IV

Il vecchio Mr Topham, uomo di estrema integrità e di indole benevola, così poco incline a nuocere anche alla più infima creatura di Dio che nel passeggiare per i sentieri del giardino stava attento a non calpestare le formiche, curiosamente univa in sé la passione per gli scacchi e quella per le chiacchiere, e mai, per quanto si sforzasse o per quanto importante potesse essere a volte il silenzio, riusciva a tenersi qualcosa per sé. Era un pettegolo. Era senz’ombra di dubbio il più pettegolo di tutta Londra; così, senza volerlo, era continua causa di danno.

Fu una sfortuna quindi che Terry Chilgrove, cui lui era molto affezionato, gli avesse rivolto quelle gentili, gaie parole di congratulazione che, una volta avuto il tempo di rifletterci sopra, gli fornirono quella che ritenne la più sorprendente rivelazione della sua vita. Una vera sfortuna che, essendo stanca, non fosse rimasta a letto, come doveva avere desiderato, invece di alzarsi per occuparsi di lui. Ma era anziano. Non era forte. Perciò lei si era alzata per pura bontà d’animo. E pensando solo a compiacerlo, ancor prima di rendersi conto di ciò che stava dicendo, aveva già tradito se stessa e Andrew.

Tra i suoi amici non c’era uomo che non avrebbe preferito morire piuttosto che rivelare un simile segreto. In teoria anche Mr Topham avrebbe preferito morire. Ma non poteva farci nulla. Era fatto così. Parlare doveva, quindi parlò.

“Per Dio, questa me la terrò per me” si ripromise con il viso congestionato dallo stupore, dall’eccitazione e dalla determinazione mentre il treno correva verso nord.

Una promessa impossibile. Una lotta senza speranza. Tutto ciò che gli riuscì di fare, essendo sinceramente affezionato sia alla ragazza sia alla madre, fu limitarsi a bisbigliare la notizia a una sola persona; quella sola persona, adottando la medesima precauzione, la bisbigliò solamente a un’altra sola persona; e la cosa proseguì in questo modo finché, al termine della settimana, il cosiddetto «bel mondo» londinese si ritrovò a bocca aperta nel più totale sbalordimento.

La giovane Chilgrove. La figlia di Daisy. Tra tutte le figlie, proprio quella di Daisy! E con quel segretario dall’aria afflitta, abbastanza vecchio da essere suo padre. Davvero la più completa immoralità della gioventù, oggigiorno. Di quei tempi non c’erano proprio più certezze.

«Povera Daisy» commiseravano gli Ancora Retti, sbigottiti dalle proporzioni della sua sventura. Tutta la sua vita era incentrata su quella ragazza. Era spaventoso che fosse successo proprio a lei.

«Ben le sta» sostenevano a gran voce i Caduti, ovvero tutti coloro che Daisy fingeva di non vedere quando li incontrava per strada.

Ma come spesso e misericordiosamente accade, i protagonisti principali di tale doloroso dramma continuavano la propria esistenza ignari, causando uno scompiglio camuffato seppur profondo ovunque andassero e conferendo una nota piccante agli intrattenimenti cui partecipavano.

Daisy non si rendeva minimamente conto della situazione, non la sfiorava neanche l’ombra del pensiero che qualcosa non andasse per il verso giusto, del tutto sicura, dopo la chiacchierata con il suo amico George Torrens, e anche per via dell’atteggiamento schietto e amichevole di Terry verso la moglie di Andrew, che gli orribili sospetti che ultimamente l’avevano lacerata fossero privi di fondamento; mentre Terry si era cullata nell’illusione, decidendo, dopo averci riflettuto, che Topsy, tutto preso dalle sue uova e pancetta e dalla fretta di prendere il treno, non avesse fatto caso alle implicazioni spaventose di ciò che aveva detto. La sua cara, vecchia testa confusa poteva aver recepito qualcosa riguardo al vincere – se aveva vinto, chi aveva vinto – ma non la frase fatale, Così hai vinto. Si era convinta che non l’avesse proprio sentita, dal modo distratto in cui lui le aveva dato un buffetto sulla mano mentre si allungava verso la caffettiera dicendole quanto fosse carino da parte sua alzarsi così presto, e che in quella partita l’aveva scampata bella. Per di più sulla soglia l’aveva baciata affettuosamente come sempre, e con la solita allegria dipinta in viso si era allontanato sventolando il cappello.

