Sette
1
Jimmy
Mi ha colpito il suo coraggio. Non ha pianto, non è svenuta, non ha fatto scenate, non ha detto quasi niente. Emmanuel l’ha fatta sedere e io le ho preso del brandy, che non ha voluto. Era perfino lei a consolare il bambino, che le stava seduto accanto scosso dai singhiozzi. Povero piccolo, era molto provato: lo avevano chiamato dall’ufficio postale perché non riuscivano a decifrare il messaggio, lui lo aveva trascritto e poi era corso a perdifiato fin da loro, sotto il sole battente. Alberta non mi ha mai parlato molto di suo padre, ma è chiaro che è stato il colpo più duro che abbia ricevuto in vita sua: le sue reazioni sono come rallentate, le ci vuole tempo per capire quel che si dice. Ha fissato a lungo il bicchiere di brandy prima di dire che non lo voleva. L’ha bevuto Lillian. Lei sì, è impallidita: una sua crisi era proprio quel che ci mancava. Per fortuna l’abbiamo scampata. L’unica cosa che Alberta è riuscita a dire è che voleva telefonare, e il ragazzo ha detto subito che l’avrebbe aiutata lui. «Vuoi tornare in Inghilterra, vero?», le ha chiesto Emmanuel. Lei lo ha guardato come se lo stesse vedendo per la prima volta e ha annuito. Em voleva parlarmi e siamo andati insieme nell’altra terrazza.
«Jimmy, è meglio che tu vada giù al porto con loro e telefoni in aeroporto. Prenota quattro posti. Non credo che abbia più senso restare qui». Ci ha pensato un attimo, poi ha aggiunto: «Potremmo anche scendere al porto tutti insieme».
Così abbiamo fatto. Abbiamo trascorso un’ora d’inferno all’ufficio postale, dove hanno cercato invano di prendere la linea con l’Inghilterra e abbiamo appurato che per mettersi in contatto con l’aeroporto poteva volerci anche tutto il giorno: ci sono riuscito una volta, ma non ho trovato nessuno che parlasse inglese e infine è caduta la linea. Non c’era un posto per sedersi, Lillian è andata fuori, il ragazzo ha litigato con l’impiegato e a un certo punto hanno smesso di parlarsi, mentre Alberta se ne stava appoggiata al bancone, pallida e muta. L’ufficio puzzava di polvere e sudore, le finestre erano tutte chiuse. Bisognava fare qualcosa. Ho portato fuori Emmanuel per dirgli che avrei preso la nave appena possibile e avrei chiamato l’aeroporto dal Pireo. Lui ha suggerito di nuovo di andare tutti insieme. «Potremmo chiedere a lei cosa preferisce, ma mi sembra interessata solo a questa telefonata e a quanto pare non sarà una cosa semplice», gli ho fatto notare. Mi ha dato ragione ed è andato ad aggiornare Lillian, che faceva grandi gesti dal tavolo del caffè a cui era seduta.
Sono tornato da Alberta. L’ho trovata nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata, e mi sono ricordato di quella mattina a New York, quando ha telefonato a suo padre e poi, con le lacrime agli occhi, ha detto: «Lo conosco da tutta la vita». Le ho messo un braccio intorno alle spalle e le ho spiegato che sarei andato ad Atene a prendere i biglietti per il ritorno. Lei ha ascoltato con la stessa espressione tesa e ha detto: «Sei davvero gentile, Jimmy». Mi è venuta in mente la sera prima, quando mi sono augurato che fosse molto, molto triste, tanto da non badare a chi la stesse consolando. «Vengo a salutarti prima di partire», ho detto lasciandole la spalla, che al tatto era fragile e rigida.
Sono uscito e mi sono diretto verso casa per prendere biglietti e passaporti, ma Emmanuel mi ha fatto un cenno, così l’ho raggiunto. Era interdetto, preoccupato.
«Lillian vuole venire con te».
Le ho lanciato un’occhiata. «Davvero?».
Lillian mi fissava e parlava in fretta: era chiaro che qualcosa non andava. «Sì, Jimmy. Ripartiamo all’improvviso e ho delle cose da fare ad Atene, perciò verrei in città con te oggi stesso, se tu sei d’accordo. A Em non dispiace, vero caro?».
Non sono riuscito a capire la risposta di Em.
«Non ti sarò di peso. Andrò dritta in albergo e poi me ne starò per conto mio. Stai andando a casa? Perché non abbiamo molto tempo e io non credo di farcela, ma vorrei il soprabito leggero e il beauty-case piccolo, dove ho quasi tutte le cose per lavarmi».
«La nave a che ora parte?».
«Tra circa mezz’ora, direi. La gente si sta già mettendo in fila. È meglio che tu vada, Jimmy., se devi andare».
Aveva ragione lei. Era inutile perdere tempo a discuterci. Ho fatto la strada più in fretta del solito, e quando ho finito di prendere la roba che serviva, guardando fuori dalla finestra, ho visto la nave avvicinarsi al porto e mi sono messo a correre. Mi chiedo come abbia fatto quel ragazzino. Non ho avuto nemmeno il tempo di chiedermi come mai Lillian ci tenesse tanto a partire, ma la cosa più sorprendente è che solo una volta arrivato al porto mi sono reso conto che in questo modo Emmanuel sarebbe rimasto da solo con Alberta. Mi ha sfiorato il proposito di sbattergli in faccia le carte e la roba di sua moglie e dirgli: «Stavolta ci pensi tu!». Ma appena l’ho visto sono tornato sui miei passi. Mi sono occupato sempre io dell’organizzazione pratica, sono qui per questo. In quel momento però mi sono ripromesso di cambiare rotta: d’ora in poi organizzerò la mia vita, o al massimo quella di Alberta.
Lei stava in piedi come quando me ne ero andato, col bambino seduto accanto.
«Ancora niente?».
Ha fatto cenno di no, l’impiegato ha serrato le labbra e fatto una specie di smorfia e Julius ha detto: «Purtroppo qui non hanno tempo per le telefonate».
La sirena ha suonato, per indicare che la nave si stava avvicinando, che era quasi in porto. Sono andato al molo, dove mi aspettavano Emmanuel e Lillian. Le barche a remi che dovevano portarci a bordo erano pronte.
«Prenoterò i primi biglietti che trovo, a partire da domani sera. Ti chiamo in serata, oppure mando un telegramma».
«Non sarà troppo presto domani sera?».
Ho rivolto a Lillian un’occhiata fosca: per me non esisteva un “troppo presto”. Emmanuel ha detto: «Aspetto la tua chiamata all’ufficio postale tra le sei e le sette, stasera. Va bene?».
«D’accordo».
Lillian ha salutato: «A presto, caro. Spero che riusciate a prendere la linea. Ci vediamo domani». È salita sulla barchetta oscillante e le ho messo il beauty-case sulle ginocchia. Sorrideva contenta: un viaggio per mare con Lillian era proprio l’ultima cosa che desiderassi.
«Ciao Jimmy. Fa’ del tuo meglio», mi ha detto Emmanuel.
«Anche tu». Per un momento i nostri sguardi si sono incrociati e lui aveva quell’aria da vittima delle circostanze che ho imparato a conoscere e temere. Ma dovevo andare. Sono saltato sulla barca – ero l’ultimo – e siamo partiti subito. La nave entrava in porto strepitando come un enorme gabbiano bianco. Emmanuel ci ha fatto un cenno di saluto e si è voltato per tornare all’ufficio postale, dove ho immaginato che Alberta fosse ancora in piedi ad aspettare.
«Prendile una sedia!», ho gridato, ma non credo che mi abbia sentito.
Per gran parte della giornata mi sono dovuto ripetere che i miei sentimenti non contano, perché contano solo quelli di Alberta, e che in un certo senso sto facendo qualcosa per lei. C’è voluto del tempo per salire sulla nave e dopo un po’ ho capito, con mio grande sconcerto, che non saremmo andati direttamente al Pireo. La nave infatti ha compiuto un giro completo delle isole, tra cui un altro passaggio alla nostra, e solo dopo ha fatto rotta verso il porto maggiore. Tutta quella fretta non era servita a niente. Non nutrivo grandi speranze che Emmanuel e Alberta s’imbarcassero alle quattro, quando saremmo ripassati: avevo la netta e urticante sensazione che, seppure l’impiegato dell’ufficio postale non fosse riuscito a protrarre l’attesa ben oltre quell’orario, Emmanuel avrebbe trovato senza difficoltà un altro modo di trascorrere la notte sull’isola. Non potevo rivelare a Lillian il motivo della mia ansia e del mio malumore: so bene, e per esperienza diretta, come si comporta quando sa o crede di sapere che Emmanuel è da solo con una ragazza che gli piace. Stavolta non lo immaginava, ed era tranquilla e serena: ha accolto con grande calma anche la notizia del lungo tour che ci attendeva. Ha detto perfino: «Non stare troppo in pensiero per Alberta, Jimmy. Em è bravo a stare vicino alle persone che hanno avuto un duro colpo. Ci penserà lui». Come se questa fosse una consolazione. In nave erano tutti insopportabilmente festosi, un clima da gita domenicale. Ho trovato un posto a sedere a Lillian e le ho detto che avevo bisogno di muovermi un po’, così mi sono messo a bighellonare per i ponti. Ore dopo ero chino sulla balaustra con in testa i pensieri più foschi, e a un certo punto mi sono sentito toccare il braccio. Era Lillian, che mi invitava ad andare a bere qualcosa al bar. «Dopo potrai sbarazzarti di me, Jimmy caro. Ma ti prego: ho una gran sete e detesto sedermi al bar da sola». Ho notato che aveva gli occhi cerchiati di nero, e solo allora ho pensato che forse non aveva nessuna voglia di partire così di corsa: ha solo pensato che per Alberta fosse meglio restare con Emmanuel. Questo mi ha commosso e ha reso tutta la situazione più sopportabile.
