Tre
1
Emmanuel
Il giorno dell’arrivo di Lillian e Jimmy, andò a fare una passeggiata. Uscì presto, perché aveva dormito male: la nave doveva approdare alle dieci e mezza e lui aveva bisogno di rinfrescarsi le idee per la giornata che lo aspettava. Si diresse verso uptown, su per Madison Avenue, senza una meta. Aveva ancora addosso il vago senso di libertà che provava sempre al risveglio e decise di avviarsi e basta. Ad Alberta aveva lasciato un messaggio in cui le diceva che avrebbero fatto colazione insieme alle nove e trenta, prima di andare ad accogliere i nuovi arrivati al porto. Lui, in un certo senso, li stava già accogliendo, preparando specifici e opportuni pezzi di se stesso, su misura per la particolare giornata che lo attendeva. Il loro arrivo, che avrebbe dovuto segnare l’inizio di qualcosa, gli dava invece la sensazione di una fine imminente. Era stato davvero così bello stare con Alberta? Difficile dirlo. Era stata bella l’alternanza tra la solitudine e la compagnia di una persona che non accampava pretese, che era curiosa e del tutto nuova alle lusinghe che costellavano la sua vita quotidiana. Era stato bello essere prodigo, perché la sua prodigalità era stata apprezzata con semplicità. Non sono così buono come crede lei, rifletteva, o meglio con lei lo sono stato: e lei è una delle poche persone che accettano il mio essere in un certo modo per loro, senza riserve dovute a ciò che sono stato per altri. Era stata una settimana difficile e faticosa e lei l’aveva resa interessante, aveva fatto sì che ne valesse la pena. Forse si era semplicemente goduto una vacanza dalla sua routine domestica. Non tanto per la ricerca di una Clemency, quanto per l’avversione di Lillian verso la vita in albergo, a meno che non fossero in vacanza, il decantato bisogno d’intimità... Pensa se uno si comprasse ogni giorno l’ossigeno di cui ha bisogno, immaginò, sarebbe un bel modo diretto di pagare per esistere invece di farlo in maniera surrettizia pagando le tasse allo Stato. Il tutto a spese della privacy, che diventerebbe come la pelliccia di visone: un bene di lusso che possono sfoggiare solo quelli che non sanno che farsene. Ma forse ci sono animali, come il visone appunto, per i quali la privacy è merce di poco valore. Il punto non è tanto dover pagare per ciò che si desidera, ma come fare a pagare. Quando si compra qualcosa, in fondo, non si sceglie né il prezzo né la valuta. Ci sono persone che passano la vita a cercare di pagare un debito senza avere la più pallida idea del come e probabilmente io sono fra questi. Quando uno lo sa, beninteso, allora si può parlare di devozione, un concetto più alto e nobile, con più dignità di un semplice comportamento esteriore. Tutto questo gran parlare di inconscio deve essere dovuto proprio al fatto che raramente la condotta delle persone si eleva a questi livelli. È perciò comprensibile che in tanti siano disposti a pagare profumatamente qualcuno solo perché è riuscito a raggiungere almeno, se non altro, il parziale controllo delle proprie azioni esteriori. Io sono un uomo devoto, in un senso o nell’altro?, si domandò. Jimmy direbbe che sono devoto al teatro, alla drammaturgia. Lillian direbbe che dovrei essere devoto alla nostra vita comune. Nessuno di loro, si disse, si è mai dato la pena di mettere in discussione la validità di questi fini: perché dovrebbero, del resto? Sono i fini che mi competono, e io stesso non ci ho mai pensato troppo. Si fermò a pensarci in quel momento, e arrestando il passo perse il filo dei pensieri: si rese conto di essere all’angolo della Cinquantasettesima est, la strada preferita di Lillian perché era piena di gallerie d’arte. Perché si era fermato proprio lì? Proseguì. Osservò la scena che si dispiegava nella luce del mattino: l’azzurro intenso del cielo, l’aria frizzante e tiepida di un sole ancora fresco, le strade quasi vuote, tranquille (era troppo presto anche per portare a spasso il cane) al punto che era difficile credere che di lì a poco si sarebbero riempite di una folla frenetica: la città vuota, pensò, ha un’innocenza che manca alla campagna, che già a quest’ora si popola di figure umane. Tornò a rimuginare sulla giornata che stava iniziando, su come l’avrebbe trascorsa ognuno di loro quattro. Arrivati Jimmy e Lillian, sarebbero andati subito all’appartamento in Park Avenue, dove Lillian si sarebbe messa a disfare i bagagli, poi avrebbe detto che l’impresa era superiore alle sue forze e avrebbe chiesto il suo drink del mattino, champagne con succo d’arancia; a un certo punto si sarebbero seduti in soggiorno a scambiarsi informazioni gli uni su gli altri, a dosi attentamente calibrate, fino all’ora di decidere dove andare a pranzo per accontentare sia Lillian, che sarebbe stata in vena di festeggiamenti, sia Jimmy, ansioso di buttar giù un boccone e tuffarsi subito nel lavoro. Poi lui e Jimmy si sarebbero sottoposti al flagello delle audizioni, mentre Alberta avrebbe aiutato Lillian a mettere a posto le sue cose e ad appendere i suoi quadri. Sul taxi per West Side, Jimmy si sarebbe finalmente rilassato e gli avrebbe chiesto com’era andata la settimana. Gli avrebbe chiesto di The Molehill e dei tagli che avevano fatto; della Corsa delle orchidee (era stato un successo, e Jimmy aveva un suo modo distaccato di compiacersene). E naturalmente gli avrebbe domandato come procedeva la ricerca di Clemency. Si sarebbe poi informato di come procedeva la nuova commedia, e lui gli avrebbe risposto che non procedeva affatto. Infine avrebbe domandato com’era andata con Alberta, e lui gli avrebbe risposto che era andata molto bene, considerando che per lei era tutto nuovo. Che era scrupolosa, concentrata e di buona compagnia. Gli avrebbe descritto le facce di Rheinberger e Schwartz seduti accanto a lei alla cena, e questo gli sarebbe bastato. Al loro ritorno, verso le sei, Lillian sarebbe stata reduce dal suo riposino, avrebbe avuto in faccia un’espressione che diceva: «Finalmente!» e gli avrebbe chiesto di raccontargli com’era andata quella settimana. Lui allora le avrebbe detto degli inviti che avevano ricevuto, delle case in Connecticut e Massachusetts che erano state offerte loro e le avrebbe spiegato che non era il caso di andare a sud perché lui doveva rimanere nei paraggi di New York finché non avesse trovato la Clemency che cercava. Poi Lillian avrebbe voluto sapere come se l’era cavata Alberta, e lui si sarebbe complimentato con lei per averla scoperta: che era molto tranquilla, brava e beneducata. La domanda successiva sarebbe stata quella sulla nuova commedia e lui le avrebbe detto che sì, procedeva, e proprio per questo voleva andar via da New York il prima possibile. E qui si bloccò: che pessima prova di sé stava dando! L’unica differenza fra lui e un camaleonte era che il camaleonte aveva ottime ragioni per fare quello che faceva, e lui invece nemmeno una. Non poteva certo affermare che la sua smaccata falsità e il suo fallimento gli avessero salvato la vita o procurato il pane, e allora perché? Certo, non erano queste le uniche ragioni possibili. E certo, come una volta gli aveva detto un amico di Lillian, un medico, se lui non possedeva una personalità ben integrata, poteva sempre consolarsi con un bel contraddittorio in solitaria: Joyce contro Joyce, o meglio ancora Emmanuel contro Joyce. Molto presto, quando aveva cominciato ad avere successo, si era accorto che le donne che cercavano di sedurlo e confidavano molto in se stesse gli dicevano quasi sempre che doveva essere magnifico, per un drammaturgo, avere origini irlandesi ed ebraiche, mentre quelle che cercavano di sedurlo ma erano più insicure gli domandavano come facesse, da drammaturgo, a padroneggiare punti di vista così diversi: la solidarietà è il tipico approccio di chi manca di fiducia in se stesso. Queste cose accadevano più di trent’anni fa, in Inghilterra, quando la coscienza di classe era più o meno una prerogativa dei ceti alti o medio alti e non si era ancora diffusa democraticamente a tutte le “fasce di reddito”. (Identificare la casta con il censo... un indiano si farebbe delle grasse risate!). Il fatto era che, con il successo, gli era capitato di incontrare molte persone che non volevano mostrarsi retrive o paternaliste riguardo alle sue modeste origini, ma non erano in grado di affrontare l’argomento in nessun altro modo, e così ripiegavano sul suo sangue misto, che appariva loro un’alternativa più sicura. Non che se ne dolesse: nemmeno a lui piaceva parlare del mondo in cui era cresciuto, aveva scoperto che ne veniva fuori una quantità sconcertante di cliché. Se hai avuto genitori benestanti, allora detestarli va bene; ma se i tuoi erano dei poveracci e sei cresciuto in uno di quei quartieri cosiddetti disagiati – pensò con un sorriso al bilocale della sua infanzia – allora ogni critica equivale a un tradimento, a una forma di presunzione: i tuoi genitori diventano dei personaggi e ci si aspetta che tu li tratti come tali. Ecco perché aveva raccontato solo a una persona quanto aveva odiato suo padre nell’ultimo periodo... quando ormai era troppo grande per dormire nel cassetto e invece gli toccava lo stesso: tutto rannicchiato d’inverno e con le gambe fuori d’estate, col bordo che gli segava la pelle tenera dietro le ginocchia. Se ne stava nel suo scomodo giaciglio a immaginare che suo padre morisse: in inverno lo faceva morire di polmonite, d’estate di miliaria, una malattia di cui aveva letto qualcosa e che gli sembrava abbastanza orribile da portare un uomo alla tomba. Suo padre invece trascinava i suoi giorni con ostinazione, animato da una vitalità distruttiva, infastidito da tutto a parte le sue personali fantasie su se stesso e sulle opportunità che aveva mancato. A undici anni Em guadagnava già con maggiore regolarità di suo padre; a dodici lo aveva sorpreso a prendere i soldi di nascosto dal borsellino della madre e lo aveva colpito sbattendolo contro una tubatura del gas. Questa esplosione di violenza terrorizzò sua madre e mise addosso al padre una specie di timore rabbioso che non durò più di qualche giorno, poi tornò al solito atteggiamento spavaldo e arrogante ed Em capì allora che doveva andarsene. Non l’avrebbe mai dimenticata, quella mattina. Novembre, c’era nebbia e faceva molto freddo. Erano le sei del mattino, l’ora in cui di solito, da molti mesi, accendeva una candela, sgusciava fuori dal suo cassetto, s’infilava il maglione sopra la camicia (perché la notte si teneva addosso tutto quanto a parte il maglione), mangiava la fetta di pane unto che la madre gli aveva lasciato la sera e poi s’incamminava verso le stalle dove lavorava. Quindici puledrini nani: a tutti toccava una razione di foraggio prima di essere bardati per i loro giri, e lui prendeva sempre una manciata di avena per sé mentre ne dava agli animali. Le stalle erano buie e confortevoli rispetto a casa sua. Gli piaceva l’odore caldo del letame e i fetori antichi dei finimenti vecchi e del sudore; gli animali lo accoglievano strofinandogli addosso il muso mentre aspettavano in buon ordine il lavoro quotidiano che li attendeva. Daisy, Bluebell, Captain, Lilly, Brownie e poi Rose, Twinkle, Major, Melba e Blackie... buon Dio, non se li ricordava più tutti! Dava loro da mangiare, perlopiù crusca, fieno e un po’ di succulenta avena, poi prendeva dai ganci fissati alla parete intonacata le pesanti bardature e gliele sistemava sulla groppa. In quel periodo era tormentato dai geloni: la neve semisciolta lungo il sentiero gli congelava i piedi, ma aveva anche le mani screpolate e gonfie al punto che faticava ad afferrare i finimenti, e gli uomini arrivavano prima che avesse terminato il suo lavoro. La mattina in cui se ne era andato, invece, si era svegliato prima delle sei ed era rimasto a raccogliere le sue ultime impressioni di quel luogo. A parte l’orologio a buon mercato col suo ticchettio isterico c’era silenzio, buio e odori: un puzzo remoto di cavoli, di bucato – sua madre lavava la biancheria a cottimo e in un angolo c’era un tino sempre pieno di panni in ammollo, che in quel periodo era ricoperto da un sottile strato di ghiaccio grigio –, l’odore bellicoso dei gatti, simile a quello del formaggio andato a male; le piccole perdite di gas, la pipa d’argilla di suo padre col suo odore grasso e bruciato, quello marcio dell’intonaco bagnato, che ricordava delle pere molto mature; e poi l’umidità acida che saliva dal pavimento; l’odore purpureo, di chiesa, del libro che sua madre aveva avuto come premio a scuola, quello delle foglie di tè che teneva da parte per pulire il tappetino in camera da letto; il puzzo d’urina che saliva dal cortile... s’impresse tutto nella memoria, insieme al bisogno di riempire col pane unto il vuoto che aveva nello stomaco. Se avesse avuto la fortuna di naufragare su un isola in mezzo al Pacifico, come succedeva a certi ragazzini in un libro che aveva letto, se gli fosse capitato di partecipare a una crociata o se il re avesse voluto una nuova scoperta per ampliare i confini dell’impero, lui tutti quegli odori se li sarebbe ricordati, perché comunque fossero andate le cose, aveva deciso di cambiare la propria vita. Per prima cosa avrebbe guadagnato una montagna di soldi, poi avrebbe costruito una casa enorme dove avrebbe portato sua madre. Sua madre avrebbe avuto non una, ma un’intera collezione di pellicce e non avrebbe più mosso un dito, in casa ci sarebbe stato sempre caldo e tanti ebrei, perché a lei piacevano gli ebrei. Un giorno sarebbe venuto a prenderla con una carrozza trainata da quattro cavalli e con fazzoletti di seta per le sue lacrime, avrebbe preso lei e il suo libro e lasciato per sempre quel letamaio...
L’impeto di quel mattino, cinquant’anni dopo, tracimò dal ricordo mandandolo a sbattere contro un passante: entrambi indietreggiarono guardinghi e si scusarono, ed ecco che era di nuovo a New York, tremante per il brusco atterraggio e con un gran bisogno di caffè. Si guardò intorno chiedendosi fin dove si fosse spinto, poi marciò deciso verso il locale più vicino, dall’altra parte della strada. E lì, mentre aspettava che si freddasse un poco il caffè, vide un titolo su un giornale posato sul bancone: “Tempesta nell’Atlantico. Autocisterna in panne al largo di Cape Cod. Rimandato l’approdo della Queen Mary”.
Ecco che la giornata cambiava radicalmente: prima sapeva con certezza come sarebbe andata, aveva avuto un brivido di disagio nell’aria frizzante e impietosa della strada, nella luce fredda che abbagliava e proiettava ombre profonde e definite, dagli angoli aguzzi. Si era sentito pesante, infreddolito, vecchio; attorniato da conclusioni scontate e prigioniero di una routine meccanica. Quella giornata era stata la sua prigione. Adesso invece, seduto vicino alla spina della soda, circondato da lame polverose di luce mattutina, con le mani calde intorno alla tazza di caffè e il giornale aperto davanti a lui come una dichiarazione di indipendenza, piccole correnti di calore, luce e incertezza gli stavano ridando la vita. Minuscole particole di polvere nuotavano nitide nella luce, come animate ognuna da un suo fine particolare: sembrava di guardare una goccia di sangue al microscopio. Eccomi seduto su uno sgabello, un piccolo uomo di mezz’età, anonimo per tutti meno che per me stesso, tanto per cambiare. Io ho un potere, che forse non merito e che è quello di inventare un certo tipo di comunicazione per quelli che questo potere non ce l’hanno. Posso mostrare loro il senso della proporzione, dell’equilibrio, perché solo a questo serve l’invenzione: mettere le cose nella giusta relazione con ciò che c’è intorno. La proporzione è bellezza; la bellezza è significato. Perciò l’invenzione è necessaria e io sono un inventore, uno tra mille. Si sentì riempire di una gioia impersonale a quel pensiero e poi tornò a guardare il pulviscolo che mulinava stralunato nel raggio di sole. Sentiva un calore luminoso nel centro del suo essere e tenne la testa immobile finché non si fu diffuso, come aveva imparato a fare tempo prima per non lasciar scappare via un’idea appena sfiorata, perché questo ottunde la memoria, la rende indiscriminata. Ricordava una discussione con Jimmy a questo proposito: Em sosteneva che non imprimersi bene le cose nella memoria voleva dire rinunciare a parte delle proprie idee, mentre secondo Jimmy era un esercizio ameno, uno spreco di tempo. Non era riuscito a trasmettere a Jimmy la sua convinzione: che la cosa più amena e il peggior spreco di tempo è il non far funzionare bene la memoria. Essa deve scegliere cosa vale la pena ricordare e poi aspettare che il ricordo decida di riemergere, in forma di inchiostro su carta, come un uccello che apre l’uovo dopo averlo deposto.
Il ragazzo che gli aveva servito il caffè lo guardava con una specie di curiosità apatica: purtroppo per lui, nulla poteva sorprenderlo. Chiese il conto, l’ora e il nome della strada in cui si trovavano, e il ragazzo fornì queste informazioni col tono che avrebbe usato con un cliente ubriaco.
Mentre tornava verso l’albergo pensò al fatto che di solito, a quel punto delle sue passeggiate, drizzava metaforicamente le spalle, metteva da parte la vita privata per usarla a fine giornata e aguzzava l’attenzione, la pazienza: adesso però, contrariamente alle aspettative, non aveva bisogno di pazienza e la sua attenzione non era focalizzata su qualcosa di specifico, era anzi rilassata, e perciò pronta.
* * *
«...E allora ho pensato che, visto che non ho altri impegni, io e te potremmo passare la giornata insieme», concluse.