No, non se n’era accorto; non aveva sentito; in caso contrario era alquanto improbabile se non impossibile, a meno che non nutrisse già dei sospetti, che avesse fatto due più due. Ma c’era mancato poco, proprio come per la sua vittoria a scacchi, e ora Terry doveva stare ben attenta a tenere a mente il pericolo in agguato. Neanche per cinque minuti si sarebbe preoccupata di tenere a mente alcunché, né si sarebbe abbassata a nascondere qualcosa, diceva a se stessa, forte della convinzione di avere abbracciato i veri valori della vita, se non fosse stato per la madre. Mai, però, avrebbe potuto spezzarle il cuore, tanto caro, benedetto e incrollabilmente vittoriano. Sua madre non avrebbe mai compreso. Ne sarebbe morta.

Così, tornando a respirare, e ripromettendosi di tenere bene a mente che dopotutto non era, come invece sentiva di essere, placidamente e felicemente sposata da anni, riuscì in ogni occasione in cui apparve in pubblico a mostrare un viso sereno.

Le occasioni furono solo due, perché ormai da tempo ne aveva abbastanza della compagnia dei ricchi: una all’opera, a una rappresentazione ancora più splendida del solito de I maestri cantori di Norimberga, e l’altra al ballo di corte, cui non poté sottrarsi per quanto ci teneva la madre. In entrambi i casi le due donne furono oggetto di garbata attenzione a causa di certe voci che erano state messe in circolo in cui si faceva il nome di Terry per un qualche matrimonio importante, voci che sembrava stessero per trasformarsi in realtà.

Gli amici di Daisy, vedendo la ragazza all’opera, virginale nel suo abito bianco, rabbrividirono. Solo la più incallita, la più cinica doppiezza poteva giustificare tanta tranquillità. Per quel che dava a vedere avrebbe potuto essere un angioletto innocente, seduta lassù. Povera Daisy. Povera cara donna ingannata e tradita. Il solo pensare a lei faceva gelare il sangue nelle vene. Ma quando al ballo di corte videro la ragazza, vestita ancora col bianco di una vita irreprensibile, cominciarono a dubitare. Tutto sommato non era possibile ipotizzare, si chiedevano nel vederla danzare per la terza volta con uno dei migliori partiti, che quel Topsy, ormai vecchio e probabilmente un po’ suonato, avesse inteso male, e Terry invece di essere cinica e insensibile fosse esattamente ciò che sembrava? La storia aveva veramente dell’incredibile. L’attempato e silenzioso Andrew Leigh la conosceva fin da bambina; inoltre si diceva che fosse sposato con una giovane attrice molto attraente di cui era probabilmente del tutto infatuato. Sembrava davvero la più incredibile delle storie. E se a breve Terry fosse stata lì lì per concludere un matrimonio prestigioso, non sarebbe risultato inopportuno aver detto e pensato di lei ciò che avevano detto e pensato?

L’esitazione si fece strada. L’opinione pubblica cominciò a mutare. In breve si era completamente ricreduta. Per quanto Londra amasse gli scandali, dopo il ballo a corte sentiva che non poteva permettersi di dar credito a una storia riguardo a una giovane che era forse in procinto di assicurarsi un futuro tanto radioso. Un vecchio sciocco quel Topsy. E anche mezzo sordo. All’ora assurda in cui aveva insistito per fare colazione quella mattina con tutta probabilità era completamente rintronato dal sonno. E quanto era facile travisare le parole. Erano solo tre, comunque, e non si poteva condannare una giovane donna come Terry solamente in base a tre parole. Era stato vergognoso da parte sua saltare subito a una conclusione tanto terribile. La sua mente doveva essere ormai diventata un pozzo nero.

I circoli adesso incominciavano a respingere Mr Topham. Al suo passaggio, alla Camera i membri sussurravano tra loro in toni ostili. Si diceva che George Torrens parlasse di prenderlo a pugni. Il senso comune voleva che le vedove e le vergini dovessero venire protette da quel genere di cose; e nel giro di una quindicina di giorni solo l’età di Mr Topham lo salvò dall’essere completamente escluso.

Ma proprio allora, mentre la reazione era all’apice e il gentiluomo non riusciva più, per quanto si sforzasse, a ottenere la minima attenzione da parte di una sola persona, dal presidente della Camera dei Comuni in giù, e Daisy e Terry venivano ricoperte da straordinarie manifestazioni d’affetto e di attenzione, Londra ripiombò all’improvviso nel suo originario brivido d’orrore.

Una persona fino ad allora mai sentita e conosciuta apparve sulla scena. Una certa Mrs De Lacy. La madre della moglie di Leigh. Mumsie.

