proprio? Il suo morale era a terra, probabilmente per sempre. Tuttavia, quel poco che le era rimasto poteva ancora, fortunatamente, concentrarsi su come sbarazzarsi di Mrs De Lacy.

Così si concentrò; e la prima idea, quella di mandare Adolphe a Grasse in cerca di un taxi e dirgli di metterci dentro la donna, fu scartata, non avendo idea di cosa fare nel caso in cui lei si fosse rifiutata di lasciarcisi mettere. Verosimilmente si sarebbe rifiutata: per quale motivo infatti prendersi il disturbo di fare tanta strada – sebbene spinta dalle più vergognose ragioni – e poi acconsentire ad andarsene appena arrivata?

L’idea successiva, ovvero starsene chiusa in camera senza badare minimamente ai colpi alla porta e alle implorazioni che senz’altro ci sarebbero stati finché l’incredibile creatura non avesse rinunciato e avesse preso un taxi di propria spontanea volontà, fu anch’essa scartata in quanto poco dignitosa. Si era comportata in modo già abbastanza indegno, aggrappandosi a lei quando si era slogata la caviglia, quando era stata colta dal vomito, quando aveva detto a Thérèse di chiudere a chiave la porta perché le riusciva inaccettabile l’idea di farsi spogliare da Mrs De Lacy, perciò doveva assolutamente mettere fine al più presto a manchevolezze del genere.

Meglio farsi spogliare cinquanta volte da Mrs De Lacy piuttosto che abbassarsi a una tale puerile codardia, stabilì Daisy mentre il sangue dei suoi antenati, che per quanto ne sapeva erano stati audaci e dignitosi, le si rimescolava nelle vene. Che fosse per tradizione o per abitudine, al più lieve accenno di comportamento indegno quel sangue invariabilmente si rimescolava dentro di lei. Faticava a escludere dalla mente l’idea che un paio di volte, durante le peregrinazioni tra i campi, si era imposta alla sua attenzione, ovvero che la sua fuga da Londra fosse stata l’ultima parola in fatto di codardia e di comportamento indegno; né riusciva a cancellare completamente dalla memoria il crollo totale della sua dignità in quel terribile pomeriggio quando i due, i cui nomi non riusciva a costringersi a pronunciare, l’avevano ridotta a un essere piagnucolante davanti agli occhi di tutti, compresi i domestici, alla stregua di un cane bastonato. Ma ci sono cose che, se si vuol continuare a vivere, non possono essere pensate né devono essere ricordate.

Così, escludendo, ignorando e per il momento tenendosi accuratamente a galla sulle acque poco profonde che Mumsie le forniva, decise che non avrebbe permesso a una persona come Mrs De Lacy di trasformarla in una codarda né di sviarla dalla dignità. Sarebbe stato tributarle un complimento troppo grande. E poiché per via del piede – si poteva essere più sfortunati? – non poteva scendere da lei, doveva farla salire al piano di sopra e dirle quel che doveva dirle lì nella sua camera. Dopotutto, ora non c’era nulla di ciò che avrebbe potuto sentire che già, tragicamente, non conoscesse, dunque non ci sarebbero state altre sorprese. Le avrebbe chiesto di giustificare la sua presenza lì alla fattoria, e dopo averla ascoltata l’avrebbe invitata ad andarsene.

Semplice, di una semplicità perfetta. Le sembrava fuori discussione che la donna potesse rifiutarsi. Poteva forse rifiutarsi di farsi caricare su un taxi, ma non di lasciare la casa. Nessuno a cui un padrone di casa avesse chiesto di andarsene sarebbe rimasto. Ma ipotizzando per assurdo che lei ci avesse provato, e ipotizzando che si fosse arrivati al peggio, si poteva sempre. . .

Per la prima volta dall’abbattersi della catastrofe, negli occhi stanchi di Daisy – anche questo lo doveva a Mumsie – tremolò la debole luce di un sorriso. L’idea era di tagliarle i viveri.

 

 

 

Perciò, mentre Adolphe e Thérèse avevano già cominciato a muoversi silenziosi per casa, eccola lì, dopo lunga considerazione, giunta a un piano così poco drastico come chiedere spiegazioni, ascoltare con piglio dignitoso e poi, in toni cortesi, esigere la partenza.

Pazienza, cortesia, dignità; sarebbero stati quelli i suoi punti di forza, stabilì Daisy. Quali altri punti di forza avrebbe potuto avere una donna nella sua posizione costretta a fronteggiarne un’altra nella posizione di Mrs De Lacy? Qualunque altro aspetto, qualunque altra sofferenza quella creatura potesse aver provato dovevano essere messi da parte finché, con la partenza, l’offesa del suo arrivo fosse stata lavata. Agli occhi di Daisy era un’offesa mostruosa, e non vi era accadimento, rivendicazione o lagnanza che potesse giustificarla.

Perciò eccola lì; e lì, poco dopo le undici, ecco anche Mumsie. Quest’ultima, al momento consapevole unicamente del benessere del caffè bevuto e di quello che le procurava il profumo dei fiori, mentre annusava l’aria con espressione felice, aveva la soddisfazione dipinta in volto.

Indossava il nuovo completo da spiaggia, e si sentiva molto elegante e alla moda della Costa Azzurra, per quanto un po’ nuda sulla schiena finché non ci avesse fatto l’abitudine. Si sentiva anche bella e nel fiore degli anni; e con il trucco del giorno prima, che non aveva avuto cuore di lavarsi via, ancora quasi in perfette condizioni. Che contrasto stridente, si disse, con la figura malridotta allungata sul letto. Peccato che lì non ci fosse nessuno con gli occhi adatti per vedere.

Daisy, osservandola, trovò straordinaria quell’evidente soddisfazione. Per quale motivo era così compiaciuta? In fondo a sua figlia, alla povera piccola deliziosa Rosie, che la madre certamente adorava, era stato rubato il marito, e oltre tutto per mano…

«Non arriverei però a definirla residenza» sentì pronunciare Mumsie proprio mentre lei si stava allontanando con un sussulto dai due nomi che ancora non riusciva a pronunciare.