Lei starnutì e continuò a fissarlo con trepidazione.
«Fino alle sei e mezza, quando arriva la nave. O preferisci startene un po’ per conto tuo?».
Scosse la testa. Stavano facendo colazione nel soggiorno del suo appartamento: lei mangiava waffle cosparsi di sciroppo d’acero.
«Cosa ti piacerebbe fare, Alberta?».
«Mi dica cosa c’è».
Enumerò le possibilità man mano che gli venivano in mente – percorsi panoramici, andare in cima all’Empire State Building o al Radio City, la Frick Collection, lo Zoo del Bronx, il Greenwich Village, i negozi, i ristoranti cinesi eccetera eccetera – e lei lo ascoltava con l’attenzione acuta e impassibile che hanno i bambini. Quando non gli vennero più in mente altre opzioni, e si sorprese di averle esaurite così in fretta, lei starnutì un’altra volta e lui disse serio: «Ti sta venendo il raffreddore. Meglio non fare niente».
«No, no. Non ho il raffreddore».
«Allora si tratta di allergia. Potrebbe essere lo sciroppo d’acero».
«Non ho nessuna allergia, davvero!», disse lei pulendo per bene il piatto come a dimostrargli qualcosa, poi arrossì e aggiunse: «Mi dispiace, ma quando sono contenta starnutisco. È da quando siamo arrivati qui che starnutisco in continuazione, anche se naturalmente ho cercato di non darlo a vedere».
«Sei stata brava», replicò lui compunto.
«Spero che mi passi col tempo».
«Vuoi che ti passi la contentezza o gli starnuti?».
«Prima gli starnuti, direi».
«Vorresti non sentirti più contenta?».
«Oh no. Non volevo dire questo. Diciamo che vorrei sentirmi contenta, ma per un numero inferiore di cose. Magari una sola, alla fine. Vogliamo tornare sull’argomento di cosa fare oggi? Ho voglia di cambiare discorso».
«Prima portiamo a termine il nostro compito. Poi vedremo cosa succede».
«Portare i bagagli nell’appartamento?».
«Sì. E controllare che la donna sia venuta a pulire e che tutto sia pronto per Mrs Joyce. Deve essere stata male in nave, se c’è stata una tempesta».
«Ma certo. Andiamo».
«Prima vorrei vedere se è arrivata posta». Lei andò al telefono e gli lanciò un’occhiata interrogativa. Le fece cenno di procedere. Alberta indossava un maglione che Em riconobbe come di Lillian, un rosso tiziano che secondo lei non si addiceva al suo incarnato d’inverno. Lo aveva abbinato a una gonna di flanella grigio scuro piuttosto usurata e degli scarponcini all’inglese ben lucidati, con un paio di calze che le aveva comprato lui. Gli venne una voglia improvvisa di portarla fuori e comprarle tutto quello che desiderava, poi gli tornò in mente l’osservazione di Lillian sulle calze di Gloria e tutta una serie di situazioni estreme gli sfilò nella mente dissuadendolo con efficacia da ogni pericoloso paragone tra passato e presente, che venne così relegato in un recesso buio della sua coscienza.
Alberta stava chiedendo che insieme alla posta mandassero su anche il conto. La sua voca alta e limpida aveva un tono imperioso che sembrava del tutto involontario, il che lo rendeva naturale e credibile. Si proiettava all’esterno, pensò, ricordando quanta pena si erano dati lui e Jimmy per insegnarlo agli attori di teatro. La posta fu consegnata e c’erano due lettere per lei. Chiese di poterle aprire ed Em, davanti al suo entusiasmo, si domandò quando fosse stata l’ultima volta che era stato ansioso di leggere una lettera indirizzata a lui.
«Stanno tutti bene, a casa?», domandò quando lei ebbe finito di leggere.
Alberta annuì. Em non seppe trattenersi e le chiese: «Raccontami... Mi piace sentir parlare della tua famiglia».
«Serena e Mary hanno entrambe il raffreddore, e dicono di averlo preso per caso, ma zia Topsy non ci crede, così sono entrambe nei guai. Napoleon ha avuto cinque cuccioli. Ce lo aspettavamo. È una gatta. L’avevamo presa per un maschio e chiamata Napoleon. Mrs Facks è convinta che l’undici di novembre finirà il mondo e Papà dice che non è vero, ma dice anche che fare appello alla ragione in questo caso è crudele, perché Mrs Facks è così fragile. Lavora per noi di tanto in tanto, perché ha un sacco di figli. Vivono di patate e pomodori, e zia Topsy dice che la madre li tiene chiusi sotto il pavimento tanto sono pallidi e malaticci... in realtà sono molto forti, perché pare abbiano sempre gli orecchioni o qualcosa di simile, ma questo non li rende meno vivaci. Serena ha deciso che da grande vuole fare la dottoressa, che è molto meglio di quello che voleva fare prima».
«Cioè?».
«L’ammiraglio», rispose secca, poi ripiegò il foglio.
«E i tuoi fratelli?».
«Humphrey è a scuola e Clem è ancora in pausa da Oxford, ma è andato a stare da un suo amico molto ricco nello Yorkshire. Papà è preoccupato perché, dice, anche se è bene avere idee al di sopra del proprio status, non bisogna avere idee che non c’entrano proprio niente con noi, e lui crede che Clem con questo amico corra il rischio».
«E tuo papà come sta?».
«Be’, la lettera è di mia zia. Papà ha messo solo un post scriptum dove mi dice di stare attenta al traffico e mi saluta. L’altra è dello zio, ma la tengo da parte per dopo».
«Be’, le mie le terremo tutte da parte per dopo», disse ficcandosele in tasca.
Fuori, si era alzato un vento che prima, quando era uscito lui, non c’era. Il cielo era denso di nuvole e la strada era lucida: aveva piovuto. Avevano già fatto visita all’appartamento all’inizio della settimana, e lo avevano trovato avvolto nella penombra, con imposte chiuse e tende tirate. Faceva molto caldo: dovevano aver lasciato acceso il riscaldamento. C’era un gran puzzo di fumo stantio e quando avevano acceso le luci, si erano ritrovati davanti una scena che univa il lusso al più prosaico squallore. Posaceneri pieni, bicchieri sporchi d’ogni foggia sparsi dappertutto, tazze, un grosso vaso di cornioli appassiti, noccioline disseminate in ogni angolo del pavimento; i bagni pieni di asciugamani umidi, fazzoletti sporchi e lamette da barba, le piastrelle sporche di dentifricio e perfino una pila di giornali in una vasca da bagno col rubinetto gocciolante. La cucina era piena di stoviglie sporche, confezioni di cibo ancora mezze piene, scatolette aperte il cui olio o sugo sembrava essersi sparso su ogni superficie disponibile. C’era polvere ovunque, insieme a un diffuso, ripugnante senso di abbandono. «Sembra sia passata una banda di scimmie viziate», aveva detto Alberta dopo che avevano fatto il giro. «Molte delle cose che ci sono qui non so nemmeno a cosa servano», aveva aggiunto. Avevano chiamato il portiere, il quale aveva assicurato che c’era un servizio di pulizia quotidiano e che tutto sarebbe stato in ordine il giorno in cui l’appartamento fosse servito a loro. Aveva ragione Alberta: dovevano controllare bene ogni cosa, che i letti fossero rifatti, che ci fossero fiori e caffè e via dicendo.
Il portiere non era lo stesso della volta precedente: diede loro la chiave, aprì l’ascensore e caricò i bagagli, dopodiché si dileguò. Fu Alberta ad aprire la porta. Era buio, faceva caldo, c’era lo stesso odore. Accesero in silenzio le luci. I cornioli erano un po’ più secchi, e il loro puzzo dolciastro era l’unica novità rispetto alla scena che avevano visto l’altra volta. Em era furioso. Poteva essere appena arrivato con Lillian! Raggiunse la finestra del soggiorno, la più grande, e dalla rabbia sbatté il piede contro il battiscopa, aprì rabbiosamente la tenda e poi le ante. Prese i fiori e li buttò fuori, poi, non pago, si rivolse al vaso, che però s’era rovesciato spargendo in terra un viscido fiumiciattolo verdastro. Fu l’ultima goccia. Lo afferrò e lo scagliò nel camino, dove andò in tanti striduli frantumi. Alberta disse: «Capisco la sua rabbia, ma la colpa è solo mia, perciò per favore non rompa più niente».
«La donna... il portiere, quei disgraziati! In che senso, è colpa tua?».
«Avrei dovuto accertarmene io, prima, che fossero venuti a pulire. Non è detto che sia colpa della donna delle pulizie. Magari è malata. Il portiere è un altro. Comunque sia sono io la sua segretaria, la responsabilità è mia e mi dispiace molto. Adesso è meglio se cominciamo a mettere a posto».
«Non devi neanche toccarla, questa topaia ripugnante! Chiamo il portiere. Ci penserà lui a trovare qualcuno che se ne occupi».
«D’accordo».
«Be’, cosa fai adesso?». La fissava furente mentre afferrava il telefono.
«Apro le finestre. Il riscaldamento è al massimo».
Il portiere non rispose e gli toccò scendere di persona a cercarlo. La colpa di quella situazione non era certo di Alberta: lui invece era stato superficiale e poco scrupoloso nell’organizzazione. In ascensore la rabbia gli passò e, dopo che ebbe trovato il portiere e avuto con lui un breve, demoralizzante colloquio, si trasformò in semplice disperazione. Il portiere era uno nuovo, perché il precedente s’era preso un malanno. Non sapeva niente della donna delle pulizie, nemmeno l’indirizzo. Nei due giorni che aveva lavorato lì, già due inquilini gli avevano chiesto se conoscesse una donna a ore: lui aveva risposto di no così come rispondeva di no adesso. Non era affar suo quel che succedeva all’interno degli appartamenti, lui aveva già abbastanza da fare. Qualcuno aveva appena avuto la bella idea di buttare giù dalla finestra un mazzo di fiori secchi. Erano caduti addosso a un cane molto ma molto sensibile che per lo spavento aveva morso l’autista di un furgone che era sceso per consegnare una gabbia con dentro una scimmia. L’uomo si era innervosito perché era stato morso sul marciapiede e l’assicurazione lo copriva solo quando era all’interno del furgone; il proprietario del cane aveva detto che l’animale era in terapia e che subire un’aggressione proprio mentre cominciava a capire quali erano le sue responsabilità sociali non era proprio quello che ci voleva. Come se lui, il portiere, potesse essere ritenuto responsabile di quello che la gente buttava dalle finestre di casa propria! Nello stabile dove lavorava prima, le finestre non si aprivano e la gente era più civile. Per quanto gliene importava a lui gli inquilini avrebbero anche potuto buttarsi loro stessi nel vuoto, almeno in quel caso se ne sarebbe occupata la polizia e nessuno avrebbe chiesto conto a lui. Comunque, ecco qua la gabbia con la scimmia. Una scritta recitava: «MANGIO QUATTRO BANANE AL GIORNO. NON DATEMENE DI PIÙ, PERCHÉ NON MI FA BENE». Per caso l’aveva ordinata lui, Em, la scimmia? Bene, ecco che gli toccava chiamare uno a uno settantaquattro appartamenti. Emmanuel osservò la scimmia che li fissava affamata, le manine rossastre aggrappate alle sbarre della gabbia, evidentemente ansiosa che qualcuno le desse le sue quattro banane. Ma nessuno pareva particolarmente incline ad aiutare nessun altro. Em offrì una sigaretta al portiere, e il portiere disse che era meglio se cominciavano a fare quello che dovevano fare.
Decise che avrebbe chiamato personalmente una ditta di pulizie che si occupasse pure della biancheria e che avrebbe prenotato in albergo per una o due notti finché la casa non fosse stata pronta, ma aveva fatto i conti senza Alberta. La trovò che lavorava alacremente. Posaceneri, tazze e bicchieri erano scomparsi dal soggiorno. Ora l’ambiente era immerso nella luce e nell’aria fresca, con lei china sul pavimento a suddividere e piegare gli asciugamani sporchi, facendone un inventario.
«C’è un aspirapolvere elettrico e sapone in polvere in quantità!», disse tutta allegra. «Perciò basterà trovare una lavanderia a cui lasciare questa roba e tutto sarà presto sistemato».
«Stavo pensando di prenotare un albergo finché non sarà tutto sistemato».
«Sarebbe davvero uno spreco imperdonabile».
«Davvero?». Sembrava così seria che Em sentì di potersi concedere un po’ di leggerezza.
«Proprio così. È solo colpa mia, se siamo in questo pasticcio. Ripulire è il minimo che io possa fare. Ho esperienza in materia, davvero», si affrettò ad aggiungere. «Farò un buon lavoro».
«Davvero?». Ora Em sorrideva. Il tono di lei era rinfrancante.
«Se lei mi dà fiducia... è il minimo che io possa fare».
«Devo dirlo. Non capita spesso di vedere qualcuno così fiducioso e contento di fare “il minimo” che avrebbe dovuto fare prima. Mi fido, non c’è bisogno di dirlo, ma devi dirmi esattamente come posso aiutarti». Si sentì improvvisamente pieno di entusiasmo per il compito a cui si accingeva: era un’esperienza nuova, e lei sembrava avere il pieno controllo della situazione.
«Le prime cose da fare sono la lista della spesa, trovare una lavanderia e pulire».
«E il pranzo? Che ne è del nostro ristorante cinese?».
No, non c’era tempo, disse lei. Magari dei tramezzini. E alla fine fu così che trascorsero quel giorno, e dato che l’avevano deciso di comune accordo, ogni cosa andò per il meglio.
In tutti quegli anni – tra i viaggi, i soldi, la cattiva salute di Lillian – non si era mai occupato di faccende domestiche, e probabilmente era per questo che l’intelligenza pratica di Alberta lo impressionava tanto, ma dovette ammettere che il risultato dei loro sforzi lo sorprese piacevolmente. Redassero una lista della spesa ed Em andò a comprare una quantità di cose della cui esistenza non era più stato consapevole dai tempi in cui era molto giovane e povero. Poi, eseguiti tutti i compiti che lei gli aveva assegnato, comprò del vino, dei succhi di frutta e del whisky per Jimmy; fiori per Lillian: tulipani, lillà, narcisi, fresie; avrebbe voluto prendere qualcosa per Alberta, ma non gli venne in mente nulla di adatto e alla fine, in preda allo scoramento, le prese una scatola di marrons glacés.
Il portiere, che non aveva visto quando era uscito, gli aprì lo sportello del taxi con preoccupante alacrità e con qualche commento sulla spesa che aveva appena fatto. Emmanuel incautamente domandò notizie della scimmia. Il portiere si adombrò all’improvviso, disse che aveva chiamato tutti gli appartamenti e che di tutti quelli che avevano risposto nessuno aveva ordinato una scimmia. Portò in ascensore le sporte di Emmanuel e poi restò lì sull’uscio, a disagio. Alla fine trovò il coraggio di chiedere a Emmanuel se avesse qualche banana. No, non ne aveva. Erano gli occhi della scimmia a rovinargli l’umore. Dopotutto la targhetta diceva solo che la bestiola mangiava quattro banane al giorno: non diceva se quel giorno aveva già avuto la sua razione intera. Non c’era un foglio dove segnare quante ne avesse mangiate, e la povera bestia se ne stava in quella squallida gabbia coi suoi occhi tristi e colmi di biasimo, e lui non sapeva quanto avrebbe retto ancora. Emmanuel lo scostò dal vano della porta e gli consigliò di andare a comprare delle banane.