Ma ripassare per il porto di Hydra è stato brutto lo stesso. Erano circa le quattro meno un quarto e la nave non si è avvicinata al porto come la mattina. Le barche a remi hanno impiegato una vita a raggiungerci. Lillian e io stavamo affacciati alla balaustra a osservarle e già molto prima di avvicinarci abbastanza da vedere la piccola folla radunata sul molo sapevamo che là in mezzo non c’erano Alberta ed Emmanuel. Per il resto, il porto appariva deserto, l’ufficio postale era chiuso.
«Non credo sia riuscita a telefonare prima della chiusura di metà giornata, povera ragazza», ha osservato.
L’ho guardata incuriosito, ma non credo che se ne sia accorta. Di punto in bianco ha indicato la vetta della montagna. «Non ci siamo più andati, al monastero. Volevo andarci dal giorno in cui siamo arrivati. Questa è una cosa che avremmo potuto fare».
«Avremmo potuto fare qualunque cosa».
La nave adesso levava l’ancora, e Lillian ha voltato le spalle alla balaustra. «Ma nulla che potesse impedire la morte di suo padre».
Abbiamo deciso di cercare un angolo comodo dove trascorrere il resto del viaggio e abbiamo trovato due poltrone abbastanza riparate. Mentre ci sedevamo, Lillian ha detto: «Se solo uno sapesse in anticipo quello che si perde».
«Cosa credi che succederebbe?».
«Be’, tenterebbe di non perderlo. Sarebbe un ottimo modo di occupare il tempo».
Mi ha fatto un sorrisetto sghembo, vagamente civettuolo, un’espressione che non le è solita.
Il viaggio per il Pireo non finiva mai, un po’ perché è iniziato in quell’ora in cui la luce comincia a cambiare e la vampa implacabile del pomeriggio cede il passo al tripudio di colori del tramonto. Per la prima parte del viaggio abbiamo dormito entrambi. Al mio risveglio l’aria era più fresca e Lillian era già sveglia, guardava in lontananza. Ho aperto gli occhi col pensiero di Alberta così vivo nella mente che era proprio come se fossi con lei. Non avevo mai provato una cosa del genere nella mia vita. Ho pensato: dunque è questa, la mia vita. Lillian mi stava guardando e le ho detto: «L’amo, ormai. Non voglio solo occuparmi di lei. Voglio una vita con lei, la voglio a ogni costo. Tutto il resto è mera esistenza, mero temporeggiamento».
«Sono felice che tu l’abbia capito. E spero che tu ottenga quello che vuoi», mi ha detto Lillian sporgendosi verso di me.
Sembrava sull’orlo delle lacrime e io invece mi sentivo così bene che non volevo vederla piangere. «Non c’è niente di triste! È tutto diverso quando si prende consapevolezza di qualcosa».
Poi Lillian è rimasta in silenzio, mentre il sole sprofondava nel mare. Era uno spettacolo magnifico, e ho pensato che tutte queste cose d’ora in poi mi ricorderanno lei – il mare, il tramonto, le navi e la brezza – e che lei mi farà pensare a queste cose, tutte insieme. Il mondo intero per me ha preso vita grazie a lei.
2
Lillian
Le luci al Pireo erano disposte a semicerchio, come una collana su uno sfondo di velluto nella vetrina di un gioielliere. Sembravano inaccessibili nel loro splendore, eppure sapevo che in un futuro ormai prossimo il divario che ci separava si sarebbe chiuso e sarebbero state, la nave e il porto, come due perle infilate assieme, vicine ma divise. Questo era il massimo di futuro che riuscivo a concepire, e già virava verso il passato. La vita passava invece: mi si stendeva davanti a perdita d’occhio, come il mare. Jimmy era ancora silenzioso, immerso nei suoi sogni, e io, che sapevo bene come mandarli in frantumi, me ne sono rimasta zitta.
È successo stamattina ma sembra appartenere a un’altra vita. Se non avessi visto la faccia di Em così radiosa di amore e premura, tutto sarebbe andato avanti come al solito: adesso la mia vita è così sfilacciata e malridotta, così priva di sostanza da lasciarmi nuda, senza orpelli («La tua stupidità è infaticabile. Per tutta la vita non hai fatto che prepararti a questo grande evento, immaginandoti nel ruolo di protagonista in una tragedia antica»). Adesso che per la prima volta in tanti anni di vita insieme ho visto Em davvero coinvolto da qualcosa, ho voluto lasciare che decidesse liberamente al riguardo e che mi facesse sapere in seguito la sua decisione. La decisione non è maturata immediatamente. Di primo acchito, su quella terrazza circondata da rocce simili a grumi di zucchero nero, sono stata gelosa... no anzi, ferocemente invidiosa della ragazza che mi ha fatto conoscere quest’aspetto di lui. Mi sono dovuta scolare il brandy che lei non aveva voluto, per calmarmi. Poi siamo scesi verso il porto, tutti in fila, col ragazzo per primo: Julius, Alberta, Jimmy, io e per ultimo Em. Per l’intera mattinata ho pensato che quanto a dignità e determinazione avevo solo da imparare da quella ragazzina: un pensiero umiliante, ma impossibile da ignorare.
Seduta al tavolino di un bar mentre gli altri erano all’ufficio postale (io sono quella che non sopporta il caldo, la puzza e l’assenza di posti a sedere), ho sentito svanire tutto il risentimento provato per i suoi tradimenti, quelli effettivi e quelli solo sospettati. Quei sentimenti mi sono sembrati così inadeguati che mi sono perfino stupita di ricordarli tutti tanto bene. Le scenate, la falsa indignazione che sono riuscita a simulare, le accuse di essere un uomo volgare e con una visione parziale dell’amore e con molto cattivo gusto, tutto il fango che ho gettato sul nostro matrimonio e su me stessa, tutto questo mi è apparso sotto una luce nuova e ho capito che la confusione era solo mia. Lui almeno sapeva cosa stava facendo: non c’entrava niente la sua visione dell’amore, e anzi, per tenere l’amore lontano da quelle faccende ha dato prova di notevole senso della misura. Io invece, forte di diritti che non mi appartengono e di debolezze che non avrei dovuto rinfacciargli, non ho dato nessun peso alla lealtà che mi ha sempre dimostrato. Guardandomi indietro, ora, capisco che da quelle storie non cercava l’amore. E non l’ha cercato nemmeno con lei: dal primo giorno sull’isola è parso sempre più provato, non ha mai tentato di restare da solo con la ragazza. Era chiaramente in lotta coi suoi sentimenti... e io avrei potuto non venire a saperlo mai, avrei potuto continuare a stuzzicare Jimmy e a speculare con indolenza su di lui, sulla sua stanchezza... C’è voluta una così brutta notizia per farmi aprire gli occhi.
Non mi sognavo nemmeno d’imbarcarmi subito. Ero troppo sconvolta e affranta per concepire un proposito simile, ma quando Em è venuto fuori per dirmi che Jimmy sarebbe andato ad Atene a prenotare il volo, all’improvviso mi è venuta l’idea di andarmene anch’io: era una cosa che potevo fare per lui, lasciarlo solo a prendere la sua decisione. L’ho guardato pensando a quanta pazienza ha avuto con me, con le mie difficoltà. Aveva messo su un’espressione di generica apprensione e ho pensato: se ora li lascio soli e lui si dichiara, che ne sarà di me? Poi, siccome ormai ho davvero scarsa stima di me stessa, mi sono domandata cosa mai l’abbia attirato in me, e ho trovato una risposta sola. Ha ammirato il mio coraggio l’unica volta in cui ne ho dato prova, ovvero quando aspettavo Sarah e mi hanno detto che con ogni probabilità la gravidanza mi avrebbe uccisa e io ho voluto portarla avanti lo stesso. Non gli ho detto che lo sapevo. A quanto pare, quella è stata l’unica occasione in cui il mio coraggio si sia manifestato. So bene invece che ne ha avute, e molte, ma ormai è tardi per rimpiangerle. Quello che posso fare ora è andare ad Atene. Gli ho detto che ci sarei andata, e la sua replica mi ha lasciata perplessa.