«Ma io non la definisco tale» rispose con un piccolo singulto nel respiro tanto era stata vicina a pronunciare nella mente quel nome un tempo così caro.

«I giornali sì, però. Abbiamo letto l’“Evening Standard”. C’era scritto che eravate andata nella vostra residenza nel sud della Francia».

«I giornali?» ripeté Daisy. «I giornali?» ripeté di nuovo sporgendosi in avanti. «È così che avete scoperto che. . .»

«Sì. Esatto» rispose l’altra, tirando su una spallina che stava scivolando; non era il caso che il pigiama scendesse più in basso di così, pensò. «Vicino a Grasse, c’era scritto. La residenza vicino a Grasse. Così mi sono informata su dov’era Grasse e mi sono messa subito in viaggio. La piccola Belle non è tipo da starsene con le mani in mano, quando si mette in testa qualcosa».

Ma ora Daisy la fissava senza vederla. Non era più consapevole della figura corpulenta, vestita in modo inadeguato, sulla sedia accanto. Un baratro di slealtà e di disobbedienza agli ordini si stava spalancando tra lei e l’unica persona di cui, alla fine, si fidava. Miss Simpson. Miss Simpson che mandava quella nota ai giornali. Persino Miss Simpson la tradiva.

Bizzarro come quell’ultimo tradimento, davvero minimo, se paragonato a quello di Terry e Andrew, avesse il potere di ferirla. Non solo di ferirla nel vivo, ma soprattutto di metterle paura. Questo significava, allora, che non restava più nulla a proteggerla, assolutamente nulla tra lei e chiunque decidesse di inseguirla? Bastava guardare quella donna, scandalosamente già lì. E lei che aveva pensato di fuggire verso una solitudine inviolabile!

Fissò Mumsie con sguardo assente. Anche se non aveva detto a Miss Simpson in termini espliciti – nell’orrore e nella confusione del momento probabilmente se n’era dimenticata – che nessuno doveva sapere dov’era andata, non era comunque implicito nell’ordine tassativo, che ricordava di averle dato, che nulla le doveva essere recapitato, né lettere né telegrammi, finché lei stessa non avesse chiesto notizie? «Non voglio sapere niente, niente di nessuno» ricordò di avere detto a Miss Simpson che, ritta davanti a lei, tremava come una foglia. Non era come se le avesse detto di non dare a nessuno sue notizie?

«Non guardatemi come se fossi trasparente» commentò Mumsie con un tocco di impazienza nel vedere protrarsi quello sguardo vuoto. «Perché trasparente non sono. Sono qui, in carne e ossa» non poté fare a meno di aggiungere, avendo l’impressione, come l’aveva avuta nel fare il proprio ingresso a Grosvenor Square, di tenere in pugno quel posto assieme a tutti i suoi occupanti.

«Sì» disse Daisy, chiamando a raccolta i pensieri e concentrandosi una volta di più sull’immediato, ovverosia su Mumsie, e mettendo da parte per il dopo qualunque considerazione sul tradimento di Miss Simpson. «Sì, lo vedo. Ma. . . ditemi perché».

«Perché cosa?»

«Perché siete qui».

«Bè, è presto detto» cominciò Mumsie. «Innanzitutto perché vi mettiate il cuore in pace. . .»

Come suonavano strane quelle parole, alle orecchie di Daisy: Perché vi mettiate il cuore in pace. Ah, se solo al mondo ci fosse stato qualcuno in grado di farlo! E scoccò a Mumsie un’occhiata accompagnata da un sorriso così amaro che l’altra, traboccante di amabilità, si bloccò a metà frase per prenderle la mano e darle una serie di buffetti rassicuranti.

Ma non riuscì a prendergliela, figurarsi poi a darle dei buffetti. Perché in qualche modo scivolò via, si mantenne distante.

«Non fate quella faccia ostile» la ammonì, o per meglio dire la pregò, quasi, dato che il sorriso dell’altra l’aveva ferita. «Aspettate che abbia finito di dirvi ciò che ho da dirvi. Innanzitutto sono venuta perché vi mettiate il cuore in pace, e una volta fatto questo per riportarvi a Londra».

A quel punto Daisy rise apertamente; e fu una risata talmente sgradevole che se Mumsie fosse stata un altro tipo di donna se ne sarebbe risentita, l’avrebbe presa per un insulto. Nessuno, però, si disse, avrebbe potuto prendere sul serio un relitto del genere. Con addosso la camicia da notte di pizzo tutta infiocchettata – c’erano nastri sufficienti a ornare una dozzina di spose, stimò Mumsie, e la luce piena del mattino metteva in mostra tutto ciò che gran parte delle donne, molto opportunamente, cercava di nascondere per tutta una vita – era uno spettacolo troppo commiserevole per essere preso sul serio. Trattala come se fosse una bambina, è la cosa migliore, pensò Mumsie; una bambina malata, bisognosa di assistenza e di essere assecondata.

«Non ridete in quel modo» finse perciò di sgridarla, battendo piano le mani a ogni parola. «Ridere è una gran bella cosa, lasciate che ve lo dica, e non lo si dovrebbe fare per offendere».

«Avete perfettamente ragione» ribatté Daisy facendosi improvvisamente seria. «E vi chiedo perdono».

«Oh, concesso, concesso» la rassicurò Mumsie. «Non dobbiamo preoccuparci di cose come il perdono, fra noi. Siamo amiche, così la vedo io. E fra amiche non sono necessarie troppe formalità».

«E perché saremmo amiche?» chiese Daisy, ora rivolta verso Mumsie e con il viso tornato serio su cui si leggeva l’espressione di chi è determinato a non perdere la pazienza.

