I

A Shillerton, quel fine settimana prima di Pentecoste, la domenica a pranzo fu servita sfogliata di uva spina. O era forse crostata? Daisy Midhurst non lo sapeva mai di preciso, ma in ogni caso si trattava di quel dolce con la sfoglia sopra anziché sotto; ed era una sfogliata di uva spina bollente, perché la sfoglia va consumata calda, anche se l’uva spina andrebbe consumata fredda; e gli ospiti, dopo averla mangiata, si sentirono a loro volta bollenti, e non solo, ma anche in preda al malessere. Perché l’uva spina, la cui asprezza non era mitigabile né da cascate di zucchero né da colate di panna, cominciò quasi immediatamente, una volta scesa negli ospiti, a fermentare.

Sembrava proprio l’ultima goccia. Ce n’erano già state molte di gocce, si erano detti gli ospiti, da quando il venerdì erano arrivati fiduciosi, spensierati, traboccanti di piacevole aspettativa e lieti di trovarsi di nuovo lì, poiché l’invito in una delle dimore di lady Midhurst era paragonabile al marchio di qualità dell’argento, garanzia di qualcosa di autentico, indiscutibilmente autentico.

Ma in cosa consistessero quelle gocce nessuno avrebbe saputo dirlo. Faceva caldo, naturalmente, l’Inghilterra meridionale boccheggiava sotto una cappa di afa improvvisa e totalmente fuori stagione, che rendeva difficili i movimenti ed estenuante il parlare; c’era poi la moglie di Andrew Leigh, che nessuno dei presenti, beninteso eccetto il marito, aveva mai incontrato prima, e la cui presenza in quella casa, dato il suo aspetto, aveva suscitato enorme sorpresa. Eppure nulla di tutto ciò era sufficiente a giustificare il crescente scontento e disagio della compagnia. C’era qualcos’altro nell’aria, qualcosa di indefinibile ma al tempo stesso insito nei piatti insolitamente poco curati, privi di fantasia, ripetitivi, l’esatto opposto del genere di vivande che ci si sarebbe aspettati a Shillerton, dove di solito regnava la più gratificante premura per il benessere e il piacere degli ospiti.

Non era assolutamente da Daisy, cominciarono a mormorare tra loro, continuare a far servire uva spina. Chissà dove aveva la testa. Troppo precoce, e orribilmente aspra, quella roba infernale compariva a ogni singolo pasto ormai dal venerdì, dapprima sotto forma di gelato, poi di soufflé, infine di torta.

Se da principio gli ospiti se ne erano a malapena accorti, per quanto già da venerdì alcuni di loro fossero andati a letto di umore pensieroso, col passare del tempo la compagnia non poté non farvi caso; e quando la domenica, nel bel mezzo di una giornata torrida, l’uva spina fece di nuovo la sua comparsa in tavola, questa volta neppure fredda, come se non altro era stata servita fino ad allora, ma all’interno di uno sformato bollente, la cosa fu considerata a ragion veduta come l’ultima goccia.

I pensieri che aleggiavano attorno al tavolo si esacerbarono. Le voci si fecero stizzose. Per qualche motivo Daisy non mostrava la consueta perizia nel disporre i pasti. Forse non era stata lei a ordinarli, nel qual caso, visto il risultato, avrebbe invece dovuto farlo. Già, sembrava proprio aver delegato il compito alla segretaria: cosa imperdonabile; o a sua figlia: incauta; oppure alla cuoca: fatale. Non v’era dubbio che Miss Simpson era insuperabile nel tenere in ordine l’agenda degli appuntamenti, ma bastava un’occhiata per capire che era a corto di idee in fatto di menu. Terence Chilgrove… bè, da lei inutile aspettarsi nulla del genere: era una di quelle giovani donne dai nobili ideali il cui desiderio era nutrire i poveri invece che i ricchi. Mentre la cuoca, priva di fantasia come quasi tutti i domestici, sapendo che in quel periodo dell’anno l’uva spina era una primizia del tutto speciale, riteneva che di tale prelibatezza non se ne potesse mai avere abbastanza.

Invece si poteva. Giunto il pranzo domenicale gli ospiti ne erano convinti. Del resto, era improbabile che persone ragionevoli e adulte pensassero che l’uva spina acerba potesse essere altro che immangiabile.

“Non se ne può più” mormorò tra sé l’avvocato della compagnia, il giudice Lattington – sir Lydford Lattington nella vita privata –, gli angoli delle sottili labbra imparziali rivolti verso il basso. E spingendo via il piatto si abbandonò allo sconforto.

Aveva finora fatto del suo meglio, pensò, per affrontare con spirito leale quell’agghiacciante primizia primaverile. Altroché, visto che era ormai ospite abituale e amico fedele. Tuttavia, malgrado la sua sollecitudine per lady Midhurst e il desiderio di dimostrare il massimo apprezzamento nella di lei dimora, la sfogliata bollente di uva spina proprio non gli andava giù. Nemmeno metà del contenuto della zuccheriera – adesso riversato nel suo piatto – era riuscito a mitigare l’asprezza ostinata, quasi perversa, dei verdi acini fumanti. Decisamente, erano loro a mordere il commensale; a morderlo in bocca, anziché restare, come ogni altra pietanza, in rispettosa attesa di essere essi stessi morsi. E di lì a poco fu costretto ad ammettere che non finiva lì, anzi pareva continuassero a mordere anche una volta ingoiati.

Proprio una bella cosa, si disse comprensibilmente seccato, per chi accetta un invito per un auspicato piacevole o quanto meno salutare fine settimana a casa di un’amica. La sera prima, dopo aver mangiato quella torta infernale, si era sentito a disagio, ma niente in confronto a ciò che provava in quel momento. Lady Midhurst – donna affascinante, d’accordo, ma doveva pur esserci un limite alla libertà che poteva prendersi con i suoi ospiti – non aveva alcun diritto di obbligarlo a buttar giù quella roba. Per di più il giorno dopo lo aspettava un’importante incombenza in tribunale, incombenza che richiedeva la più rigorosa e scrupolosa attenzione; come avrebbe potuto rimanere concentrato, se qualcosa continuava a morderlo dentro?

Fece correre cupamente lo sguardo lungo la tavolata fin dove, in lontananza, era seduta la padrona di casa con le spalle rivolte alla finestra. Non riusciva a vederla bene, perché il tavolo era lungo e le finestre schermate, ma sembrava chiacchierare con gli altri commensali come se fosse completamente ignara dell’avvelenamento collettivo.

Qualcuno dovrebbe dirglielo, pensò agitandosi a disagio sulla sedia, col viso affilato, cui tanto donava la parrucca, più che mai tetro. Anche il suo vicino si agitava inquieto. O era uno scherzo della sua immaginazione? No, non era la sua immaginazione; ovvio che si stesse agitando. Chiunque si sarebbe agitato. Tra poco tutta la tavolata sarebbe stata presa dalla smania. Era questo il modo di trattare degli ospiti fiduciosi? Come tutti, aveva un’altissima opinione di lady Midhurst, l’ammirava e la rispettava enormemente, però pensava che in merito a quella faccenda qualcuno dovesse richiamarla, o perlomeno guidarla; parlarle chiaro e tondo, insomma.

Ma chi?

Lo sconforto di sir Lydford aumentò. Nessuno, infatti, era in grado di dire alcunché a quelle donne ricche, distaccate, osannate da tutti, abituate a fare quel che volevano e che davano immancabilmente per scontato l’assenso generale verso le loro scelte. Un marito avrebbe potuto; benché persino di quello – nello svolgimento delle sue mansioni sir Lydford aveva acquisito una matura, per quanto unilaterale conoscenza dei mariti – cominciasse a dubitare. Per di più, lì non c’era nessun marito. Il povero Midhurst era rimasto ucciso – sir Lydford, influenzato dalla sensazione del momento, era incline a pensare che la sua morte non fosse stata, tutto sommato, intempestiva – nell’ultimo anno di guerra, e per quanto attraente fosse la vedova ai tempi, e per quanto a lungo fosse rimasta tale, e per quanto persino ora a volte potesse ancora apparire tale in una certa luce – purché sufficientemente fioca – non era mai stato sostituito.

Povero Midhurst. Sir Lydford non l’aveva conosciuto, ma ora all’improvviso si sentiva ribollire dentro una grande solidarietà e pietà nei confronti del pover’uomo. Ribollire, sì. Per un istante non riuscì a capire bene se. . . ma poi ne fu certo. . . Quell’uva spina. Quella dannata uva spina. Non voleva saperne di starsene tranquilla. Povero Midhurst? Tutt’altro.

 

 

 

Si ritirò nel più completo silenzio. Di fronte a lui, il ministro stava valorosamente ingoiando l’ultima cucchiaiata di dolce. Sir Lydford l’osservò con torvo stupore. L’uomo aveva ripulito il piatto. Doveva avere lo stomaco di uno struzzo. Tipico dell’attuale governo, si disse. Ma bastava aspettare, e tra qualche minuto anche lui, inevitabilmente. . .

Mr Torrens, invece, non dovette aspettare. Si sentiva già indisposto. Aveva mangiato la crostata – era di quelli che chiamano crostata la sfogliata – solo per riguardo verso Daisy, alla quale era affezionato, perché cortesia imponeva, a suo avviso, che l’ospite consumasse il cibo offertogli lasciando intendere che fosse di proprio gradimento. Naturalmente era quanto mai insolito, e niente affatto da lei, mettere in tavola cibo del genere, ed egli, noto buongustaio, non era stato per nulla felice di mangiarlo. Anzi, verso la fine della sua porzione si era sentito alquanto disturbato. Eppure, si chiese ingoiando risoluto, cosa poteva contare qualche acino di uva spina in più o in meno, una volta mandato giù?

Presto lo scoprì. Nel suo zelo di compiacere Daisy, evidentemente orgogliosa di servire quella frutta – altrimenti perché continuava a farla portare in tavola? –, a quel punto ne aveva mangiata una dose decisamente eccessiva, e se ci si aggiungevano i gelati, i soufflé e i dolci dei pasti precedenti il totale ammontava a una quantità spropositata. Chissà se in relazione all’uva spina bisognava parlare, si chiese cercando di distrarre l’attenzione da ciò che stava accadendo dentro di lui, di gran quantità, oppure di un gran numero? L’unica cosa che sua madre, per quanto ricordava, gli aveva insegnato nel periodo in cui le arrivava appena alle ginocchia era che non bisognava parlare di quantità quando ci si riferiva a cose numerabili. In tal caso, dunque, non bisognava parlare di. . .?