Restò basito dalla quantità di lavoro che Alberta aveva già portato a termine. Il soggiorno era pulito e in ordine: adesso aveva l’aspetto elegante che ricordava. Due delle camere da letto, e il relativo bagno, erano già a posto. Aveva cominciato con le altre due: i letti erano già rifatti. Aveva un velo di sudore sulla fronte, i capelli tirati indietro e legati in una coda di cavallo. Em le propose di fare una pausa per mangiare, ma lei disse di voler prima terminare con le camere e lasciare per ora solo la cucina. Sarebbe stato incauto fermarla, si disse Em. Così andò a sedersi in soggiorno, domandandosi oziosamente come sarebbe stato mettere radici, avere una casa, come non ce l’aveva avuta da che se ne era andato dalla stamberga dei suoi genitori quella mattina di novembre. Gli alloggi, i teatri, le mansarde, i convitti bui e squallidi, gli ostelli per artisti gestiti dalle vedove di guerra che gli avevano fatto patire la fame e il freddo e coi modesti introiti dei suoi primi scritti erano riuscite a rifare il tetto salvando almeno in parte le misere apparenze, le stanzette anguste con le finestre a saliscendi flagellate da mille spifferi gelidi, gli armadi che ad aprirli si veniva travolti dal puzzo di sudore vecchio e naftalina; i residui di cipria e forcine sopra i cassettoni, i tappeti lisi tenuti insieme dall’unto e dallo sporco, i letti scheletrici e cigolanti con le coperte rigide, i catini e le impalpabili tende di tulle, i dagherrotipi di Disraeli, Henry Irving e First Love; gli specchi macchiati e le poltrone di vimini mezze sfondate; quelle carte da parati a motivi variamente floreali che si andavano ingiallendo, corrugando e staccando da infinite pareti; i caminetti vuoti, i ventagli di carta... cosa era stato a tenerlo in vita allora? Se ne ricordava bene. I teatri, certo, uno nuovo ogni settimana, ma soprattutto la scrittura: la maggior parte dei suoi testi erano sentimentali e melodrammatici – non c’era un loro equivalente nelle storie che si raccontavano oggigiorno, nemmeno al cinema –, le trame complicate, dense e fosche, le idee di base semplici e chiare. La giustizia prevaleva sempre e non c’erano dubbi su cosa fosse giusto e cosa no; l’amore vinceva; i personaggi che contrastavano l’amore e il coraggio e la purezza venivano castigati con severità; i moventi erano chiari fin dall’inizio e non c’era (se non in qualche personaggio minore) la volontà di emulare il linguaggio colloquiale. Quando lui era molto giovane e lavorava con le compagnie di giro, questi testi coi loro personaggi, questo linguaggio, questi principi erano la vita, vita in dosi superiori a quelle che Em si sarebbe mai augurato, e per anni era vissuto in questa realtà alla rovescia: nel momento in cui, insieme alla compagnia di turno, prendeva possesso di un teatro buio e deserto, col suo caratteristico odore di colla, le zaffate di gas e le correnti d’aria, mentre con gli altri preparava i fondali e inchiodava assi, sentiva che stava preparando la scena per la vita. Non che si aspettasse di prendervi parte; lui faceva perlopiù l’uomo di fatica, spostava scenografie, telefonava, andava a prendere le bibite per gli altri, distribuiva volantini, riempiva e svuotava cesti di abiti e oggetti di scena, rammendava, produceva rumori fuori campo con vassoi, gusci di cocco, pistole ad aria compressa, la sua voce, faceva da suggeritore durante le prove. Una volta gli diedero la possibilità di cimentarsi in una parte con una sola battuta in un dramma storico. Non aveva mai fatto nemmeno una prova, perché il testo lo sapeva a memoria e si trattava di una sostituzione dell’ultimo minuto. Doveva entrare in scena alla fine del secondo atto e annunciare la morte improvvisa di un personaggio a tutti gli altri, riuniti in scena. Gli diedero il costume e gli dissero di andare a truccarsi. C’era voluto un po’ di tempo ed era stata una cosa piuttosto divertente, tanto che all’ultimo secondo utile dovette correre in scena – bianco come il gesso, con degli improbabili e spettacolari baffi neri e un mantello che gli stava grande di diverse misure. Restò fermo un istante, frastornato dalla luce polverosa e accecante, disse la battuta e poi, siccome gli sembrava troppo poco, si produsse in un monologo, con le braccia sottili che si agitavano sotto il mantello e la voce fragile e tesa, prossima a spezzarsi mentre raccontava con dovizia di dettagli truculenti come era avvenuta la dipartita. Dopo alcuni secondi di generale sconcerto, il protagonista, un attore di lunga ma ripetitiva esperienza, lo aveva sollevato da terra e portato dietro le quinte come un pipistrello isterico, mettendolo nelle mani di un aiuto regista piuttosto arrabbiato. Questa fu la sua prima e unica esperienza di attore, e ci volle l’impegno della vecchia Elsie per non farlo licenziare. Cara Elsie: era una brava persona, era stata la sua prima amica. Aveva cercato di spiegare al capo cosa gli era successo, mentre Em se ne stava muto e tremante. E poi lo aveva tenuto stretto al petto – florido e odoroso di birra e violette del Devon – confortandolo mentre si scioglieva in un mare di lacrime di paura e di pentimento. Ed era stata Elsie, ancora una volta, a metterlo davanti allo specchio perché vedesse la sua faccia impiastricciata di cerone mezzo sciolto, ed Em non aveva potuto trattenere una risata. Elsie, restandogli accanto solida come una roccia rivestita di corsetti, era riuscita a trasformare l’intero episodio in un aneddoto spassoso per tutta la compagnia...
Alberta comparve sull’uscio. «Ho dovuto smettere. Ho troppa fame».
Aveva l’espressione di una bambina arrabbiata, poi Em si accorse che era solo una macchia di sporcizia.
«Mangiamo subito».
Aveva portato una ragionevole quantità di cibo; Alberta fece qualche commento educato e per alcuni minuti mangiarono in silenzio. Poi, mentre Em si chiedeva come mai fosse così ansioso di trovare un argomento di conversazione, prese la parola lei. «Posso farle una domanda?».
«Sì?».
«Le ragazze che vengono a fare il provino per la parte di Clemency l’hanno letto, il resto della commedia?».
Stava per rispondere certo che sì, poi si rese conto che non ne era affatto sicuro, almeno in alcuni casi. «Alcune di loro ricevono il copione intero, sì. Se poi lo leggano o no è tutta un’altra questione».
«Ma quelle che ricevono solo il ciclostile della scena da provare... loro non leggono il resto?».
«Loro sono come colpi sparati nel buio. Nessuno si aspetta che vadano a segno. Come mai me lo domandi?».
«Perché proprio non capisco come si possa recitare bene una scena senza conoscere tutto quello che c’è intorno. Io non so niente di recitazione, beninteso. Ma prima di leggere tutta la commedia, nonostante abbia sentito declamare quella scena decine di volte, io non l’ho capita. Per le attrici è diverso?».
«In un certo senso. Vedi, per il momento non stiamo cercando qualcuno che sappia come interpretare il personaggio di Clemency, ma qualcuno che possieda alcune caratteristiche senza le quali non potrebbe mai farlo».
«Ma io credevo che queste caratteristiche avrebbero spinto la persona in questione a voler leggere il testo tutt’intero prima del provino».
«Immaginiamo che sia come dici tu. Che cosa succederebbe?».
«Che sarebbero loro le prime a capire se possono fare Clemency oppure no... no, grazie, se bevo ancora finirò per addormentarmi».
«Non è così semplice. Vuoi sapere il perché?». Lei annuì. «Una brava attrice non può recitare utilizzando sempre le emozioni di cui ha esperienza diretta. Deve usare l’immaginazione, che del resto è basata sulle esperienze emotive personali. Perché c’è sempre un territorio al di là dell’esperienza in cui l’immaginazione è pura, non inquinata dalle idee sbagliate che uno ha di se stesso. Il compito di un attore è mantenere la purezza di quel territorio dell’immaginazione, tenerlo vivo, se possibile ampliarlo. E il mio lavoro è riconoscerlo e valutarlo. Adesso sto parlando di attrici brave, artiste in un certo senso, non di persone a cui capita per caso di fare una parte in teatro. E un personaggio come Clemency è scritto per attrici vere. Certo, potrei aver sbagliato l’intera commedia. E allora, qualunque attrice io riesca a scovare, non ne verrà fuori niente di buono. Come non ne è venuto a Londra».
«Non è stato un grande successo?».
«È ancora in cartellone. Volevo dire che lo spettacolo non era quello che avrei voluto».
«Succede spesso?».
Emmanuel sorrise: lei aveva una capacità tutta particolare di sollecitare il suo senso delle proporzioni, il che lo spingeva a ridere di se stesso e a stimarla ancora di più. «No. Non così spesso. Anche se io parlo come se fosse così, o come se dovesse essere così. Prendi un po’ d’uva, ora, e dimmi cosa pensi della commedia».
Rimosse delicatamente con la punta del dito la condensa che si era formata sull’acino. «È una cosa straordinaria la condensa dell’uva, vero? Non puoi toccarla, puoi solo guardarla. E neanche sempre».
Lui rivolse all’uva un’occhiata distratta. Gli era venuta un’urgenza improvvisa di conoscere l’opinione di Alberta su Clemency e temeva che lei non fosse disposta a dirgliela. «Non era una complicata e oscura metafora con cui cercavi di dirmi la tua opinione, vero?».
Lei fu così stupita da quell’idea che quasi scoppiò a ridere. «Sono ansioso di conoscere il suo autorevole parere, Miss Young», insistette Em.
«Mi è piaciuta. Mi convince l’idea di base. Inizia e finisce e sembra autoconclusa, anche se c’è sempre qualcosa da dire prima e dopo». Ecco che arrossiva di nuovo, sotto le macchie di sporco che aveva in faccia. «Non ho letto molte commedie in vita mia, perciò non ne capisco molto. La mia opinione non ha nessuna importanza».
«Credi che se avessi letto più commedie, questo renderebbe più importante la tua opinione?».
«Be’, dipende...», disse, ma poi cambiò tono vedendo l’espressione di lui. «Il guaio è che io tendo a prendere le cose molto sul serio, che però è come dire che prendo sul serio me stessa in relazione alle cose. Mi dispiace, è una bruttissima abitudine. Papà dice che è la via maestra per diventare una seccatrice».
«Una via fin troppo frequentata, direi», commentò lui, sentendo un moto d’affetto riempirgli il cuore e non sapendo come esprimerlo. «C’è qualche altra opinione di nessuna importanza che vorresti condividere con me?».
Alzò gli occhi dal grappolo d’uva, nervosa ma invincibilmente sincera.
«Una cosa c’è. Ma perché vuole saperla?».
«Potrei scoprire qualcosa che non sapevo».
«Riguardo alla commedia». Non era una domanda, così Em si astenne dal dire di no. Alberta si prese qualche secondo per riflettere, poi disse: «Riguarda l’inizio. Clemency è bella, amata da tutti, ricca, circondata da ammiratori, amici, successi. È così che l’ha immaginata, no?».
«Esatto».
«E in un certo senso sta bene così?».
«Esteriormente sì».
«È questo che fatico a capire. Dopo quella strana sera in cui ha incontrato lo sconosciuto fuori dal teatro, però, comincia a desiderare qualcos’altro».
«Sì, ma è qualcosa che non può avere nella sua vita presente. E lo sa».
«Sì. Per avere quello che vuole dovrebbe rinunciare al successo, agli ammiratori e a tutte quelle cose. Ma dal momento che lei per prima non dà molto valore a queste cose, esse non rappresentano poi una rinuncia così grande, o sbaglio? Voglio dire, per altri possono essere le cose più desiderabili del mondo, ma per lei contengono così tante ombre che non hanno quasi più valore. Non so bene cosa s’intenda per “felicità esteriore”, ma so con certezza che non si può imbrogliare pagando ciò che si desidera molto con qualcosa a cui non si dà valore. E all’inizio lei è davvero così ricca, avrà pure qualcosa con cui pagare».
Seguì un silenzio completo: lui la fissava e quel che vedeva era così chiaro e limpido che vi scorse il proprio riflesso. Un riflesso così fedele da non trovare le parole per esprimerlo. Quei pochi secondi furono pure, irripetibili gocce di tempo. Lei sapeva qualcosa e capiva che lui ne stava prendendo coscienza ora, perché ebbe l’accortezza di non rompere il silenzio. Dopo averlo così servito, restò muta e aspettò che fosse lui a proseguire il discorso o a chiuderlo lì. Alberta aveva messo il dito proprio su quel punto che per lui era stato a lungo introvabile, e adesso stava a guardarlo mentre assorbiva il colpo.
Quando Emmanuel si riscosse, lei si alzò in piedi e portò il vassoio in cucina, ma a lui restò addosso quel senso di calore e leggerezza. La raggiunse. Si strofinava vigorosamente la faccia con un fazzoletto bagnato.
«Zia Topsy dice che per fare una pastafrolla leggera, la farina non deve mai superare le falangi. Non so quale sia il limite massimo della polvere quando si fanno delle pulizie, ma di sicuro non arriva alla fronte».
«Sei stanca? Hai lavorato molto».
«Per niente, grazie. Per fortuna la forza non mi manca. È stato un pranzo delizioso, davvero. Adesso vado a pulire la cucina».
«Vorrei aiutarti. Posso asciugare?».
«Grazie. Ci sono degli strofinacci. Molto strani, a dire la verità, con dei versi scritti sopra. Ma davvero in America la gente legge quel che c’è scritto sugli strofinacci?».
«Le povere casalinghe annoiate probabilmente ne traggono degli insegnamenti».
«È proprio vero! Cucinare ormai è una noia mortale, ci vuole qualcosa per distrarsi. Deve essere difficile sentirsi brave e necessarie con tutti quegli elettrodomestici e il cibo confezionato. Si riduce tutto a pochi semplici procedimenti. Molto deprimente».
Si misero a lavare i piatti: la compagnia di lei gli dava un senso di agio che ricordava di aver provato, in precedenza, solo dopo aver fatto l’amore.
Gli domandò come era arrivato a scrivere la prima commedia e di cosa parlava, tutte domande che si era sentito fare mille volte e a cui mille volte aveva risposto in poche parole non sempre oneste. Stavolta invece si prese tutto il tempo per replicare come si deve. Le raccontò della sua fuga e di come il primo giorno gli fosse venuto un mal di denti del diavolo; Elsie lo aveva trovato seduto sullo scalino del marciapiede, di fronte a un pub, in lacrime; lo aveva portato nel suo camerino e aveva chiesto al carpentiere di scena di cavargli il dente con una delle sue pinze, poi gli aveva fatto sciacquare la bocca con l’acqua di colonia e gli aveva procurato un lavoro nella compagnia. Le raccontò di quella sua disastrosa iniziativa sulla scena e di quanto era stata brava Elsie: poco tempo dopo gli aveva consigliato di mettere tutto su carta, di liberarsi di quel rovello, perché altrimenti lo avrebbe perseguitato a vita senza essere utile a nessuno. «Se le cose che hai detto ti sono venute in mente così, sul momento, potresti saper scrivere una commedia di tutto rispetto, con una particina sfiziosa anche per me». Quando lui le aveva chiesto cosa intendesse per “sfiziosa”, lei aveva risposto che si trattava di gergo teatrale, anche se molto raffinato.
«Mi parli di lei. Com’era?».
«Non ci sono più persone di quel tipo, oggi. Anche se a quei tempi era una come tante. Era bionda e per anni aveva interpretato il ruolo dell’ingénue, ma poi era ingrassata troppo. Si tingeva i capelli, perché cominciava ad averli grigi; aveva una bella pelle e gli occhi azzurri, ma anche quelli un po’ scoloriti. Aveva belle spalle e belle braccia – allora ci si badava molto: le donne si vestivano in modo da metterle in mostra – ma per il resto le piaceva troppo mangiare e bere per restare in forma. Era di buon cuore e sempre pronta a darti una mano, ma aveva anche gusto per l’avventura e sapeva farti sentire al sicuro, il tutto nella giusta proporzione, almeno per un ragazzino di quattordici anni come me. Lei diceva di averne trentacinque, ma credo che avesse superato i quaranta. Mi faceva da madre solo quando ce ne era davvero bisogno. Altrimenti non dimenticava mai che lei era una donna e che io un giorno sarei diventato un uomo. Aveva una passione per la maniera e la raffinatezza, che associava con la bella vita e con l’amore, tutte cose in cui credeva, e non le importava nulla di quel che pensava la gente. Una volta era stata a cena fuori con un marchese, un episodio che citava spesso per ridere di se stessa. “Te l’immagini? Io che cerco di fare la nobildonna solo perché un giovanotto di buona famiglia s’era preso una cotta per me... Ah, le idee folli che ci mettiamo in testa!”. Per lei l’Inghilterra era il miglior paese del mondo, amava il teatro ed era follemente innamorata del nostro impresario, che la trattava perlopiù da cani e spesso le era infedele con le varie ragazzine che venivano ingaggiate per le parti che tempo prima sarebbero state riservate a lei».
«Lei lo sapeva?».
«Lo sapeva. Sapeva tutto di lui, ma non faceva nessuna differenza. Elsie si conosceva. Una volta sola l’ho vista davvero abbattuta. Ero entrato senza bussare nel suo camerino, una sera, e la trovai a capo chino, con della biancheria provocante e la vestaglia buttata sulle spalle, la faccia rigata di lacrime. “Adesso è con quella Violet Everard! Ogni volta dice che non succederà più. Io lo so che non è vero, però mi piace che lui invece ci creda almeno un po’”. Cercai di consolarla e lei si tolse la vestaglia dicendo: “Lo so che mi vuole bene. Adesso però aiutami a togliermi questa roba. Ma guardami! Una vecchia scema che rincorre quello che non può più avere. Dovevo infilarmi in questi stracci per farmi una bella risata! Neanche avessi sedici anni... sono io la prima a non sapermi comportare come una donna della mia età, come posso pretenderlo da lui?”. E poi se la fece davvero, una risata, si pulì il viso e recitò la sua parte, quella della madre di Violet nella commedia. È stata l’unica occasione in cui l’ho vista piangere».
Si era dimenticato di asciugare i bicchieri e si era seduto sul tavolo, con la testa indietro alla giovinezza. Alberta gli prese lo strofinaccio dalle mani e disse: «E la commedia?».
Lui scoppiò a ridere, doveva averlo imparato da Elsie. «La commedia... la scrissi, sì. Ogni singolo personaggio aveva un titolo nobiliare e quasi tutti erano cattivissimi, a parte quello che avevo inventato per Elsie e nel quale avevo messo tutti i miei ideali di femminilità e bontà. Per farla breve, gliene succedevano di tutti i colori e lei restava impassibile, una specie di roccia, tanto era passiva, inamovibile e piatta. L’ambientazione era il castello di un conte. La scena di apertura era un tè elegante in biblioteca. Il titolo era Il diavolo non paga. A un certo punto un personaggio usciva di scena con una battuta che recitava più o meno: “Devo lasciare questa stanza: la sua presenza ammorba l’aria al punto da renderla irrespirabile!”. Nell’ultimo atto uno dei cattivi avvelenava un sacco di gente mettendo le ostriche andate a male nello champagne. Non bevevano nient’altro, sai, per cui non c’erano molte alternative».
«E che ne è stato di questa commedia?».
«Il peggio doveva ancora arrivare. La rappresentarono... come farsa, a Natale. Assegnarono a Elsie la parte che avevo scritto per lei. Mi diedero venti sterline ed ero talmente al settimo cielo che non mi resi conto di quello che stava succedendo. Andai a comprare una collanina di perle rosa per Elsie, amava tanto il rosa, gliela feci mettere in una scatolina foderata di velluto dello stesso colore. Volevo dargliela con un biglietto, la sera della prima. Era stata lei a darmi la carta e l’inchiostro verde – non lo usava mai – per scrivere. Alle prove non mi lasciarono entrare, erano sempre evasivi. Ne parlavano ridendo e facendomi un sacco di complimenti... a parte Elsie, che invece mi diceva di continuare, di cominciare a scrivere un’altra commedia. La sera della prima mi chiamò e mi disse che era molto fiera di me e che, se lo spettacolo fosse stato diverso da come me lo aspettavo, non dovevo buttarmi giù, perché invece era una buona cosa e in qualche modo bisognava pur cominciare».