«Perché, perché. Non ho mai conosciuto nessuno con in testa tanti perché» la canzonò.

«Già. Però lo voglio sapere. Voglio fare chiarezza su questo» spiegò Daisy accigliandosi.

«Bè, intanto abbiamo gli stessi interessi» affermò Mumsie. «E poi possiamo proteggerci a vicenda dallo scandalo».

«Oh!» disse Daisy. E rimase muta. Ma poi, ricordando la propria determinazione ad ascoltare la donna fino in fondo, soggiunse: «Spiegatevi».

«Via, che bisogno c’è di spiegare?» rimostrò Mumsie. «Sareste forse fuggita, se non l’aveste saputo?»

«So bene per quale motivo sono venuta qui» dichiarò Daisy sussultando nell’udire la parola fuggire. «Quel che invece non so è perché l’avete fatto voi».

«Ma ve l’ho detto, perché vi mettiate il cuore in pace. Ve l’avrei detto l’altro giorno, quando sono venuta a farvi visita in città…»

«Sì. E me ne dispiace» la interruppe Daisy. «Voglio dire, mi dispiace di non avervi lasciato spiegare in quell’occasione ciò che volevate. Vi sareste risparmiata un viaggio».

«Ve lo sareste risparmiato voi» ribatté Mumsie. «Vi avrei convinta a non preoccuparvi minimamente per questa nostra faccenduola e a rimanere tranquilla nelle vostre belle dimore come sempre, a divertirvi con i vostri amici. Con l’unica differenza che adesso ne avreste avuta una in più, di amica. Una nuova amica, una buona amica, un’amica muta come una tomba».

Daisy la fissò intensamente. Prima d’ora non aveva mai conosciuto nessuno come quella Mrs De Lacy; non da vicino, non al punto da rivolgerle la parola. Forse le era capitato di vedere qualcosa di simile su un palcoscenico, ma mai meno distante di così. E poiché la donna non poteva più farle del male, ora che anche lei era venuta a sapere il peggio, perché prenderla sul serio? Ridicolo arrabbiarsi con una del suo livello. Era una bambina. Molto meglio quindi trattarla da tale, non darle troppa importanza.

Ecco perché il primo impulso fu di regalare qualcosa a quella poveretta. Era talmente patetica con quel completo da spiaggia inadeguato ed economico, che cercava imperterrita di essere ancora giovane e bella quando invece doveva essere già da tempo. . . Come te, si sovvenne a disagio quasi folgorata, nello stesso modo e con lo stesso disagio di quel mattino a Grosvenor Square. Che assurdità: che somiglianza poteva mai esserci. . .

E proprio come quel mattino aveva provato il desiderio di offrire alla povera donna alcune gardenie appena raccolte per sostituire quelle malconce appuntate sul soprabito, ora provò il desiderio, se proprio voleva insistere nell’indossare un completo da spiaggia, di regalargliene uno di taglio raffinato, uno di quelli costosi. In fondo era una persona di animo buono, che le aveva fasciato il piede con scrupolo e ogni premura. Così anche lei avrebbe fatto qualcosa in cambio, se se ne fosse andata senza strepito. Per esempio mandarla da Schiaparelli facendola fermare a Parigi sulla strada del ritorno, con una lettera in cui gli diceva di confezionargliene uno davvero bello e di spedire il conto a Miss Simpson.

«Quello che dobbiamo fare noi due» stava spiegando Mumsie, i vividi occhi neri fissi sul viso rivolto verso di lei, a sorvegliarne ogni espressione ma senza comprenderne neppure una, «è unire le forze e mettere a tacere lo scandalo. Ma unire le forze in un posto come questo è inutile. Qui non possiamo mettere a tacere un bel niente, visto che non c’è nessuno che parla. Perciò la prima cosa da fare è tornare a Londra. È quello il nostro campo d’azione. Un mucchio di lingue in movimento. E nel caso in cui la voce si sia già sparsa, dobbiamo farci vedere in giro assieme. Il mio consiglio è di farci vedere in giro assieme parecchio » proseguì con enfasi. «Ricevimenti. Ascot. Cowes. Brughiere. Roba del genere. Ho sempre desiderato salire su uno yacht, e credo che neppure la brughiera mi dispiacerebbe se mi fosse consentito passeggiarci. Mi stupirei davvero, vi dico, se le lingue continuassero a spettegolare pur vedendoci andare in giro assieme dappertutto come due piselli in un baccello. Naturalmente sapete bene anche voi, come lo so io, che in un carosello del genere per le due madri sarebbe contro natura essere amiche, se ci fosse sotto qualcosa di vero, intendo dire la madre che ha subito il torto e quella che. . . bè, non è colpa vostra, naturalmente, però le cose stanno così».

Tacque. Daisy la guardava a occhi sgranati. Nella sua mente si stava facendo largo a gomitate una parola che non aveva mai avuto occasione di usare, o addirittura di pensare. Era totalmente all’oscuro di ciò che significava davvero, eppure cominciò a insinuarsi in lei l’idea che ciò che Mrs De Lacy aveva in testa era il ricatto.

Una brutta parola. Una brutta cosa. Che giungeva come l’ultima goccia in un vaso già traboccante. Eppure, invece di farla infuriare, e indurre il sangue degli antenati, che finora si era solo rimescolato, a ribollirle nelle vene, la colmò del desiderio, oltremodo inadatto all’occasione e alle sue tragiche circostanze, di ridere; e questa volta in modo neppure troppo amaro.

Perché non si trattava forse di un ricatto piuttosto buffo? Il tipo di ricatto in cui avrebbe potuto cimentarsi un bambino, unicamente per scherzo? Ricevimenti. Ascot. Lei e Mrs De Lacy che andavano in giro per Londra, determinate a sostenersi reciprocamente contro gli assalti dello scandalo. Impossibile arrabbiarsi con un’anima tanto semplice. Anzi, una tale semplicità, una tale ingenua ignoranza dell’alta società e dell’abisso, impossibile da valicare, che separava Mrs De Lacy da essa, era così disarmante da far quasi venir voglia di accarezzare quella poveretta; quasi, non del tutto. Come si sarebbe sentita infelice ai ricevimenti; quanto abissalmente sola: i suoi approcci volonterosi sarebbero stati accolti da un’occhiata, da una gelida sorpresa o nella migliore delle ipotesi da un’umiliante cortesia subito seguita da un dileguarsi.