«Forse Jimmy non vuole».
Gli ho chiesto che cosa c’entrasse Jimmy, nel mio tono più caparbio. La differenza è che adesso mi ascolto e me ne accorgo. Quando Jimmy ci ha raggiunto, mi sono accorta che lo scrupolo di Em era fondato. Non aveva nessuna voglia di viaggiare con me. È stato lo schiaffo finale: non avevo mai avuto la sensazione di essere una compagnia indesiderabile. La consapevolezza di irritare una persona con un comportamento che per me era già difficile da seguire, rendeva il tutto ancora più reale e spiacevole. Ho convinto Jimmy con delle chiacchiere – ho anni e anni di pratica nel convincere la gente a fare a modo mio – e in men che non si dica eravamo in mare.
Sono rimasta a guardare la schiena di Em che si allontanava lungo il molo, e Jimmy gli ha gridato dietro che prendesse una sedia per Alberta. Allora ho pensato: l’ama anche lui, e l’ha lasciata sola con Em. Lui del resto non sa come stanno le cose. Una volta in nave, abbiamo capito che non c’era motivo di affannarsi tanto: avremmo potuto imbarcarci tranquillamente il pomeriggio, e questo ha gettato il povero Jimmy nella disperazione. Io invece sono felice che le cose siano andate così, perché con tutte quelle ore a disposizione avrei potuto cambiare idea. Jimmy mi ha trovato un posto a sedere e se ne è andato per conto suo, così mi si è prospettata davanti un’intera giornata per esaminare le meschine immagini di me stessa che premevano sulla mia coscienza. Il guaio è che più procedo con metodo, più chiaramente vedo chi sono diventata: tutto ciò che mi viene in mente, tutto ciò che ricordo, non fa che rendere il quadro più fosco, irrimediabile, senza prospettive. Qualunque persona in possesso delle proprie facoltà che dovesse scegliere se vivere con me o con Alberta non avrebbe la benché minima esitazione. Questo alla fine mi ha fatto pensare a Jimmy. Rivolgere i miei pensieri a qualcuno, fuori da me stessa, è stato un sollievo insperato, così sono andata a cercarlo. Sapendo cose che lui non sa, ci tenevo a confortarlo, se non altro facendogli capire che non intendevo essere un peso per lui, una volta arrivati ad Atene. Abbiamo bevuto qualcosa insieme al bar e mi ha parlato di lei in termini deliberatamente pragmatici e distaccati. Mi ha chiesto se secondo me Alberta vorrà ancora recitare nella commedia. O se vorrà invece restare a casa, con la sua famiglia. Io gli ho detto quello che mi è venuto in mente, e cioè che probabilmente la famiglia non potrà continuare ad abitare nel vicariato, dopo la morte del padre, e quindi il bisogno di denaro potrebbe essere un incentivo in più ad accettare la parte. Lui ha osservato che per lei sarà molto dura, ma si vedeva che l’idea lo aveva rassicurato un po’.
Quando la nave ha fatto di nuovo rotta verso Hydra, ci siamo ritrovati entrambi affacciati alla balaustra a guardare la fila di barche a remi. Sapevo che loro non ci sarebbero stati, ma percepivo la speranza di Jimmy. Dopo che entrambi abbiamo scrutato sia il porto sia le barche e abbiamo visto l’ufficio postale chiuso e deserto, ho dovuto consolarlo. L’ho visto lanciarmi un’occhiata stranita e questo mi ha dato ulteriore conferma di chi sono, del fatto che, se tento sinceramente di aiutare qualcuno, vengo guardata con diffidenza. Ma che posso farci ormai? Allora ho desiderato tanto di poter tornare indietro, di avere un’altra possibilità, di cogliere le occasioni che ho perso... ma per poter tornare indietro dovrei non sapere quello che so; dovrei tornare a essere la creatura isterica e sfiancante che ero, intenta a spianare tutte le opportunità che si presentano, ad accumulare sensazioni fino a renderle nulle, e restringere il mio mondo sempre di più al solo scopo di restare saldamente al centro... Questa è la prospettiva che mi spaventa maggiormente. Mi è parso anzi di sperimentare la paura vera per la prima volta: la differenza che c’è tra perdere la strada e non avere nessuna strada da perdere.
Jimmy stava suggerendo di trovare dei posti a sedere riparati. L’ho seguito. Gli ho detto qualcosa come: “se solo uno sapesse quello che si perde”, e lui, come fa sempre di fronte alle frasi astratte e slegate dal contesto, mi ha posto una domanda semplicissima e mi sono sentita come se avessi chiesto una cosa che poi non saprei come usare. Eppure era lì, Jimmy: cercava di essere paziente e gentile, nonostante i pensieri che lo tormentavano. Allora ho pensato che forse il mio gesto – lasciare Em sull’isola con lei – in realtà avesse un fine del tutto egoistico, quello di darmi un ruolo, un posto dove stare, e che il mio cosiddetto riserbo con Jimmy, lo sforzo di non lasciar trapelare quello che sapevo, è in realtà solo una forma molto gratificante di codardia. Ho chiuso gli occhi cercando di digerire anche questa possibilità, ma era troppo. Sono scivolata in un’apatia in cui i pensieri mi ronzavano come mosche intorno alla testa, estranei; dopo un po’ anche i pensieri si sono stancati di non suscitare reazioni e mi sono addormentata.
Quando mi sono svegliata era il crepuscolo e Jimmy dormiva ancora. Mi sono concentrata sul nostro arrivo al Pireo, perché oltre non riuscivo a spingermi, e ho osservato il volto disteso e fiducioso di lui. Ho deciso di non pensare a nulla fuorché al mare, al suo movimento incessante e al suo essere nel contempo sempre lo stesso...
Jimmy si è svegliato e di punto in bianco mi ha detto che l’ama. L’ha detto con risolutezza, senza possibilità d’errore. Ha aggiunto che tutto è diverso, quando si prende consapevolezza di qualcosa. Proprio queste parole. Non potevo proteggerlo né metterlo all’erta. Potevo solo rimanere fedele ai miei propositi iniziali, benché indeboliti, e restarmene zitta.
Siamo sbarcati. Abbiamo trovato un taxi e ci siamo fatti portare ad Atene: le strade erano ancora roventi della canicola diurna. In macchina ho sentito quell’aria torrida e sudicia investirmi la faccia e mi sono sforzata di pensare: adesso andremo in albergo. Poi però siamo arrivati in albergo, abbiamo preso le stanze e a quel punto non c’era più alcun margine di futuro a cui appoggiarsi, fino a che Jimmy mi ha consigliato di fare un bel bagno mentre lui telefonava all’aeroporto. Di lì a mezz’ora avremmo cenato. Non me lo ha proposto, me l’ha comunicato come una decisione già presa, e gli sono stata grata per la breve prospettiva di un’attesa prima della cena.
A tavola mi ha detto di aver prenotato due posti su un volo di domani e altri due per il giorno dopo. «Io porterò Alberta dai suoi. Così tu ed Em potrete viaggiare insieme».
«Bene». Ormai avevo la nausea. Ha provato a contattare l’isola, mi ha detto, ma senza successo. Sfido, ho replicato, erano passate due ore dall’orario in cui avremmo dovuto chiamare, e probabilmente l’ufficio ha chiuso alle otto. Ha detto di averlo pensato anche lui e di aver dettato un telegramma per loro.
Poco dopo cena ha detto: «Sembri esausta: perché non te ne vai a dormire? Domani non abbiamo fretta. Dobbiamo solo ritirare i biglietti e compilarli coi nostri dati».
Ma non avevo nessuna voglia di andare a letto. Ha ordinato brandy per entrambi e ci siamo fumati un’altra sigaretta. Mentre me l’accendeva mi ha chiesto se perdere il padre è la cosa peggiore che possa capitare a una ragazza.
«Dipende da che rapporto hanno. Credo che per Alberta sarà dura».
«Com’è stato per te? O ti dà fastidio parlarne?».
Ho scosso la testa, riflettendo.
«Vedi, io non ho perso soltanto mio padre, ma entrambi i miei genitori. Erano sulla stessa nave e sono annegati insieme. Con loro ho perso anche la mia casa, ed era difficile separare le perdite. Tutto il mio mondo è andato in pezzi, così all’improvviso».
«Deve essere stato terribile», ha detto con autentica compassione.
«Probabilmente è meglio aver avuto delle cose e poi perderle che non averle avute affatto. Ho avuto un’infanzia felice. Adoravo la nostra casa, la campagna...». Quanto sono lontane queste cose, a pensarci adesso. Sentivo la mia voce e mi sembrava quella che usavo quando parlavo di altre persone.
«Deve essere una strana sensazione. Voglio provare a capire. Tu dici che probabilmente perderà anche casa sua, e sua madre è morta anni fa. Perciò la sua situazione non è poi così diversa dalla tua allora, no?».