Emmanuel fece una pausa. «Non ci ripensavo da anni. Questa è solo la terza volta che lo racconto».
«Vada avanti. Cos’è successo dopo?».
«Mi fecero sedere in uno dei palchetti, da solo. E per una decina di minuti, prima che si accendessero le luci, mi sentii davvero un gran signore! Mi immaginavo con un cappello a cilindro in testa, proprietario di teatri, con gente del calibro di Julia Neilson, Lewis Waller, Playfair e Dion Boucicault che mi supplicavano di scrivere per loro. Immagino che questi nomi non ti dicano niente, ma allora erano famosi e richiestissimi, la gente li adorava e collezionava le loro cartoline come oggi colleziona quelle delle pin-up. Stavo giusto immaginando le cartoline con la mia faccia sopra, quando cominciarono ad accendersi le luci. Già nel momento in cui si alzò il sipario mi accorsi che qualcosa non andava. Quando vidi i gamberi di flanella rosa, le enormi banane, quando sentii le risate del pubblico, il cuore mi cadde negli stivali e restò lì per tutta la durata della recita, mentre lottavo con le emozioni... E che emozioni!», proseguì ridendo. «Risentimento, vergogna, rabbia, autocommiserazione e il rifiuto di accettare la situazione. Ma soprattutto rabbia e vergogna. Che si avvicendavano come su una folle giostra, mentre il pubblico rideva a crepapelle di quelli che per me erano i discorsi più accorati, le situazioni più drammatiche, i momenti più lirici. Quando poi entrò Elsie, con una vestaglia bianca enorme anche per lei e una lunga parrucca bionda che le arrivava fin giù in fondo alla schiena, mi parve di scoppiare. Il contrasto era così stridente: una parte di me la trovava comunque bellissima, ma un’altra voleva ridere, perché era una caricatura di se stessa e tutti si sganasciavano e quel suo ingresso doveva essere uno dei momenti più intensi della commedia... ero lì che ribollivo quando all’improvviso – non so cosa fu in particolare a provocarlo – scoppiai a ridere; mi arrabbiai ancora di più. Piangevo, anche, senza il più piccolo suono, e le lacrime erano come gocce d’acqua su un ferro rovente. Pensai che se mi avessero visto – me, l’autore, in quello stato – avrebbero riso ancora più forte. Vedi, loro per me erano il mondo e ai miei occhi, se gli davo motivo di ridere di me in quel modo, la colpa era solo mia. Così guardai il resto della recita sforzandomi di tenere un contegno impassibile: avevo fallito, ma potevo almeno portare con dignità il mio fallimento. Mi diedi un contegno, insomma, cercando di sembrare mondano e indifferente. Non avevo messo in conto che alla fine, durante gli applausi, avrebbero chiamato in scena a gran voce l’autore; Edward Burton, l’impresario, mi mandò a chiamare e io mi ritrovai in mezzo a lui e a Elsie, senza riuscire a guardare in faccia né l’uno né l’altra, sconvolto dal dolore per quanto mi stava capitando. Mi ero impegnato tanto per fare una cosa e avevo ottenuto qualcosa di completamente diverso, ma non ero capace di vedere le cose da quest’angolazione. Io sapevo solo che avevo fallito».
Nel silenzio che seguì si rese conto di aver parlato a lungo: intanto che lui si dilungava nel suo racconto, lei aveva finito di pulire la cucina. Fece un gesto con la mano, a mo’ di conclusione. «E questo è quanto. Il classico esempio che le cose possono rivelarsi diverse da come uno se le era immaginate». Si guardò intorno in cerca di una sigaretta e lei ne spinse un pacchetto verso di lui, lungo il tavolo.
«Aveva quattordici anni all’epoca?».
«Ti sembra strano che io possa aver avuto solo quattrodici anni?».
«Mi sembrano molto pochi per scrivere una commedia e passare quello che ha passato lei. È una cosa pesante quando si è così giovani. Elsie cosa le disse?».
«Oh, fu la mia salvezza. Fu lei a spingermi a mettere in prospettiva quello che era successo, come sempre del resto. Mi parlò tutta la notte, finché non crollò dalla stanchezza, poveretta. “Hai pensato a quanti autori non hanno mai la possibilità di veder rappresentato un loro testo?”, mi disse. Naturalmente no, non ci avevo pensato. “E quanto sarà più facile per te adesso farne rappresentare un altro?”. Erano tutte cose che non mi erano venute in mente. Le dissi che io volevo scrivere della vita e lei rispose che nulla me lo avrebbe impedito, ma che prima dovevo imparare qualcosa, della vita. La cosa più importante che mi disse è che nessuno nasce sapendo, ma che tutti hanno la possibilità di conoscere ciò che vogliono conoscere. Disse... sicura di voler sentire tutta la storia?».
«Sì».
«Disse che io non vivevo in un castello con duchi e conti e che per questo non potevo scrivere un testo serio su di loro... che avevo scritto una commedia su altre commedie, non su ciò che conoscevo o avevo visto in prima persona. “Guardami bene”, mi disse. “Ti sembro credibile come Geraldine FitzAbbot? Non sono pura né di nobile casato. Sono una cicciona come tante a cui piace la birra, che si tinge i capelli ed è innamorata di Ted Burton. In me non c’è nulla di nobile, ma sono una persona che tu conosci”. Allora cominciai a capire e mi sentii meglio al punto che, anche se erano le tre del mattino, le diedi le perle rosa e le chiesi di sposarmi. Lei fu molto cara».
«Davvero voleva sposarla?».
«Per quanto possa sembrarti assurdo, sì. Allora lo volevo. Era così buona, una creatura gentile e generosa, e per me erano le più grandi qualità del mondo. E io volevo accanto una persona così. Lo vorrei ancora, a volte».
«Vuole dire che qualche volta vorrebbe essere sposato con lei?».
«Sì... no. Non è quello che volevo dire».
Ci fu un silenzio, poi lei arrossì e disse: «Mi dispiace! Certo che non è quello che voleva dire». Le era venuta in mente Lillian e si era accorta di aver commesso una gaffe.
Lui le posò una mano sulla spalla, la tenne così qualche secondo e poi la ritirò.
«Nemmeno tu volevi dire questo. Lo so». Sapevano entrambi cosa aveva voluto dire.
In taxi, mentre andava al porto a prendere Lillian, pensava ad Alberta che era rimasta a sistemare i fiori e a disfare i bagagli nella casa che con tanta cura aveva reso abitabile e a Lillian, intenta a chiudere le valigie e preoccupata che lui si fosse scordato del suo imminente arrivo. Alberta, fuori dall’ambiente familiare in cui era cresciuta e sbalzata niente meno che a New York, aveva la possibilità di fare ciò che ci si aspettava da lei: adattare l’educazione che aveva ricevuto al nuovo contesto, perché in lei qualcosa era pronto e non scosso dai mutamenti esterni. Lillian invece rischiava che il corpo l’abbandonasse al minimo gesto fisico, ed Em era abbastanza convinto che non conoscesse gesti d’altro tipo al momento: la sua forza d’animo si logorava però di giorno in giorno, si perdeva nel campo vasto ma arido delle sue varie attività. Era come vincolata a servire quell’immagine fissa di se stessa, mentre Alberta era libera di farsi servire dalla sua immaginazione. Doveva essere questa la differenza, pensò, e lui stava nel mezzo, indeciso su dove collocarsi...
2
Lillian
La smania è cominciata la sera prima dell’arrivo. Fino a quel momento ero riuscita a tenerla alla larga, non so nemmeno io come. Jimmy è stato un vero tesoro, il viaggio molto piacevole: anche quando ha avuto il mal di mare, ovvero praticamente sempre, poveretto, la prendeva con allegria ed era molto grato delle mie cure. Il suo buonumore ha fatto sì che i due giorni più difficili non abbiano rovinato tutto il viaggio. Ho letto per lui: gli piace ancora C.S. Forester e quasi tutte le poesie che ho scelto; abbiamo mangiato nella sua cabina, anche se, nello stato in cui era, lui non ha quasi toccato cibo. Però essere accudito gli è stato di gran conforto – credo abbia a che fare col fatto che non ha avuto i genitori e nemmeno una casa vera e propria – e anche a me è piaciuto, una volta tanto, fare da infermiera a qualcuno che stava peggio di me. Mi ha detto che sono brava e sembrava sincero; mi sono commossa. Mi ha raccontato della sua vita all’orfanotrofio, di cui non parla mai molto, e deve essere stata un’esperienza terribile, molto peggiore di come lui la descrive. La sensazione di essere uno fra tanti, le regole improntate a una brutale giustizia senza nessun riguardo per le emozioni, tutti vestiti uguali e costretti a fare le stesse cose e a sapere sempre tutto gli uni degli altri. Mi ha raccontato che una volta, a Natale, qualcuno gli aveva regalato una macchinina e lui l’aveva seppellita in giardino così da non doverla condividere con tutti gli altri. Ai compagni aveva raccontato che di averla persa e ogni tanto andava a disseppellirla per giocarci un po’ da solo. Naturalmente la macchinina si era presto arrugginita e sgretolata, ma Jimmy ha detto che ne era valsa la pena, che era stato bello, per una volta, avere un segreto. Perché tutti gli altri segreti erano stati scoperti nonostante le bugie. A quei tempi gli capitava di sentirsi esterno alla sua vita, come quando si guarda un’altra persona che compie dei gesti in modo automatico. Io lo capisco: è per questo che è così affezionato a Em e riesce a fare tanto per lui. La mia gelosia è davvero fuori luogo. Ma la sera prima dell’arrivo c’era la nebbia e a cena tutti parlavano di quanto tempo ci avrebbe fatto perdere. È successo allora: mi si è insinuata dentro, come una specie di malattia, l’idea che in quella settimana Em fosse stato attratto da lei e l’avesse sedotta, per la sola ragione che era la cosa più facile di questo mondo. Subito mi sono detta che era assurdo... insomma, è solo una ragazzina. Se Em volesse un’amante, se ne cercherebbe una ben diversa. Poi ho pensato a quella donna orrenda, Gloria Williams, una creatura sdolcinata e senza vita, con gambe bruttissime, una martire gentile se mai ve ne furono: se Em è andato con quella, allora può andare con chiunque. Certe volte mi stupisco dei pensieri volgari che mi vengono sul conto di Em, e mi disgusta anche il loro linguaggio, che ovviamente non è da meno. Ma dopotutto quella ragazza l’ho scelta io, e Dio sa se ho imparato a tenere in considerazione questa squallida possibilità. Dopo cena ho proposto a Jimmy di andare a fare una passeggiata sul ponte e mentre prendeva i cappotti ho dovuto resistere alla tentazione di confidargli i miei timori. Non voglio che Jimmy venga a sapere che Em parla con lui molto più che con me, perciò fingo sempre di sapere tutto, di essere indifferente e comprensiva. Mentre camminavamo su e giù in quell’aria pesante e come percorsa da onde, gli ho chiesto cosa avesse fatto Em a New York durante la settimana, e quando me l’ha detto è stato un sollievo, perché davvero non può aver avuto il tempo di iniziare una relazione. Spero solo che questa nebbia non ci tenga fermi troppo a lungo, ma pare che nessuno riesca a dirci nulla di preciso a riguardo. Dopo un po’ Jimmy mi ha chiesto se avevo voglia di andare al cinema: davano La regina d’Africa e l’abbiamo visto entrambi, ma a Jimmy piace tanto Forester e io adoro Katharine Hepburn, così ci siamo andati. Dopo, Jimmy si è preso da bere e abbiamo parlato un po’ di quel che ci piacerebbe fare durante l’estate; gli ho detto che vorrei tanto andare in Grecia, e lui si è meravigliato. Invece è vero, sono anni che Em me lo promette. Jimmy si è molto preoccupato, lui detesta le visite ai monumenti e poi non farà troppo caldo? Gli ho spiegato il mio desiderio di vivere su un’isola, in maniera frugale. Anche per Em, ho aggiunto, sarebbe un buon posto dove scrivere: lontano dai teatri e dalla gente che vi ruota attorno... L’ho pregato di non far cambiare idea a Em e lui mi ha guardata basito, dicendo che non gli passava nemmeno per la testa. Poi all’improvviso abbiamo esaurito gli argomenti e Jimmy ha proposto di andarcene a dormire. Io non ci riuscivo. Ho letto a lungo, e alla fine ho preso una pillola. È stato come sprofondare lentamente in un mare tiepido e pesante, silenzioso e incolore, scuro e vuoto. Incommensurabile. Mentre ero già nel dormiveglia ho sognato di incontrare Em. Io galleggiavo, i miei movimenti erano fluidi, mentre lui era in piedi accanto a un albero sopra un’isola piccola piccola. Sentivo brillare i miei capelli e la mia pelle umida mentre uscivo dall’acqua e gli andavo vicino, sempre più vicino, finché i nostri sguardi si allacciavano stretti. Poi ho visto che anche l’isola galleggiava, e si allontanava a una velocità tale che non sarei mai riuscita a raggiungerla; ho visto anche che la riva a cui ero approdata apparteneva a un’altra isola, ma senza l’albero, e mi sono lasciata cadere sulla sabbia chiara che anneriva man mano che il sole se ne andava e il sonno svaniva. Mi sono svegliata che era già tardi: non fosse stato per la nebbia a quell’ora saremmo stati in porto. Ho chiamato Jimmy che aveva già fatto colazione e aveva saputo che l’arrivo era previsto per le sei. Buono a sapersi. Otto ore e ci saremmo visti, sempre che lui fosse venuto a prenderci, sempre che la notizia del nuovo orario lo avesse raggiunto e sempre che la nebbia non fosse peggiorata. Jimmy è venuto a farmi compagnia mentre facevo colazione, molto calmo e serio: mi ha detto che mi stavo agitando per nulla e ha promesso di chiamare l’albergo per accertarsi che Em fosse al corrente del fatto che saremmo arrivati alle sei. Mentre lui provava a telefonare, pensavo a quant’è strano non essere più capace di godermi nemmeno l’eccitazione di qualcosa di bello che sta per accadere. Non era facile prendere la linea, perché stavano provando anche tutti gli altri, e quando Jimmy è riuscito a parlare con l’albergo, ben oltre l’orario in cui originariamente saremmo dovuti arrivare, Em aveva già lasciato la stanza. Vuol dire, almeno, che l’appartamento è pronto. Non potevo fare a meno di chiedermi cosa stessero combinando lui e Alberta, e ho ricominciato a star male. Forse il problema è che mi eccito per le cose sbagliate, o forse sono le emozioni forti che mi fanno stare male. Quanto vorrei che il nostro incontro fosse come la prima parte di quel sogno: senza parole, quella meravigliosa, pacata sicurezza... Ora come ora non riesco a stare ferma, non riesco a mangiare niente, ho il fiatone e un dolore che ticchetta come un motore pronto a rombare; mi sudano i palmi delle mani e continuo a pensare di aver dimenticato qualcosa. Ogni volta che mi sento così, sull’orlo di una caduta, a un certo punto gli eventi precipitano mio malgrado. Io non ci sono, la mia immaginazione è polverizzata e non c’è nulla che possa prendere il suo posto. Mi ricordo una volta che è venuto a prendermi – a New York, anche allora – e dopo pochi minuti stavamo discutendo di certa gente insignificante che conoscevamo a malapena; poi io gli dicevo quanto ero stata ansiosa di rivederlo e lui rispondeva: «Per parlare degli Smithson?». Quel giorno ho avuto la certezza che aspettare con ansia qualcosa è deleterio. Ecco il mio problema: non provo sentimenti autentici, solo proiezioni mentali e conseguenti cadute di tensione nel confronto con la realtà. Già, ma come si fa a provare sentimenti autentici? Come posso provarne per Em, nel momento in cui lui stesso non ne ha? Io li provavo, per Sarah. Certe volte penso: se fosse vissuta un po’ più a lungo, adesso almeno avrei più cose di lei da ricordare. I suoi due anni sono stati così brevi che è difficile trattenerne bene la memoria. E tutti i ricordi sono macchiati dal dolore di averla persa. È stata davvero reale tutta quella sofferenza? Una volta Em mi disse: «Solo la gioia lascia un ricordo indelebile. Pensa ai momenti di gioia che hai avuto con lei». Lo disse in un modo molto convincente, ma io non potevo capire. Non accettavo quel genere di discorsi perché, dato che non mi era stato concesso di soffrire al posto di Sarah, mi ero imposta di soffrire almeno quanto lei. È molto strano: penso di continuo a queste cose, ma mai in questi termini. Deve avere a che fare con il ritardo, con queste improvvide otto ore che si sono intrufolate nella mia vita. Capisco bene quando le persone si dicono “pronte a morire” per qualcuno: il fatto che questo molte volte non sia possibile ci appare come un oltraggio. Fare di un altro il centro della propria vita è pericoloso, ci rende deboli: le persone sono fragili, muoiono come niente... datemi qualcosa che sia indistruttibile! Il mio principale sentimento nei confronti di Em è la paura di perderlo, e questo è assurdo perché Em non è mai stato mio. È buffo che io mi ostini a voler dare agli altri cose che non possiedo e abbia tanta paura di essere privata di ciò che non mi appartiene. Non che la mia ironia in proposito mi sia di qualche conforto. Non ricordo esattamente quando, ma dopo pranzo, quando Jimmy è uscito a dare le mance al personale, mi sono ripromessa solennemente che farò del mio meglio per essere buona e generosa con Alberta, cercherò di capirla e vedere i suoi lati positivi; dopo aver concepito questo proposito ho sentito in me una grande calma, simile a quella del sogno, e mi sono sentita capace di metterlo in atto. Quando è tornato, Jimmy ha continuato a trattarmi come se fossi sull’orlo di una crisi, non si è accorto che qualcosa era cambiato: la sua insensibilità mi ha indispettita ed è così che la mia breve calma è andata a farsi benedire. Avevamo già deciso come procedere – io scenderò dalla nave con le mie cose personali e andrò incontro a Em, mentre Jimmy farà la fila alla dogana, ritirerà i bagagli e poi ci raggiungerà – ma abbiamo ugualmente ripercorso tutta la tabella di marcia. Jimmy mi ha suggerito di riposare un po’, ma non me la sentivo. Alla fine ho deciso di cambiarmi d’abito: avevo un tailleur nuovo di zecca di tweed di seta azzurro, ancora mai indossato, e un paio di scarpe molto semplici ma dello stesso identico colore. Ho congedato Jimmy, e ha detto che sarebbe andato a guardare il mare dal ponte e ci saremmo visti alle cinque.