 

 

 

Entrò nella biblioteca della casa di Daisy in Grosvenor Square a mezzogiorno in punto, dopo una breve discussione con il valletto che non voleva lasciarla passare perché, come più tardi spiegò in cucina, se lo era sentito nelle ossa che avrebbe dovuto impedirglielo.

Mr Parker, il maggiordomo, e i suoi tre immediati subalterni stavano pranzando, cosicché in quel momento il valletto, noto in cucina come il Numero Quattro, era praticamente solo, senza nessuno a dargli manforte. Cosa avrebbe potuto fare contro Mumsie? Una signora dall’aspetto imponente, a prima vista, un bel petto, le gardenie e tutto il resto, e non più imbellettata di certe altre. Tuttavia non appena la vide avvertì quella strana sensazione nelle ossa, una sensazione che peggiorò ancor più quando lei incominciò a parlare.

«La marchesa è in casa?» chiese Mumsie sfoggiando un sorriso radioso, perché lui era giovane e ben piantato.

«Sua signoria vi sta aspettando, madam?» fu la risposta dell’uomo, subito messo all’erta dalla formulazione della domanda.

«Non ne sarei sorpresa, giovanotto» ribatté Mumsie, superandolo per entrare nell’atrio.

Aveva passato due settimane innedibili. Le più eccitanti e dense di emozioni della sua vita. Neanche quando da ragazza doveva scegliere il futuro marito tra i vari pretendenti, di cui in quei giorni c’era sempre abbondanza, aveva dovuto affrontare così tanti problemi, tutti diversi e delicati. Era ben contenta di trovarsi improvvisamente nella gratificante posizione di potersi sbarazzare di Andrew; ma lei e Rosie volevano davvero sbarazzarsi di lui? Le andava anche bene essere nella condizione di distruggere i Midhurst; ma da una situazione così sensazionale poteva derivarne qualcosa di buono, per lei e per Rosie? Valeva la pena perseguire quell’obiettivo? Finché non veniva ostacolata Mumsie era di indole gentile e accomodante, non desiderava la distruzione di nessuno, e così Rosie. Ma com’era eccitante sapere che adesso era in loro potere farlo. Che meraviglioso, splendido segreto da tenere stretto al cuore.

«Quel vecchio se lo porterà nella tomba» assicurò Mumsie a Rosie, sapendo che lui custodiva l’unica minaccia al loro monopolio, «sono tutti d’accordo. Figurati se parlerà». E meglio di uno spettacolo, molto meglio di qualsiasi spettacolo in cui avesse mai recitato, era sapere ciò che sapevano e vedere Andrew, con quei suoi modi stile Eton e Oxford, distaccato e altezzoso nei loro confronti com’era sempre stato.

«Tu sei una donna che ha subito un torto, piccola mia» diceva Mumsie ogni tanto, abbracciando affettuosamente la figlia. «Ma non preoccuparti. Essere la parte lesa può portare dei vantaggi. E uno di questi è avere il coltello dalla parte del manico, per esempio».

«Non vedo molta utilità nell’avere il coltello dalla parte del manico» obiettò Rosie, «se Andrew tanto non sa che abbiamo il coltello».

«Tu aspetta» proseguì in tono complice la madre. «Chi va piano va sano e va lontano, questo è il mio motto. E nel frattempo» aggiunse con un dito sulle labbra, «acqua in bocca».

Ma acqua in bocca non fu. Per farsi un’idea più precisa riguardo ai pro e ai contro di un eventuale divorzio di Rosie, Mrs De Lacy saggiò quelli che riteneva essere i più idonei tra i loro amici uomini, e per svolgere un simile sondaggio non si può tenere l’acqua in bocca. Era però importante scoprire chi di loro, nel caso il matrimonio di Rosie giungesse alla fine, sarebbe stato pronto a prendere il posto di Andrew. Inutile divorziare, spiegò Mumsie alla figlia, se poi ci si ritrovava arenati; per cui fu obbligata almeno a fare delle allusioni, e per il modo misterioso in cui le fece e per quanta delicatezza usò nel suggerire l’infedeltà del genero, nei ristoranti, nei locali, e nei circoli di infimo ordine in genere si saltò alla conclusione che la signora in questione fosse l’inappuntabile marchesa stessa.

«Io non faccio nomi» dichiarò Mumsie, ritirandosi in un’estrema compostezza. Certa gente era maligna; davvero maligna.