Fino a ieri avrei risposto di no, che c’era una bella differenza, che io avevo solo quattordici anni quando entrambi i miei genitori sono morti. Avrei fatto a gara con il lutto di Alberta, quando la mia storia non c’entrava niente con il bisogno di Jimmy di provare a capire i suoi sentimenti. Del resto se proprio si doveva fare un confronto, quello che aveva sofferto di più era sicuramente Jimmy, e lui era lì a preoccuparsi per Alberta.
A un certo punto ha detto anche: «Stavo pensando, non credi sia tempo che io mi metta a lavorare in proprio? Voglio dire, sono anni che vivo attaccato a voi, anni che tutto mi viene servito su un piatto d’argento. Quando mi hai chiesto se potevo dirigere la commedia da solo a New York ho cominciato a pensare che è ora di smetterla di fare quello che viene più facile. Non mi sono mai preoccupato per il futuro. Se penso ai soldi che avrei potuto mettere da parte!».
Non ho trattenuto un sorriso. «Se questo è il tuo unico rimpianto riguardo al passato, non è andata poi tanto male. Fossi in te comunque ci penserei bene».
«Non voglio dire che pianterò in asso Emmanuel, se è questo che ti preoccupa. A meno che non me lo chieda lui, si capisce».
«Non te lo chiederebbe mai». Ho cercato di dirlo in modo convincente, ma non riuscivo a guardarlo in faccia.
«Oh, non si sa mai. Potrebbe desiderare un cambiamento. Succede, a volte».
Poi ha detto che era ora di andare a dormire.
Ero quasi giunta alla decisione di fare un bagno, quando mi sono ricordata che l’avevo fatto già prima di cena. Dopo che Jimmy mi ha augurato la buonanotte, mi ha invaso un panico tale che non sapevo quello che facevo. E così mi sono ritrovata immersa nell’acqua calda, guardando il mio corpo e pensando: ti sei già lavata da capo a piedi due ore fa! Mi sentivo ridicola e infastidita da me stessa, ma mi sono anche accorta che guardavo il mio corpo come se appartenesse a un’altra persona. Per tutta la vita ho vissuto sotto il giogo di questo corpo – l’involucro fragile e imprevedibile della povera Lillian – e per quanta cura ne abbia non è mai abbastanza; vivo all’ombra dell’immagine di una certa Lillian, per cui sono disposta a derogare, adulare, consolare, commiserare, qualunque cosa. È una creatura ipersensibile, emotiva, vulnerabile – un cliché stucchevole di ragazzina romantica –, bisognosa di protezione e incoraggiamento, tendente ad analizzare i propri sentimenti così da vicino da togliere loro ogni libertà di azione. Pretenziosa, disonesta, noiosa... Potrei trovare un personaggio uguale a lei in qualche breve romanzo brillante, e continuare a cercare associazioni sarebbe un esercizio tedioso oltre che sterile. Eppure l’immagine di lei non mi abbandona un momento. Certo, il mio corpo è cambiato, non è più fedele allo stereotipo. Ma non sono caduta nella trappola crudele di continuare a vestirmi come una ragazzina di diciott’anni: esternamente mi sono adattata, dando prova di un gusto impeccabile, ma senza mai smettere di adorare questa noiosa regina senza età, una cosa che non avrei mai tollerato se non si fosse trattato di lei, di Lillian. Adesso, chiunque sia io, sono legata a lei per il resto della mia vita. Sono uscita dalla vasca, mi sono avvolta nell’asciugamano e sono andata nella camera con due letti gemelli, uno dei quali era già pronto per me. Se tornerò in Inghilterra, sarà con lei che dovrò trovare la nuova casa e arredarla. Tutti i suoi capricci e le sue scenate per conquistarsi la compassione del prossimo non serviranno a niente, perché nulla funzionerà più in quel modo. Non posso riportarla da quello che resta della mia famiglia, nel Norfolk, anche se sarebbero ben contenti di sapere che Em e io ci siamo separati: nel momento stesso in cui venisse meno la loro compassione, lei diventerebbe uno strazio insopportabile. Se le trovassi un lavoro, non riuscirebbe mai a tenerselo, si ammalerebbe, si comporterebbe così male che nessuno vorrebbe lavorarci insieme. Con tutto il suo disperato bisogno d’affetto, non è capace di darne né di destarne in altri che non sia io. Non voglio che incontri altre persone, me ne vergogno troppo, in ogni caso lei è interessata solo a se stessa: pensa di condurre una vita “dura”, ma non ha idea di ciò che dice. Non ha senso della misura, nulla la fa ridere, è immensamente nevrotica e, se per ventura non ci fossimo ritrovate nello stesso corpo, nulla mi avrebbe indotto ad avere a che fare con lei. Me ne starei ben più volentieri da sola. È stata buona e comprensiva con me quando è morta Sarah, ma questo non le dà il diritto di tenermi al giogo ora. In quel momento mi sono resa conto che, se Sarah non fosse morta, avrei dovuto per forza sbarazzarmi di lei, perché sarebbe stata una presenza nociva per mia figlia. Il pensiero che a un certo punto della mia vita si sia verificata questa possibilità mi rincuora, ed è con questa iniezione di speranza che m’infilo nell’altro letto senza prendere sonniferi.
3
Alberta
Se metto tutto per iscritto – quel che è successo, intendo – forse riuscirò a chiarirmelo nella mente e magari a sopportarlo. Adesso che ho parlato con zio Vin, so almeno cos’è accaduto di preciso, anche se non riesco a pensarci, anzi non riesco a pensare proprio a niente. Tutto sembra come sempre, la vita va avanti un minuto dopo l’altro, solo che adesso è irreale. E proprio mentre mi concedo lo stupore di constatare che il mondo continua a esistere, la consapevolezza che lui non c’è più mi esplode dentro come se me l’avessero appena detto. È morto: è stato investito da una macchina in fondo al vicolo dietro la chiesa. E la macchina non si è fermata. Era in bicicletta, zia Topsy ha detto che era andato a trovare il vecchio Mr Drewent che era malato, dopo cena. È successo mentre tornava a casa, alle dieci meno un quarto circa, ma non lo sanno di preciso, perché quando lo hanno trovato erano le undici passate. Ed era già morto. Ho chiesto a zio Vin se l’impatto l’ha ucciso sul colpo e ha detto di no. Perciò forse ha avuto del tempo per congedarsi, so che lui l’avrebbe voluto – ma senza troppo dolore, Dio, non riesco a pensarci! Non lo so e non lo saprò mai. Non scriverò nulla su chi guidava quella macchina, perché so cosa direbbe Papà in proposito, e adesso che lui è morto e non può più parlarmi o scrivermi, devo ricordarmi da sola le cose che ha detto. Altrimenti di lui non rimarrà niente. Lo perderò per sempre.
La faccenda ha due aspetti. Uno: non capisco perché questo incidente sia dovuto capitare proprio a Papà. Non era vecchio ed era molto utile agli altri. Come può non essersi accorto che Papà era una persona così utile, così amata, così necessaria a quelli che lo circondano? Potrei capire un po’ di più se fosse morto per qualcosa, per salvare la vita di qualcuno ad esempio, o per una causa nobile, ma non è così. Semplicemente una macchina gli è andata addosso una sera perché la strada non era ben illuminata e la luce posteriore della bicicletta probabilmente non funzionava: solo io mi preoccupavo di ripararla. È stato lasciato in un fosso, a morire da solo. Perché? È una cosa che mi fa infuriare. E l’unico che avrebbe saputo aiutarmi a superare questa rabbia era lui, Papà, e questo è il secondo aspetto della faccenda con cui non riesco a venire a patti. La sua assenza è lì da qualunque parte mi giri, non c’è fine a questa perdita, a cominciare dalle piccole cose come sentire la sua voce al telefono quando chiamo a casa, oppure la sensazione che ovunque io andassi e qualunque cosa facessi, lui c’era ed era sempre mio padre. Diceva: «Nessuno può farcela senza l’aiuto degli altri». Ma era sempre lui che aiutava me, e io lo amavo anche per questo. Se lui non fosse morto e io provassi questo senso di lutto per la morte di un’altra persona cara, cosa farei? Andrei da lui e gli racconterei tutto, ogni singola cosa che ho scritto qui. Direi: «L’unica persona di cui davvero non posso fare a meno è stata uccisa in un banale, sciocco incidente. È una cattiveria che chi è così amato e necessario debba finire ucciso per banale sbadataggine». E lui cosa risponderebbe? Mi chiederebbe cosa rappresentava quella persona nella mia vita. Io allora direi che era una parte molto importante della mia famiglia e che lo conoscevo da sempre e gli volevo bene, che era l’unico che sapesse aiutarmi nelle mie scelte, perché ogni cosa che diceva o faceva era fondata su un’integrità inscalfibile che gli conferiva necessità e misura. Gli volevo bene perché su di lui potevo contare sempre.