L’ho tirata per le lunghe il più possibile: ho fatto il bagno, mi sono data lo smalto sulle unghie, mi sono massaggiata i capelli, ma anche così mi sono chiesta come facciano le donne a farsi aspettare tanto dagli uomini mentre si lavano e si preparano. Forse non se ne rendono conto: per me il mio corpo è ciò che per molte donne è la casa. Il mio corpo è la mia casa: mi piace lavarlo, curarlo, abbellirlo. E farlo in modo metodico, serio, quasi distaccato è un esercizio che mi rilassa.
Il tempo: esita e s’impenna, si trascina agonizzante da un secondo all’altro, s’incolla vischioso a ogni movimento. Penso agli orologi delle stazioni che allo scoccare di ogni minuto scattano inesorabili, alle scene al rallentatore nei film, ai tachimetri, alla sabbia che scorre in una clessidra, ai miei capelli che crescono, alla meridiana di Wilde, la cui ombra sembrava perfettamente immobile mentre la guardavo, alla corsa dei cavalli di Epsom che ho visto una volta sola in vita mia, ai miei quarantacinque anni (ma ne ho di più!), al modo in cui Em riesce a condensare un pomeriggio e una sera in una commedia di quaranta minuti, alle ultime diciassette ore di Sarah... il tempo è qualcosa di straordinariamente elastico.
Ho provato a leggere. Mi sono messa a pensare a tutti i passeggeri che avevano aspettato con ansia questa mattina: l’impazienza e la delusione a pranzo erano palpabili. Ho pensato alla quantità di bevande alcoliche che sono state versate in queste ore, per passare il tempo, e alla pazienza dell’equipaggio che ha risposto per ore sempre alle stesse domande; e poi al profilo dei palazzi di New York, alla Statua della Libertà, a tutti quelli che stavano per vederla per la prima volta... Dal mio oblò vedevo che si era alzato il vento e la nebbia era quasi del tutto diradata, ma mi sarebbe comunque servito un foulard da mettere sui capelli, bianco, se riuscivo a trovarne uno...
Il tempo in qualche modo vive di vita propria, anche se a me è sempre sembrato morto: invece deve continuamente fare spazio ad altro tempo che aspetta, e che anch’io aspetto. Si prova una strana sensazione in una grande nave come questa: quando è in movimento, i motori, per quanto discreti, pulsano al suo interno come il sistema circolatorio di un organismo vivente, e le persone a bordo si muovono in superficie con la frenesia silenziosa di un formicaio: sembrano del tutto estranee al processo che rende la nave viva e fremente; invece quando la nave si ferma, queste attività umane prendono il sopravvento, la nave si trasforma in un alveare, un contenitore per le persone e i loro traffici: le porte delle cabine, bagagli che vengono spostati, voci, vetri che vanno in pezzi, cambi di valuta, saluti e addii, passi diretti verso la stiva e passi che vanno su, incontro ai gabbiani. Non è più una nave che fende le onde, ma una specie di grosso rudere che le onde, sempre le stesse, schiaffeggiano e lambiscono. L’aria stessa le gira intorno con una specie di libertà giocosa a cui non si assiste durante il viaggio.
Mentre scendevo dalla nave, lasciando la calca impenetrabile dei corridoi per unirmi alla folla più diluita e mobile del molo, di colpo mi sono immaginata di essere la protagonista di un film. Una donna alta, ben vestita, percorre la passerella: che cosa sta per succederle? Sta per incontrare qualcuno, ma di chi si tratta? Ha l’aria preoccupata e parrebbe una donna ricca, a meno che non si tratti di un pessimo film, perché ha una pelliccia di visone appesa al braccio. La cinepresa a un certo punto assume il suo punto di vista e si rivolge alla scena di fronte a lei, prima a volo d’uccello e poi con più attenzione, come alla ricerca di qualcosa. Siamo in un film, perciò va da sé che ciò che cerca è un uomo: un uomo che ama molto o di cui ha molta paura. Eccolo laggiù! La cinepresa lo mette a fuoco a distanza, poi si avvicina. Lui è lontano, sullo sfondo, non si è accorto dell’occhio che lo osserva. Tiene il peso su una gamba sola, guarda verso la nave. È piuttosto basso di statura, senza cappello, con una sciarpa pesante e il vento che gli scompiglia i folti capelli bruni. Gli occhi, un po’ stretti a difendersi dal freddo pungente, non risultano particolarmente espressivi. Dovrebbero essere fermi e molto brillanti, ma lui non sa che lo stiamo osservando. La donna – torniamo a lei – adesso sorride, e forse il film è migliore di quanto abbiamo creduto perché nemmeno ora riusciamo a capire se la donna è innamorata oppure ha paura. E adesso immaginiamo che ciò che accade alla donna all’inizio del film accada anche a me: un grande cambiamento, una rivoluzione violenta che illumina il senso di tutto il film, in modo che alla fine io possa capire qual è il mio posto. Mentre ero in fila alla dogana – avevo perso di vista Em – mi domandavo che cambiamento potrebbe avvenire nella mia vita. Nei film ci sono solo due tipi di cambiamento: quello esteriore e quello che riguarda il cuore. Cambiamenti esteriori mi sono accorta di non volerne, a parte forse il mio pessimo stato di salute, ma questo non sarebbe solo un cambiamento, sarebbe una specie di miracolo. E con un miracolo del genere, chissà, potrei anche avere un altro bambino. Cosa sono poi i miracoli? Sono eventi che le persone, pur beneficiandone, non possono capire. Se all’improvviso io mi ritrovassi sana, non saprei mai come sia potuto accadere. Saprei solo che il merito non può essere di qualche nuova medicina, perché nuove cure per la mia malattia non ce ne sono. Allora ho scoperto che sto vivendo nella speranza che le cose a un certo punto cambino; dentro di me sento di essere una persona destinata precisamente a quel cambiamento e sto aspettando che esso arrivi. Vivo, insomma, come se fossi qualcun altro.
«Qualcosa da dichiarare?».
Ho intuito la mia incertezza dal modo in cui mi guardava. L’ufficiale ha teso la mano aspettando il mio passaporto e ho dovuto resistere all’impulso imperioso di dire: «Ho questi documenti, ma non so chi sono. So solo che non sono quella che sembro. Va bene come dichiarazione?». Lui mi ha ridato il passaporto dicendo. «È nel posto sbagliato, signora. Qui è per i cittadini americani».
Gli ho chiesto allora dove dovessi andare.
«Lei è straniera», ha detto lui, come se questo rispondesse a tutto.
C’è voluto del tempo prima che mi permettessero di uscire per raggiungere Em vicino al taxi e, quando finalmente ci siamo visti, la sua familiarità è stata una gioia tale che gli sono letteralmente corsa fra le braccia.
«Cara», ha detto lui. «Cara». E mi sono stretta a lui riconoscendo uno a uno i suoi vestiti e l’odore della sua pelle, ansiosa di raccontargli tutto quello che avevo provato e scoperto.
«Vorrei che potessimo fonderci come due gocce d’acqua».
«In questo modo non potresti dirmi niente, perché saprei già tutto. Non ti piacerebbe».
«Forse è già così».
Mi ha accarezzato il viso con un dito. Un lieve sorriso. «Jimmy è andato a prendere il resto dei bagagli?».
«Sì». Ci siamo mossi verso il taxi. Mi cingeva le spalle col braccio, e gli ho detto: «Hai visto il mio vestito?».
«Lo stavo guardando. Molto elegante». Seguendo il suo sguardo, mi sono guardata anch’io dal collo ai piedi. «Belle anche le scarpe. E ti sei lavata i capelli. E le mani! Ti sei data tanta pena, mia cara, sai per cosa lo hai fatto?».
Avrei voluto dirglielo, ma non potevo perché desideravo sorprenderlo in qualche modo. Invece una volta in taxi gli ho detto: «Jimmy è stato malissimo per due giorni».
È scoppiato a ridere. «Sembri molto fiera di te. Tu invece sei stata bene?».
«Certo! Mi sono presa cura di lui. In un certo modo. È piaciuto a tutti e due».
Em sembrava contento. «Spero stia meglio. Avrà un bel po’ da fare qui».
«Hai trovato la persona adatta per la parte?».
«Niente da fare. L’unica con qualche possibilità è vincolata a un contratto per un film. Non ha tempo».
«Come sta Miss Young?».
«L’ho lasciata alle prese con straccio e sapone. Ha dovuto pulire l’appartamento, poveretta. Lo avevano dato a certa gente per una festa e non ti dico in che condizioni era. Meno male che non sei arrivata alle dieci. Ci è voluto tutto il giorno».
«E tu cos’hai fatto?».
«Sono andato a fare commissioni. Comprare fiori, fare la spesa. Poi ho camminato».
«E pensato?».
Lui si è messo sulla difensiva e ho aggiunto: «Non al mio arrivo... non mi riferivo a questo».
E lui ha detto: «Non so cosa voglia dire esattamente pensare a qualcuno. Di sicuro ho pensato al passato. Può andare?».
«Io lo faccio di continuo». Ho sentito un’obiezione salirgli alle labbra, anche se non le ha mosse. Mi ha preso la mano con delicatezza e ha aggiunto: «Forse ricordare non è la parola giusta. Non è che abbia ripercorso gli eventi così come si sono verificati. Diciamo piuttosto che ho ripensato a una selezione di eventi e alle mie impressioni al riguardo».
«Perché?».
«Cercavo una cosa. Mi sono reso conto che all’inizio non è mai una questione di ribellione: si ha una ragione precisa e innocente. Qualcosa che all’inizio ti appare molto importante. La desideri con forza. È una cosa necessaria, importante, per cui val la pena battersi. Poi la trama s’infittisce, le esperienze e il lavoro si accumulano e ci si scorda del perché si è cominciato». Poi ha taciuto.
«Tu te ne sei scordato?».
«Quasi completamente. Ma stamattina ha cominciato a tornarmi in mente qualcosa».
Siamo stati in silenzio per un po’, poi ho detto a malincuore: «Em, io non so se l’ho mai saputo».
Si è voltato a guardarmi come se avessi detto qualcosa di meraviglioso, mi ha baciata e in quel momento mi è tornato in mente com’era all’inizio, pieno d’amore e premure nei miei confronti. «Ma sì che lo sapevi. Tutti lo sanno, almeno per un po’. Solo che non facciamo niente per farlo durare. Io di certo non ti ho aiutata».
«Non si tratta di te».
«Non si tratta di nessun altro», ha risposto tagliente. Allora Sarah è apparsa come una fiammata e ha cominciato a morire di una morte dolorosa, ed Em voleva rimuovere il suo ricordo. Mi ha preso di nuovo la mano; le mie dita erano rigide fra i suoi palmi. «Lillian, non devi più torturarti. Pensa che ora sei qui, con me, e ci aspettano tante cose. Andiamo avanti, viviamo quel che c’è da vivere adesso. Se continui così, la solitudine diventerà insopportabile».
«Non voglio dimenticare. Non posso».
«Non ti chiedo di dimenticare niente. Al contrario, ti chiedo di ricordare di più».
«Dammi qualcosa da ricordare, allora».
Lui ci ha pensato, poi mi ha dato in mano uno dei suoi grandi fazzoletti e ha cominciato: «Te lo dico. Quando eri bambina, intorno ai dieci anni, mi pare, ti hanno tolto le tonsille. Subito dopo i tuoi ti hanno mandata a fare una vacanza con la tata, e siccome la tata era originaria delle isole Scilly, è lì che siete andate. La prima sera, appena arrivata, ti misero subito a letto. Era stato il viaggio più lungo che avessi mai fatto: il treno da casa fino a Londra, poi da Londra a Cornwall, il traghetto fino all’isola più grande dell’arcipelago e poi una barchetta manovrata dallo zio della tata fino all’isola dove viveva la sua famiglia. Quella sera non vedesti nulla: ma la mattina dopo ti svegliasti presto, col sole che entrava nella tua cameretta imbiancata a calce. Ti ritrovasti in un letto col materasso di piume, che aveva una sofficità solida e setosa, totalmente nuova. Tutto era strano ma bello. Ti sei vestita, cercando di fare meno rumore possibile hai aperto il paletto cigolante e sei uscita, perché non vedevi l’ora di visitare l’isola. La casa era in un punto panoramico: la visuale era completa. Un’isola rocciosa, ricca di torba verde – somigliava al turchino della tua tavolozza, mi hai detto –, di ginestroni e strisce sinuose di fiori colorati. In vita tua non avevi mai visto campi interi coltivati a fiori. Il cielo era azzurro e il mare calmo o agitato a seconda del profilo della costa, che era fatto di scogliere e di spiaggette di sabbia brillante, a forma di conchiglia. Strade non ce ne erano e questo restituiva uno straordinario senso di libertà ma non di solitudine, perché c’erano diversi gruppetti di case dai cui comignoli uscivano vene argentee di fumo. Camminasti senza meta su per la collina, fino ad arrivare a un roccione liscio con una cavità in cima, piena di acqua color dell’ardesia. Ti sei seduta lì accanto...». Una breve pausa. «Aspetta un attimo... Sì, hai poggiato i palmi sulla roccia. Non eri mai uscita dall’Inghilterra prima di allora, e adesso eri su quest’isola che era stata lì per tutto il tempo della tua vita – che ti sembrava un bel po’ di tempo –, piantata nel mare, sotto il sole. E tu lo avevi saputo solo ora. L’aria odorava di sale e di miele. La piccola pozza d’acqua tremolava sotto un vento invisibile e tu dentro di te cantavi come se avessi tante voci. Guardasti nella pozza d’acqua che ora rifletteva la tua faccia, e ti sentisti così nuova su quell’isola che decidesti di battezzarti. Dicesti il tuo nome a voce alta e ti bagnasti la fronte col dito. L’acqua era più delicata e più fredda della neve. Più tardi, quello stesso giorno, uscisti con la tata e arrivaste a una roccia molto simile, con una pozza in mezzo ma quasi del tutto asciutta, e la tata ti disse che quelle rocce erano le prime propaggini dell’isola a ricevere la luce del sole al mattino, e che quei bacili naturali erano stati usati a lungo per i sacrifici. Non le dicesti nulla della tua roccia e non lo hai mai raccontato a nessuno, finché non lo hai raccontato a me». È rimasto qualche secondo in silenzio, poi sempre col tono di chi narra una favola ha aggiunto: «Lo vedi? Mi ricordo benissimo di quando me lo hai raccontato. Pensai che volessi condividere con me questa storia. Ma forse è stato solo un caso».
«L’hai custodita benissimo». Ed era vero. Quella mattina, a cui non pensavo da anni, mi si era risvegliata nella memoria nel suo linguaggio autentico, fresco e intatto, proprio come quando gliene avevo parlato e proprio come quando l’avevo vissuta. Il taxi si è fermato ed Em ha detto: «Siamo arrivati. Tu sei arrivata, mia cara?». Prima che potessi replicare, il portiere è venuto ad aprire lo sportello.
«L’ha letta, la targa sulla gabbia, no? Allora io gli ho dato le quattro banane, e lui che fa? Se le mangia. Le sbuccia con aria stanca, come se avesse altro per la testa, e poi le fa sparire in un attimo, mi dà le bucce e ricomincia a guardarmi in quel modo, come fossi un bruto. Quell’animale ha un potere su di me!».
Em ha pagato il taxi e poi mi ha preso sottobraccio. Il portiere ci ha accompagnati in ascensore e mi ha chiesto se volevo una scimmia. Em mi ha dato un pizzicotto rispondendo al posto mio: «Mia moglie è allergica alle scimmie».
«Le adoro», ho aggiunto. «Ma mi fanno venire l’eritema. Scimmie e aragoste».
Il portiere ha detto di lasciar perdere, aveva ancora ventitré appartamenti da chiamare.
In ascensore Em mi ha spiegato: «È un folle scatenato. In effetti gli è rimasta sul groppone questa scimmia, che a quanto pare non è di nessuno qui nel palazzo e che, come vedi, gli sta dando del filo da torcere».
Mi sembra di aver sorriso, ma avevo addosso tutta la pace che era riuscito a trasmettermi nel taxi, una pace tale che gli avrei sorriso qualunque cosa avesse detto. Adesso stava parlando di qualcos’altro.
«...dalle dieci del mattino. Perché la casa fosse pronta per il tuo arrivo. Dille qualcosa di gentile, vuoi?».
Allora mi sono ricordata che non saremmo stati soli e ho dovuto fare ricorso alla mia preziosa pace per riuscire a dire: «Certamente». Almeno però avevo la pace per riuscire a dirlo.