La parte peggiore arrivò quando incominciò a prendere seriamente in considerazione il ventaglio di conoscenze maschili sue e di Rosie: non ce n’era una che fosse davvero ammissibile, e che potesse, così sembrava, offrire dal punto di vista economico molto più pranzi e cene. Alcuni tra i più giovani scendevano talmente nella scala dell’ammissibilità da arrivare al massimo a offrire un tè, e Andrew, fece osservare Mumsie alla figlia, rimaneva comunque meglio. Oltre tutto, cosa alquanto singolare, nessuno di loro sembrava vedere di buon occhio il divorzio; anzi era decisamente contrario. E tutto questo era molto strano per Mumsie, dato che ovunque andassero non c’era una sola ragazza in grado di reggere neppure lontanamente il confronto con la sua Rosie. Ma come, lei era convinta che avrebbero fatto a pugni pur di prendere il posto di Andrew.

Niente del genere. Invece di fare a pugni le diedero un buon consiglio, ossia riflettere sui vantaggi della sua attuale condizione. Vero, grazie al modo in cui lei, sua madre, riusciva costantemente e altruisticamente a fare miracoli con le spese, Rosie appariva piuttosto costosa, e forse questo li spaventava, pensò Mumsie in cerca di una spiegazione. Ciò che non sapeva era che circolava voce, e in quel caso era vero, che Rosie fosse fredda, fredda come il marmo, un autentico manichino con l’unico desiderio di essere ammirata; ed era noto che una moglie fredda come il marmo, soprattutto se al tempo stesso molto, molto attraente, per un onest’uomo può essere causa di notevole sofferenza.

“Se solo” aveva rimuginato Mumsie ultimamente quasi con violenza, aggrottando le sopracciglia disegnate, “potessimo conoscere uno di quei duchi che non badano a spese!”

All’improvviso una notte, a letto, si rese conto che l’unico posto al mondo dove avrebbero potuto sperare di riuscire a ricavare qualcosa da tutta la faccenda era a casa delle Midhurst stesse. Proprio così; e anche molto altro, a parte i duchi: benessere, divertimenti, tutte quelle gioie mondane che aveva tanto desiderato e di cui non aveva ancora avuto la sua parte.

Illuminata dalla lampante e ovvia soluzione del problema, Mumsie si tirò a sedere nella logora camicia da notte – inutile sciupare le più belle quando era sola – e rimase a fissare l’alba che iniziava a delineare i contorni della finestra. Invece di distruggere le Midhurst, e non ricavarne niente, ne sarebbe diventata l’indispensabile amica. Invece di far loro piombare sulla testa uno scandalo avrebbe lavorato al loro fianco, indispensabile ancora una volta, per mettere tutto a tacere. Un atteggiamento magnanimo, se si considerava quale profonda umiliazione stesse subendo Rosie; avrebbe promesso loro di non farne parola, e in cambio della decisione di non portare il caso davanti al tribunale sarebbe stata accolta in seno alla famiglia, un seno spensierato, dotato, per dirla col linguaggio degli agenti immobiliari, di ogni comodità.

«Una cosa è certa, la nostra fortuna è fatta» esclamò eccitata Mumsie ad alta voce; e il mattino successivo appena Andrew fu uscito di casa si chiuse in camera con Rosie e le espose i suoi piani.

«A questo mondo ciò che la gente dimentica» concluse raggiante, «è che bisogna essere gentili. Dal rancore non esce mai nulla di buono. Costruire, non distruggere, questo è il mio motto. Se avessi un’insegna ce lo scriverei sopra. Pensa alla pace di Versailles. Noi non faremo quel tipo di errore».

«Ma» obiettò Rosie, «dovrò tornare a Shillerton?»

«Non preoccuparti, tesoruccio» la rassicurò la madre, baciandola. «La prossima volta andrà in tutt’altro modo».

E colma di propositi e di entusiasmo indossò quanto di meglio aveva e prese un taxi per Grosvenor Square.

 

 

 

«Questo sì che è un atrio» disse guardandosi attorno soddisfatta nel fare il suo energico ingresso.

Era rimasta delusa nel trovarsi accolta da un solo valletto. Se n’era aspettata un’intera fila, capitanata da un maître. Non aveva la minima idea di cosa fosse un maître, ma era sicura che facesse parte di quella profusione che, riteneva, dovesse accompagnarsi alla ricchezza. C’era ben poca profusione in un singolo valletto, così fu lieta di trovare una sorta di compensazione nell’imponenza e nei marmi dell’ingresso.

«Carrara» osservò, sostando davanti a una colonna. Non era forse anche lei istruita e seconda a nessuno in fatto di nozioni fondamentali?