Ora devo riflettere attentamente su come Papà avrebbe replicato a questo discorso; devo ricostruire, a partire dalle cose che ha detto in vita, cos’avrebbe detto in questa particolare circostanza; ma io credo che mi avrebbe fatto semplicemente una domanda: era davvero così solida e affidabile questa persona, se mi ha abbandonato in una tale disperazione? La risposta naturalmente è che è morto, non è stata colpa sua. E lui sarebbe d’accordo? Sì, sarebbe d’accordo. Ripenso ora a cosa diceva a proposito degli esempi: diceva che ad abbracciare forte un segnale stradale, a un certo punto ci si affeziona al punto da scordarsi che cos’è, a cosa serve. È spiacevole ma può succedere, a un segnale stradale. Quello che cercava di dire è che le persone non sono fatte per essere dei punti di riferimento come li intendo io: o forse invece sì, ma nessuno è all’altezza di un compito simile. Se una persona trasmette a un’altra un criterio per le sue scelte, ed è un criterio che a quella persona piace, esso rimane valido anche dopo la morte di colui che glielo ha insegnato. Lui me l’ha trasmesso, questo sapere, e io non voglio dimenticare le cose che ha detto, l’uomo che è stato, ma in qualche modo devo andare avanti, da sola.
È così che si è sentito quando la mamma è morta? Perché in tutti questi anni lui non l’ha avuta una persona su cui contare, così come io ho potuto contare su di lui. Credo che non l’abbia nemmeno cercata, è andato avanti da solo e basta. Lo so bene, e in un certo senso è così anche adesso che è morto. Perciò io devo fare buon uso di questa sua morte, ecco cosa mi direbbe lui. «Ci vuole molto amore per mettersi al di sopra dei propri sentimenti, Sarah: ci penserai?». Ma io non l’ho mai fatto. Ha dovuto morire per farmici arrivare. L’ultima cosa che farei è scegliere di essere cattiva solo perché ho perso la bussola e non so più cosa sia la bontà. Papà ha sempre detto che quello è un gioco in cui non vince nessuno.
Perciò la vera domanda non è: per che cosa è morto. È il contrario, ed è quello che devo cercare di capire. Altrimenti è come stare in cima a una montagna in preda alle vertigini.
4
Emmanuel
Voltò le spalle alla nave e s’incamminò lentamente lungo il molo. Provava la sensazione di essere in trappola, e nel contempo libero come non mai. Stava assaporando quest’ambivalenza quando sentì Jimmy che gli gridava dietro: «Comportati come si deve!». Si voltò, ma Jimmy non disse altro. Adesso poteva prendere la sua decisione in pace: la trappola era la necessità di prendere quella decisione. La possibilità di averla tutta per sé si era presentata in modo assolutamente inatteso: da quando era arrivato quel telegramma non aveva avuto cuore che per il dolore di lei, le sue reazioni soffocate dalle circostanze e il continuo impegno di Jimmy per organizzare la partenza. Si era messo in riga, che altro poteva fare? Aveva portato Lillian fuori dall’ufficio postale prima che svenisse dal caldo e si era affidato alla corrente del decisionismo di Jimmy e dei capricci di sua moglie. Adesso se ne erano andati, e lui era solo con lei. Si diresse verso l’ufficio postale con la certezza assoluta di voler lasciare Lillian, sposare Alberta e vivere con lei per sempre. Non ce l’aveva mai avuta così chiara fino a quel momento: era stato come bloccato, prima nello stupore di ritrovarsi innamorato e poi dalle circostanze che gli imponevano uno stretto riserbo. Adesso questa morte lo metteva nella condizione di dover agire: e la prima cosa da fare era scoprire quali fossero i sentimenti di Alberta per lui. Non condivideva la ferma fiducia di Jimmy nelle sue possibilità – al riguardo tendeva a credere che è facile ottenere ciò che non ci interessa più di tanto, si ha il giusto grado di distacco intellettuale. Tuttavia confidava che un sentimento profondo e intenso come il suo non l’avrebbe lasciata indifferente...
Nell’ufficio postale trovò Alberta in piedi, nell’identica posizione in cui l’aveva lasciata, col ragazzino seduto accanto che vedendo Em disse: «C’è stato un falso allarme». Lei cercò di sorridergli, ma Em si accorse che non lo vedeva nemmeno bene.
«Se andiamo a sederci qua fuori per un po’, potresti chiamarci nel caso in cui riuscissero a prendere la linea?».
Julius annuì e lei si lasciò condurre fuori docilmente. Avevano quasi raggiunto uno dei tavolini del caffè di fronte, quando cominciò a preoccuparsi: «Riusciremo a tornare in tempo? Devo assolutamente parlare con loro».
«Sta’ tranquilla». Le sistemò la sedia in modo che potesse vedere bene la porta dell’ufficio e scorse Julius affacciato alla finestra, attento ai loro spostamenti. «Va tutto bene. Ci ha visti. Deve solo fare un cenno. Bevi qualcosa di fresco».
Annuì e disse: «Dove sono gli altri?».
«Hanno preso la nave. Per andare a prenotare il volo di ritorno», le rispose in tono tranquillizzante.
«Ah, certo». Lo disse come se la cosa non avesse nulla a che fare con lei.
Poi, quando arrivò da bere, aggiunse: «Mi rendo conto di aver scombinato i piani di tutti. Mi dispiace molto».
«Eravamo comunque pronti per rientrare», disse lui con quello che sperava fosse un grado accettabile di cinismo.
Non aveva nemmeno toccato il bicchiere; lo fissava stranita e poi disse: «Non riesco a bere. Mi gira troppo la testa».
Em si alzò, la prese per le spalle e la fece girare, poi le spinse la testa in giù, tra le ginocchia. La sostenne appena in tempo perché non cadesse. Dopo pochi secondi sentì la sua testa rialzarsi. Era pallidissima.
«Grazie. Non mi capitava da anni. Una volta lo capivo da sola quando dovevo mettermi a testa in giù».
Le porse il bicchiere. «Sembra che tu abbia fatto una certa pratica. Bevi».
«Anni e anni. Quasi a tutte le funzioni domenicali. Ci vuole una certa resistenza per stare in ginocchio con lo stomaco vuoto. Potrei avere altro succo d’arancia?».
«Non hai nemmeno finito il primo».
«Vorrei portarne un bicchiere a Julius. È un bravo ragazzo e ha una passione per il succo d’arancia».
«Glielo porto io. Tu resta qui».
Julius accettò il succo con gravità – aveva assorbito molti dei modi di fare dei greci. Adesso c’era parecchia gente nell’ufficio, perché la nave aveva scaricato la posta, e gli fu data una lettera. Chiese a Julius d’informarsi se ce ne fossero delle altre, lui domandò e gli fu detto di no. Tornato da lei, vide che si aggrappava al tavolo con le mani e capì che aveva bisogno di un appiglio alla realtà; si sentì stringere la gola dalla compassione, ma quando la raggiunse lei gli chiese subito se Julius fosse stato contento del succo.
«Credo proprio di sì. C’era una sola lettera, per me». La posò sul tavolo.
«Credi che potrebbe farti bene se, intanto che aspettiamo, ne parli un po’?».
Lei s’irrigidì: «Non ho molto da dire». Poi aggiunse: «Non volevo essere scortese. È solo che sto cercando di abituarmi all’idea e non ci riesco. Non riesco a fare di più».
«I telegrammi fanno quest’effetto. Andrà meglio dopo che avrai parlato con i tuoi familiari».
Disse a voce bassissima: «Sarà più reale, se non altro».
Non si era mai sentito così impotente: tutto ciò che gli veniva in mente di fare era inutile oppure impossibile. Avrebbe voluto prenderla fra le braccia, lasciarla piangere così da sciogliere un po’ la sua tensione; avrebbe voluto dirle che lui era e sarebbe stato sempre pronto a tutto, a tutto, pur di aiutarla, che sapeva come si sentiva, che l’amava e che non avrebbe mai più permesso che soffrisse tanto come ora. O almeno avrebbe condiviso il suo dolore. Ma sapeva di non poter fare nemmeno questo. Le si avvicinò, come sul punto di dirle qualcosa, ma lei all’improvviso sorrise e si chinò a terra.
«Ma guarda cosa c’è qui!». Si rialzò con un gattino davvero minuscolo tra le mani. Nel momento in cui se lo sistemò in grembo, il gatto le si arrampicò al petto e le strofinò il capino minuscolo contro il mento emettendo uno strano ronfo irregolare e metallico.
«Ha un gran bisogno d’affetto, povero piccolo! Il colore è bizzarro. Sembra un gatto nero caduto in un sacco di farina. Piuttosto bruttino, a dirla tutta».
Però gli sorrideva: era una bestiola lurida dalle zampe lunghe, la coda da ratto e certe orecchie che sembravano attaccate alla testa con la colla, ma Em gli era così grato per averla fatta sorridere che disse: «Diamogli qualcosa da mangiare».