3
Alberta
New York
Caro zio Vin,
rispondo subito alla tua lettera, perché sento che sei in pensiero e perché il motivo delle tue preoccupazioni mi addolora. Tu mi hai detto tante volte che nel mondo del teatro circolano molti pettegolezzi, e che se la gente se ne curasse meno vivrebbe più felice. Ho trascorso una settimana da sola con Mr Joyce – la signora è arrivata questa sera – e credo che nessuno avrebbe potuto essere più gentile, premuroso e corretto. Le cose che mi racconti mi sembrano incredibili. Lasciando da parte il suo comportamento con me, mi pare che tu dimentichi che è sposato, e dalla premura che si è dato oggi è evidente quanto ami Mrs Joyce. Mentre io pulivo l’appartamento, quello in cui staremo tutti quanti, è uscito a comprarle i fiori, lo champagne e una scatola di una cosa che si chiamano marrons glacés (sono castagne glassate) e che lei ha divorato non appena è arrivata, perché sono i suoi dolci preferiti. È andato a prenderla di persona e quando sono arrivati sembravano tanto felici, come se avessero appena vinto qualcosa! Ti faccio notare anche, zio Vin, che ha sessantuno anni e potrebbe benissimo essere mio padre. E, se non avessi Papà, vorrei che lo fosse. Spero ti sia chiaro che io lo rispetto profondamente, ecco perché mi dispiace che tu creda a queste bruttissime dicerie sul suo conto. Per quanto mi riguarda, non sono mai stata innamorata e non so immaginare cosa voglia dire, ma so di sicuro che certi volgari intrallazzi non c’entrano niente con l’amore e che nulla può cominciare senza l’assenso di tutte e due le persone coinvolte. Credo di aver capito con precisione cosa intendesse Papà quando mi ha detto: «Non importa quello che fai, l’importante è che tu ne sia sempre pienamente consapevole». E come potrei mai, ammesso che una cosa del genere gli sia passata per la testa, cosa che tendo a escludere con sicurezza, incoraggiarlo a dare un dispiacere simile a Mrs Joyce, che già poverina non sta bene e le sono capitate tante brutte cose? Se lo facessi, sarei proprio il contrario di ciò che Papà vorrebbe, ti pare? Non sarebbe un gesto gravemente irresponsabile, oltre che stupido? Scusami se uso termini così forti, ma mi fa arrabbiare che una così brava persona debba subire certi pettegolezzi, anche se mi rendo conto che questo è inevitabile quando si è famosi. Il divario fra ciò che sento dire e la mia esperienza è davvero enorme. Perciò, zio Vin, se dovesse capitarti di nuovo di sentire certe chiacchiere, tu di’ che non è vero niente e che lo sai da fonti affidabili.
Ho appena riletto ciò che ho scritto, per controllare che rifletta ciò che penso, e mi sono accorta di non averti nemmeno detto grazie per esserti preoccupato per me, perché è chiaro che di questo si tratta. Per favore non turbare Papà raccontandogli queste cose. Sto scrivendo sotto le coperte: gli altri sono usciti tutti per cena, incluso Jimmy Sullivan, che ha dovuto aspettare il controllo bagagli alla dogana ed è arrivato alle otto e mezza passate. Mi hanno chiesto se volevo andare con loro e io ho detto di no, perché ho pensato che alla signora sarebbe piaciuto stare un po’ sola col marito, ma alla fine Jimmy ha accettato l’invito perciò il mio gesto non ha fatto nessuna differenza. È un appartamento magnifico e in camera mia ci sono così tanti armadi che i miei vestiti si perdono! Invece Mrs Joyce ha due bauli enormi pieni di roba, oltre alle valigie. È davvero elegante, ma in un modo particolare: si sente che lo è nel profondo e non solo perché qualche volta le riesce. Domani l’aiuterò a mettere a posto tutto. Infine, in modo che tu ti tranquillizzi del tutto a questo riguardo, ti informo che non sono sola in questa stanza, ma la divido con un nuovo inquilino, una scimmietta dall’aria truce. È arrivata in ascensore con Jimmy, non ho ben capito come, e continua a guardarmi tutta triste. Le ho dato dell’uva e lei l’ha mangiata come se mi stesse facendo un gran favore, sputandosi i semi alle spalle. Adesso è lì che si annoia a morte e si è seduta col peso tutto su un fianco, sembra in posa. Jimmy dice che ha solo bisogno di compagnia, ed è evidente che io non sono all’altezza. È la dimostrazione vivente di come gli agi materiali non bastino, il che è interessante perché molte persone lo danno a vedere assai meno. Mrs Joyce ha voluto liberarla per un po’, in soggiorno. Ha rotto una lampada, rovinato tre composizioni floreali, strappato qualche tenda e lasciato disgustose tracce del suo passaggio in quattro punti diversi; il tutto nel giro di pochi minuti, dopodiché si è arrampicata su per una tenda e non ti dico quel che c’è voluto per tirarla giù. Allora Mrs Joyce ha ammesso che è meglio tenerla nella gabbia. È un peccato che le scimmie non sappiano leggere, perché sembrano in grado di farlo più di molte persone. Ti saluto con tanto affetto, zio Vin, e per favore non preoccuparti per me: ti prometto che se mi ammalerò o avrò problemi di qualunque genere, te lo farò sapere.
Sarah
4
Jimmy
A ripensarci ora, a una settimana dal nostro arrivo, mi rendo conto che non c’è stato un momento preciso in cui questa folle decisione è maturata. In effetti non saprei dire nemmeno chi di preciso abbia avuto l’idea, ma so per certo che all’inizio non sarebbe venuto in mente a nessuno di noi. Ho avuto la possibilità di parlare con Emmanuel solo la mattina dopo il nostro arrivo, perché la prima serata è stata dedicata interamente a Lillian, e per qualche ragione quando parliamo di teatro in sua presenza non ne viene mai niente di buono. Era così emozionata di vedere Emmanuel che ho avuto paura che le venisse un attacco e questo timore mi è rimasto addosso per tutta la sera. Era davvero luminosa, e non si trattava di euforia alcolica ma di autentica allegria, che ha contagiato anche Emmanuel. Sembrava un altro uomo rispetto a Londra: meno stanco e nervoso, quasi sereno. Forse è riuscito a scrivere, ho pensato, ma non ho detto nulla, e quando invece Lillian glielo ha chiesto e lui ha risposto di sì, ho capito con certezza che mentiva. Perciò non si tratta di questo. Almeno però sembra si sia lasciato alle spalle la brutta storia con Gloria: temevo che ce la saremmo portata dietro per settimane. La ragazza nuova – quest’aggettivo le si addice alla perfezione – se la sta cavando bene, a quanto pare. Emmanuel ha rispettato gli appuntamenti, non si è ubriacato e non ha pestato i piedi a nessuno. È riuscito a prendere possesso dell’appartamento ed è arrivato al porto in tempo, ed erano anni che non lo vedevo così in pace con Lillian.
Dopo cena ho fatto una passeggiata per conto mio; i Joyce volevano andare a casa e io avevo voglia di camminare per quelle strade, rivedere la città coi miei occhi di adesso. Era tardi per andare a teatro e ho vagato un po’ in cerca di un cinema, domandandomi come mai ogni volta che vengo qui ho questa reazione emotiva. Insomma, sono andato e tornato tante volte, non dovrebbe più farmi questo effetto. In Inghilterra non ho problemi: mi considero uno straniero, uno in viaggio. E ancora di più in Francia. Quando devo venire qui, invece, dapprima non vedo l’ora e poi, una volta arrivato, mi prende una sorta di dispetto, di rancore per il fatto che non mi sento per niente a casa. Lo vorrei tanto, ma mancano troppe cose, cose fondamentali. Dalla casa in cui non sono nato mi scrivono due volte l’anno: mi chiedono notizie di me che preferirei non fornire e mi raccontano gli affari loro, che non mi interessano. Mi sono fermato a bere un bicchiere in un locale sulla strada verso casa e ho cercato di scacciare il fastidio di non aver potuto parlare a quattr’occhi con Emmanuel, che era poi tutto quello che desideravo. Cosa mi diceva Annie, a Londra? La Figura Paterna, certo... che sono ossessionato da lui, che ho un transfert, mi pare abbia detto (doveva sfoggiare di aver letto Freud), e che per questo non riesco ad avere una relazione soddisfacente con una donna. La faccenda è molto più semplice: una relazione per me è una via di mezzo squallida e non necessaria. Meglio allora andare a letto insieme una volta e poi non rivedersi mai più, oppure innamorarsi. Ho ordinato altro scotch e ho cercato di immaginare di che tipo di ragazza mi potrei innamorare. Snella ma non troppo alta, con bei capelli e una voce profonda. Di animo gentile e disposta ad affidarsi a me: una persona a cui mostrare il mondo e che mi mostri se stessa. Mi sono guardato intorno immaginando una sua improvvisa apparizione: forse in un certo senso la sto aspettando davvero. Allora mi è venuta in mente quella canzone che hanno inserito nel musical tratto dalla commedia di Em, Io e te abbiamo un appuntamento col destino, e quella che volevano mettere come finale del primo atto, Il luogo, il momento e la persona che ami. Emmanuel ha detto che sono molto belle e che avranno un grande successo. Comunque non si è fatta viva, la mia ragazza, chiunque sia. E non ha senso cercarla: io sto bene così e non ho bisogno di nessuno. Di una cosa però sono certo: basterebbe che entrasse nel locale, in questo o in qualsiasi altro, e io la riconoscerei subito, saprei subito che è lei. È un po’ come trovare l’attrice giusta per una parte: quel che faremo Em e io a partire da domani...
Per prima cosa, usciti da casa, siamo andati al solito drugstore che scegliamo sempre quando vogliamo pensare ad alta voce senza essere interrotti. Nulla di strano, a parte il fatto che è sempre lo stesso locale. Abbiamo preso il caffè e un pacchetto di Lucky, ci siamo seduti e ci siamo guardati in faccia. È stato Em a cominciare, stavolta: «Allora, Jimmy, è complicato proprio come credevamo. Nessuna di quelle a cui avevamo pensato è disponibile. Ce ne sono almeno sei che secondo alcuni sono pronte a un ruolo da protagonista, ma ne ho viste quattro e non vanno bene... E poi le solite perdite di tempo: agenti che vogliono dare alle attrici l’impressione di lavorare per loro o che vogliono far fare loro l’esperienza di un’audizione».
«Con Alex hai parlato?».
Emmanuel ha sorriso. «Non c’è stato bisogno di cercarlo. È venuto lui, senza perdere tempo, all’ufficio di George insieme a quella di cui parla come la sua più sensazionale scoperta degli ultimi anni».
«E com’è?».
«A vederla, una bomba. Ma poi sono venuti fuori due piccoli inconvenienti. Non parla una parola di inglese e non ha mai recitato, nemmeno nella sua lingua».
«Doveva essere un vero schianto».
«Diciamo che era difficile guardarla troppo a lungo», ha replicato Emmanuel senza grande trasporto.
«E Mick cosa dice?».
«Oh, lui capisce la situazione, ma dice che non posso aver scritto una commedia con una ragazza che non esiste. Sta cominciando a vederlo come un affronto verso l’America, il fatto che io non trovi un’attrice. Dice che ha un agente nuovo sulla costa che troverà la persona adatta, se gli diamo tempo. Il fatto, Jimmy, è che io vorrei un’attrice vera, una professionista che conosca il proprio lavoro e lo faccia con dedizione. Ma se tra queste non ce n’è una adatta – ed essendo Louise e Katie fuori dai giochi mi pare sia questa la situazione – allora credo che dovremo allargare la ricerca. Non mi interessano modelle, squillo o comparse. Preferirei prendere direttamente dalla strada la ragazza che abbia l’aspetto giusto e a cui tu possa insegnare a recitare».
«Sì, ma dobbiamo cominciare in autunno e non è facile insegnare tutto quello che c’è da sapere in tre mesi». Ci ho pensato su qualche secondo e poi ho aggiunto: «A meno che non si sia di fronte a un talento naturale».
Mi ha guardato beffardo, con quelle sue palpebre pesanti. «E allora, caro Jimmy, è questo che dobbiamo cercare, un talento naturale».
Mi sono alzato per pagare il conto, guardandomi bene dal contraddirlo.
Questa è stata la prima conversazione sull’argomento.
Il resto della mattina l’abbiamo passato a provinare le due ragazze mandate da George, le ultime. La prima ha recitato tutta la scena. Era troppo alta e con un viso che Emmanuel trovava malinconico, ma aveva una bella voce, piena di sfumature. Poi siamo arrivati al punto in cui lei fa il giro del palco togliendo i quadri dal muro, ed Em ha commentato: «C’è un uccello che cammina in quel modo... un uccello di grandi dimensioni». E mi ha invitato a prendere un bel secchiello di sabbia pulita dove farle ficcare la testa. Se ne è andata ringraziandomi.
Mick era lì con noi e vedevo bene quanto la situazione gli logorasse i nervi. Nessuno vorrebbe mai trovarsi alla ricerca dell’attore impossibile, Mick poi è uno a cui piace risolvere i problemi in un batter d’occhio per riscuotere l’applauso; se la gente avesse uno slogan pubblicitario, il suo sarebbe: “Ecco qua, problema risolto prima ancora che tu abbia finito di esporlo!”. C’è stata una pausa dopo l’esibizione della prima ragazza, perché la seconda non si è presentata. L’attore che si era prestato come spalla si è acceso una sigaretta, poi ha messo in fila tre sedie e si è steso a dormire. Siamo stati raggiunti da Mick, che voleva discutere con me alcuni dettagli finanziari, mentre Em fissava un punto dell’arco del proscenio dove le assi di legno erano scoperte, e non capivo cosa gli passasse per la testa, a parte il fatto che non stava ascoltando.
Mick è figlio di immigrati polacchi e credo che dentro di sé pensi ancora in quella lingua. Ha una testa che sembra un proiettile, i capelli a spazzola e un sorriso allegro; gli piace avere il consenso degli altri, ma questo gli costa una tale veemenza nel compiacerli e lusingarli che alla lunga la sua compagnia risulta snervante. Se uno non è d’accordo con lui si rabbuia e, visti gli sforzi che compie in quella direzione, alla fine l’interlocutore arriva a sentirsi in colpa perfino per la profonda ferita che gli deriva dal non aver mai visitato la Polonia. È bravo a risolvere i problemi se sono problemi che si risolvono in fretta, e l’azienda per cui lavora è persuasa che ogni cosa può essere decisa alla svelta, se si affida la decisione all’uomo giusto. Come quasi tutti nel nostro ambiente, a Mick non va giù che Em abbia tanta voce in capitolo sulle sue commedie. Il fatto che ce l’abbia per indiscusso merito e competenza gli dà ancor più sui nervi. Mick sa bene che i drammaturghi bravi e prolifici non crescono sugli alberi, ma oggi ha deciso di scalpitare un po’. Emmanuel, dopo aver pazientato per un certo lasso di tempo, ha smesso di guardare il proscenio e mi ha detto a voce bassa, ma chiara e udibile: «Jimmy, portalo via e parlaci. Mi distrae da una cosa importante».
«Mick?».
«Sì. Poi te ne parlo, naturalmente. Forza».
Siamo andati nel piccolo ambiente che usa come ufficio, e ha aperto le dighe. Sono quindici anni che lavora in questo settore. Ne ha conosciuta di gente difficile: li ha elencati ed erano praticamente tutti gli autori in circolazione. Ma tutti questi problemi non li aveva mai avuti prima d’ora! La commedia l’ha letta, è fantastica, ma è possibile che non ci sia una ragazza che incontri il gusto di Mr Joyce? Cosa può esserci ancora al mondo che lui, Mick, non ci abbia già proposto? Non vuole discutere sulla qualità e lo dice lui per primo che Mr Joyce è un genio e che anch’io sono un genio, certo, ma esisterà pure un’attrice geniale anche lei che possa fare questa dannata parte in questa maledetta commedia, o no? Oppure dobbiamo inchinarci tutti davanti a Mr Joyce come se avesse scritto la Bibbia e solo Sarah Bernhardt potesse interpretarla? Ha già perso un mucchio di tempo con Mr Joyce e anche se sarebbe ben felice, anzi entusiasta, di continuare a deliziare il grande drammaturgo facendogli sfilare davanti agli occhi una bella ragazza dopo l’altra, se solo questo servisse a dare una spallata al suo delirio di onnipotenza, lui lo farebbe, ma c’è una cosa che il grande genio non sta tenendo in considerazione, ovvero che il suo tempo, il tempo di Mick, è denaro! Sentirlo dire dalla propria voce pare gli abbia dato una specie di scossa, e si è fermato a prendere fiato. Poi ha detto che una curiosità gliela dovevo togliere: come avevamo fatto a trovare un’attrice, a Londra, che incontrasse i favori di Mr Joyce?
«Non l’abbiamo trovata nemmeno lì», gli ho detto. «La ragazza che volevamo si è ammalata e abbiamo dovuto ripiegare su un’altra che ha sconvolto completamente gli equilibri del testo. Ecco perché ci tiene tanto a trovare la persona giusta almeno qui. Sa quello che vuole e ha ragione».
«Certo, con un solo piccolo dettaglio che varrebbe la pena evidenziare. E cioè che questa persona non esiste».
«Ma smettila! Ci stai lavorando da appena una settimana».
«Una settimana!». Mi ha guardato come se fosse sul punto di scoppiare. «Deve essere quello che ti ha raccontato lui! Te lo dico io come stanno le cose. Finirà per scegliere una ragazzetta insignificante senza alcuna attrattiva e senza alcuna possibilità di piacere al pubblico e fare botteghino. A me toccherà cercare di venderla all’MCA, raccontando che è spirituale, che Mr Joyce l’ha fortemente voluta, che piace a tutti, una ragazzina qualunque venuta da chissà dove... e secondo te se la berranno? Sai cosa mi diranno di dirti perché tu lo dica a Mr Joyce, cosa possiamo farcene di quella lì? Dopodiché il “vissero tutti felici e contenti” se lo godrà per cinque minuti al massimo, perché poi quelli si ritirano e lui resta con la commedia e la ragazza sul groppone...».