«Sì» disse in tono grave dopo un attimo, come per dare considerazione a quei suggerimenti. «Capisco. E siete molto gentile a voler . . .»

«Bè, in effetti credo anch’io sia gentile, da parte mia» l’interruppe Mumsie in tono compiaciuto. «Se penso alla mia Rosie piantata in asso. . .»

«Sì, certo» l’interruppe Daisy a sua volta. «Sta di fatto però che non ho intenzione di tornare a Londra».

Cos’era stato a farglielo dire? Non lo sapeva. Per il momento non aveva ancora programmato nulla. Le era balenato in testa così, senza una ragione.

«Non in questo preciso istante, naturalmente» concesse Mumsie. «Non finché il vostro piede sarà migliorato».

«Mai più» dichiarò Daisy; e dopo aver pronunciato quelle parole provò uno sbalordimento così totale che fissò Mumsie a occhi sgranati per la sorpresa.

Mumsie, tuttavia, la fraintese. «Volete dire» rettificò, «che preferite stare in una delle vostre residenze di campagna. Bè, personalmente non amo molto la campagna, ma credo che potrei adeguarmici, per una buona causa. Daremo ricevimenti a casa. Ma dovranno esserci molti invitati, se vogliamo rendere il più possibile pubblica la nostra amicizia».

«Oh, no» disse Daisy come se fosse qualcun altro a parlare con la sua voce. «Non voglio dire questo. Voglio dire che rimarrò qui».

Fu la volta di Mumsie a essere sbalordita. Naturalmente non si sarebbe dovuta prendere quella poveretta sul serio, date le condizioni in cui versava, però aveva parlato con lucidità, come se sapesse quel che diceva.

«Su, su» rimostrò facendo del proprio meglio per continuare ad apparire allegra. «Rimanere qui? In questa miserevole topaia?»

«Ma se l’avete appena definita un bel posticino».

«Sì, certo che lo è, per fare un picnic o appartarsi per un paio di giorni. . . assieme a un bell’uomo» aggiunse Mumsie ricordandosi del pigiama giallo. «Ma non venite a dirmi. . .»

«Ve lo dico. Non tornerò indietro. Non tornerò. . .» gli occhi di Daisy erano spalancati per la meraviglia nel sentire la propria voce che ripeteva quelle affermazioni, nel sentire come stessero prendendo la forma di decisione irrevocabile, «mai più».

Ammutolite, si scrutarono l’un l’altra: Mumsie incredula, Daisy con l’aria di chi è stato colto di sorpresa dalle proprie stesse parole. Si chiedeva se Mrs De Lacy si fosse schiarita la mente, questa volta in modo così totale da riuscire a prevedere, come in una sfera di cristallo, ciò che lei, Daisy, avrebbe fatto in futuro. Non tornare indietro; rinunciare; chiudere una volta per tutte con la fatica e la vergogna, con il dover ascoltare quella musica atroce. Che pace; oh, che pace.

I suoi occhi, ora velati, superarono Mumsie posandosi fuori dalla finestra, dove la campagna incantevole si stendeva sotto il sole. Come appariva serena e libera da crucci. Londra e tutto quello che era accaduto sembravano lontani e distanti nel tempo. Persi nello spazio. Ammantati di silenzio. Chissà se lì, irraggiungibile da beffe e derisioni, fuori portata della malvagità, un po’ alla volta sarebbe riuscita a dimenticare? Fissando le colline silenziose, si disse che in un posto del genere chiunque sarebbe riuscito a dimenticare qualunque cosa; quando avesse avuto un altro po’ di tempo, cioè. E, una volta dimenticato, forse sarebbe stato più facile. . .

Perdonare. Far pace. . .

Quelle parole le si insinuarono sospirando nella mente, terminando la frase al posto suo. Daisy sospirò di rimando, con una nostalgia simile al dolore. Ah, fosse possibile! Che cosa celestiale. Quale supremo sollievo. Immagina un po’, si disse, poter ricominciare già da quel giorno, ricominciare da quello stesso giorno una vita purificata dal passato e dalle sue lancinanti crudeltà con animo rinnovato e semplice, non più arrabbiato, non più atterrito, che non giudicava più, capace di comprendere e quindi di perdonare!

«Sono ancora qui, sapete» rimarcò Mumsie in tono brusco.

Ma Daisy non le badò. Si era scordata di Mumsie. Era totalmente assorta nel suo desiderio di liberarsi dal tormento, costasse quel che costasse. Senza rendersi conto di quel che faceva accennò un gesto con la mano, sollevandola un istante per poi lasciarla ricadere sul copriletto. E senza rendersi conto di quel che diceva, mormorò con voce esausta, senza distogliere gli occhi dalle colline in lontananza: «Io. . .ne ho avuto abbastanza».

Al che la collera cominciò a montare dentro Mumsie. Conosceva quel tipo di collera, sapeva come, ogni volta che le permetteva di prendere il sopravvento, dovesse poi pentirsene, dunque lottò per tenerla a freno. Che incredibile, assurda stupidità. Rimanere in quel posto? Per vivere come i porci, quando avrebbe potuto rotolarsi negli agi in una qualunque delle sue meravigliose dimore e farci rotolare anche qualcun altro? Ah, no, Mumsie non poteva certo assecondare una sciocchezza del genere. Viziata, ecco cos’era lady M. Viziata fino al midollo. Erano soltanto capricci.