Gli diedero un pezzetto di pane con del formaggio, che il gatto mangiò con avidità. Arrivarono subito due gatti più grandi; uno di loro si appostò sulla sedia libera, ma il gattino mise una zampa sopra il suo pasto, rizzò il rado pelo e soffiò con tale ferocia che il gatto grande fece un passo indietro. Quando ebbe spazzolato via tutto, fece con cura il giro del tavolo a caccia di briciole, evitando con abilità la lettera che stava nel mezzo, guardò in faccia Em e Alberta e poi saltò in grembo a lei, dove si acciambellò quieto, scosso da sporadici singhiozzi. Lei disse: «Ha un musetto onesto. Tutto il contrario di Napoleon, che ti fa sentire a disagio apposta. È il nostro gatto, a casa».
«Questo è un randagio. Quello che sa l’ha imparato sulla sua pelle, povera bestia. Non deve aver imparato molto sull’igiene...».
Alberta lo carezzava piano. «Deve essere pieno di pulci. Mi chiedo se...». Vide prima di lui Julius che si sbracciava nella loro direzione. «Per favore, lo tenga lei». Gli depose il gatto sulle ginocchia e se ne andò di corsa.
Lui si mise in attesa, col gatto in grembo. Gli parve che ci mettesse una vita. Per distrarsi dall’attesa, decise di aprire la lettera.
Era di Mrs Friedmann e parlava di Matthias. Una scrittura molto larga, ma non per questo di facile lettura.
Sento il bisogno di metterla al corrente di una situazione oltremodo dolorosa. Lei ha un animo buono e sono certa che non avrà difficoltà a capire.
Seguiva un lungo, straziante resoconto del difficile stato d’animo di Matthias. Aveva perso la prima e la seconda falange di un dito, e le altre dita erano ridotte male: non avrebbe mai più potuto suonare il violino. Era sconvolto e inconsolabile, si augurava la morte, aveva aggredito il chirurgo, dopodiché era piombato nella più totale apatia e nel disinteresse per qualunque cosa o persona. La sola vista di Mrs Friedmann o di Becky lo portava alle lacrime, il solo pensiero della musica lo rendeva isterico. Era ancora in ospedale: avevano provato a trasferirlo in casa, ma nello stato in cui era necessitava di cure continue, e inoltre la presenza di Mrs Friedmann era per lui così difficile da sopportare che avevano dovuto ricoverarlo di nuovo. E poi c’era la proposta che meno si sarebbe aspettato.
Le lascio immaginare cosa voglia dire per me non poter fare nulla per lui, quando ha così tanto bisogno di aiuto. Hans ha provato e riprovato a parlargli, così come pure i dottori. All’inizio dicevano: diamogli tempo, ma ora non sembrano più tanto ottimisti. Siamo d’accordo, Hans e io, che Matthias debba avere un’altra possibilità, ed ecco perché, caro Mr Joyce, le sto scrivendo: per chiederle di portare via Matthias dall’ospedale e tenerlo un po’ con lei, dato che la sua è una vita così interessante e piena di stimoli. Ho parlato ieri sera con Hans ed ero tanto triste al pensiero di separarmi da lui, ma Hans mi ha detto: «Vuoi bene a Matthias? Oppure vuoi bene all’idea di avere un figlio?». Ha ragione lui, Mr Joyce, ed ecco perché ora ho l’ardire di chiederle questo favore, confidando nella generosità che lei ci ha sempre dimostrato e che non dimenticheremo mai. Sono io a scriverle stavolta, e non Hans, perché forse lei non avrebbe creduto che io acconsentissi a rinunciare al mio ragazzo, se non fossi stata io in prima persona a comunicarglielo. Hans le scriverà comunque perché ci sono degli aspetti finanziari su cui accordarsi – vogliamo che le spese siano a nostro carico –, se lei avrà la bontà di accettare la nostra proposta. Perdoni il mio pessimo inglese e la sfacciataggine della mia richiesta. Non lo farei se non fosse per Matthias.
Si firmava: «la sua affezionata B. Friedmann». Restò per alcuni istanti basito dalla spiazzante semplicità di quella proposta. Dal fatto che quella donna potesse tranquillamente – bè, forse non proprio tranquillamente – cedergli suo figlio! Era chiaro che coltivava un’immagine esagerata della sua posizione, perché lui le aveva dato i bambini, ciò che lei desiderava di più al mondo e, all’inizio, anche i mezzi per tirarli su. Ma anche così... quella donna voleva affidargli un ragazzino spezzato e disperato, che aveva appena perso ciò che considerava la sua unica ragione di vita. Voleva affidarlo a lui, a Em, perché era sinceramente convinta che fosse la cosa migliore per il ragazzo, credeva in buona fede che Emmanuel fosse la persona adatta ad assumersi una responsabilità così grande e delicata, perché era una persona di provata bontà con una vita ricca, interessante e bella! Quella donna non ha idea, pensò con gravità, che sto per lasciare mia moglie, una donna difficile e in cattiva salute, per sposare una ragazza con quarant’anni meno di me, sempre che lei mi voglia. Una situazione complicata, piena di tensioni, che non sarà certo la più adatta ad agevolare la guarigione di un bambino che ha vissuto un’esperienza così devastante. Si ripromise di andare a trovare i Friedmann appena arrivato a Londra, e spiegare loro la situazione. Si cacciò la lettera in tasca sforzandosi di provare fastidio o condiscendenza verso l’ingenuità della Friedmann. Poi tornò Alberta, seguita da Julius. Era di nuovo pallidissima. Si sedette, come in preda a una suprema stanchezza.
Attraversarono il porto per andare a mangiare: si erano resi conto che era ora di pranzo solo perché Julius aveva detto di dover andare a casa a mangiare. Il gatto li seguì e alla fine Alberta lo prese in braccio e se lo portò fino al tavolo dove scelsero di sedersi. Ordinarono una frittura di pesce e pomodori ripieni serviti freddi. Non mangiarono molto, nessuno dei due, il gatto invece si abbuffò tanto che alla fine sembrava diventato triangolare e si puliva con la lingua i baffi sporchi riso. Poi ruttò rumorosamente, si mise sulle gambe di Alberta e iniziò una complicata operazione di pulizia personale. «Mi piace come procede la sua vita», disse Alberta. Gli teneva la coda malmessa perché potesse lavarla. Arrivarono con sollievo alla fine del pasto. Erano rimasti sempre in silenzio, a parte qualche sporadica considerazione sul gatto. Quando fu servito il caffè, Em si decise a chiederle: «Hai voglia di dirmi cosa ti hanno detto da casa?».
«È stato investito da una macchina nel vicolo accanto alla chiesa, di sera. Quando l’hanno trovato era già morto».
«E quello che l’ha investito?».
«Non si è fermato», rispose. L’espressione neutra nei suoi occhi lo spinse a non esprimere l’indignazione.
«C’è mio zio a casa. Ho parlato con lui. Gli ho detto che torno il prima possibile. È un problema?».
«Certo che no. Pensi di fermarti lì per un po’?».
Lo guardò completamente persa, così Emmanuel decise di non insistere. «Sono contenta di averci parlato, comunque. Crede che adesso potremmo rientrare?».
Em pagò il pranzo e disse: «E del gattino che ne facciamo?».
«Pensavo di portarlo con me. Non credo abbia un padrone, non ci farà caso nessuno. Le dispiace?».
«Mi sembra una buona idea». Lo pensava davvero: era qualcosa di reale a cui poteva aggrapparsi, anche se aveva provato una fitta di gelosia all’idea che quell’esserino avesse catturato tanto la sua attenzione. Mentre camminavano verso casa, lei gli disse: «È stato davvero molto buono e gentile con me. Me ne accorgo, è solo che mi riesce difficile parlarne». La voce le tremò un poco nello sforzo di dire quella frase.
Lui la guardò mentre camminava in salita accanto a sé. «Non è niente, mia cara Sarah». Gli batteva forte il cuore: lei lo aveva guardato con intensità quando l’aveva chiamata con il suo vero nome. Allora non poté trattenersi. «A volte... ti voglio molto bene. Mi sembra che tu sia parte di qualcosa che amo». S’interruppe di colpo. Era abbastanza, più che abbastanza. Sarah gli sorrise in modo strano, assente, e il silenzio si posò sulle sue parole in un modo tale che un minuto dopo era come se non le avesse mai pronunciate. Non aveva idea di cosa stesse pensando. Passati altri minuti, si stava chiedendo se le avesse sentite o no.
Arrivati davanti alla casa, trovarono Julius seduto sullo scalino della porta. Leggeva un grosso libro di Wells, La guerra dei mondi, portava i soliti jeans a cui teneva appeso un coltello in una guaina. La sua schiena era liscia e bruna come il guscio di un uovo.
«Ho pensato potesse servirvi aiuto per altre telefonate. Sapete, per il greco».
«Jimmy Sullivan mi chiamerà stasera tra le sei e le sette. Pensi di potermi aiutare?».
«Il signore che si è imbarcato stamattina?».
Dissero di sì, e Julius spiegò loro che sarebbero arrivati al Pireo ben dopo le otto, perché la nave compiva l’intero giro delle isole e sarebbe ripassata anche per la loro. Allora si resero conto che questo sarebbe accaduto di lì a mezz’ora circa, ed Em le domandò se desiderava partire subito.