Con uno scatto improvviso si voltò verso la persona seduta accanto a lui per chiederne l’opinione. Costei, che negli ultimi minuti era rimasta del tutto muta, rispose lapidaria di non averne idea.

«No, dico sul serio» insisté Mr Torrens, spinto alla conversazione dal desiderio di distrarsi dalla digestione. «Non parlereste, per esempio, del Libro delle Quantità se quello di cui vorreste parlare fosse il Libro dei Numeri, dico bene?». La donna era la moglie dell’ecclesiastico della compagnia, ed egli, malgrado il disagio personale, reputava il quesito appropriato.

Lei gli lanciò una breve occhiata glaciale, poi distolse gli occhi dalle palpebre pesanti. Non si sentiva molto bene neppure lei. Quell’uva spina acerba, dato il periodo dell’anno, tutta quella panna densa, il caldo terribile nella stanza, l’afa ovunque, anche dentro di lei. . . perché doveva subire quel supplizio? Perché una padrona di casa solitamente ineccepibile nella cura e sollecitudine verso gli ospiti si mostrava all’improvviso così indifferente al loro benessere, persino alla loro salute?

«Dico sul serio» insisté Mr Torrens senza prender nota degli sguardi glaciali dell’altra; anzi beandosene alquanto, data la calura dilagante.

La donna si chiese se dovesse prendersi il disturbo di rispondergli. Le spiritosaggini sulla Bibbia erano sempre indice di cattivo gusto. E, se vi si indulgeva con la moglie di un vescovo, allora il gusto diventava esecrabile. E non era neppure il governo di cui faceva parte quell’uomo ad avere assegnato al vescovo la sua diocesi, né tanto meno, ne era certa, questi aveva la più remota possibilità di diventare primo ministro.

Quindi, non vedeva alcun valido motivo per prendersi la briga di mostrarsi civili. C’erano però i suoi doveri verso la padrona di casa alla quale, malgrado tutto, era ancora affezionata. Erano più d’una le insidie che minacciavano lady Midhurst per via della sua ricchezza e posizione, e non pochi gli aspetti decisamente deplorevoli del suo carattere, come per esempio l’insistenza a tingersi i capelli quando chiaramente avrebbero dovuto apparire grigi già da tempo; oppure a truccarsi la faccia anziché lasciarla tranquillamente sfiorire o dipingersi di vermiglio labbra e unghie. Un vero peccato; e con una figlia grande, oltretutto. Ma non si poteva fare a meno di volerle bene. Era così gentile. Benevola, e chiaramente felice. E anche generosa: non rifiutava mai un po’ di aiuto quando ci si rivolgeva a lei per conto di una delle innumerevoli opere pie, e l’offriva con animo lieto, immancabilmente in misura superiore a quanto si era sperato. E, per quanto si imbellettasse, la sua posizione era ineccepibile, considerato che apparteneva per nascita a una delle due più antiche famiglie d’Inghilterra e per matrimonio all’altra. E poi – e questa era la cosa di gran lunga più importante – nonostante la sua esteriorità variopinta si atteneva ai più alti standard morali, e sotto la cortina delle ciglia appesantite dal nero aveva sempre condotto una vita così autenticamente pura, e professato opinioni altrettanto immacolate, che si poteva star certi che sotto il suo tetto non sarebbe mai capitato di incontrare persone – indipendentemente dall’aspetto – altro che buone.

Erano grandi qualità. Per ogni verso, tranne quello esteriore, era l’amica e anfitriona più gradevole e preziosa che potesse esserci, e dopo essere stata in sua compagnia una persona sentiva, nel caso in cui desse importanza a tali cose, che il proprio valore sociale si era considerevolmente innalzato.

Era naturale quindi desiderare compiacerla e rimandare il più possibile il momento di mostrarsi sgarbati con uno dei suoi ospiti; ciò nonostante la moglie del vescovo non sapeva quanto avrebbe resistito in quell’atmosfera, con un cibo del genere ed essendo l’ospite in questione Mr Torrens. Non era, né sarebbe mai stato il tipo d’uomo con cui mostrarsi solleciti. Tuttavia teneva molto a lady Midhurst, la quale a sua volta teneva molto a lui; strano, si disse, fissando gli occhi dalle palpebre pesanti sui fiori davanti a sé così da non vedere i volti surriscaldati attorno al tavolo, in particolare quello di Mr Torrens, quanta fatica si facesse ad apprezzare, o addirittura a sopportare, gli amici dei propri amici, e quanto più strana ancora fosse la rapidità con cui, obbligata a stare in loro compagnia, quell’incapacità sembrasse via via aumentare.

Ricordò di avere giudicato la compagnia piuttosto piacevole (peccato l’assenza di membri della famiglia reale, in genere partecipi ai ritrovi in quella dimora, e la presenza di Mrs Leigh) il venerdì al suo arrivo, e di avere chiacchierato a lungo con quel Mr Torrens. Ora, nemmeno due giorni dopo, nei suoi confronti, e anche degli altri, provava soprattutto un senso di sorpresa per i gusti della padrona di casa in fatto di amici.

Sul loro conto non c’era nulla da dire, rifletté, se non che erano brave persone, naturalmente. Dovevano esserlo, altrimenti non si sarebbero trovati lì, benché alcuni non ne avessero affatto l’aspetto. Mr Torrens, per esempio. A giudicare dal modo in cui occhieggiava Mrs Leigh, veniva da pensare che avesse una certa spiccata inclinazione, se avesse potuto indulgervi, alla bassezza.

Fortunatamente in quella casa non avrebbe potuto indulgere in alcunché; anche solo doverne cogliere le occhiate, tuttavia, era di per sé sgradevole. Oltre tutto che razza di governo cui appartenere, per un gentiluomo! Un manipolo di inconcludenti. Possibile che una persona rispettabile osasse mostrarsi in un governo del genere? E quel suo sciocco scherzare, poi, la mancanza di tatto nel fare battute, proprio con lei, che chiamavano in causa la Bibbia.

No, meglio perderlo che trovarlo, uno come Mr Torrens; e quando egli, insistendo con la sua mancanza di tatto, le ripeté per la terza volta: «No, dico sul serio» lei si girò verso di lui e specificò bruscamente di non aver alcuna intenzione di parlare del Libro dei Numeri.

«Oh, suvvia» rispose l’altro canzonandola, canzonando una come lei. «Voi che siete moglie di un. . .»

Per fortuna qualunque cosa stesse per dire fu interrotta dal cognato di lady Midhurst, attuale marchese – neppure lui aveva un’aria particolarmente retta, ma forse, essendo marchese, era vittima di particolari tentazioni, e tutte le tentazioni, sia quelle vinte sia quelle cui si soccombeva, lasciavano tracce indelebili –, il quale sbottò all’improvviso e a voce alta, come incapace di trattenersi oltre: «Non si può aprire un’altra finestra, Daisy?»

«Sono già tutte aperte» lo rassicurò in tono distratto Miss Simpson, la segretaria di Daisy.

«Allora la porta» ansimò lord Midhurst, uomo abitudinario che aveva già cercato di slacciarsi le chiusure degli indumenti sotto il livello del tavolo, senza però trovare sollievo.

«Ma così non farà corrente?» chiese lady Lattington, moglie di sir Lydford, in tono alquanto nervoso: sedeva accanto alla porta e, naturalmente, non voleva buscarsi un raffreddore.

«L’aria» la rintuzzò il professor Brown, eminente scienziato, fissandola con avversione attraverso gli occhiali, «deve pur circolare . È un errore diffuso credere che le correnti d’aria siano pericolose».

Aveva i vestiti incollati addosso. In quel momento non gli importava niente dei desideri o delle paure altrui. Di solito era dotato di una mente equilibrata e razionale, ma il malessere di cui era vittima snaturava temporaneamente la sua indole. “Razza di vecchiacce inutili ed egoiste” pensò nello scoccare uno sguardo truce alla povera donna.

«A me le correnti piacciono. . . a voi no?» chiese una ragazza carina, ex compagna di scuola a Parigi di Terence, unica figlia di Daisy, al proprio vicino, un giovanotto che sedeva ingobbito senza spiccicare parola. Lui le piaceva, e avrebbe tanto voluto piacere a lui; ma cosa doveva dire? Cosa si diceva in quei casi? Peccato che l’essere bella – era consapevole di essere bella da quando aveva tre anni – non fosse sufficiente per Geoffrey, e che le toccasse sforzarsi di pensare a qualcosa da dire, in aggiunta. Con la maggior parte degli uomini, specie quelli di una certa età, era più che sufficiente essere belle, e il resto veniva spontaneo e naturale.

«No, se non sono d’epoca» rispose Geoffrey, allungando una mano languida dal polso sottile per servirsi altro vino bianco, ma ritirandola nello scoprire che il ghiaccio nella brocca si era sciolto.

Ecco. Cosa si poteva rispondere a un commento del genere? Perché Geoffrey doveva sempre parlare in quel modo incomprensibile? Di sera, al chiaro di luna, nessun problema. Non parlava, però si comportava normalmente. Era solo di giorno che le comunicava la fastidiosa sensazione di doversi sforzare, di dover dire a tutti i costi qualcosa di intelligente.

«Ah, sì. Raffreddato a lungo nel suolo scavato a fondo. . . eh, Geoffrey?» tuonò il vescovo, che, seduto per sua scelta in fondo al tavolo tra i giovani, era ancora in grado di tuonare, per quanto in modo meno sonoro rispetto a prima della sfogliata.

Cari, cari giovani, si disse irradiando benevolenza sul gruppetto di ragazzi attorno a lui – su Geoffrey, al momento piuttosto sopraffatto, come del resto tutti loro, dalla calura, e temeva di dover aggiungere da quel singolare cibo, ma ciò nonostante un individuo splendido, retto e di sani principi, una promessa del ministero degli Esteri; su lady Terence, la deliziosa figlia della deliziosa padrona di casa, che aveva lui stesso cresimato e che sembrava diventare sempre più nobilmente bella ogni volta che la vedeva; sull’amica, un’incantevole creatura d’immacolata innocenza proprio come doveva essere una ragazza – cari giovani; lui era famoso per andare d’accordo con i giovani, e sentiva di essere da loro considerato un amico comprensivo.