«Questo è un comportamento che io definisco morboso» cominciò, lottando con se stessa per parlare in toni ragionevoli, persino lottando per parlare con benevolenza.

Fatica sprecata. La visione della figura sul letto adorna di pizzi, con ai propri piedi tutto ciò che esisteva al mondo, con il potere di deporre ai piedi di qualcun altro tutto ciò che esisteva al mondo, ma desiderosa solo di distruggere ogni cosa a calci per puro capriccio e di nascondersi laggiù, dove non vi era proprio nulla da cui nascondersi, fu troppo da sopportare.

Rinunciò a lottare. Lasciò che la collera le montasse dentro.

«Struzzo!» sbottò, accompagnando l’uscita con una manata sul ginocchio coperto dal pantalone.

Quella parola suonò orribile. Sembrò rimbalzare per la stanza, mandare in frantumi ogni cosa. Sapeva che una vera signora non avrebbe mai detto «struzzo» a un’altra, ma il saperlo non le era d’aiuto. Fermati, fermati, la incitava qualcosa dentro di lei, ma non le era d’aiuto neppure quello. Non riusciva a fermarsi. Una volta partita, per Mumsie era impossibile fermarsi. Forse in quel caso, con una posta in gioco così alta, ci sarebbe riuscita, se Daisy le avesse risposto, ma Daisy non le rispose. Dopo un’occhiata allarmata, un rapido volgersi nella sua direzione, tutto ciò che fece fu chinare il capo e cominciare a studiarsi le dita intrecciate con gran concentrazione.

Mumsie lo trovò esasperante. Sfuggevolezza, insultante sfuggevolezza; la stava trattando come se nemmeno si trovasse lì, come se fosse indegna di rivolgerle la parola. «Ho detto struzzo, e intendo dire struzzo» proclamò quindi a voce alta. Adolphe, passando sotto le finestre nel tornare a casa per cena dai campi di gelsomino, si fermò intimorito. «Cos’altro è se non un comportamento da struzzo venire a nascondere la testa quaggiù e pensare che nessuno noterà il resto del corpo che spunta fuori? E poi parlano di sangue blu! Io lo chiamo semolino, semolino da vigliacchi.»

Anche quello suonò orribile. Semolino. Nelle vene di Daisy, al posto del sangue. Dire una cosa del genere. Fermati, fermati, la incitava la voce.

Ma Mumsie non riuscì a fermarsi.

«Quanto all’averne avuto abbastanza» gridò, sempre più sconsideratamente, «direi che voi ne avete avuto abbastanza, ma io no. Voi siete rimpinzata di buone cose» – «rimpinzata», altra parola orribile; lo sapeva, lo ammetteva, ma non riusciva a fermarsi – «mentre io mai una volta in tutta la vita ne ho avuto abbastanza di qualcosa. Bè» proseguì mentre la voce le si alzava sempre più al ricordo di un’ingiustizia così assoluta, «giusto per fare un piccolo esempio, che immagino vi parrà cosa da poco, ma per me non lo è: di aragosta non ne ho ancora avuto abbastanza, non quanto ne avrei voluta, non abbastanza da non dover andare a casa e pensare che peccato sia stato non averne avuta di più. L’aragosta è cara, qui sta il problema» spiegò in tono amaro, «e gli uomini che ti portano fuori a cena diventano sempre più tirchi. Non penso che possiate avere un’idea di cosa significhi desiderare un altro po’ di qualcosa di buono e non averlo mai. E credo che non vi sia mai neppure passato per l’anticamera del vostro ricco cervello quant’è faticoso fare scena quando non si ha a disposizione niente con cui farla. Perché vorrei proprio sapere» proseguì, determinata, ora che aveva cominciato, a togliersi ogni rospo dallo stomaco, «che fine farebbe una donna se non cercasse di fare un po’ di scena. Nessuno la farebbe divertire se lei non desse l’impressione di divertirsi già. Nessuno la porterebbe fuori a cena, se non desse l’impressione di essere già sazia, né le farebbe dei regali se non desse l’impressione di averne già fin troppi. Mentre voi, che state lì sdraiata a letto, siete sempre sazia e ricevete regali ogni cinque minuti, venite a dirmi che ne avete abbastanza. Naturale che ne avete abbastanza. Chiunque vedrebbe che siete rimpinzata. Ma io non lo sono, e neppure la mia Rosie lo è, e a entrambe non dispiacerebbe averne abbastanza, una volta tanto».

Si fermò per riprendere fiato. Il petto le si sollevava, le fremevano le narici. Oh, non era che l’inizio, però doveva riprendere fiato. Cosa le importava, si chiese tra sé lasciandosi travolgere da quel liberatorio vortice di astio, se le parole che usava diventavano sempre più orribili? Per una volta nella vita a lady M avrebbe fatto bene sentire qualcuno parlarle chiaro e tondo. Le avrebbe aperto gli occhi chiusi su qualche piccolo particolare.

Nel momento in cui Mumsie smise di strepitare, sulla stanza scese un silenzio di tomba e Daisy, a capo chino, senza distogliere lo sguardo dalle dita intrecciate, restò silenziosa come la stanza.

Sedeva immobile, appoggiata ai cuscini. Non sembrava quasi respirare. Avrebbe potuto essere una salma, o una chioccia intenta alla cova, pensò Mumsie scrutandola col fiato corto. Inutile, nessuno di loro era capace di scattare e rispondere per le rime; mentre per tenere la propria rabbia a una temperatura adeguata, quella in cui non ci si preoccupa delle conseguenze, ci voleva qualcuno che rispondesse per le rime.

Stava giusto per domandarsi se chiederle che razza di madre credeva di essere, fuggendo in quel modo e piantando in asso la figlia proprio nel momento in cui più aveva bisogno di lei, le avrebbe dato una scrollata, quando lady M disse qualcosa. Con voce a malapena udibile, tanto era debole, e facendo apparire per contrasto la voce di Mumsie quasi come un grido – apposta, cioè, per metterla dalla parte del torto – senza alzare la testa, e con lo sguardo ancora incollato alle mani, disse: «Siamo sicure di parlare della stessa cosa? Io intendevo dire che ne ho abbastanza di… problemi».