«Non lo so. Non ho preparato i bagagli... bisogna fare anche quelli degli altri...».
«Se volete, posso procurarvi un caicco in serata», propose Julius.
Emmanuel la guardò: «Che ne dici?».
«Sì, è una buona idea. Ma se Julius non ne trova uno, resteremo incastrati con tutta la roba nelle valigie».
«Ce ne sono molti che fanno su e giù in questa stagione. Non ci saranno problemi. È molto più bello che viaggiare sulla nave grande. È il tuo gatto?».
L’aveva messo giù e adesso, sdraiato su un fianco, li guardava coi suoi occhi spietatamente innocenti. «Non proprio. L’ho trovato. Sai se è di qualcuno?».
«M’informerò. Adesso vado. Il libro lo lascio qui».
Dopo che Julius se ne fu andato, Emmanuel le disse: «Hai ragione. Non potremmo mai fare le valigie in tempo. Inoltre ci servirà almeno un asino per arrivare giù al porto con tutti i bagagli».
Sarah prese in braccio il gattino e disse: «Se non le dispiace, aspetterei un po’ prima di cominciare coi bagagli. Possiamo?».
Anche se non lo disse esplicitamente, era chiaro che aveva un gran bisogno di solitudine, così Em le aprì la porta della sua camera e gliela chiuse alle spalle senza altri commenti.
Tornò in terrazza e restò un poco a osservare la scena placida e torrida sotto i suoi occhi. Era l’ora in cui quel paesaggio manifestava tutta la sua antichità: il sole che scaldava il mare e le rocce, il silenzio di animali e uomini, le case con le imposte sbarrate, i pochi alberi immobili nella calura, il cielo era una cupola enorme, un baldacchino di un’altezza così vertiginosa, di una vastità così priva di confini, da sembrare al di là del tempo. Osservava il paesaggio e il suo sguardo cominciò ad allontanarsi dal mare, dalle rocce, dall’isola per abbracciare il mondo intero, come fosse semplicemente lì, fra i suoi occhi e il cielo; in questo modo i mari erano fatti di singole gocce d’acqua, le terre erano fatte di singole zolle e il cielo pullulava di altre stelle, altri soli invisibili e lune sconosciute, e il mondo intero era un grumo di polvere e terra, una particella, un accidente così piccolo che ci voleva uno sguardo attento per notarlo. Eppure quel grumo minuscolo conteneva una moltitudine di vite, e della maggior parte di esse lui non sapeva un bel niente: era un’antichità che la sua mente non riusciva nemmeno a concepire. La sua grandezza e varietà era troppo per lui: si sentiva un essere insignificante. E come tale si agitava e arrabattava, devoto a una divinità che si identificava di volta in volta con il futuro, con la prossima generazione, con il passato. E intanto usava parole prese da linguaggi specifici per comunicare... comunicare cosa? Ciò che sentiva o percepiva, il frutto del suo piccolo, personale percorso di conoscenza. E facendolo si aspettava di ricevere in premio una felicità che apparteneva ad altri, un’elettrizzante novità nel suo scenario quotidiano, qualunque cosa servisse a gonfiare la sua idea di se stesso... Eccomi qua, nel mio guscio, pensò: non posso scrivere una commedia sulle stelle, non posso diventare una stella. Non ho idea nemmeno di come sia essere un albero, figuriamoci una stella. Non ho idea di come sia essere qualcun altro.
Si ritrovò di sopra, in camera sua. Non si era accorto di esserci andato, e adesso gli pareva davvero bislacco che, mentre speculava sulla piccolezza irrimediabile della sua esistenza, dovesse constatare di non avere nemmeno il controllo di un singolo momento all’interno di quella piccola vita. Una parte di lui doveva aver preso la decisione di andarci, le gambe ce l’avevano portato e adesso era lì, e gli sembrava di essersi perso un segmento di esistenza. Se uno si accorgeva di una cosa del genere, questo significava che viveva in una maniera trasandata, che si agitava invano nel suo guscio. E questo era troppo: una cosa è essere insignificanti al cospetto del tutto, altro è dimostrarsi inadeguati anche nel proprio modesto presente. Quant’era ridicolo il suo rammarico di non potersi misurare con le stelle! Gli venne subito in mente la critica che gli aveva fatto Alberta a New York, a proposito di Clemency. Aveva detto che le rinunce di fronte a cui era posta erano poco significative, dal momento che lei non assegnava un grande valore a quelle cose. Allora Emmanuel aveva deciso di riscrivere quella parte, ma poi non lo aveva più fatto. Perché? In parte per pigrizia, certo, ma anche perché non sapeva cosa scrivere. Non era una questione di abilità drammaturgica. Perciò aveva lasciato stare. Il guaio era che, data la sua esperienza nel fare senza, gli riusciva difficile compiere delle rinunce, perché temeva in tal modo di impoverirsi troppo.
Adesso si sentiva inquieto, e decise di mettersi a preparare i bagagli. Da settimane desiderava ritrovarsi per un giorno intero solo con lei, e adesso che l’auspicio si stava realizzando, era tutto sbagliato. Sarah era in preda a un dolore profondo, irraggiungibile: eppure Emmanuel da settimane non pensava che a lei, in un modo che l’aveva fatto dubitare di se stesso, al punto da credere che senza di lei la sua vita non avrebbe più avuto un significato. Preparò le sue cose in preda a una specie di frenesia. A tempo debito, le valigie le avrebbe fatte per andare a vivere con lei, lasciandosi alle spalle tutto: lacrime, recriminazioni, disprezzo, insieme agli anni trascorsi a cercare di risarcire qualcuno per una perdita che non aveva causato lui. Sarebbe cominciata una nuova vita, e avrebbe usato ogni sua risorsa per renderla bella e interessante per Sarah...
Scese le scale lentamente, immaginando che lei dormisse: le imposte della finestra sul lato ovest erano chiuse, ma il bisogno di controllare che stesse bene lo spinse nella terrazza opposta, dove si affacciava l’altra finestra. Era seduta sul pavimento, appoggiata al letto, e dormiva con la testa su un braccio. Sul letto c’era una lettera, un grosso quaderno aperto e una penna. A guardarla troppo a lungo temeva di svegliarla.
Tornò di sotto, a preparare la roba di Jimmy. Jimmy in quel momento gli era curiosamente estraneo: come una persona che gli era stata vicina un tempo ma che non vedeva da anni. Non ci mise molto a preparare la sua valigia.
Poi, Lillian. Una parte della sua roba era rimasta a New York, ma era riuscita lo stesso a portarsi dietro una quantità enorme di oggetti. Cominciò a mettere via con cura le sue scarpe, perlopiù sandali di varie fogge e colori: dovevano essere avvolte in appositi involucri di panno con sopra le sue iniziali. Il comò straripava di biancheria, camicette, maglie, pantaloncini, foulard... cosa mai se ne fa una persona di quarantotto foulard?, si chiese dopo averli contati; l’armadio poi era stracolmo di gonne, abiti, giacche, soprabiti, cappelli, cinture, pantaloni, vestaglie. Il ripiano del comò era gremito di flaconi e vasetti, cofanetti, pennelli, pettini, gioielli, occhiali da sole, profumi, creme, rossetti e trucchi d’ogni genere. C’era anche la cornice da viaggio di pelle rossa dove teneva le foto di Sarah, che portava sempre con sé. La aprì: due scatti, uno in cui la piccola rideva e uno in cui era seria. Erano piuttosto sgranate perché l’immagine era stata ingrandita. Sarah su un tavolo con un vestitino chiaro, con appena un ciuffo di capelli: la testa sembrava troppo grande rispetto al corpo, le braccine paffute con le pieghe ai polsi, le piccole dita. Nella foto in cui era seria aveva gli occhi enormi, in quella in cui rideva aveva la fronte deliziosamente aggrottata: piccola, cara Sarah... ma lei era morta. Era morta da quattordici anni e Lillian non voleva lasciarla andare: ore e ore della sua vita a rimuginare e struggersi su quelle foto, senza dimenticarle un istante. A qualunque cosa pensasse, nella testa non aveva che Sarah. Se pensava a Lillian, la presunzione di Mrs Friedmann – che lui sarebbe stato pronto a tutto per Matthias – appariva tutt’altro che insensata... perché adesso gli veniva in mente Mrs Friedmann? Non per via di Lillian e Sarah, questo gli era chiaro, si trattava di qualcos’altro, di tutto quel che era successo quel giorno dopo che aveva letto la lettera: non aveva smesso un attimo di pensare a quella donna, anche se forse in modo inconsapevole. L’immagine di Mrs Friedmann prese forma davanti ai suoi occhi: una donna grassa e piuttosto volgare, vestita in modo inappropriato, troppo truccata, con una voce roca ma armoniosa che diceva cose che la facevano piangere. Qualche lacrima doveva esserle caduta anche sulla lettera. Doveva rileggerla. Liberò un angolo del letto e si sedette.