D’accordo, per un istante soltanto gli era parso di sentire anche qualcos’altro, ma, rifiutandosi di prestarvi ascolto, aspettò che passasse, nel frattempo occupando la propria mente in considerazioni sulla felicità procuratagli dalla vicinanza e dal legame con i giovani, dalla totale assenza di barriere tra lui e loro. Non era forse sempre il benvenuto tra loro, alla pari di un coetaneo? Non parlava forse la loro stessa lingua? Era un suo pallino, immaginava, un fortunato pallino per cui non avrebbe mai potuto provare sufficiente gratitudine, perché l’amicizia con i giovani, la loro fiducia, erano tra le più preziose fortune con cui era stato benedetto.

Qui tuttavia i suoi pensieri presero a vacillare. Qualcos’altro, senza dubbio, si stava imponendo alla sua attenzione, qualcosa di decisamente spiacevole. Quella sfogliata. Non era da lui criticare il cibo che una padrona di casa, specialmente una tanto amata come lady Midhurst, gli metteva davanti, ma non poteva fare a meno di pensare che quella sfogliata. . .

«Esattamente, signore» disse Geoffrey facendo del suo meglio, malgrado quelli che gli apparivano come ostacoli insormontabili, per mostrarsi affabile.

“Vorrei che la piantasse con quel ‘signore’” pensò il vescovo, il quale aveva più volte suggerito, immancabilmente invano, che il giovane amico lo chiamasse semplicemente Charlie.

E Geoffrey si disse: “Questi vecchi sempre fissati con le citazioni. Mi danno la nausea” scambiando momentaneamente e ingiustamente il vescovo con l’uva spina.

La ragazza avvenente – ma era poi così avvenente? Geoffrey era propenso a credere che non lo fosse, di giorno – scelse proprio quel momento per chinarsi verso di lui, avvicinandosi a tal punto che i suoi capelli gli sfiorarono la guancia.

«Non fa un caldo esagerato?» chiese, con l’aria di rivelargli un piccolo, intimo segreto.

Lui spostò la testa di lato con uno scatto. Capelli. Che gli sfioravano il viso. Che gli facevano il solletico. Con quel caldo. Possibile che le donne non ne avessero mai abbastanza di toccare e di essere toccate? Possibile che non avessero il minimo senso della decenza?

«Oh, Dio» mormorò con voce irritata e udibile; e il vescovo, avendolo sentito, dovette per forza di cose dire, per quanto in tono estremamente mite: «Geoffrey».

Caro ragazzo, pensò il vescovo con spirito tollerante. O forse – chi lo sapeva? – povero ragazzo, anch’egli soggiogato, come lui stesso, da una sensazione inconsueta. Ma pur sempre e comunque un caro ragazzo, che non doveva sentirsi biasimato quanto piuttosto richiamato. Un amico della sua età poteva senz’altro richiamare; un amico fidato, a lui legato da un comune sentire su gran parte delle cose, ma che recepiva l’uso di parole sacre al di fuori del loro contesto in una luce di pietà.

Sì, pensò il vescovo, imperterrito nel non lasciarsi scalfire da alcunché, perché a questo mondo nulla si ottiene senza pazienza e comprensione. Dato che la stanza era soffocante, ben più soffocante di quanto fosse ragionevole aspettarsi, e che il dolce appena mangiato era difficile da giustificare in quella casa, quelle piccole sviste o trascuratezze da parte della padrona di casa dovevano essere vissute come occasioni per esercitare pazienza e comprensione; in quanto tali, avrebbero immediatamente perso il loro potenziale irritante. Giustificabilmente irritato, si disse di aver fatto bene a riprendere il ragazzo. Un caro ragazzo. Un caro, bravo ragazzo. Ma se perdeva il controllo occorreva frenarlo.

Il vescovo, però, non poté non notare che, attorno al tavolo, a perdere il controllo erano più d’uno. Una vampa di esasperazione sembrava propagarsi da un commensale all’altro, infiammando tutti in successione; a giudicare dai brandelli di conversazione che gli giungevano all’orecchio il suo caro giovanotto non era l’unico a trovare difficile trattenersi dal dire ciò che senz’altro era meglio tacere. D’accordo, nessuno era arrivato al punto di fare il nome delle divinità, ma molti erano giunti pericolosamente vicini a quelle che, alle orecchie del vescovo, suonavano come risposte scortesi, e chi era ospite – lui ne era convinto – doveva astenersi da certi toni. Il che valeva per chiunque, ma soprattutto per degli ospiti, ancor più se si trovavano nella stessa stanza con la padrona di casa, a sua portata d’orecchio. Per quanto snervanti fossero le circostanze, gli ospiti dovevano sempre dare l’impressione di non esserne minimamente toccati, di non risentirne affatto. Era il lunedì mattina, pensò il vescovo, premurandosi di sbandierare un’espressione lieta, il momento per lasciarsi andare a qualche piccolo sfogo, se proprio non se ne poteva fare a meno: sulla banchina, in attesa del treno, o persino (non bisognava reprimere oltre misura l’umana natura) già a bordo dell’auto, diretti alla stazione. Per il momento, comunque, finché fossero stati tutti assieme sotto il tetto di una signora, e nutriti – o piuttosto destabilizzati, come temeva fosse il caso – dal suo cibo, avrebbero dovuto, in ossequio a ogni norma di civile convivenza e di umana decenza, comportarsi come se apprezzassero la reciproca compagnia.

 

 

 

Davvero increscioso, dunque, che proprio mentre formulava tali pensieri, venisse anch’egli indotto a rispondere poco cortesemente. Ma trattenersi gli fu impossibile. Ancor prima di rendersene conto, l’aveva già pronunciata: una parola soltanto; cosa non rivela, tuttavia, anche una sola parola!

Quel breve bisillabo mostrò a lui stesso, ed egli temette anche ai giovani in ascolto, quanto fosse al di sotto dei suoi standard, ancora lontano da ciò che talvolta, in totale umiltà, osava credere che quei cari figlioli lo ritenessero: un santo di Dio.

E tutto per colpa del signore tedesco alla sua sinistra. Se l’avesse lasciato in pace non sarebbe mai successo. Per tutto il fine settimana quell’uomo – giunto a Londra, per quanto ne sapeva la compagnia, in una qualche missione diplomatica, fatto di cui tutti cominciavano ormai a rincrescersi, perché in caso contrario Daisy non l’avrebbe conosciuto, e di conseguenza neppure loro – aveva dato al vescovo l’impressione di essersi fissato nel sederglisi vicino. Era senz’altro uno scherzo della sua immaginazione, e pensandoci bene forse non era accaduto più di una volta; ma il tedesco era fisicamente così grosso e mentalmente così fagocitante che da solo equivaleva a cinquanta altri.

E comunque ora gli era vicino, sulla sinistra, obbligandolo a stare in sua compagnia senza possibilità di fuga per tutta la durata del pasto; non poteva far nulla, se non fingere che non fosse lì. Rivolgersi esclusivamente al gruppo dei giovani: ecco su cosa si era concentrato il vescovo; come tutti gli altri, di quel tedesco ne aveva piene le tasche, anche se all’inizio, come tutti gli altri, aveva fatto mostra della massima amabilità.

E forse si erano fatti prendere la mano da quell’amabilità iniziale, guidati e incoraggiati da lady Midhurst la quale, il vescovo lo sapeva bene, pensava da un bel pezzo a quel popolo come a «quei poveri tedeschi» e, una volta conclusa la guerra, aveva cominciato a invitarli a casa propria ancor prima che il resto d’Inghilterra avesse ripreso a respirare, e continuava a farlo ancor dopo che il resto d’Inghilterra aveva preso a sospettare che fosse meglio tenerli d’occhio, se ce ne fosse stato il modo.

Già alla fine del primo giorno, comunque, il vescovo, irritato dalla presenza e dalla conversazione dell’uomo, si era scoperto a pensare che quegli inviti erano forse cristiani ma certamente snervanti, sorprendendosi non poco che la propria mente fosse capace di un accostamento di termini tanto deplorevole.

Tuttavia, nel primo élan di benevolenza e disponibilità tipico delle ore iniziali di un fine settimana in cui si era ospiti, erano prevalsi gli impulsi di generosità, e tutti si erano dati da fare per dimostrare al conte von Vosch che quei piccoli pregiudizi forse esistenti subito dopo la guerra erano scomparsi da un pezzo.

Il venerdì sera, per esempio, il vescovo gli aveva dato qualche colpetto sulla spalla e gli aveva assicurato che tedeschi e inglesi erano ugualmente figli di Dio, il che era vero, ovviamente, anche se ora si avvedeva che non ci sarebbe stato bisogno di indugiare su quel punto con tanto entusiasmo. Sempre il venerdì sera Mr Torrens lo aveva coinvolto, senza nemmeno troppa condiscendenza, in una conversazione politica scrupolosa e obiettiva, concedendogli generosamente il beneficio di ogni possibile dubbio. Di nuovo il venerdì sera, sir Lydford aveva attaccato bottone con lui in modo affabile, arrivando a dimostrare per mezzo di elaborate teorie che tra tedeschi e inglesi non c’era neppure una virgola di differenza (“Invece” si compiaceva di pensare il conte mentre si inchinava educatamente, “di virgole ce ne sono, eccome”). La mattina del sabato tutti avevano continuato a mostrarsi gentili. E persino nel pomeriggio, sul prato, in giardino, ovunque continuassero a imbattersi in lui; ma già il sabato sera l’élan si era in gran parte affievolito e stava invece prendendo piede l’inclinazione, quando lady Midhurst non guardava, a eluderlo. La domenica, al suo apparire gli ospiti si davano apertamente alla fuga.

Tutto ciò, si diceva il vescovo, era ben lontano dall’essere come doveva. Il codice comportamentale di un ospite certamente non comprendeva il darsi alla fuga. Eppure doveva ammettere che, rispetto al venerdì, il conte sembrava più irritante, la sua lenta parlata più insistente. Rimarcò tra sé che era una disgrazia essere lenti e anche insistenti. Una disgrazia per se stessi, perché inevitabilmente scatenava il pregiudizio nell’ascoltatore, e una disgrazia anche per l’ascoltatore, al quale non si doveva chiedere qualcosa che andasse oltre le sue capacità. Aveva anche l’abitudine di far precedere ogni osservazione dalle parole: «Nel mio paese. . .», un ulteriore motivo per cui i pregiudizi degli altri ospiti erano ormai completamente scatenati. Così, quando nel prendere posto a tavola la domenica a pranzo il vescovo avvertì pur senza vedere – preferiva non guardare – il figlio tedesco di Dio infilarsi nella sedia alla sua sinistra con una gran rivoluzione di tovaglioli, forchette e bicchieri, inchiodandolo al suo posto al di là di qualsiasi speranza di fuga ed emanando, così pareva, volumi di calore supplementari e teutonici, il vescovo comprese che l’unico modo per conservare quel poco di residua benevolenza era fingere con determinazione che l’uomo non si trovasse lì.