«Oh, problemi» ripeté Mumsie con un gesto di spazientito disgusto. «Di quelli ne ho avuti abbastanza anch’io, decisamente». E, alzatasi, si diresse rapida alla finestra, così da non lasciarsi incollerire ulteriormente dallo spettacolo di lady M che si studiava le unghie, e restò lì furente a guardare fuori. Problemi, come no. Che non venissero a parlare a lei di problemi.

«Impossibile, dopo tre mariti, non essere esperti di problemi» dichiarò, tamburellando sul davanzale con le dita mentre osservava la campagna deserta. «Perderli. Dover portare il lutto di continuo. All’infinito. Il minimo che un uomo può fare, quando ha una moglie da mantenere, è rimanere vivo. Forse penserete che su tre almeno uno sia riuscito a farlo. Invece no. E il modo in cui Mr De Lacy si è sottratto alle sue responsabilità mi è servito di lezione. Mai più, ho giurato. Infatti non mi sono più sposata. Volgare, così la penso io» esclamò, mentre la voce si faceva via via più alta al ricordo – sotto la finestra Adolphe, che aveva ripreso a muoversi in silenzio, si fermò di nuovo intimorito –, «assolutamente volgare gridare che ne hai i tubi pieni poi chiuderti in una stanza e farti saltare le cervella. E non era neanche vero. Non aveva i tubi pieni. Eravamo sposati solo da due anni, e giuro che con lui ero un agnellino, eccetto, naturalmente» concluse, tamburellando con più forza, «quando comportarsi da agnellino sarebbe stata pura follia».

Indignata, stava presso la finestra a guardare il paesaggio disabitato. Il modo in cui Mr De Lacy se ne era andato le bruciava ancora. A lungo andare anche lui era diventato un semolino, anche se dal finimondo che scatenava per ogni nonnulla si sarebbe detto una tigre. Diamine, se solo fosse riuscito a tener duro fino all’inizio della guerra, aveva detto più volte a Rosie, se era proprio così determinato a farla finita, avrebbe potuto comportarsi da vero uomo e morire per l’Inghilterra.

Questa volta Daisy non fece commenti e di lì a poco Mumsie, una volta ripreso fiato, avvertì il silenzio dietro di sé. Un silenzio assoluto. Avrebbe potuto benissimo essere l’unica persona nella stanza, con tutte le deplorevoli esternazioni che le erano sfuggite di bocca sospese agli angoli come tante ragnatele congelate in una cantina.

Brutto, pensò, che una stanza si facesse così silenziosa quando una persona aveva appena finito di parlare; sembrava mettere in risalto in modo eccessivo ciò che aveva appena detto. «Avere i tubi pieni», per esempio, ecco un’altra espressione che sarebbe stato meglio evitare. Cielo, con che facilità le parole le scivolavano fuori di bocca! Però le aveva pronunciate, e lady M le aveva sentite. Tutta colpa di De Lacy, però. Comunque, non avrebbe dovuto menzionare qualcosa di così volgarmente intimo come i tubi. Si era già lasciata scappare fin troppe cose, senza metterci dentro anche quelli.

Il gelo si impossessò di lei. Le dita rallentarono il loro tamburellare, poi si fermarono. Ebbe l’impressione di essere stata lasciata sola con tutte le parole pronunciate. Dall’esterno, per quanto deprimente fosse lo scenario spopolato, se non altro proveniva un qualche rumore: un uccello solitario – bizzarro il pensiero che fosse un uccello francese, da come cantava non si sarebbe detto – che cinguettava allegro, e un’automobile in lontananza – un’automobile fortunata – diretta da qualche altra parte, che produceva un rombo civilizzato; ma dentro, dove una persona aveva senz’altro il diritto di aspettarsi una qualche risposta, le pareva di trovarsi sola nella propria tomba.

A disagio, attese di udire un segno di vita da parte di lady M Il mutismo in chi le stava vicino aveva sempre portato Mumsie alla sconfitta, più velocemente di qualsiasi altra cosa. Sembrava mettere una persona dalla parte del torto. Lei lo considerava un trucco meschino. Invece di squagliarsela dietro al silenzio le persone dovevano uscire allo scoperto e lanciarsi in una sana baruffa. Possibile che sua signoria non si rendesse conto della posizione in cui si trovava? Non aveva ancora capito che l’oltraggiata Rosie avrebbe potuto trascinare – soprattutto se lei gliel’avesse ordinato – quella cacciatrice di frodo di una Terence al tribunale dei divorzi e che, stando così le cose, a sua madre conveniva rispondere in modo civile? O comunque rispondere. Perché era sempre meglio rispondere in modo incivile che non rispondere affatto.

Ma Daisy si incaponiva nel suo mutismo; e la collera di Mumsie, mai molto durevole, tremolò sempre più fioca, finché scomparve del tutto non lasciando nulla tra lei e la calma. Calma. Una condizione che detestava in ogni circostanza, una condizione in cui, con il cuore nelle scarpe, si cominciava a calcolare il prezzo da pagare per essersi lasciati andare.

Inquieta, guardava fuori della finestra dicendosi che razza di sciocca fosse stata a non tenere a freno quel suo caratteraccio, o quanto meno a non scegliere le parole con più attenzione, considerata la posta in gioco. Assurdo che una signora dicesse a un’altra, oltretutto a una tanto impressionabile, che era uno struzzo, e anche rimpinzata, per non parlare dell’uscita sui tubi di De Lacy. Si era data la zappa sui piedi? Se sì, significava guerra, e lei non voleva la guerra, voleva la pace. Con la guerra non si otteneva niente; con la guerra non si otteneva mai niente. La pace era benessere, la pace era abbondanza, quello che spettava a Rosie per il torto subito e per il suo aspetto, nonché alla madre di Rosie, ovviamente, alla quale non spettava di meno.