«Mick, adesso mi stai stancando». Era vero. Sentivo quel pizzicore alla base del collo di quando i nervi stanno per saltare. «Joyce troverà sempre chi vuol produrre le sue commedie. Non montarti la testa e fai il tuo lavoro, dammi retta».
Sono venuti a chiamarci annunciando che era arrivata Miss Harper. Gli ho dato una pacca sulla schiena, più forte che potevo, e lui per poco non è caduto addosso a uno schedario metallico. Allora gli ho sorriso. «Magari questa è quella buona».
Non lo era, naturalmente. Era una bella ragazza, ma insignificante: una come tante che non sapeva quel che stava facendo, aveva solo un bel faccino.
Dopo c’è stato un pranzo piuttosto teso con Mick e George. Ognuno ha dichiarato di capire le ragioni dell’altro e di fidarsi ciecamente della sua competenza. George ha incaricato Mick di elaborare dei test per fare una scrematura prima che le ragazze arrivino a noi; Mick ha superato la sua crisi con un inquietante cambiamento di umore e non la finiva più di congratularsi. Io intanto guardavo Emmanuel fissare il proprio piatto senza assaggiare niente e mi sembrava di vedere i cerchi intorno ai suoi occhi scurirsi. Non crederanno mica davvero che qui si tratti di una dimostrazione di potere? Sta cercando di completare come si deve un buon lavoro, tutto qui. Mentre bevevamo il caffè, c’è stata una telefonata per lui. Sono andato io a rispondere ed era Alberta con un messaggio da parte di Lillian: aveva accettato un invito a cena per tutti noi dai Westinghouse, perciò ci pregava di rientrare entro le sette. Ho chiesto ad Alberta se Lillian era in casa e mi ha detto di no, era andata a pranzo con una principessa russa, grande esperta di erbe. Ergo, toccava andare dai Westinghouse. Poi Alberta ha detto che le dispiaceva se la cosa mi esasperava tanto. E ha riattaccato. Ha una bella voce, quella ragazza, ma spesso la usa per dire cose bizzarre. Ho riferito a Emmanuel dell’invito e lui ha socchiuso gli occhi, poi ha detto di punto in bianco: «Ha proprio una bella voce, quella ragazza». Gli altri hanno drizzato subito le antenne. «Chi?», e quando lui ha detto che stava parlando della sua segretaria hanno subito perso interesse.
Dopo pranzo Emmanuel ha detto: «Non ne posso più. Ho bisogno di dormire un po’. Dove posso andare?».
Lo ha detto solo a me, a bassa voce, per cui ho capito che voleva liberarsi di George. Poi si è alzato, ha fatto un cenno educato a Mick e George ed è uscito. Non mi sono dato pena del conto e gli sono corso dietro. «Potrebbe finire in ospedale», ho detto agli altri a mo’ di scusa. Mick ha fatto un sorriso furbo. «O chissà dove», ha aggiunto George. Ho preso i cappotti e l’ho raggiunto. Non si era allontanato che di pochi metri. «Lillian è fuori», gli ho detto.
Mi ha guardato senza espressione. «Andiamo a casa».
In taxi mi ha detto: «Adesso so cos’è che non va in Clemency. E sai chi me l’ha detto? Quella ragazza».
«Quale ragazza?».
«La segretaria». Aveva ancora quella faccia senza espressione.
E dopo un po’: «Ho una gran voglia di mandare tutto all’aria».
«Fermare la produzione?».
«Fermare qualunque produzione».
«Perché?».
Allora mi ha guardato e ha sorriso senza un motivo apparente. «È così e basta, Jimmy. Una ragione c’è di sicuro. Anche se io non so quale sia». Ha sbadigliato. «Ma andiamo avanti».
Non gli ho risposto. Riconosco l’inizio della depressione di Em: ha sempre sonno, assesta piccole, oblique, diaboliche coltellate a qualsiasi progetto, si ritira in anfratti in cui è impossibile raggiungerlo. Però sapevo di dover fare qualcosa, e mi sono ripromesso di chiamare Katie per vedere se è possibile avere la sua partecipazione.
Arrivati all’appartamento, ha aspettato che trovassi la chiave e aprissi, e all’istante è comparsa Alberta dal soggiorno. Emmanuel l’ha raggiunta con decisione e le ha preso un braccio. «Voglio che tu faccia una cosa per me. Puoi rispondere tu al telefono, Jimmy? Ecco, andiamo». L’ha spinta con delicatezza in cucina e poi si è voltato verso di me. «Se arriva Lillian, non farla entrare. Sto facendo un esperimento».
Ho annuito e sono tornato in soggiorno. Dopo un minuto è entrata Alberta, ha preso qualcosa dal tavolo ed è andata via. Ho chiuso la porta e ho composto il numero di Katie, in California. Erano le tre e mezzo. Mentre aspettavo la linea, ho fatto un elenco mentale delle altre persone che avrei potuto chiamare e intanto mi chiedevo cosa può aver detto quella ragazzina per sconvolgerlo tanto riguardo al personaggio di Clemency. Di qualunque cosa si trattasse, di certo non lo aveva detto a quello scopo. Quel tipo di critiche, fatte con acrimonia, non lo tocca minimamente. Ma cose del genere sono già capitate: qualcuno, qualcosa, stravolge senza volere la sua visione di un lavoro già finito, e allora bisogna fare i salti mortali perché tutto torni di suo gusto. A volte non si riesce e sono i momenti peggiori. Quelli in cui mi guadagno davvero il salario. Perdite finanziarie, liti irrimediabili. Allora diventa una questione di lealtà, di partito preso, e posso dire di sapere bene qual è il prezzo da pagare per credere in una persona. Non solo ho dovuto sopportare che lo definissero uno stupido, un perfezionista con manie di grandezza, un arricchito che non si preoccupa della sicurezza di chi lavora in teatro, un sadico che usa il suo potere per punire il produttore o l’attore che sono usciti dalle sue grazie, ma ho dovuto sopportare anche che lui fosse d’accordo. «Perché no?», gli ho sentito dire in qualche occasione. «Che io sia stato uno stupido è fuor di dubbio. È una parola molto versatile. Si presta a tutti gli usi. Loro a ragione si preoccupano delle conseguenze della mia stupidità mentre io, troppo tardi, mi concentro sulle cause. Uno stupido è uno che non sa stare fermo ma che non può essere ritenuto responsabile per le sue azioni. Io sono uno stupido».
Ma fortunatamente non siamo ancora arrivati a questi estremi.
Sono riuscito a mettermi in contatto con Katie. Le sono bastati due minuti per convincermi che non poteva in nessun modo aiutarci, dopodiché si è lanciata in un’appassionata rassegna delle varie faccende che glielo impediscono. I produttori l’hanno sospesa qualche settimana fa: aveva in ballo due grossi film, stava facendo causa al secondo marito per mancato pagamento degli alimenti e in più non poteva allontanarsi dal suo ipnotista, che stava cercando di liberarla dalla dipendenza dai sonniferi. Ho ascoltato il cinguettio della sua bella voce per diciotto minuti. Nemmeno a Las Vegas può andare, mi ha spiegato, per colpa della casa di produzione e Dio solo sa quanto le servono i soldi, la vita diventa molto dispendiosa quando hai diversi avvocati e un ipnotista che, per quanto tenti, non riesce a liberarti dalla dipendenza dai sonniferi, perciò doveva stare attenta a non farsi sospendere un’altra volta, magari in via definitiva. Ci siamo scambiati qualche vaga informazione sulle rispettive vite interiori e ci siamo salutati. Del resto è un’attrice, rientra tutto nel personaggio. Come ho potuto pensare anche solo per un momento che andasse bene per il ruolo di Clemency? Ero sul punto di chiamare un paio di ragazze che mi erano piaciute, quando ho sentito la voce di Lillian e ho messo giù il ricevitore. Stava già entrando e non era sola.
«Ciao, Jimmy, ti presento la principessa Murmansk... ma vi eravate già visti, vero, Della?».
«Ma sì, certo. Come sta?».
La principessa, di cui non mi ricordavo affatto, aveva un marcato accento di New Orleans, dove di certo possedeva una vasta tenuta, e superava il metro e ottanta di statura.
«La principessa mi stava spiegando come con le erbe si possa fare praticamente tutto».
La principessa ha sorriso esibendo un numero impressionante di denti in buona salute. Ci vorrebbe un obiettivo grandangolare per renderle giustizia. Si sono scambiate le sigarette alle erbe e abbiamo preso posto.
«Sembri un’anima in pena, Jimmy. Em dov’è?».
«Di là in cucina».
«E che sta facendo?».
«Sta lavorando, con Alberta».
«E perché in cucina? Perché non qui?».
«Non voleva essere interrotto».
«Ma cosa sta facendo?».
«Ne so quanto te. Roba di lavoro».
Lillian ha fatto una risatina nervosa.
«Che strano! Be’, Della non vedeva l’ora di conoscerlo, e siamo venute qui per preparare una delle sue eccezionali tisane».
«Mi ha chiesto esplicitamente di prendere le chiamate e di fare in modo che non ci siano interruzioni», ho detto. Mi sono reso conto allora che entrambi ci eravamo alzati in piedi, d’istinto. Mi sono sforzato di sorridere. «Poi non dire che non ti ho avvisata».
È andata in quella direzione senza dire altro. La principessa ha allungato sul tappeto le sue lunghissime gambe e ha detto: «Le viene istintivo proteggere il grand’uomo?».
«Può succedere, sì».
Lillian è tornata indietro seguita da Emmanuel: quando l’ho guardato, avrei fatto qualunque cosa per essere da un’altra parte. Lillian ha detto: «Ho chiesto alla segretaria di mettere su dell’acqua, ma bisogna che sia tu a indicare il procedimento, Della. Mio marito... la principessa Murmansk».
«Che piacere conoscerla!». Ha teso la mano ed Emmanuel gliel’ha stretta.
«Spero di non aver interrotto un momento di ispirazione».
«Non ho la fortuna di averne. E se ne avessi, né lei né nessun altro riuscirebbe a disturbarmi».
«Em, non essere scortese».
«Non è scortese. è una fantasia».
Non ce l’ho fatta. Sono andato in cucina a vedere come se la cavava Alberta con il tè. Sembrava accaldata, e appena sono entrato mi ha subito sorriso come se così le fosse più facile trattenere le lacrime.
«Posso aiutarti?». Stava sistemando le tazze su un vassoio.
«Devo solo aspettare che l’acqua bolla. Grazie, Jimmy». Mi sono reso conto che doveva essere appena entrata in contatto con l’aspetto più duro di una situazione di cui non poteva avere idea. Ha lanciato un’occhiata alle due sedie su cui probabilmente si erano seduti lei e Em, e si è ravviata i capelli.
«Ti ha fatto lavorare duramente?».
Aveva l’aria completamente smarrita. «Non lo chiamerei proprio lavorare. Mi ha chiesto di leggere per lui. Voleva sentire una cosa».
«Sì, a volte lo fa. E l’ha trovata, quella cosa?».
«In parte. Credo di sì. Non l’ho chiesto, ovviamente». Ha riflettuto un istante prima di dire: «Mrs Joyce era in collera quando è entrata, e poi si è arrabbiato anche lui». Parlava a voce bassissima. «Non capisco».
«Lui non ti ha detto niente, vero?».
«No, ma questo non mi è molto d’aiuto. Posso chiederti una cosa, Jimmy?».
«Di’ pure».
«Per chi lavoro io?».
«Lavori per lui, il che a volte significa lavorare anche per lei. Altre volte no».
«Non c’è nulla in particolare che io non voglia fare, è solo che se uno dei due mi chiede di fare qualcosa che non piace all’altro...».
«Come questo?», le ho chiesto indicando il vassoio del tè. Ha annuito.
«Non pensarci. Ascoltami: non sono persone semplici, e nemmeno immacolate. I problemi capitano. Non farti coinvolgere, alla fine si sistema tutto. Qualunque cosa accada, tu non farne un dramma, capito?».
«Capito», ha detto lei dopo aver ascoltato attentamente. «Grazie, Jimmy. Ti sembreranno problemi stupidi, ma io non ne so molto di coppie sposate».
«I tuoi genitori?».
«Mia madre è morta che avevo nove anni. L’acqua bolle. Cosa dici, la porto di là così?».
«Vado a vedere cosa vuole sua maestà».
Quando sono entrato in soggiorno, la tensione si tagliava con il coltello. Ho detto: «Alberta vorrebbe sapere come deve servire l’acqua».
«Dille di portarla qui sul vassoio».
Insomma, abbiamo bevuto il tè, se così vogliamo definire la nauseante brodaglia amara che ci ha propinato quella donna. Lillian chiacchierava e la principessa rispondeva a domande sulla sua casa di riposo in cui ci si cura con le erbe; Emmanuel sedeva taciturno, assorto, poi di colpo si è alzato, ha sorriso cerimoniosamente alla moglie e ha annunciato che doveva andare via.
«Caro, non puoi andartene adesso. I Westinghouse?».
«Digli che arriverò un po’ in ritardo». Ed è uscito.
Lillian mi ha guardato esterrefatta. «Jimmy, spiegagli che la festa è in suo onore. Non può arrivare in ritardo». Mentre uscivo, l’ho sentita dire: «Fa sempre così, quando lavora a una nuova commedia. Spero che tu possa capirlo e perdonarlo».
Ho raggiunto Emmanuel che aspettava l’ascensore. Senza guardarmi ha detto: «Non si può stare con quella donna al chiuso. È troppo alta».
Siamo saliti entrambi in ascensore. «Avrei dovuto impedirlo», ho detto.
Ha sorriso debolmente. «Avrei dovuto evitarlo io». Ha scrollato le spalle. «Be’, ormai è fatta. E l’unica cosa che rimetterebbe tutto a posto non riesco a farla».
Non ho detto niente.
«L’ho fatto ieri sera. Ci vuole un’energia che non si può mantenere a lungo. Non si può e non si dovrebbe. Ho altro da fare».
«Intendi andarci, a questa festa?», gli ho chiesto disperato. Non avrei voluto domandarglielo, ma non avevo scelta.
«Portacela tu. Io, se non vengo, farò una telefonata. Te lo prometto».
Ho scritto il numero su un pezzo di carta e gliel’ho dato. «Ho perso il controllo. È come ubriacarsi: sai che quella roba ti avvelena ma non smetti. Libertà! Se ne parla tanto e nessuno sa cosa voglia dire».
L’ascensore aveva raggiunto il piano terra già da qualche secondo e di colpo è ripartito verso l’alto. Em si è fatto una risata.
«Hai visto, Jimmy? È proprio così. Non facciamo altro che andare su e giù, senza il minimo controllo. Quando ci sarà una tregua? C’è una cosa anche piccola che possiamo fare?».
Ha allargato le mani, tremavano: piccole mani nervose, con grosse macchie sui dorsi. «Lo vedi? Un gatto ha più controllo di me».
«I gatti ne hanno, di controllo», ho detto.
L’ascensore si è fermato ed è salita una coppia, due facce che sembravano di legno. I loro sguardi si sono posati come uno solo su di noi, sulle pareti e sul pavimento della cabina. Pareva sapessero evitare solo di guardarsi l’un l’altro. Ho premuto il bottone del nostro piano e ho detto: «Bene, le porterò io alla festa, e spero di vederti arrivare. Domani ti troverò un posto dove lavorare».
Mi ha guardato e il suo sguardo mi ha commosso. «Dio ti benedica, Jimmy».
Ho dato il messaggio a Lillian senza lasciar trasparire emozioni. Alberta, da brava ragazza, si era già ritirata in camera sua. Ma non avevo dubbi che Lillian si sarebbe liberata alla svelta della sua illustre amica e sarebbe venuta a darmi la caccia. E infatti.
«Che significa, Jimmy? Che vuol dire che chiamerà se non viene?».
«Non significa proprio niente. Sono le sue parole». Mi ero steso sul letto coi prodromi di un mal di testa, gli occhi serrati, ma lei ha chiuso la porta e ha detto: «Credi che non verrà? Perché se è così, devo avvertire i Westinghouse...».
«Ha detto che chiamerà. Fossi in te lascerei a lui la decisione».
«Se tu fossi al posto mio, di certo non l’avresti interrotto mentre “lavorava”. E se io fossi stata al posto tuo, nemmeno io mi sarei sognata di farlo».
«Questo è vero», ho ammesso in tono amabile. Cosa che l’ha resa ancora più pericolosa.
«Non trovi perlomeno strano il fatto che l’unica capace di interromperlo sia io?».
«Forse perché sei l’unica di cui gli interessi».
Questa non sapeva come prenderla. Così ha detto: «E comunque non stava lavorando. Stava solo ascoltando la ragazza che leggeva».
Non può essere davvero così stupida... l’ho scrutata attentamente e ho capito che in quel momento lo era. Ho deciso di fare un tentativo, uno solo e poi basta.
«Lillian, tesoro, stai prendendo un abbaglio. Se Emmanuel dice che non vuole essere disturbato, questo deve bastarci. Non decidiamo noi cosa è lavoro e cosa no. Lo decide solo lui. Oggi ha reagito in quel modo perché aveva qualcosa per la testa, ma vedrai che tornerà, se nel frattempo tu eviti di farne un dramma. Fagli questo favore, chiedigli scusa».
Mi ha guardato, e ho capito che le stavo chiedendo molto. «Ci penserò», ha detto con un grosso sforzo. Poi si è come riscossa e ha aggiunto: «Non ce l’ho con te per avermi parlato come fossi una bambina piccola: la faccenda è diventata una tempesta in un bicchiere d’acqua. Voglio essere fuori alle sette e un quarto».
«Alberta lo sa?».
«Dovrebbe. Le ho detto tutto stamattina».