Una sfortuna, quindi, che, dopo essere riuscito a concentrarsi unicamente sui suoi giovani e ad approdare sano e salvo alla fine del pasto, ivi compresa la sfogliata di uva spina, le voci concitate all’altro capo del tavolo lo avessero indotto a voltarsi. Con quel movimento intendeva solamente lanciare una breve occhiata vivace per ricordare agli altri ospiti ciò che forse stavano dimenticando; nessun rimprovero o critica, solo un’unica breve occhiata benevola. Senonché l’occhiata fu subito acchiappata dal conte in apparente attesa, e usata come occasione per attaccare bottone.

«Nel mio paese. . .» esordì il conte.

Ma non riuscì a continuare poiché, travolto da uno scoppio d’ira assurda e davvero poco cristiana nel vedersi così facilmente catturato proprio alla fine del pasto dopo tutta la pena che si era dato, il vescovo, facendosi paonazzo, gli piantò gli occhi in faccia con astio e in tono perentorio esclamò: «Zitto!»

«Zitto?» ripeté stupito il conte. «Perché dovrei star zitto?»

«Zitto, per cortesia!» esclamò il vescovo in tono ancora più udibile.

Allora tutta la tavola si zittì. Persino i valletti sembrarono paralizzarsi; e il vescovo, rendendosi conto all’improvviso di quel che aveva fatto, restò inchiodato alla sedia in balia della costernazione e della vergogna.

Se solo avesse potuto alzarsi, dare la benedizione e congedare la congregazione! Che imperdonabile sgarbo, che cosa orrenda da dire a un uomo adulto, ospite come lui, e alla presenza e alla portata d’orecchio dei giovani.

Profondamente contrito e confuso, si voltò verso lady Terence. «Figliola cara» esordì – preparandosi a posare la sua mano su quella di lei con piglio supplicante e cercando intanto di trovare una qualche formula per convincerla che, nonostante le apparenze, egli fosse deliziato di ascoltare l’ospite tedesco di sua madre col quale, in fondo, stava solo indugiando in quell’amicizia che il salmista descrive come buona e piacevole – tutto preso dal desiderio di placare, di fare ammenda.

Ma con sua grande sorpresa e sollievo nulla di tutto ciò si rendeva necessario. Terence Chilgrove non stava ascoltando; nel voltarsi verso di lei fece giusto in tempo a intercettare lo spegnersi di un lieve, angelico sorriso appena inviato all’altro capo del tavolo. Era chiaro che non aveva sentito niente.

 

 

 

L’aveva scampata bella, pensò il vescovo tirando un sospiro di sollievo; proprio bella. Tutti adesso avevano ripreso a parlare, e Miss Simpson, la segretaria, seduta all’altro lato del conte, si era intromessa fra loro, tipico delle segretarie, sobbarcandoselo. No, non si sarebbe mai più tradito. . .

Ma a chi stava sorridendo lady Terence in modo così dolce e adorabile, tanto che il suo rivolgerle la parola l’aveva fatta sobbalzare?

Si allungò in avanti, occhieggiando tra le ombre in lontananza. A sua madre, naturalmente. Laggiù, nessun altro poteva suscitare quel delizioso sorriso traboccante d’amore. Sua madre aveva da un lato l’anziano Mr Topham – detto Topsy – un vecchio che passava tutto il giorno a giocare a scacchi, e dall’altro un taciturno uomo di mezza età marito della giovane e bellissima Mrs Leigh. Era improbabile che lady Terence sorridesse a qualcuno di loro, se non per pura cortesia, mentre il sorriso che lui aveva intercettato esprimeva intimità e amore.

Grande e bella, già lo sapeva, era la devozione che esisteva tra madre e figlia, una devozione, così si vociferava, che aveva impedito a quest’ultima di sposarsi, per non lasciare la sua casa. Secondo il vescovo la decisione di non sposarsi era del tutto ammirevole: l’inviolabilità della verginità, la sua innocenza, la sua gelosa santità, l’incantavano. Non vi era nulla al mondo di più bello, pensava, almeno fin quando la giovane in questione non cominciava a invecchiare: allora diventava assolutamente necessario ricorrere al matrimonio, prima che, come nel caso della povera Miss Simpson, l’avvizzimento prendesse piede. Ma, prima di allora, che fretta c’era? Lui stesso si era affrettato – la sua professione era propensa a essere precipitosa nell’affrontare tali questioni – e per quanto non se ne fosse mai pentito, essendo stata spesso la sua cara moglie una fonte di consolazione, ora si rendeva conto che, potendo, era meglio aspettare.

Naturale, quindi, che approvasse la devozione alla propria madre e alla propria casa, sempre più rara di quei tempi, che serbava una cara ragazza felicemente nubile e disponibile ad amicizie come per esempio quella con lui; e ogni volta che gli capitava di essere testimone di un’espressione di devozione ne era nuovamente commosso. Soprattutto ora, che lo aveva tempestivamente salvato dall’umiliazione; spinto dalla gratitudine, posò la mano su quella di lei, mormorando con voce sommessa: «Figliola cara… che grande amore».

Lei gli scoccò una rapida occhiata, e fece un lieve movimento, come un impercettibile sobbalzo, quindi il più leggero rossore, veloce come l’ombra di un’ala d’uccello, sembrò passarle sul viso. Ma sparì nel giro di un istante, e i begli occhi grigi, quegli occhi grigi limpidi, dolci e intelligenti, si posarono su di lui tranquilli come al solito.

Impresse alla mano di lei una lieve stretta. «Essere testimone di tanto amore tra madre e figlia scalda il cuore del tuo vecchio vescovo» disse.

«È merito della mamma, lo sai» rispose sorridendo con la consueta deliziosa tranquillità – no, il lieve sussulto e il rossore doveva esserseli sognati –, «è meravigliosa».

«E che dire allora» domandò il vescovo affettuosamente giocoso, «della figlia?»

 

 

 

Ora, comunque, il pasto stava giungendo al termine. Burro e biscotti vennero respinti, l’ananas rifiutato con un brivido, per cui restava solo da affrontare il caffè.

Daisy, misericordiosamente, non li avrebbe obbligati a bere il caffè in sala da pranzo, tra i detestabili ricordi del cibo, e presto – così si sperava – avrebbe dato il segnale di via libera: allora si sarebbero diretti in massa all’esterno dove, all’ombra fresca di un angolo del terrazzo, era stata tirata una grande tenda azzurra che, quando soffiava, era lambita dal vento. C’erano anche delle poltrone adeguate, capaci, dotate di cuscini, in cui era possibile allungare comodamente le gambe anziché tenerle rattrappite sotto un tavolo, e una volta raggiunte quelle poltrone – ampie, accoglienti e fittamente raggruppate – sarebbe stato un gioco da ragazzi, nel caso lo si desiderasse, guadagnarsi una via di fuga tra l’una e l’altra e sgattaiolare via inosservati.

In quel momento la propensione generale della compagnia era tutta a favore dello sgattaiolare. Eppure, si avvedeva il giudice Lattington, ancora lucido di mente ma in preda allo scompiglio più in basso, se tutti fossero sgattaiolati via lady Midhurst si sarebbe ritrovata sola tra le sue tazze; e poiché, nel rispetto delle convenienze, una padrona di casa non poteva essere lasciata sola tra le sue tazze – ce n’erano ben diciotto, e diciotto tazze inutilizzate avrebbero significato una bella maleducazione – qualcuno, era evidente, avrebbe dovuto sacrificarsi e tenerle compagnia.

Ma chi? Di sicuro non lui; su quello sarebbe stato inflessibile. Che si immolassero pure il vescovo e sua moglie. Era, o avrebbe dovuto essere, loro compito. Per parte sua aveva già sopportato abbastanza, e se non fosse riuscito a rifugiarsi al più presto in camera per cercare un po’ sollievo in una compressa fredda – no, anzi, in due compresse fredde bagnate, da mettersi sulla testa – non sapeva cosa sarebbe successo. Mentre il suo sguardo inquieto vagava intorno al tavolo, vide la moglie che, seduta vicino alla porta – ora finalmente aperta, dalla quale entrava un soffio d’aria che egli avvertiva leggero sulla fronte – già si agitava per via della corrente.

Corrente! Come se quel misero soffio d’aria potesse definirsi corrente. Sir Lydford le scoccò un’occhiata maligna. Che seccatrice, pensò con un’animosità tale da restarne lui stesso stupito; e ritirandosi nelle sue cupe riflessioni finché la padrona di casa, inspiegabilmente in ritardo, non l’avesse autorizzato a muoversi, restò a rimuginare sul matrimonio e sulla follia dei giovanotti i quali, nell’età più cruciale per la loro felicità futura, si legano per la vita a donne abbastanza vecchie da essere loro madri.

Non ancora così vecchie al momento, ovviamente, ma rapidamente e inesorabilmente destinate a diventarlo; perché le mogli, rifletté scrutando con occhio ostile la sua Bessie, non si mantenevano. Come la maledetta uva spina, all’inizio non erano un peso, ma sul lungo termine – il termine delle mogli sembrava, tranne rare eccezioni, essere lungo – altroché se pesavano! In quel momento sir Lydford aborriva il pensiero della ripetitività dell’esistenza, dei suoi continui fastidi. Com’era possibile sopportare sempre le stesse cose, le stesse all’infinito? Quale spirito, alla lunga, non si sarebbe intorpidito sotto il peso della stessa donna, degli stessi pasti, anno dopo anno, decennio dopo decennio? Bessie, la sua ossuta moglie, sedeva lì, a un paio di metri di distanza – da quarant’anni ormai sedeva sempre a un paio di metri di distanza, a volte anche paurosamente meno – e lì sempre sarebbe stata, a esigere le porte chiuse quando lui le voleva aperte, fino alla fine dei suoi giorni. Esisteva prospettiva più deprimente?

Influenzato dalla situazione e dal contenuto del suo stomaco, sir Lydford non vedeva via d’uscita. Già da molto tempo Bessie era diventata una vecchia signora, mentre lui, in quel preciso istante, era ancora – bè, come negarlo? – nel fiore degli anni. Il pensiero di tutti gli uomini che conosceva e che come lui avevano fatto l’errore di sposare donne destinate, in men che non si dica, a diventare vecchie abbastanza da poter essere le loro madri, lo riempiva di malinconia. Bastava guardare attorno a quello stesso tavolo: tranne quel furbacchione di Andrew Leigh, un tizio depresso e silenzioso, ritenuto intelligente – sarà anche stato intelligente, ma se ne stava sempre zitto –, che aveva mostrato tanto acume da aspettare fino alla mezza età per poi procurarsi una deliziosa, giovane creatura, ai tempi diciassettenne, e attualmente poco più che trentenne, e del giovane Geoffrey, che non faceva testo perché non era ancora adulto, non c’era uomo presente che non avesse una moglie ingrigita.