«A volte» cominciò, in apparenza rivolgendosi al panorama e con voce così sommessa che Adolphe, sotto la finestra, riprese rassicurato il proprio cammino, «dico più di quanto intenda dire».

Nessuna risposta. La stanza dietro di lei, lady M compresa, continuava a essere muta come un pesce.

«Ma naturalmente» riprese dopo una pausa, «se volete fare l’offesa. . .»

Nessuna risposta.

«Suppongo» proseguì con voce esitante dopo avere atteso, a quel punto ormai decisamente mortificata – che meschinità, che incredibile meschinità, da parte di lady M, non alzare neppure un dito! Lei stessa avrebbe buttato le braccia al collo di chiunque avesse cercato di scusarsi – «che non avrei detto alcune delle cose che ho detto se non fossi stata tanto infervorata».

Ancora nessuna risposta.

«Non saprei come dirvelo in modo più chiaro, che mi dispiace. Perciò» concluse, dopo un altro momento di attesa per dare alla disumana lady M la possibilità di risponderle qualcosa, e cercando di infondere alla voce un tono sbrigativo per dare l’impressione di essersi tolta un peso dal cuore, «adesso non credete sia arrivato il momento di dare un’occhiata al vostro piede? Penso sia ora di cambiare la fasciatura. . .»

E si spostò rapida ai piedi del letto a capo chino, perché sentiva dietro gli occhi la stessa sensazione bruciante e pungente della sera prima, e neanche per tutto l’oro del mondo avrebbe lasciato che lady M se ne accorgesse.

 

 

 

Due volte nel giro di dodici ore. Prima di allora neppure una volta in anni e anni. Piagnucolava, o era sul punto di farlo. Inutile fingere che non lo stesse facendo, perché era proprio così. Lady M, con quel brutto modo offensivo di non dire niente, di far sentire una persona troppo ordinaria per stare al mondo, era riuscita a demoralizzarla. Buona educazione imponeva, pensò Mumsie battendo forte le palpebre e tenendo il viso ben nascosto mentre disfaceva la fasciatura, di interrompere una donna che si faceva prendere la mano, darle la possibilità di fermarsi in tempo, di comportarsi un po’ da sorella, prendersi un tantino cura di lei. Ma da quei tipi non bisognava aspettarsi nulla del genere. Stavano sedute come niente fosse, e lasciavano che una persona si infilasse da sola la corda attorno allo stupido collo.

«Dov’è l’asciugamano pulito?» chiese tastando il letto con la mano libera per non dover voltare la testa. «Oh, eccolo. Bene».

Svolse in fretta la fasciatura, quindi la rifece. Soffocò la terribile inclinazione a tradirsi piagnucolando. Non doveva far vedere a lady M com’era riuscita a mortificarla, non voleva darle quella soddisfazione.

Ma Daisy si sporse in avanti e le mise una mano sul braccio con tocco lieve. «State piangendo?» chiese.

«Chi. . . io? Che idea. E perché mai?» rispose Mumsie sostenuta. E in quell’esatto istante, malgrado tutta la sua attenzione, qualcosa di caldo le scivolò tra le ciglia e atterrò sulle dita nude del piede di Daisy.

«Ecco fatto» commentò, asciugando le dita con un angolo dell’asciugamano che aveva appena tirato via, «perciò a questo punto posso anche andarmene, direi».

«Mi spiace tanto» mormorò Daisy, addolorata al punto di non badare alla sensazione di bagnato sulla pelle.

«Ce n’è abbastanza per far piangere un sasso» rispose Mumsie, ora completamente abbandonata allo sconforto, tanto che la udirono persino Adolphe e Thérèse in cucina, i quali, intimoriti, interruppero la cena per mettersi in ascolto.

«C’est l’autre, cette fois. . . la carnivore» bisbigliò Adolphe.

«Tiens» rispose Thérèse.

«Sì, sì» convenne Daisy, desiderosa di consolare, vivamente preoccupata e disposta a fare di tutto pur di mettere fine a un tale dispiego di dolore; questo perché qualunque cosa facesse, compreso piangere, una volta cominciato Mumsie non era tipo da mezze misure.

«Nella vita non si finisce mai» spiegò Mumsie. «Non si fa altro che lot. . . che lottare, e mettercela. . . mettercela tutta. . .»

«Lo so».

«È una battaglia persa in partenza. Continui a dirti che devi tenere duro. . . che non devi mollare. Ma ti ritrovi ugualmente a cedere. Dapprima solo un po’, poi. . .poi a mano a mano che invecchi, di più. . . sempre di più. . .»

«Lo so, lo so».

«E dopo un po’ inizi a essere stanca» singhiozzò Mumsie, «stanca da morire».

«Come se non lo sapessi!»

«Allora se lo sapete» le si rivolse di scatto attraverso le lacrime, «perché vi comportate come se non lo sapeste? Proprio ora, mentre cercavo di. . . cercavo di scusarmi voi non avete. . . non avete detto nemmeno una parola. Io. . . non riesco a immaginare qualcosa. . . qualcosa di così. . . di così sgarbato. . .»

«Volete davvero che ve lo dica?» domandò Daisy ora terribilmente contrita.

Sapeva bene perché quella povera donna stava piangendo. Nella sua vita le era già capitato che dei delinquenti, o quanto meno coloro che a suo modo di vedere erano tali, fossero stati ridotti in lacrime unicamente col silenzio. Persino Midhurst, una volta, all’esordio della sua carriera di delinquente, era stato schiacciato. D’accordo, successivamente aveva dato l’impressione di prosperare sui silenzi di lei, e di ingrassare dei propri peccati, però c’era stata quella volta. E ora ecco che si trovava al cospetto di quella povera creatura dall’animo buono, quella bambina gigantesca, che alla vita non chiedeva altro che essere felice e avere cose buone da mangiare, anche lei schiacciata come un insetto impotente sotto un’implacabile acchiappamosche.