«Chiedo scusa, madam, che nome?» chiese perplesso il Numero Quattro, che non aveva ben compreso il commento dell’altra.

«Non l’ho ancora detto» replicò Mumsie, girandosi verso di lui e guardandolo dall’alto in basso.

Si stava divertendo. Provava un’immensa sensazione di potere. Teneva in pugno il domestico, la casa e tutti coloro che ci abitavano. Ma pur essendo venuta per conquistare, le sue condizioni erano generose. Meritata amicizia. Semplice, lieta amicizia. Dividere le cose in parti uguali. Sorelle.

«Sto parlando delle colonne» continuò, «come sapresti, giovanotto, se avessi viaggiato».

«Forse, madam, sarà meglio che vada a chiamare la segretaria» mormorò il Numero Quattro dirigendosi verso la porta della biblioteca con andatura incerta. «La segretaria saprà di certo se sua signoria. . .»

«Segretaria? È la marchesa che voglio, non la segretaria. E non mi aggrada esser lasciata ad aspettare in un’anticamera, grazie» puntualizzò Mumsie, seguendolo.

Così accompagnato, il valletto non poté far altro che proseguire. Desiderava come mai prima avere vicino Mr Parker. Niente in quel momento gli fu più chiaro che quello era il genere di visitatrice che non bisognerebbe mai lasciare entrare.

«Annunciami, prego» comandò, quando arrivato davanti alla porta chiusa sembrava incapace di decidersi ad aprirla.

«Credo sia meglio cercare la seg. . .» iniziò, opponendo un’ultima flebile resistenza.

«Il mio nome è Mrs De Lacy» tagliò corto Mumsie fissandolo con sguardo determinato.

Al che, non vedendo via d’uscita, lo sfortunato giovane girò la maniglia e annunciò, con voce resa più alta del necessario dalla paura: «Mrs De Lacy» e richiuse all’istante la porta, mettendosi al sicuro.

 

 

 

La stanza in cui si ritrovò Mumsie era grande, perché tutto quanto in Grosvenor Square era grande, e non vide immediatamente Daisy e Miss Simpson, sedute a uno scrittoio a qualche distanza.

Stavano esaminando alcune liste di invitati; la lucente capigliatura color bronzo di Daisy, simile a un bel fiore artificiale, era china sulle carte, mentre come d’abitudine Miss Simpson sedeva sul bordo della sedia, la penna stilografica sollevata, pronta a correggere o a cancellare.

Ma nessuno era stato cancellato quel giorno; tutte le variazioni tendevano più ad aggiungere che a togliere, perché Daisy era molto felice e desiderava che tutti gli altri lo fossero a loro volta. I guai erano passati. Passate le paure da incubo e gli sgradevoli, vergognosi sospetti. Terry, quella figlia arrivata dopo lunghe preghiere, era davvero il suo caro angelo, il sogno di tutta una vita, dedita completamente alla bontà, una bontà che l’avrebbe condotta chissà dove, chissà a quali inimmaginabili vette. Ma non doveva abbandonarsi a quei pensieri, neppure nel profondo del cuore. Sembrava quasi profano alzare gli occhi davanti a una luce tanto accecante. E distogliendo risolutamente i propri pensieri da tale visione si concentrò ancor più sul compito del momento: dare piacere a quante più persone possibile.

Anche Miss Simpson era felice, non per ragioni personali, perché da molto tempo non aveva più ragioni che fossero personali, ma perché non poteva fare a meno di riflettere, come uno specchio fedele, lo stato mentale della propria datrice di lavoro. Quelle sciocche paure di una quindicina di giorni prima a Shillerton, quell’assurda confusione e quel panico superstizioso ora le erano difficili da comprendere. Padrona di sé ed efficiente, dedita a svolgere il proprio lavoro in modo ineccepibile, con la penna in mano suggeriva, ricordava e annotava con una cura e coscienziosità tali da far pensare che i ricevimenti e i numerosi invitati fossero le sole cose importanti nella vita.

Sia lei che Daisy erano vestite semplicemente ma con gusto, come si addiceva all’ora e all’occasione: Daisy di sottile e costoso linone, e adorna delle sue celeberrime perle; Miss Simpson nel più economico tessuto olanda, più consono alla sua condizione, e naturalmente senza perle. Entrambe emanavano ed erano circonfuse di freschezza e serenità. Non avevano un capello fuori posto. Entrambe, come di consueto, avevano fatto un bagno con dei sali tonificanti, e nel caso di Daisy anche profumati. Entrambe, come al solito, nella pace delle proprie camere, avevano consumato una colazione inappuntabilmente preparata e servita. Ma prima, come ogni giorno, Daisy si era fatta fare un massaggio, e dopo madame Valaise, come di consueto, si era presentata con la sua batterie de beautè, e aveva trascorso una proficua ora, aggiustando e ritoccando.