Una moglie ingrigita. Proprio una bella cosa per cui tornare a casa. I suoi occhi, ancora fissi su Bessie, si fecero più che maligni: si fecero ostili. Era riuscita a ottenere che si chiudesse la porta. Faceva così da anni, ricordò lui, oltre a ingrigirsi. Non c’era da stupirsi che fosse tanto amareggiato. Non era giusto, pensò, incitato a tanta slealtà da ciò che aveva mangiato per due giorni. Un uomo aveva bisogno d’incoraggiamento, se gli sforzi e i successi della sua vita dovevano valerne la pena, ma che gli venisse un colpo se riusciva a vedere quale incoraggiamento si poteva ricavare da una testa grigia.

Nessuno; né tanto meno capiva a cosa diavolo gli servisse essersi guadagnato fama e allori se gli unici piedi cui poteva legittimamente deporli erano quelli di una vecchia. Decisamente, odiava i piedi delle vecchie, che inesorabili tallonavano un uomo anno dopo anno, per di più obbligandolo a pagare i conti delle scarpe in cui marciavano, e solo perché una volta, molto tempo fa, lui era stato così sciocco da sposarli.

Gli angoli sottili delle labbra di sir Lydford si piegarono ancor più all’ingiù. Si sarebbe dovuto istituire, rifletté, un qualche ricettacolo, rifugio, luogo di ritiro, recinto od ovile – non era importante cosa fosse, purché in buone condizioni e a tenuta stagna – per le mogli di una certa età; queste, entrandovi pubblicamente, con ogni onore e acclamazione, sarebbero diventate in automatico mogli divorziate per il solo fatto di entrarci, senza conseguenze per nessuna delle due parti. Che si sistemassero le vecchie mogli il più confortevolmente possibile, ma che le si chiudessero in un recinto. Lasciando liberi i mariti di diventare mariti freschi. Lasciando liberi i mariti di fare buoni matrimoni, come quel furbacchione di Leigh, ovverosia di sposare la giovinezza.

E qui i suoi occhi, con un ultimo sguardo truce, scivolarono via da Bessie, della quale, si disse, era ormai giustificabilmente nauseato. Mero spreco di tempo continuare a guardarla. Sapeva già tutto di lei, proprio come sapeva già tutto della sfogliata che imperversava furiosa dentro di lui. Entrambi lo inducevano a immaginarsi cose vane. Arrabbiarsi con entrambi non serviva a niente. Faits accomplis. Messo davanti a dei faits accomplis un uomo saggio non si arrabbiava, ma cercava di pensare ad altro.

Così, voltosi con determinazione verso la commensale alla sua destra, cercò conforto e distrazione, finché non fosse stato libero da quel pranzo interminabile, nella contemplazione del suo profilo.

 

 

 

Apparteneva alla deliziosa e fino ad allora sconosciuta giovane donna, Mrs Leigh, un profilo delicato, incantevole.

“Se solo non si aspettasse di fare conversazione” pensò sir Lydford sistemandosi più comodo sulla sedia, “e mi lasciasse qui seduto tranquillo ad ammirarla, forse riuscirei a sentirmi meglio, tra un po’”.

Questo perché, oltre a essere un giudice che a volte condannava ladri e altri soggetti violenti a qualche salutare sferzata, era di indole poetica e trovava conforto nella contemplazione della bellezza: arrivava addirittura, nelle pause tra una sessione giudiziaria e l’altra, a comporre versi sull’aurora e i compleanni reali per esempio, che poi inviava ai giornali, i quali, essendo i versi lodevoli ed egli illustre, li pubblicavano senza eccezione.

Ecco perché quando si girò verso Mrs Leigh in cerca di conforto, sapeva bene con cosa aveva a che fare; sir Lydford si disse che se lei, la cui conversazione, aveva ormai scoperto da un pezzo, non era sfortunatamente allo stesso livello del profilo, avesse tenuto la bocca chiusa permettendo anche a lui di tener chiusa la propria mentre si consolava fissando l’incantevole curva della minuscola narice e il modo in cui il delicato tirabaci ciondolava provocante vicino all’orecchio, forse sarebbe riuscito a sopportare quel pranzo sino alla fine.

Di lì a poco, ormai concentrato unicamente sulle linee pure di quel profilo, la sua vena poetica, che per un motivo o per l’altro da febbraio si era prosciugata, cominciò a fluire nuovamente, cancellando le altre deplorevoli sensazioni, al punto da indurlo a pensieri quali: “Lei è il fiore che Elena portava sul petto il giorno che camminò sulle mura della città, quando tutti gli uomini si volsero a guardarla”. O che probabilmente portava, rettificò con la cautela propria della sua professione, dato che riguardo al fiore non era in possesso di alcuna prova certa. «Ah» sospirò udibilmente, ancor prima di rendersi conto di ciò che diceva, «Elena. Per lei sì che valeva la pena di tornare a casa!»

«Scusate, avete detto?» disse Mrs Leigh; con voce flebile, perché non si sentiva bene.

 

 

 

Aveva trascorso gran parte del fine settimana a chiedere “Scusate, avete detto?” alla comitiva; e questo perché, non essendo la conversazione agli stessi livelli cui era abituata, di primo acchito non riusciva proprio, come più tardi spiegò con una piccola smorfia alla cara e comprensiva madre, ad afferrarne il succo. Anche di secondo acchito il tutto rimaneva misterioso, benché riuscisse, mediante le ciglia e il sorriso, almeno a suggerire l’idea di una comprensione; e per quanto quel suo chiedere scusa suonasse esageratamente ammodo a orecchie abituate alla brevità di un semplice «Cosa?», la giovane donna veniva scusata in lungo e in largo grazie al suo fascino ammaliatore.

Persino le donne, per indole più restie degli uomini, la scusavano, perché sarebbe potuta essere un fiore per davvero, tanto piacevoli erano il suo incarnato e la sua grazia, e nessuno poteva mostrarsi scortese con un fiore, specialmente quando era Daisy Midhurst che, per qualche motivo, desiderava coltivarlo. Perciò, benché quell’ospite inaspettata non fosse esattamente… non fosse del tutto… perché preoccuparsene? Doveva esserlo, altrimenti non si sarebbe trovata lì.

Quello, rifletteva Mr Torrens sistemandosi il monocolo per osservare quel viso delizioso, era uno dei più straordinari contributi di Daisy, per il quale le erano tutti grati: risparmiava agli amici un sacco di fastidi apponendo il sigillo dei propri inviti sulla fronte delle persone, e anche quando esteriormente non sembravano. . . bè, avete capito cosa, pensò Mr Torrens, si poteva star certi che lo fossero malgrado tutto, e che si poteva procedere assieme a loro in tutta sicurezza e senza timori.

E senza timori quel fine settimana aveva cominciato a procedere assieme a Mrs Leigh, ma malauguratamente senza fare molta strada. Anche il vescovo non aveva perso tempo a prodigarsi in blandizie, e così pure il vecchio Lattington; il vescovo con circospezione, quando i suoi giovani non si trovavano nei paraggi; sir Lydford non tanto a parole, in quel caso infruttuose, quanto con un atteggiamento paterno, tenuto ben imbrigliato dalla prudenza, esplicitato con una serie di buffetti affettuosi; quanto a lui, tutt’altro che indifferente, era felice di dirlo, nei riguardi di una bella donna, aveva tenuto un comportamento che probabilmente la moglie avrebbe definito eccessivo.

Che dicesse pure ciò che voleva, pensò un ribelle Mr Torrens, che quando si alimentava in modo sano non era mai ribelle. Se ci si cominciava a preoccupare di ciò che diceva la propria moglie non ci sarebbe mai stata fine. Inoltre, pur avendo cominciato in modo effettivamente esagerato, pilotando la giovane signora fin da subito fuori casa, verso il lontano orto, nulla era scaturito da quella escursione, e nemmeno da tutte le volte che l’aveva portata, sempre sola, sul fiume dentro a un barchino. D’accordo, non ci si aspettava che scaturisse qualcosa, altrimenti non la si sarebbe trovata sotto il tetto di Daisy; ne era assolutamente consapevole. Ma anche se ci fosse stata una speranza, il suo continuo scusarsi avrebbe costituito una barriera insuperabile.

Un uomo non può fare granché con una donna che, non appena lui le dice qualcosa, gli chiede «Scusate, avete detto?» e gliela la fa ripetere. Che diamine, la prima sera, quando era apparsa fluttuando in salotto con addosso un vestito che sembrava nulla più di una nuvola rosa, prima di cena aveva chiesto scusa tredici volte in cinque minuti, con il risultato di fare ammutolire tutta la compagnia. Era forse sorda? Si sentì cogliere dalla paura. Terribile se quella cosina deliziosa fosse stata sorda. Ma non lo era; e di lì a poco gli parve ancor più terribile che non lo fosse, perché se lo fosse stata egli se non altro sarebbe potuto restare comodamente seduto a fissarla, mentre, stando così le cose, uno dopo l’altro avevano tutti dovuto ripetere ogni frase due volte, e i preliminari di una conversazione, una cosa misera nel migliore dei casi, ripetuti a quel modo suonavano incredibilmente fatui.

Ancora più incredibilmente fatui, se ripetuti, suonavano i preliminari di una schermaglia galante, perciò erano tornati entrambi dal fiume, e dall’orto, senza aver fatto neppure un passo avanti sulla strada della calda amicizia, e Mr Torrens, ora seduto davanti a lei, consapevole che il fine settimana era quasi giunto al termine e le buone occasioni ormai sfumate, pensava quale gran peccato fosse tutto ciò.