«Oh, sono indegna di vivere» si disse Daisy in un impeto di sgomento, riferito al passato così come al presente, di fronte alla propria implacabilità. «Volete davvero che ve lo dica?» ripeté sporgendosi di nuovo in avanti, e di nuovo sfiorando il braccio di Mumsie. «Perché sono odiosa».

Allora Mumsie si fermò nel bel mezzo di una violenta soffiata di naso e la fissò con occhi arrossati e sbalorditi da sopra il fazzoletto. «Odiosa, avete detto?» chiese, come non credendo alle proprie orecchie.

«Odiosa, inesorabile, ingiustificabile. . .»

«Via, via. . . ora vi lasciate prendere la mano» la interruppe Mumsie sollevando la propria in segno di protesta.

 

 

 

Va detto che, dal suo arrivo, i pasti di Daisy erano consistiti esclusivamente di café au lait e pane e burro. A quel punto ne aveva avuti già sette.

Una dieta ben poco fortificante. Al momento sembrava riempire, ma presto lasciava di nuovo vuoti. Non affamati, vuoti. Daisy sapeva che le donne braccate, in fuga da una grande sventura, non hanno mai fame, per quanto possano essere – ne ebbe presto conferma – vuote. Così, essendo poco nutriente, quel cibo indebolisce la resistenza del corpo a quegli impulsi dello spirito descritti a volte come l’espressione del sé più autentico e dunque, si presume benevolmente, del sé migliore.

L’improvvisa, fugace apparizione del sé migliore di lady M mise Mumsie in serio imbarazzo. Non se lo aspettava, Daisy si era lasciata prendere la mano. A un’umiliazione così innaturale preferiva quasi i modi suoi. Le conversazioni in cui l’altro strisciava non portavano a niente di buono, non facevano altro che metterti a disagio.

«Stai su dritto, comportati da uomo» soleva dire ai suoi mariti quando mostravano segni di volersi nascondere sotto il tavolo. Sapeva che questa volta era stata lei a cominciare a strisciare, ma non vedeva ragione per cui lady M dovesse mettersi carponi a sua volta.

Comunque lo choc le aveva fatto asciugare le lacrime. «Adesso avete solo bisogno di un buon pasto» disse, azzeccando per istinto almeno parte della verità.

Mai in vita sua Daisy era stata così compatita. Con la subitaneità con cui una lumaca ritira le piccole corna se viene toccata, si rinchiuse nel suo guscio. Esserne uscita al punto da fare quell’appassionato atto di autoaccusa, da spingersi sull’orlo di una effettiva, quantunque incredibile, intimità, per poi sentirsi dire che ciò di cui aveva bisogno era un buon pasto! Quell’affronto, quella ferita, le parve ancor più grave nel ricordare che verso la metà del secondo giorno del suo straziato peregrinare per campi e boschi si era scoperta non solo a pensare al cibo, ma anche a indugiarvi, richiamando alla mente pietanze particolari che la cuoca preparava in maniera eccellente.

Era la prima volta che le capitava di indugiare sul ricordo di una pietanza. Ne era rimasta scioccata. Ma aveva proseguito ugualmente: quel consommè freddo, per esempio, dall’aroma delicato, così pieno di forza dorata: quanta energia le avrebbe fornito ora, se avesse potuto averne una tazza, assieme a del pane appena tostato e allo strepitoso burro di Shillerton. Per non parlare del suo modo di trasformare in capolavori le carni, come quella d’anatra. . .

Ma qui aveva accelerato il passo, inorridita. Erano passati solo quattro giorni dalla tragedia, e lei pensava alle anatre. Era come desiderare di banchettare in una camera ardente. Lei era una persona superficiale, troppo superficiale, indegna di essere caricata di un grande dolore.

«È l’aglio» proseguì Mumsie andando alla finestra, in apparenza per scuotere al sole l’asciugamano bagnato ma in realtà per dare a entrambe la possibilità di riprendersi.

Daisy risprofondò all’indietro sui cuscini.

«Siamo una coppia di svenevoli carampane, ecco» aggiunse Mumsie, imbarazzata per essersi abbandonata alle lacrime e alle scuse tanto quanto per l’inaspettato comportamento di lady M.

Daisy chiuse gli occhi.

«Le svenevolezze non portano mai da nessuna parte» continuò Mumsie preparandosi a dare all’asciugamano un’energica scrollata. «Ma cosa ci si può aspettare quando si mangiano le cose sbagliate? La roba di ieri sera, immagino l’abbiate mangiata anche voi, è andata tutta in aria. E il meteorismo ti dà strane idee. Ti predispone a. . .»

Ma a Daisy fu risparmiato il resto. La frase non fu mai terminata, lo strofinaccio mai sbattuto perché in quell’istante, su per i gradini che conducevano al giardino, proprio sotto il naso di Mumsie, cominciò ad apparire lento un cappello, un cappello di morbido feltro grigio chiaro, come quelli che si vedono in testa ai gentiluomini in posti eleganti come Piccadilly nelle mattine d’estate.

Paralizzata, avvinta, Mumsie osservò meravigliata quell’apparizione. L’asciugamano le penzolava inerte dalle mani. Scacciò immediatamente qualsiasi pensiero triste come il proprio animo, o quello di lady M, messi a nudo. E quando al cappello seguì, dopo un tempo conforme alla ripidezza dei gradini, un gentiluomo abbigliato di tutto punto, Mumsie traboccò d’eccitazione.

«Diamine» esclamò, mentre il morale le balzava di nuovo alle stelle e l’interesse per la vita e le piacevoli possibilità che offriva cancellavano ogni traccia dell’ultima desolata mezz’ora, «credo proprio che stiate per avere una visita! Un uomo. E pure un gran bell’uomo!»