«Mrs De Lacy» annunciò il valletto, distruggendo quell’ordinato stato di benessere; e Mumsie entrò a passo di marcia.

 

 

All’inizio vide solo fiori, fiori ammassati davanti alle finestre spalancate, che nascondevano le scuderie all’esterno; fiori in grandi vasi sui tavoli, sulla mensola del camino, in ogni angolo, raccolti freschi quello stesso mattino a Shillerton, ancora bagnati di rugiada, che profumavano l’aria, fiori magnifici la cui coltivazione era certamente costata un mucchio di denaro. Qui finalmente vi era una reale profusione e Mumsie, osservandola ammirata mentre ne inspirava la fragranza, fu compiaciuta di scoprire che quanto più si addentrava nella casa tanto più miglioravano le cose.

“Che ricchezza” disse tra sé molto compiaciuta. “E che ostentazione” aggiunse, approvando enormemente.

In quel momento focalizzò le due figure al capo opposto dell’ampia stanza. Miss Simpson, sorpresa, si alzò e rimase ritta con il quaderno e la stilografica ancora in mano, incerta sul da farsi. Daisy, girando la testa, guardò l’inaspettata visitatrice ancora vicina alla porta con la stessa blanda aria interrogativa di una mucca che continui tranquillamente a ruminare quando qualcuno entra nel suo campo visivo. “Vi conosco?” sembrava voler dire. “Siete una parente?”

No, non la conosceva; non era una parente. Chi, allora, si chiese, aveva fatto entrare James?

«Vorrete scusarmi, lady Midhurst» esordì Mumsie facendosi avanti con la mano tesa e il sorriso smagliante.

«Ma è un piacere» rispose Daisy, alzandosi e sorridendo a sua volta, perché il sorriso di Mumsie, lo stesso che sfoderava in tutte le fotografie, era così sfolgorante che non era possibile non venirne contagiati.

«Volevate vedermi per qualcosa?» proseguì Daisy, ritenendo, nell’esaminare più da vicino la sua visitatrice, fosse venuta a parlarle dell’annuale festa teatrale all’aperto che si sarebbe tenuta di lì a poco in Regent’s Park. Era per la premiazione. Era abituata a quelle richieste. Non aveva mai detto di no. Ma James avrebbe dovuto entrare e chiedere prima.

«Infatti. E non solo vedervi ma anche parlarvi» rispose Mumsie continuando a tenerle calorosamente la mano tra le sue e fissando con schietta ammirazione il viso che aveva di fronte. Cinquantatré anni. Mumsie lo sapeva, avendo seguito le vicende di lady Midhurst con la massima attenzione, cinquantatré anni e guardatela. Faceva capire cosa poteva il denaro, si disse, sentendo che il proprio trucco, che naturalmente aveva dovuto applicarsi da sé, era un po’ troppo carico. Ombreggiature pastello, certo: le avrebbe adottate anche lei d’ora in poi, pensò. Doveva essere di moda, immaginò, solo una sfumatura di rosso sulle guance. E ognuna di quelle ciglia non doveva essere costata meno di una sterlina.

«Bene. Allora» esclamò gentilmente Daisy incapace di liberarsi della mano dell’altra, che utilizzò per guidare la visitatrice verso il divano, «non faremmo meglio a sederci?»

«Desiderate che rimanga?» chiese esitante Miss Simpson.

«No» esclamò Mumsie prontamente, girando lo sguardo sulla sua figura dal seno piatto e rispondendo lei stessa alla domanda. Si sentiva inebriata, completamente padrona della situazione. Vermi e moscerini come segretarie e lacchè dovevano essere messi al loro posto senza indugio.

Di fronte a quell’uscita Daisy scoppiò a ridere. La gente di teatro a volte era davvero spiritosa.

«Su, filate via» intimò divertita a Miss Simpson, che ben lungi dal correre se ne andò con riluttanza e il cuore, per qualche ragione, gremito di dubbi. Prima di uscire, nel volgersi indietro per guardare le due donne sedute fianco a fianco sul divano, ebbe infatti una sensazione inconsueta, la sensazione, davvero terribile se non fosse stata tanto ridicola, che forse stava vedendo per l’ultima volta la sua cara lady Midhurst, la lady Midhurst che conosceva da così tanto tempo.