La scrutò attraverso il monocolo, oppresso da un senso di spreco. Spreco, spreco; ah, che spreco apparire ma non essere! Era mai esistita carnagione più squisita, più liscia e bianca? Mr Torrens bramava di toccarla, quand’anche solo con la punta di un dito garbato e, trovandosi in quella casa, naturalmente rispettoso. E i capelli: Mr Torrens adorava quel genere di capelli, bruni, soffici, il cui profumo avrebbe fatto perdere la concentrazione, non aveva dubbi, a chi fosse tanto fortunato da poterci immergere la faccia. E la bocca, simile a una petunia rosa, piena di promesse, fatta esattamente per. . . bè, pazienza. E i chiari occhi romantici e amorevoli, incastonati tra lunghe ciglia nere; nonostante tutto Mr Torres era ancora disposto a mangiarsi il cappello se quelli non erano occhi amorevoli, per quanto l’amorevolezza era senz’altro esclusivamente riservata a quel taciturno di Leigh, altrimenti la donna non sarebbe stata ammessa a Shillerton. E le deliziose piccole gambe snelle, che facilmente e frequentemente facevano capolino malgrado le gonne sfiorassero terra; Mr Torrens, che aveva una passione per le gambe, si prese tutta la soddisfazione possibile da quelle ricorrenti brevi apparizioni. Non era dunque un peccato che l’unica cosa che sembrava sapesse dire colei che sotto ogni altro punto di vista era una benedizione del cielo fosse: «Scusate, avete detto?»

 

 

 

Già, un peccato. Un gran peccato. Che paralizzava anche l’impeto dei più arditi. Presto o tardi, anche il più tenace conversatore, trovandosi di fronte a tale abitudine, non sarebbe riuscito a proseguire. Ricordò con mestizia com’erano salite alle stelle le speranze della comitiva quando il venerdì sera era comparsa per la prima volta in salotto con Leigh, inequivocabile marito alle calcagna, imbronciato e imbarazzato, e come, completamente all’oscuro dato il silenzio di Daisy, tutti loro avessero trattenuto il respiro stupefatti e deliziati, e dopo un attimo di sguardi increduli si fossero trascinati come un sol uomo verso quella visione, assiepandolesi attorno.

Ma subito erano iniziate le scuse. Una dietro l’altra, purtroppo, lasciandoli ammutoliti, inducendoli a dileguarsi. Uno a uno gli adoratori si erano distaccati per tornare alle donne cui erano avvezzi, donne che parlavano la loro lingua: primo tra tutti lord Midhurst, un uomo così pingue da dare l’impressione di poter inghiottire qualsiasi cosa se condita con la bellezza; e il vecchio Topsy Topham, subito tornato sgambettando a fianco di Daisy; e quello spilungone anemico di Geoffrey, che si era diretto verso un tavolo distante, dove aveva cominciato a sfogliare svogliatamente alcuni libri.

Ma non Mr Torrens. Lui, uno dei più veloci ad assieparsi, era di una tempra più resistente, e non avrebbe lasciato che quel vizio da nulla lo distogliesse dal godimento della bellezza.

«Perdinci!» fu il suo verdetto finale, pronunciato con stentorea determinazione, quando il maggiordomo spalancò i battenti della sala da pranzo.

«Scusate, avete detto?» disse Mrs Leigh. Il che, calcolò Mr Torrens, incapace di trattenersi dal tenere un affascinato conteggio, faceva quattordici.

 

 

 

Laboriosamente, dopo quella prima apparizione, la compagnia aveva svolto le sue piccole indagini e ora, seduto di fronte a lei la domenica a pranzo, Mr Torrens sapeva che Leigh l’aveva sposata, travolto da una comprensibile infatuazione, allo scoppiare della guerra, quando lei era una fanciulla di diciassette anni e lui prossimo ai quaranta; che sua madre aveva fatto l’attrice in ambienti di infimo ordine, e che solo l’estrema giovinezza prima di incontrare e sposare Leigh l’aveva salvata dal diventare attrice a sua volta, probabilmente in ambienti di ancor più infimo ordine.

Salvata era la parola che lady Cecilia Jones, discendente di quindici duchi, e Jones di cognome solo in virtù del matrimonio, usò nell’impartire questa informazione, e fu ancora lei a fare il commento sugli ambienti di infimo ordine.

Il vescovo, cui non piacevano le donne assertive e arroganti, la rimproverò, facendole notare che di quei tempi, quando Chiesa e Teatro andavano a braccetto – «No che non lo fanno» l’interruppe lady Cecilia – non poteva usare una parola del genere in relazione a una professione onorevole.

«Certo che posso» controbatté lady Cecilia sbuffando.

Poi, ascoltando le rare parole che Leigh rivolgeva alla moglie, la compagnia apprese che il suo nome di battesimo era Rosie.

Rosie. Precisamente. «Me l’aspettavo» disse lady Cecilia, appiattendo le narici.

Rosie. Già. Bè. Che c’era di male? chiese Mr Torrens. Forse che Daisy non era Daisy? Forse che un nome diminuiva di un puntino o un bruscolino – fu assalito dall’impulso di chiedere alla moglie del vescovo se sapesse cos’era un bruscolino, ma riuscì a resistere – la sua estrema, incantevole dignità? L’unica cosa che il suo nome faceva a Daisy era identificarne l’epoca di nascita, visto che tutte le Daisy viventi erano state battezzate tra i cinquanta e i sessant’anni prima, quando ve n’era stata un’abbondante, per quanto breve, fioritura; nient’altro. Se dunque Daisy poteva essere Daisy e nessuno trovava nulla da ridire, perché allora Rosie non poteva essere Rosie?

«Sciocchezze» rispose lady Cecilia. «Sai benissimo che è diverso».

Quel che lui sapeva, così come tutti loro, ragion per cui bene o male dovettero tacere, era che indipendentemente da come quell’ochetta si chiamava – Rosie, Totsie, Chucksie o qualsiasi altro nome al mondo – era ospite a casa di Daisy, quella Città celeste, quel regno di Salem, e una volta entrati in quella dimora si diventava inattaccabili come dopo aver varcato le porte del paradiso.

Indubbiamente, meditò Mr Torrens la domenica a pranzo ammirando il fiore di fronte – un fiore al momento piuttosto incline ad afflosciarsi, notò comprensivo, e non c’era da meravigliarsi – , era alquanto inusuale che una giovane signora di. . . – perché non ammetterlo, se era tanto ovvio? – dubbio ancorché incantevole aspetto, fosse invitata a Shillerton. La permanenza in quella casa, per quanto breve, le avrebbe giovato di riflesso per mesi e mesi, garantendo che lei, come tutti loro, era una peccatrice solamente potenziale. Perché erano solo i peccatori potenziali – almeno quelli bisognava lasciarli entrare, naturalmente, altrimenti sarebbe stato impossibile dare un ricevimento – a varcare la soglia di Shillerton, di Grosvenor Square o di Ballymackonochie, e Mr Torrens era consapevole che nei club e in luoghi simili, dove si chiacchierava a briglie sciolte, coloro che venivano ricevuti in casa di Daisy erano considerati ed etichettati come gli ancora rispettabili , tanto erano note l’avversione della donna agli scandali e la garbata meticolosità con cui allontanava, e metteva da parte, gli amici meno solidi.

Sapeva anche che i più grossolani di quei club si spingevano oltre, e audacemente definivano gli inviti di Daisy ricevimenti per i non ancora caduti, ricavando un basso piacere nel parteciparvi a loro volta per poter controllare di persona, dicevano, chi tra le loro conoscenze continuava a condurre un’esistenza virtuosa. Perché in quella sede, mescolandosi a coloro, come lui stesso, la cui carica era garanzia di infallibilità – benché talvolta a Mr Torrens non sarebbe dispiaciuto cadere – circolavano altri personaggi mai considerati sotto quella luce peculiare, e dei quali risultava assai interessante pensare certe cose; e ancor più interessante era, per persone di quella mentalità, incontrarne altre della cui caduta nutrivano non solo il sospetto, ma la certezza assoluta, e osservarle invece nel salotto di Daisy ancora ben in piedi, che anzi procedevano più che mai a testa alta.

A coloro che vacillavano sull’orlo del baratro bastava essere visti con Daisy perché le lingue si fermassero. Una vera benedizione, riconobbe Mr Torrens, in un’epoca in cui il vacillare era tanto frequente. Nessuno al mondo, lo sapeva, era più premuroso di Daisy, più affettuoso e sollecito di lei nel tendere una mano per sottrarre chi vacillava al cammino della sventura, e finché ci fosse stata speranza non avrebbe lasciato nulla di intentato. Donne con aspirazioni illegittime, giovanotti desiderosi di uscire dal seminato, anziani attratti dall’idea di comportarsi in modo non consono all’età, tutti trovavano la mano di Daisy pronta e calorosa. I non ancora caduti confidavano in lei a frotte. Grazie alla sua saggezza, alla sua comprensione e al dono prezioso della massima discrezione, era diventata la madre confessora di mezza Londra; e la gente, quando incombeva uno scandalo, sussurrava: «Daisy si dimostra particolarmente gentile con lui, o lei». Il destinatario di quei sussurri, sussurrava di rimando: «Oh? A tal punto si è arrivati? » e immediatamente un silenzio elettrizzato e vigile calava sulla buona società, sapendo che la gentilezza di Daisy aumentava in proporzione alla vicinanza degli amici al disastro.

Ma una volta accaduto il fattaccio, una volta compiuto il salto, inutile sperare di ricevere qualcosa da lei. Daisy ripiegava tristemente le ali e guardava altrove. I suoi sentimenti per chi era caduto, nel lasso di tempo necessario a dimenticarlo, si limitavano a una sorta di rassegnata nausea, a una sdegnata ineluttabilità. A Daisy non interessava salvare, ma prevenire. “Cosa mai vorrà prevenire” si chiese Mr Torrens, risalendo ancora una volta in superficie dalle sue riflessioni, in cui si era immerso in attesa che la sua amica, così cara ma almeno in quell’occasione anche piuttosto enigmatica, desse il tanto atteso segnale di via libera, “nel caso di Rosie? E perché mai, dopo aver lasciato quella giovane creatura nell’anonimato per tanti anni, tutto a un tratto si prende questo disturbo?”

 

 

 

La cosa lo sconcertava. E col trascorrere del fine settimana il suo sconcerto aumentava. Erano tutti abituati a Leigh, che frequentava la casa di Daisy da anni. Era una sorta di presenza indispensabile, incaricato dal povero Midhurst, di cui Leigh era stato secondo in comando durante la guerra, a curare gli affari della moglie. Di Leigh, però, nessuno mai aveva visto la consorte, così si era dato per scontato che appartenesse a quella comoda categoria di mogli che non ci tengono a essere invitate. Forse un’invalida; sicuramente di mezza età. Leigh era oltre i cinquanta, già sposato quando avevano cominciato a vederlo in quella casa, e per questo era venuto spontaneo presumere che la moglie dovesse essere anch’ella sulla mezza età; mentre invece guarda un po’ che roba, pensò Mr Torrens incastrando meglio il monocolo, aveva fatto saltar fuori Daisy davanti alla compagnia impreparata.