A ogni modo non è finita qui. Sono andato ad avvertire Alberta. Era seduta sul letto e scriveva su un grosso quaderno. Ha annuito e ha continuato a scrivere. Mi sono chiesto di che si trattasse: forse un romanzo. Al giorno d’oggi le ragazzine scrivono romanzi così come una volta essiccavano fiori o confezionavano caramelle. Alle sette Em è rientrato. Alle otto siamo usciti, in un’atmosfera che di certo nessuno si era augurato. La festa era a un paio di isolati lungo Park Avenue e, a parte un commento di Lillian sul taxi che era molto sporco, nessuno ha aperto bocca.
I Westinghouse sono una coppia simpatica, sulla cinquantina, con un figlio nella finanza e vari altri figli grandi che di solito si presentano alle loro feste. Lui è un bell’uomo, sempre abbronzato, con un’aria di nobiltà che per qualche motivo non riesce a trasmettere a ciò che lo circonda. Il ritratto dell’eroismo teorico, ha detto una volta Emmanuel. Em comunque gli è affezionato, una volta sono persino andati a pesca insieme, un’iniziativa disastrosa in cui Em per poco non è annegato, poi si è ubriacato per la noia ed è rimasto così per più di due settimane. Debbie Westinghouse è una di quelle donne che si trovano solo da queste parti – un po’ bambola, un po’ bambina. Credo non abbia mai avuto un pensiero per la testa, e quindi nemmeno un pensiero cattivo. È frizzante e sciocchina, semplice e tenera, così pulita che si potrebbe mangiare dal suo corpo come fosse un piatto. Ama la famiglia, la casa è sempre piena di oggetti lasciati in giro dai nipotini. I libri ha saggiamente deciso di lasciarli agli altri. Piange con facilità ma non troppo a lungo e dice a tutti che Emmanuel è un genio, con la fiducia stupefatta di un bambino che parla della bravura di un mago. Van Westinghouse la tratta con molto riguardo, e sono certo che lei sappia come farlo sentire un uomo.
Avevano invitato una trentina di persone ansiose di conoscere Emmanuel, e infatti al nostro ingresso si sono voltati tutti. Subito Van Westinghouse è venuto a prendersi cura di Lillian – ha una galanteria tutta europea nei confronti delle mogli degli altri – mentre Emmanuel è stato inghiottito dalla folla e solo Alberta, povera ragazza, pareva un pesce fuor d’acqua: portava un vestito blu scuro che non era adatto a lei e nemmeno all’occasione, e aveva l’aria di rendersene conto. Ma non potevo aiutarla in nessun modo: eravamo già nel pieno della festa, impegnati in un fuoco di fila di rapide e paralizzanti presentazioni. Una sfilata di persone ben istruite, eleganti e di successo, che per qualche ragione mi facevano pensare a una mostra di macchine nuove fiammanti, veloci, ben equipaggiate, fornite di tutti i possibili accessori moderni: insonnia, contraccettivi, egalitarismo e paura. Emmanuel una volta mi ha detto che non esiste un argomento troppo futile per farsene un’opinione, che le opinioni sono la periferia degli scambi umani e che le feste come questa ne sono il regno incontrastato, e io ero proprio dell’umore per recepire e fissarmi in mente quel genere di frasi. Avevo già bevuto tre bicchieri e mi ero intrattenuto con tre invitati: Debbie Westinghouse che ammirava il romantico abito di Lillian, una giovane donna dall’aria appassionata che aveva scritto un libro intero sulla libertà emotiva e un signore più anziano, che mi era simpatico, appassionato di mobilia inglese. Di solito a queste feste mi trovo qualche bella ragazza con la quale almeno bere in compagnia, ma stavolta non mi sembrava il caso. Questo in parte per via di Alberta, verso la quale mi sentivo responsabile, e in parte per via di Emmanuel. Alberta rispondeva a domande sull’Inghilterra, compunta come una scolara durante l’interrogazione, mentre Emmanuel stava a sentire un giornalista che era tornato dall’India tre settimane prima e gli stava spiegando che la partenza degli inglesi rappresentava per gli indiani un’enorme opportunità. A che accidenti serve, poi, una festa, mi stavo domandando. Van Westinghouse aveva tirato fuori un’edizione economica delle commedie di Em, e Johnnie, suo figlio, è venuto a parlarne con me: tre volumi per cominciare, con tre drammi ciascuno. Le bozze erano pronte, ma stavano ancora cercando chi fosse disposto a scrivere una prefazione e... non c’era la possibilità di convincere Em a farlo? Non stasera, gli ho detto. E chi era la ragazza che avevamo portato? Era con me, per caso? Per qualche motivo l’interesse di Johnnie mi ha irritato: era chiaro che la trovava strana, e io ero d’accordo con lui. Gli ho spiegato come mai era con noi e Johnnie ha detto: «Va bene, va bene: era solo una domanda». Ha chiamato sua sorella Sally che era lì a pochi metri. Ci ha raggiunti sorridendo, così bella che solo a vederla mi sono sentito subito meglio. Adesso fa la modella ed è cambiata molto dall’ultima volta che l’ho vista. Le ho detto che era magnifica, lei ha fatto un gran sorriso e ha dato tutto il merito ai vestiti. Johnnie l’ha stuzzicata: «Forza, Sal, diglielo che sei innamorata!».
«È un fotografo. Certo che sono innamorata. È un genio!». Lo ha detto proprio come lo avrebbe detto sua madre. Ha dato il bicchiere a Johnnie, mi ha sorriso di nuovo e mi ha domandato chi fosse la ragazza che era venuta con me. La domanda, posta da lei, non mi ha dato fastidio, così le ho detto di Alberta aggiungendo che è una cara ragazza e stavo anche per dirle che è molto giovane quando mi sono ricordato che Sally ha almeno un anno meno di lei. Così ho detto: «Non ha viaggiato molto. È cresciuta in campagna», chiedendomi come mai qualunque cosa io dica sul conto di Alberta suoni falsa o paternalistica. È stato in quel momento che Johnnie ha urtato una bottiglia di vino che è finita sul vestito di Alberta. Sally se ne è accorta per prima, ha sussultato ed è corsa subito in suo aiuto. Ha portato via Alberta, mentre Johnnie mi rivolgeva un sorriso di scuse. Allora mi sono ricordato di Emmanuel dall’altra parte della sala. Molti se ne erano andati, e mi sono reso conto che qualcosa non stava andando come doveva. Em si era appoggiato al pianoforte, con una faccia disinvolta e rabbiosa che non mi piaceva. Mi sono avvicinato. «...Questa folle idea che avete tutti quanti, che noi sappiamo quello che facciamo. Quando aprirete gli occhi?», stava concludendo. E ha vuotato con aria distratta il bicchiere ancora mezzo pieno di qualcosa che sembrava scotch.
La signora dall’aria appassionata, quella che scrive libri sulla libertà emotiva, gli ha sorriso con aria superiore e ha replicato suadente: «Ma, Mr Joyce, è dovere delle persone illuminate informare e guidare l’uomo comune».
«Se lei crede in un’idea così tronfia di umanità, è possibile. Io personalmente di persone illuminate non ne conosco nemmeno una. E l’uomo comune non lo riconoscerei se me lo ritrovassi davanti per strada, che è il posto dove si suppone viva, no? Io credo che la società sia fatta di stolti e di svitati». Ha rivolto un sorriso smagliante a tutti i presenti e, chissà come, è riuscito a farsi riempire il bicchiere da Johnnie senza dirgli una parola. Dalla folla presente in sala è salito qualche grido disordinato di chi si definiva “uomo comune” e tra questi un tale, mi pare fosse il giornalista, che ha aggiunto: «E adesso mi verrà a dire anche che lei non crede nel progresso!».
Ha sorriso di nuovo. «È esattamente quello che stavo per dire. Lei identifica il progresso con l’informazione. Una banda di svitati che spiega a degli stolti come si deve pensare: questo è ciò che lei chiama istruzione. In Inghilterra adesso c’è un gran fermento, perché vogliono tutto gratis, anche le emozioni, perché nemmeno quelle possono permettersi... le vogliono così come vogliono bagni pubblici e latte a costo zero. Sono l’epitome dell’irresponsabilità personale, ecco perché siamo quasi tutti dei codardi».
Il giornalista, che era già ubriaco di suo, ha perso le staffe. «Questo sarebbe il messaggio sociale delle sue commedie?».
«Io non scrivo commedie con un messaggio sociale. È un uso improprio del teatro».
«Lei però, Mr Joyce, si considera di certo un uomo saggio». Emmanuel non ha replicato e il giornalista lo ha incalzato: «Ripeto, lei è convinto di saperne più degli altri, vero?».
Allora Emmanuel ha risposto: «Io credo che se uno è convinto di una cosa, quasi sicuramente quella cosa è sbagliata».
«Lo vede? Lei non vuole venire al punto. Voi artisti... pensate di poter governare il mondo. Credete di sapere tutto, buon Dio! Quanto vorrei tornare ai tempi in cui gli artisti facevano un mestiere e sapevano qual era il loro posto nel mondo!».
Emmanuel ha replicato suadente: «Sono certo che, se lei fosse vissuto duecento anni fa, saremmo tutti più contenti». Qualcuno ha riso, Emmanuel ha teso il bicchiere verso Johnnie.
In quel momento, bontà sua, Alberta è rientrata in sala. È stato Emmanuel a vederla per prima e, anche se il suo viso non ha mutato espressione, era evidente che c’era un buon motivo per voltarsi da quella parte, così l’ho fatto. Forse non l’avevo guardata bene prima, e comunque adesso sembrava un’altra. Portava un vestito nero col collo alla coreana e maniche cortissime e strette. I capelli erano pettinati all’indietro, tesi e lucidi. Il suo incarnato faceva impallidire tutte le altre, che parevano esangui creature notturne. Persino Sally, che incedeva accanto a lei, sembrava reduce da una notte di baldoria. Emmanuel ha detto: «Ecco finalmente qualcuno che può rispondere alla sua domanda». E ha teso il bicchiere verso di lei, che prima ha esitato e poi ci ha raggiunti.
«Tu mi consideri un uomo saggio?».
Ha sostenuto saldamente il suo sguardo, per nulla imbarazzata, e ha detto: «No». E poi ha aggiunto: «Credo che i saggi siano molto rari. Io non ho mai avuto la fortuna di conoscerne uno».
Emmanuel ha sorriso e ha chinato il capo verso di lei, un gesto nel quale ho scorto come un trionfante segno di riconoscimento. Il senso di disastro imminente si è diradato: il giornalista ha offerto una sigaretta a Emmanuel e Johnnie è corso a prendere da bere ad Alberta. Sally mi ha fatto l’occhiolino e ha detto: «Te l’avevo detto che per una ragazza i vestiti sono tutto», e poi ho visto Lillian, con una faccia come una sigaretta spenta. I ruoli da non protagonista proprio non le si addicono. Johnnie aveva rabboccato di nuovo il bicchiere a Emmanuel, che adesso si era messo a declamare qualcosa davanti ai padroni di casa: Debbie lo prendeva molto sul serio, Van sembrava a disagio. Ho intercettato il suo sguardo e lui, dopo un congruo intervallo, mi ha raggiunto con aria casuale.
«Detesto chiedertelo, Van, ma avete altri piani per la serata?».
Si è guardato intorno. «Quando rimaniamo in dieci o giù di lì, Debbie vorrebbe andare a mangiare da qualche parte tutti insieme».
«Mi pare che più o meno ci siamo».
Van si è messo a fare un conto, e nel frattempo mi sono accorto che il giornalista aveva accalappiato Lillian e le stava riversando addosso le sue opinioni come secchiate di sabbia sul fuoco.
«Se puoi portare con te Lillian e gli autori, forse Johnnie potrà portare il resto di noi».
«Bene». Ed è andato ad avvertire Johnnie. Conosce bene Emmanuel.
Bene, la prima parte del piano stava funzionando. Lillian si è avviata tranquilla: doveva aver deciso di fare la brava in modo da usare la sua rabbia dopo, in privato. I guai sono cominciati quando si è trattato di smuovere Emmanuel. Dopo aver incontrato gli altri vicino la porta dell’ascensore, sono tornato indietro per chiamarlo e l’ho trovato seduto sul pavimento, che invitava Alberta e Sally a raccontargli della loro infanzia, per fare un paragone. Nell’accontentarlo sembrava fossero tornate entrambe bambine, e Johnnie ascoltava osservando Emmanuel con ammirazione, un bambino con la memoria lunga. Non appena ce n’è stata la possibilità ho detto: «Vogliamo andare?».
Emmanuel ha replicato: «Dove?».
«Johnnie ci porta da Patrick per cena. Ci troviamo lì con gli altri».
«Bene, così almeno sappiamo dove sono». Si è voltato verso Alberta. «Per caso ti sei cambiata d’abito?».
«Sì. Questo appartiene a Miss Westinghouse. Il mio ha avuto un incidente».
Emmanuel ha guardato con approvazione prima Sally e poi Alberta. Johnnie era lì accanto ad aspettarci, ma nessuno sembrava dargli retta, poi Emmanuel si è messo a raccontare un aneddoto su sua madre che desiderava tanto un vestito, un vestito con un prezzo che a lui era sembrato esorbitante. «Naturalmente non l’ha avuto», ha concluso e le facce delle due ragazze si sono riempite di delusione e pietà. Johnnie a quel punto deve averne avuto abbastanza e ho avvertito il suo nervosismo, così ho detto che forse era meglio andare.
«Ma dove?».
Ho ripetuto l’intera manfrina.
«Chiamali, di’ che sono ubriaco fradicio e che ci metteremo un po’. Se poi gli fai notare che probabilmente gli rovinerò la serata, strillando e facendo cadere il cibo dal piatto e rompendo porcellane, vedrai che ci pregheranno di non andare proprio».
Siamo andati a telefonare e Johnnie ha detto: «Non so cosa dirà papà. A me non sembra affatto ubriaco».
«Non lo è infatti. Ma se raggiungiamo gli altri lo diventerà anche senza bere un goccio d’alcol. Tu componi il numero, con tuo padre ci parlo io».
«Cavolo, se da Patrick facesse davvero come ha detto, sarebbe uno spasso!».
«Una cosa deprimente, piuttosto», ho replicato. «Queste serate sono tutte uguali. Cambia solo il pubblico».
Ho detto a Van Westinghouse che non li avremmo raggiuti e gli ho chiesto di far sapere a Lillian che mi dispiaceva molto ma le cose erano andate in un’altra direzione. Lo avrei chiamato l’indomani mattina, intanto poteva pensare lui a Lillian? Naturalmente sì. Van, aveva detto una volta Emmanuel, apparteneva a quella minoranza di persone che, seppure non sanno prevederlo, sanno almeno gestire un disguido dopo che si è verificato. Mi sono rivolto a Johnnie che sembrava uno scolaro ansioso di commettere una marachella.
«Adesso basta con lo scotch. Andiamo a cercare un posto dove mangiare».
Ed è così che è andata. Siamo usciti e abbiamo mangiato in un ristorantino chiamato Da Giovanni. Emmanuel sembrava libero dalla tensione e dal malessere e ci ha incantati per tutta la sera, chiedendo a Sally di raccontare storie, sollecitando l’opinione di Alberta e improvvisando una prefazione per Johnnie in un linguaggio forbito da critico letterario dell’«American Weekly»: «Il drammaturgo di umilissime origini Emmanuel Joyce, già autore della Corsa delle orchidee, scompone il processo artistico a colpi di autoanalisi e fa a pezzi i suoi personaggi per poi rimetterli insieme nel modo sbagliato...». Ma perlopiù si è dedicato ad ascoltare. Ogni tanto raccontava un breve aneddoto, nulla di eclatante, ma la sua affabulazione era così avvincente che noialtri pendevamo dalle sue labbra con gli occhi spalancati, come bambini.
L’argomento della nuova commedia non è stato chiamato in causa se non dopo lo zabaione, mentre bevevamo il caffè, quando Sally ha cominciato a fare domande in proposito. Emmanuel le ha risposto e avevo la sensazione che stesse rivolgendosi a se stesso o forse a me, invece che a lei. Le ha spiegato con molta semplicità di cosa parla la commedia, le nostre difficoltà con il personaggio di Clemency, il fatto che non abbiamo ancora trovato un’attrice adatta alla parte. Johnnie e Alberta ascoltavano, ma l’attenzione collettiva non sembrava inficiare il carattere intimo della conversazione. Johnnie, non troppo convinto, ha suggerito Katie per la parte e io ho detto che era una buona idea ma che Katie non era disponibile, l’avevo sentita giusto quel pomeriggio. Adesso Emmanuel mi guardava fisso, e dal suo sguardo ho capito che una decisione seria, irrevocabile, era stata presa. Vuole mandare all’aria la produzione, ho pensato; ha finalmente trovato una buona scusa per fare ciò che ha già in animo da tempo. La paura ha invaso ogni mia fibra al punto che devo aver cambiato colore...
«...perciò ho deciso di fare un esperimento, sempre che la vittima sia consenziente». E ci siamo voltati entrambi, d’istinto, verso Alberta, i cui occhi limpidi e stupefatti tradivano il fatto che la notizia non le giungeva del tutto nuova. Dopo un silenzio lungo e carico ha detto: «Siete consapevoli del fatto che io non so recitare?».
«Ci penserà Jimmy a insegnarti».
Mi ha guardato: la vedevo per la seconda volta, ed era già una persona diversa.
«Ti insegnerò, se tu sei disposta a imparare», ho detto.
Ha teso una mano, l’aria incredula di chi, credendo di sognare, cerca il contatto umano. Emmanuel e io abbiamo messo le mani sul tavolo.
«Ci proverò», ha detto. Allora Emmanuel ha posato la mano sulla sua, e lei ha sorriso.
È così che è finita. Ed è così che è incominciata.