«La vostra segretaria personale, presumo» commentò Mumsie sedendo ben eretta e leggermente in avanti a causa del corsetto troppo stretto, mentre con un occhio alla porta attendeva che questa venisse chiusa prima di iniziare a parlare.

«Non so se è personale» sorrise Daisy. «Detto così fa pensare che ve ne siano molte altre. Comunque sia lei è la mia segretaria».

«Coadiuvata nelle sue mansioni da mio genero» aggiunse Mumsie.

«Vostro genero?»

«Mr Leigh».

«Andrew?»

«Andrew. Sì. Sua moglie, mia figlia, mi ha riferito che siete così gentili da chiamarlo con il suo nome di battesimo».

«Lo conosciamo da tanto di quel tempo» precisò Daisy, quasi scusandosi. «Non avevo idea che foste la madre di Rosie» aggiunse, sentendo in qualche modo vacillare il suo abituale equilibrio e cercando di riacquistarlo. «Gentile da parte vostra venire a farmi visita».

«Chiamatelo pure dovere, lady Midhurst» replicò la visitatrice sorprendendola un po’. Questo significava, si chiese Daisy, che era una visita di ringraziamento? Fatta per conto di Rosie? Al posto della solita lettera? In quel momento si ricordò di non averne ricevuta nessuna.

«La troviamo tutti così deliziosa» riprese sorridendo di nuovo, dato che l’idea di una visita al posto di una lettera di ringraziamento la divertiva. «Avere avuto tra noi una creatura tanto splendida è stata una vera gioia».

«Grazie, lady Midhurst» ribatté Mumsie, che aveva sulla punta della lingua di chiederle allora perché mai sua signoria non si era mai concessa quella vera gioia in precedenza. Già anni prima. Quindici anni prima, per essere esatti.

Si morse invece la lingua, e si limitò a sottolineare che valeva molto più la bontà che la bellezza.

«Sono d’accordo» convenne Daisy, cercando ancora di cogliere il motivo della visita.

«Di bellezza e bontà mia figlia ne ha da vendere» affermò Mumsie.

«Me ne rallegro» replicò Daisy; sebbene questo, a ripensarci, non le parve un commento del tutto felice.

Ma Mrs De Lacy continuò a parlare. È una visita di ringraziamento per interposta persona, si disse Daisy, visto che la chiacchierata proseguiva senza svilupparsi in una richiesta di beneficenza; ma com’erano imbarazzanti i suoi modi curiosi!

Guardò la sua ospite con occhio divertito. Un parente. Il parente non invitato che si presenta al posto di una lettera. Di certo, pensò, erano meglio le lettere. Non portavano via tempo quando dovevi trovarti a un pranzo entro un’ora o due. Potevi degnarle di una rapida occhiata e poi gettarle da parte.

Ma con Mrs De Lacy non c’era modo di cavarsela con una rapida occhiata. De Lacy aveva annunciato James, giusto? Quanto a gettarla da parte, anche quello sarebbe stato al di là delle forze di chiunque. Era una donna molto convincente, percepì Daisy. Sembrava emanare una sorta di autorità. Non c’era quindi da meravigliarsi che il povero Andrew, sul quale aveva nutrito quei sospetti tanto terribili e decisamente non menzionabili – oh, ora se ne vergognava a morte –, non volesse passare troppo tempo a casa. Eppure, seduta così vicina alla sua ospite da non poter evitare di osservarne ogni dettaglio, si sentì in un certo qual senso commossa. Non si intuiva forse, in quel suo logoro fulgore, un grande coraggio, un’indomita volontà di prendere il meglio delle cose e di tenere alta la bandiera a dispetto dell’età?

“Un po’ come me” si ritrovò a pensare Daisy; e subito scacciò quel pensiero fastidioso.

«La mia povera piccola Rosie» stava dicendo in quel momento la visitatrice.

«Non sta bene?» chiese meccanicamente Daisy, perché proprio in quel momento il suo sguardo vagava sull’abbondante seno della donna, chiedendosi se avrebbe potuto regalarle un mazzolino di gardenie vere – ce n’era un vaso pieno, fresche e immacolate tra le lucide foglie scure, su un tavolino accanto al divano – per sostituire quei patetici fiori artificiali, scuriti dall’uso, appuntati sul soprabito. Ne sarebbe stata lieta o si sarebbe offesa? Lo avrebbe accettato come un piccolo dono, fatto semplicemente per il desiderio di arrecare piacere, o lo avrebbe considerato una critica indelicata?