E anche davanti a lei stessa, perché dalle parole che l’aveva sentita pronunciare nell’accogliere la nuova ospite si capiva chiaramente che non l’aveva mai vista prima. Né c’era stata una parola di spiegazione, neppure un sussurro sul perché, non avendo mai invitato Mrs Leigh prima, si era decisa a farlo proprio ora. Poteva essere che la donna – dall’aspetto si sarebbe detto di sì – stesse vacillando sull’orlo di un baratro particolarmente spettacolare? Poteva essere che Daisy si offrisse di salvarla per via del debito di gratitudine nei confronti di Leigh?

Già, peccato però che Leigh non sembrasse minimamente interessato alla moglie, anzi la sua presenza sembrava infastidirlo; e la stessa Daisy, benché certamente garbata con quella personcina, non era calorosa. Mr Torrens l’aveva notato subito. Aveva notato, per esempio, che non l’aveva baciata, come sempre faceva con le donne che si accingeva a salvare dal disastro. Perché mai allora, se non incombeva alcun disastro, aveva permesso a quell’ochetta – adorabile, incantevole, ma pur sempre ochetta – di invadere il suo nido gelosamente custodito? E perché aveva scelto gli amici più pesanti, seri e noiosi a cui presentarla? Perché in effetti, si disse Mr Torrens, a voler ben guardare, a Shillerton quel fine settimana, ad eccezione di lui e Daisy, non c’era nessuno con cui valesse la pena di parlare.

 

 

 

Ecco perché era tutto molto strano, e tanto più a lungo veniva obbligato a stare insensatamente seduto in quella stanza soffocante, tanto più strano diventava. Cominciò a pensare che anche gli altri avvertissero quella stranezza, e che a essa fosse imputabile il cattivo umore generale. Non poteva credere che fosse solo a causa del cibo e della temperatura. Certo, contribuivano, ma anche qualcos’altro li rendeva insofferenti, qualcosa nell’atmosfera di quel luogo in quel fine settimana in cui prima d’ora non gli era mai capitato di imbattersi in nessuna delle case di Daisy.

Ma cosa?

Aggrottando la fronte nello sforzo di dare un nome a quella sensazione aleggiante, distolse lo sguardo dalla bocca rosa petunia, che in effetti negli ultimi minuti aveva già smesso di vedere, per guardarsi attorno, come se si aspettasse di trovare la risposta sul viso di qualcuno.

Ciò che invece trovò, intercettandola per puro caso in quell’esatto istante mentre gli passava davanti nel suo viaggio all’altro capo del tavolo, fu l’espressione di Terry Chilgrove che tanto aveva affascinato il vescovo, e che fece piombare Mr Torrens in ancor più profonde congetture.

 

 

 

Si poteva sapere cosa aveva da sorridere in quel modo?

Restò all’erta. Si sistemò meglio il monocolo nell’orbita e si allungò in avanti per vedere, oltre il profilo sporgente della moglie del vescovo, l’eventuale reazione di Daisy al messaggio.

Perché era a sua madre che Terry stava mandando un messaggio. Laggiù non c’era nessun altro cui poter lanciare uno sguardo così intimo e dolce; e non solo intimo e dolce, ma anche, strano a dirsi, rifletté Mr Torrens, rassicurante e incoraggiante, come se la giovane stesse inviando frettolosi segnali a distanza e sussurrando alla madre: “Va tutto bene, tesoro. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Sono qui, ti voglio bene”; ma perché mai, si domandò Mr Torrens, proprio Daisy, di tutta la gente al mondo, avrebbe avuto bisogno di rassicurazione e incoraggiamento?

Determinato a vederla, sbirciò oltre la prominenza della signora seduta accanto. Non per niente era amico di Daisy fin dall’infanzia: se era preoccupata per qualcosa allora doveva dirglielo, e lui avrebbe sistemato ogni cosa. Il solo pensiero della serenità di lei messa a repentaglio faceva scaturire in lui un nuovo slancio di affetto nei suoi confronti, e in modo così travolgente che in quel momento era disposto a giurare che la pura amicizia fosse l’unica forma di amore che valesse la pena di coltivare. Che valore potevano avere, sul lungo termine, labbra rosa petunia, o giovani gambe lisce e snelle? In confronto alla dolcezza costante dell’amicizia di quella donna buona e cara non erano forse robaccia?

Ma, per quanto provasse a sbirciare, non riusciva a vedere molto. In primo luogo la moglie del vescovo sporgeva parecchio, e lui avrebbe dovuto allungare troppo il collo per riuscire a circumnavigarla. In secondo luogo quel fine settimana le finestre sembravano più schermate del solito, probabilmente a causa del caldo, e Daisy, che voltava loro le spalle – benedetta donna, lui sapeva bene perché lo faceva, – era parecchio distante. Un profilo indefinito era tutto ciò che riusciva a scorgere della graziosa figura familiare, assieme alla nobile testolina – non più belli come una volta, purtroppo, quel profilo e quella testa, perché il tempo continua la sua corsa, per quanta pena una donna si dia per combatterla – , mentre il viso era del tutto indistinguibile, soltanto un pallido alone.

Impossibile per Terry, al capo opposto del tavolo, vedere la faccia di sua madre. Non ci riusciva lui, che le era molto più vicino, quindi la ragazza doveva avere inviato quel rapido messaggio di incoraggiamento a casaccio. Ma perché fare una cosa del genere? Perché senza apparente motivo stava, per così dire, gettando il braccio attorno al collo della madre in un buffo gesto protettivo?

Poi, d’un tratto, Mr Torrens comprese che il messaggio e il sorriso non erano rivolti a Daisy. Non avrebbe saputo dire come l’aveva capito. Inoltre, con altrettanta subitaneità, seppe che ciò che si era insinuato nella casa, quel fine settimana – sentì quella parola piombargli come qualcosa di gelido e di subdolo sul cuore – era la paura.

Paura? Oh, sciocchezze, sciocchezze. Ripudiò quella parola. La scacciò via. Paura di cosa? Di chi? Al mondo non esisteva nessuno più di Daisy al sicuro, o altrettanto lontano dal pericolo di provare quella sensazione. Tranne nel caso in cui quel Leigh non avesse mal amministrato i suoi interessi, facendola finire in un qualche pasticcio finanziario e lei, ignorante in materia come quasi tutte le donne, ne esagerasse l’importanza.

«Vi dispiacerebbe» lo interruppe la moglie del vescovo a quel punto con la voce di chi abbia raggiunto il limite della sopportazione, «togliere la gamba della sedia dalla mia gonna?»

«Chiedo scusa» disse Mr Torrens obbedendo precipitosamente.

Ma l’istante dopo tutta la tavola piombò nello scompiglio, perché Mrs Leigh, dopo aver chiesto scusa a sir Lydford con un filo di voce e aver ascoltato con impegno e dolorosa attenzione ciò che veniva ripetuto, si ritrovò infine incapace di sopportare oltre e, scivolando dalla sedia non più come una bella donna ma come chi alla fine soccombe e si affloscia senza più forze, perse i sensi.

 

 

 

D’improvviso la stanza si lanciò in esclamazioni, scattando in azione. Sedie vennero tolte di mezzo, bicchieri rovesciati, e per qualche minuto Mr Torrens scordò le sue preoccupazioni.

«Caldo. Fa troppo. . .»

«Aprite qualcosa. . .»

«È già tutto aperto. . .»

«Povera piccola. . .»

«È di salute delicata. . .»

«Fatele aria. . .»

«Non gira aria. . .»

«Miss Simpson. . .»

«È stato quel barchino. . .»

«Per tutta la mattina. . .»

«Barchino! Uva spina, vorrai dire» (questo detto da lord Midhurst, risentito e a voce alta). «Visto che insisti, Daisy, nel nutrire i tuoi poveri ospiti solo di. . .»

«Bisogna allentarle il colletto. . .» (questo detto dal professor Brown, più come principio generale che in quel particolare caso, non avendo la donna un colletto da allentare).

«Tu prendila per le spalle, Lattington. . .» (questo detto da Mr Torrens, mentre si precipitava a fare il giro del tavolo per prendere il resto del corpo).

Ma sir Lydford, unico della compagnia a rimanere seduto immobile e in silenzio, prese invece il più possibile le distanze da ciò che accadeva lì accanto, fissando la scena atterrito. In quei casi si impressionava, e sapendolo rifuggiva da ogni situazione che coinvolgesse insieme lui, persone malate e bambini piccoli.

Ma prima che Mr Torrens riuscisse a fare il giro del lungo tavolo, Terence Chilgrove era accorsa da Rosie e, protendendosi oltre lo schienale della sedia, si accinse a sollevare la figura inerte con le giovani braccia capaci: poi lei e Leigh – già, il marito, si erano scordati che c’era anche il marito; a volte i mariti erano una vera benedizione – la prelevarono e la portarono via.

«Grazie al cielo» commentò lord Midhurst quando anche Daisy, dopo una lieve, quasi impercettibile esitazione, ebbe seguito la piccola processione fuori dalla stanza, e la porta si fu richiusa dietro di lei; a volte, vedere la padrona di casa allontanarsi è un sollievo.

In quel caso il sollievo fu immenso, per quanto nessuno si sentì di ringraziare il cielo a voce alta: persino lady Cecilia, avvezza a esprimersi liberamente, restò in silenzio mentre tutti sciamavano fuori sotto la tenda all’aria aperta per poi lasciarsi cadere esausti sulle poltrone il più lontano possibile l’uno dall’altro.

Davvero strano da parte di Daisy, pensava lady Cecilia, dimenticarsi di farli uscire da quella stanza, soffocante al punto da causare uno svenimento. Anzi, era un miracolo che non fossero svenuti tutti quanti. Non riusciva a capacitarsi di cosa le avesse preso: all’improvviso era diventata ottusa e cieca verso quelle stesse cose cui aveva sempre prestato tanta attenzione; non solo non era stata una brava padrona di casa ma addirittura un vero e proprio pericolo, con quel suo cibo velenoso e la sua smemoratezza.

Decisamente perplessa e indignata si fece strada verso la sedia più distante da tutte le altre, una strada che la portò a superare le gambe allungate di lord Midhurst il quale, nel vederla dirigersi rapida verso di lui, disse al vescovo, anzi gli sibilò all’orecchio: «Dico, se la vecchia Cilly Jones viene a sedersi vicino a me la strangolo».

«Ma mio caro amico» deprecò il prelato sofferente, alzandosi e cercando una posizione più pacifica. Doveva stare un attimo tranquillo. . .non ne poteva davvero più. . .

Il caffè. Rimaneva ancora il caffè da sopportare. I camerieri lo stavano servendo; stavano posando sul tavolo uno di quei recipienti di vetro a forma di bulbo in cui Daisy lo faceva preparare, attorno al quale, in sua assenza, ora si affannava un’inquieta Miss Simpson.

Gli ospiti lo occhieggiarono. Sedettero risentiti e lo occhieggiarono, uniti dal comune disgusto all’idea di altro cibo. Li accomunava anche, si sovvenne lord Midhurst, ciò che avevano dentro. Già, almeno per il momento, che gli piacesse o meno, era così; pensa un po’, pensò indignato, essere uguale dentro alla vecchia Cilly, a lady Lattington e a quel tizio tedesco, il conte Vattelapesca, così diabolicamente ossequioso da non riuscire a incrociare lo sguardo di chicchessia senza inchinarsi.

Chiuse gli occhi per non vedere, cercando al contempo di chiudere la mente per non pensare. Perché se si fosse messo a pensare si sarebbe inevitabilmente chiesto che mai avesse Daisy che non andava, per invitare degli ospiti a casa propria e poi avvelenarli, imprigionarli in una stanza rovente come l’inferno fino a farne svenire uno e rimpinzarli di uva spina, anch’essa rovente come l’inferno, quando in tutta l’Inghilterra nessuna donna meglio di lei sapeva come trattare gli ospiti. Se ci avesse riflettuto si sarebbe preoccupato, ma era sua intenzione aspettare a preoccuparsi finché non si fosse trovato di nuovo nel suo club, al fresco, nutrito come Dio comandava. Era molto affezionato a Daisy, e sapeva che se incominciava a preoccuparsi non avrebbe più smesso.

Perciò ripiombò nel mutismo; e a eccezione della moglie del vescovo, che era andata dritta filata in camera, dove si stava togliendo il busto con un sospiro di sollievo, e a eccezione di sir Lydford e Mr Torrens, i quali si erano entrambi a loro volta subito dileguati, anche il resto della combriccola piombò nel mutismo; all’ombra, sotto l’ampia tenda, mentre i valletti porgevano agli ospiti le tazze del caffè, a parte il leggero tintinnio dei cucchiaini non si udiva suono.

Il vescovo, tuttavia, avuto qualche minuto per riprendersi ed essendo un uomo di buon cuore pensò immediatamente che per undici persone, dieci delle quali ospiti, restare seduti assieme in silenzio non era cosa giusta, e che per qualche indefinibile motivo bere il suo caffè senza rivolgersi la parola non fosse corretto verso la padrona di casa. Si chiese dunque se non toccasse a lui, per via della sua carica e benché riluttante, chiamare a raccolta la compagnia scomposta ed evidentemente insoddisfatta, e non poté che rispondersi positivamente.

Lealtà verso lady Midhurst lo imponeva. Ma non era facile, pensò, sorvolando con lo sguardo le figure sedute a gruppetti, così tristemente difformi, temeva, da qualunque cosa creata a immagine di Dio. Il più vecchio di loro, l’anziano Mr Topham, dormicchiava in attesa del ritorno del suo avversario di scacchi per riprendere la partita. L’avrebbe lasciato al suo sonno; ma per gli altri non si rendeva necessario fare qualcosa?

«Mi pare» disse perciò di lì a un istante, sforzandosi un poco e articolando le parole come gli si presentavano al momento, rivolto alle figure accasciate in tono più di bonaria canzonatura che non di rimprovero, «che la virtù abbia abbandonato le nostre persone».

Lady Cecilia pensò: “Come odio i preti”.

Il professor Brown pensò: “La Chiesa è anacronistica, non c’è dubbio”.

E lord Midhurst pensò, e disse anche con malgarbo, perdendo le staffe – mentre sventolava un enorme fazzoletto rosso di seta per scacciare un valletto che gli porgeva il caffè – e con l’aria di non poter sopportare oltre: «Al diavolo la virtù».

E Geoffrey, con un subitaneo sussulto di vitalità, dichiarò a voce alta: «Dentro di me non c’è mai stata».

E una voce nota, una voce lenta e come di consueto assertiva, esclamò: «Dentro di me c’è soltanto uva spina».

Il vescovo si pentì di aver parlato. Che rimanessero pure com’erano. Che rimanessero pure così muti e sparpagliati. Sotto la loro inerzia erano come polvere da sparo, l’irritazione solo temporaneamente soffocata. Geoffrey, povero ragazzo, ne approfittava subito per fare lo spavaldo; lord Midhurst, indegno, temeva il vescovo, della sua posizione di cognato, zio e pari; e, peggiore in assoluto, di gran lunga il peggiore tra tutti loro, il tedesco.

Il vescovo si era dimenticato del tedesco. Se se ne fosse ricordato di certo si sarebbe morsicato la lingua piuttosto che offrirgli l’occasione di dare la stura a uno dei suoi monologhi senza fine. E che mancanza di tatto, poi, date le circostanze, che mancanza di tatto sbalorditiva e penosa menzionare ciò che avevano mangiato. Rivangare. Nessuno, pensava il vescovo chiudendo gli occhi per escludere la scena che gli si presentava davanti e prendere le distanze dall’atroce comportamento del tedesco, avrebbe dovuto rivangare. Perché era causa di gran parte dei fastidi, e persino delle tragedie, dell’esistenza. Si ricordava di alcune occasioni in cui la sua cara moglie. . .

«Non mi è mai capitato» proseguì la voce, «di mangiare uva spina con tale frequenza».

Oh, se solo avesse tenuto la bocca chiusa, si disse col senno di poi il vescovo, desiderando poter chiudere anche le orecchie; sarebbe stato mille volte meglio. Doveva ripetere un’altra volta «Zitto»? No, no, impensabile. Non si sarebbe lasciato trascinare per la seconda volta alla maleducazione. Doveva sopportare, per lo meno fino alla fine del caffè; dopodiché, nel caso in cui nel frattempo lady Midhurst non fosse tornata, gradualmente e compitamente, allontanarsi.

Già lady Cecilia, osservò l’uomo aprendo gli occhi di una fessura nel sentir spingere una poltroncina indietro, se ne stava andando.

All’esordio della voce del tedesco, la donna aveva posato la tazza ai propri piedi con un gesto piuttosto chiaro, si era alzata e se n’era andata. Una donna risoluta, pensò il vescovo osservandola con una punta di invidia da sotto la mano che schermava gli occhi; una donna implacabile; una donna che non prestava molto ascolto agli altri, che sapeva quel che voleva e agiva di conseguenza. Persone simili erano dure, però felici. Indifferenti e determinate, attraversavano l’esistenza calpestando chi capitava loro a tiro, e per quanto poco cristiano fosse calpestare il prossimo non tornava forse comodo, a volte?

L’uomo sospirò, e vedendo Miss Simpson aggirarsi lì vicino richiuse rapido gli occhi sotto la mano protettiva; quella donna era talmente rinsecchita, poveretta, che lui non riusciva a sopportarne la vista.

«Mi sento pieno di uva spina» proseguì forte e persistente la voce. «Strapieno. Fin qui». E seguì un gesto dimostrativo.

«Vi prego. . . non vogliamo. . . non vorremmo mai che…» mormorò lady Lattington, raccogliendo borsa, fazzoletto e lorgnette con gesti nervosi e alzandosi goffamente dalla poltroncina. Anch’ella si diresse verso casa.

«Nessuno vi ha obbligato a mangiarla» puntualizzò acido il professor Brown alzandosi a sua volta e seguendo lady Lattington.

«Ma nel mio paese è una scortesia non. . .»

«Al diavolo il vostro paese!» esclamò lord Midhurst, tirandosi anch’egli in piedi non senza emettere un gemito, e affrettandosi a seguire il professor Brown.

«Insomma, insomma, mio caro amico» disse il vescovo in tono di disapprovazione rivolgendosi alla figura in fuga, ma per tutta risposta ebbe uno sventolio dell’enorme fazzoletto rosso di seta inteso a scacciarlo, nemmeno fosse un moscerino.

«Avete mangiato anche un sacco di altre cose, comunque» gli fece notare Geoffrey torvo, dando a sua volta segnali di voler prendere commiato, segnali subito emulati dalla ragazza carina, i cui occhi vigili non lo abbandonavano un istante.

«Qualche altra cosa» ammise il conte dopo attenta considerazione. «Ma soprattutto» proseguì, insistendo sulla precisione, «uva spina. Lo stomaco. . .»

E qui anche Miss Simpson cominciò ad agitarsi: lasciò cadere la tazza, che si ruppe; confusa, si chinò a raccogliere i cocci. Sciocco da parte sua, si disse turbata, cercando di separare i frammenti di tazza dalla ghiaia, sciocco preoccuparsi. Solo che. . . – e per di più un tedesco – no, non se la sentiva proprio di ascoltare un tedesco che. . .

«Via, via, conte» disse il vescovo, spiacente per Miss Simpson, poveretta, ma pur sempre determinato a non ripetere più “Zitto”.

«Lo stomaco» riprese il conte senza batter ciglio, per nulla intenzionato a lasciarsi fermare ora che era già a buon punto, «non lo si può imbrogliare. Un amico sì… forse» rettificò pensoso, incerto. «Una moglie. . . sì, senz’altro» affermò, senza il minimo dubbio.

«Via, via, signore» l’interruppe il vescovo per la seconda volta con maggior determinazione. Povera Miss Simpson. Era davvero dispiaciuto per lei. Troppo rinsecchita, poveretta, per essere in grado di ascoltare parole tanto volgari e gagliarde.

«Ma non lo stomaco» proseguì il conte inesorabile. «Lo stomaco» disse, guardandosi attorno con l’aria trionfante di chi abbia finalmente inchiodato la Verità, «è furbo. Lui lo sa».

Si guardò attorno, ma i suoi occhi si posarono sul vuoto. Miss Simpson era svolazzata via con le movenze ansiose di un uccellino ferito che cerca di allontanarsi dal pericolo. In quello spazio ampio e in penombra erano rimasti, sparpagliati, solo il vescovo, che si schermava gli occhi, e il vecchio Topsy Topham, piombato ormai da un pezzo in un sonno profondo.

Nell’uscire dalla portafinestra del salotto qualche istante più tardi, Daisy li trovò così: il conte che pontificava; Topsy che russava e il vescovo che insisteva nel coprirsi gli occhi con la mano. Di tutti gli altri neanche l’ombra.