«Non sono solo le malattie a rendere povera una moglie» puntualizzò Mumsie enigmaticamente.

«No, certo» convenne Daisy, non potendo far altro, di fronte a un commento del genere, che trovarsi d’accordo. Doveva darle qualche gardenia, pensò. Qualunque donna se ne sarebbe rallegrata, e quel mattino erano particolarmente deliziose.

Stava per raggiungere il vaso quando la sua mano venne bloccata e afferrata saldamente in una calda presa.

Immediatamente la sua attenzione distratta si trasformò in acuta concentrazione. Si girò e fissò la visitatrice con sorpreso rimprovero. A Daisy non piaceva essere toccata, e non le era mai capitato di essere toccata da estranei, tranne in occasione delle formalità di arrivi e partenze. Fortunatamente la mano che stringeva la sua era guantata. Non le piaceva il contatto della pelle.

«Dobbiamo essere amiche, lady Midhurst» dichiarò Mumsie, rinsaldando la stretta. «Amiche vere, intime».

«È davvero troppo gentile da parte vostra» disse Daisy, inarcando leggermente le sopracciglia. Non poterono alzarsi più di tanto per problemi tecnici, ma lo fecero fin dove poterono.

«In un certo qual modo noi due siamo unite, ora» proseguì Mumsie, le cui sopracciglia, solamente disegnate, erano assai più mobili. «È per questo che sono venuta a trovarvi».

«Unite?» ripeté Daisy, la voce che ben si intonava, venata com’era di blanda sorpresa, alle sopracciglia. Si ritrovò costretta a tirare indietro la testa, perché il viso della donna si era fatto così vicino che altrimenti le si sarebbero incrociati gli occhi. «E come?» chiese.

«Non dal matrimonio, sfortunatamente. Casomai il contrario, temo».

«Il contrario?»

Per un attimo Daisy rimase con lo sguardo fisso in un rigido silenzio. E nel frattempo, tutt’intorno a lei, la stanza sembrò lentamente farsi gelida. Un’immobilità congelata, una tensione pietrificata vi discesero sopra, gocciolina ghiacciata su gocciolina ghiacciata.

«Io. . . non capisco» balbettò dopo una breve pausa, quasi impercettibile, nel respiro.

Tentò di liberare la mano. Intollerabile venir trattenuta a quel modo. Del tutto intoll. . .

«In che senso il contrario?» riuscì a proferire, sforzandosi di mantenere un tono di voce normale.

«Via, via» disse Mumsie, rinsaldando la presa sulla mano che lottava per liberarsi e carezzandola in segno di comprensione. «Non è per niente piacevole, lo so. Ma come donne di mondo dobbiamo affrontarlo. Queste cose succedono, e se saremo entrambe mute come pesci, di modo che nessuno tranne noi...»

A questo punto, in qualche modo, Daisy riuscì a liberare la mano con uno strattone, e aggrappandosi al bracciolo del divano si tirò in piedi.

«Non ho idea di cosa stiate parlando» dichiarò, volgendo la schiena a quella figura esuberante e facendo un rapido, curioso gesto come per spazzolar via non sapeva nemmeno lei quale terribile sporcizia dai vestiti; un gesto bizzarro, cieco e istintivo che Mumsie non notò.

«È proprio ciò che temevo» replicò Mumsie, dietro di lei sul divano. «Per questo ho pensato di farvi visita e spiegarvelo».

«Non c’è proprio nessuna spiegazione» disse Daisy sempre voltandole le spalle, mentre ogni parola cadeva dalle sue labbra irrigidite come una scheggia di ghiaccio e le mani continuavano compiere quel gesto rapido e tormentato, «che io desideri ascoltare».

«Allora» riferì più tardi Mumsie nel descrivere la scena a Rosie, «mi sono leggermente alterata. Sarebbe stato meglio evitarlo, naturalmente. Era l’ultima cosa che desideravo, ma avresti dovuto sentirla, e vedere come mi guardava dall’alto in basso, come se non fossi altro che un disgustoso impiccio. Un impiccio, proprio così! Abbastanza da farmi pentire di essermi presentata in quella casa piena di buone intenzioni. E, a proposito di impicci, chi è il vero impiccio di tutta questa storia, vorrei sapere? Allora le ho detto: “Immagino sia meglio parlare chiaro e tondo, per quanto avrei preferito essere più delicata. Ma se volete saperlo, lady Midhurst, ora noi due siamo unite dall’adulterio”».