La rilesse con calma e poi restò lì a lungo, come paralizzato. Era un’altra lettera, completamente diversa da quella che aveva letto al mattino, oppure era un altro l’uomo che la leggeva. Adesso non gli venivano parole: si sentiva esposto, percorso da un’ondata di emozioni contrastanti, come quando si arrossisce violentemente. Non sapeva quanto fosse durato, ma a un certo punto, mentre cominciava a diradarsi, aveva scoperto che le emozioni, quando superano una certa intensità, non hanno più nome né specificità: sono un tutto indistinto. In quell’istante gli parve una scoperta sensazionale, che lo riempì di soddisfazione. Per un certo tempo vi si beò, come fosse un fuoco vivace che in silenzio faceva piazza pulita di tutto il ciarpame emotivo che gli era pesato sull’anima per tanto tempo, e presto si sentì come una piuma che fluiva leggera su tiepidi aliti di brezza... Quando fu passata, o forse anche prima, gli parve di osservare la sua vita dall’alto di una vetta, come fosse dispiegata nella pianura sottostante: senza cronologia, una sequenza piana e semplice di fatti. Questi fatti tutt’a un tratto affrontarono e fagocitarono l’immagine che si era fatto di se stesso. L’uomo che a New York ripensava al ragazzino che sognava di portare via la madre dal suo tugurio su un tiro a quattro si ritrovò di fronte al giovane che l’aveva guardata piagnucolare finché non si era deciso a metterla di peso su quella carrozza, coi pennacchi neri dei cavalli che ondeggiavano inquieti. L’uomo che riusciva a commuovere Jimmy con la storia strappalacrime di una ragazza bellissima, che poi aveva perso, dovette fare i conti con l’uomo che aveva mentito a quella ragazza, si era scordato di lei e solo quando era troppo tardi e per puro caso aveva scoperto cos’aveva dovuto affrontare. Tutti gli accenti patetici che aveva suggerito a Jimmy in quei racconti ora si spostavano sulla ragazza o su Jimmy stesso. Il personaggio che si era costruito – quello del marito paziente e leale con una donna che l’aveva deluso – si ritrovò di fronte l’uomo che, vuoi per solitudine vuoi curiosità, aveva voluto sposarla. Le deboli ragioni per cui lo aveva fatto, che aveva a lungo nascosto a se stesso, adesso emergevano chiare dalla memoria. Lei lo aveva attratto perché fino a dieci anni prima gli sarebbe stata inaccessibile, mentre era molto gratificante a quarant’anni suonati ricevere l’attenzione di una ragazza bellissima e senza esperienza. Tutto ciò che era successo loro in seguito era inficiato da questa premessa, ed Em si ritrovò ad avere ben poche ragioni per rammaricarsi dei loro deserti... «Mia moglie è tanto cara quanto è bella», aveva detto Friedmann, e quella frase fu il primo pensiero fatto di parole in una distesa di immagini mute. Lui non aveva mai concepito un pensiero simile riguardo a nessuno. Mentre prendeva atto di questo, vide i suoi desideri e le sue intenzioni collidere con le sue azioni, come due isole galleggianti chiuse in se stesse, che non avrebbero mai potuto collimare. Non c’era possibilità d’amore. Ma ora che il suo sguardo si avvicinava a Sarah – lei che aveva dato nuova vita al suo cuore, lei che lo aveva trasformato in un altro uomo – veniva assalito da immagini del passato: lui che la prendeva per le spalle, il suo corpo come una terra inesplorata, la sua gioventù (non c’erano nella sua vita altri uomini a cui paragonarlo), le trasfusioni di vita che si aspettava da lei dato che aveva dimenticato o rinunciato alla propria. Fu allora che vide Sarah come un’entità separata da lui: la sua promessa, i pericoli che correva, la sua vitalità, ciò che la muoveva e ciò che ancora dormiva in lei, la forma, il colore, il suono della donna che era adesso; vide tutto ciò che era, e non fu lei ma la forza della verità di quella visione a fargli capire cosa c’era di eterno in loro due e cosa invece sarebbe certamente cambiato. Questa consapevolezza, che andava facendosi ogni istante più nitida e luminosa, resistette al suo stupore (davvero lei era solo questo? Lei, che era la somma di ogni perfezione?) e poi anche al dolore e alla confusione e alla presa di coscienza che lui, Em, non aveva nessun bisogno di lei. Pensò anche alla quantità di dolore che, non sapendo nulla di Sarah, le avrebbe procurato solo per ottenere quello che voleva. Tutto questo gli apparve all’improvviso con una chiarezza che rasentava l’ovvietà. E allora riuscì ad accettare quella che era una realtà irrefutabile. Avvenne in un istante, una breve estasi dopo la quale la sua coscienza si riassestò impercettibilmente nella certezza che era finita. Era seduto sul letto a guardare un raggio di sole, con la lettera di Mrs Friedmann appallottolata in una mano.
Sull’uscio apparve Julius. Lo colpì il suo tempismo: non un minuto prima e non troppi minuti dopo, così da impedire che la solitudine lo facesse soccombere all’amarezza e alle difficoltà che si profilavano all’orizzonte. «Vi ho prenotato il caicco. Verrà a costare cinquecento dracme. Parte stasera verso le undici. Ho avuto il permesso dai miei genitori di accompagnarvi all’imbarco. Lei è favorevole alla vendetta?».
«Non saprei», rispose colto di sorpresa.
«Qui è molto praticata. Non come ai vecchi tempi, questo no».
«Che succedeva ai vecchi tempi?».
«Oh, mantelli ricamati intinti nel veleno, vino avvelenato, spade... il veleno andava per la maggiore, ma credo che ormai la gente non abbia più le conoscenze per usarlo. Mi hanno detto che lei scrive per il teatro. Non deve essere facile. Non bisogna stupirsi», aggiunse magnanimo.
Emmanuel, risentito dall’essere paragonato con meschini esiti a Euripide, disse: «Sei stato molto gentile a fare queste cose per noi. Ce n’è un’altra che vorrei chiederti. Quando torni giù al porto, potresti prenotarci un asino o due per portare giù i bagagli?».
Sbiancò un poco, ma si limitò a chiedere a che ora.
«Verso le nove, direi. Chiudiamo la casa e andiamo. Dopo sei invitato a cena con noi, verso le nove e mezza, in un ristorante a tua scelta. Ti va?». Gli si illuminarono gli occhi ed ebbe un piccolo sussulto. «Sarebbe un onore! Un piacere e un onore. Ci vediamo da Janni alle nove e venti». Poi si avvicinò e sussurrò: «Il gattino l’ho pagato di tasca mia... è un regalo d’addio. Magari una sorpresa le tirerà su il morale. A cena si potrebbe discutere di letteratura inglese?».
«Non vedo perché no».
Poi rincarò, tutto contento: «Argomenti alternativi... astronomia, storia delle civiltà, cosa bisogna fare per arrivare sulla luna... Gli asini arriveranno puntuali!», assicurò a mo’ di congedo.
Emmanuel ripiegò la lettera di Mrs Friedmann e la mise via con cura. Presentiva che in un modo o nell’altro gli sarebbe servita di nuovo.
Quando lei ricomparve, Emmanuel aveva finito di preparare la roba di Lillian ed era seduto in terrazza. Gli si avvicinò piano, arrotolandosi le maniche di una camicetta scolorita che era certo fosse appartenuta a Lillian. La guardò attentamente in viso: le gote erano soffuse di colore dopo il sonno ma l’espressione degli occhi era sempre la stessa, velata da un disagio che li rendeva troppo grandi e scuri. «Vuoi fare un ultimo bagno?», le propose. «Julius ha organizzato tutto in maniera eccellente. Stasera ceniamo con lui alle nove e mezza».
«E le valigie?».
«Tutte pronte a parte la tua e ciò che io posso aver dimenticato. Abbiamo tempo. E il gattino?».
«Si è messo a dormire nel mio cappello». Se ne stava accanto al parapetto, irresoluta. «Fa ancora un gran caldo. Forse quella del bagno è una buona idea».
Camminarono in silenzio verso la caletta dove erano soliti andare a bagnarsi. Emmanuel era acutamente consapevole di ciò che lo circondava: del tardo sole che traeva riflessi ambrati dalle rocce, del mare con le sue striature viola, dell’odore caldo e in qualche modo antico della terra. Sentiva che lei invece si limitava a seguirlo, non si accorgeva nemmeno di dove fosse. Avevano preso tutti l’abitudine di mettersi il costume subito appena alzati, così lei si sbottonò la camicetta e se la tolse distrattamente, abbassò la cerniera della gonna, se la sfilò e si avvicinò all’acqua. «Aspettami per favore», le disse Emmanuel temendo che si sarebbe allontanata troppo e che non l’avrebbe raggiunta in caso di bisogno, vista la sua scarsa bravura come nuotatore. Lei si sedette sul ciglio della roccia coi piedi a mollo e aspettò senza rispondere. Quando vide che era pronto, si calò in mare e lui fece lo stesso. L’acqua era meravigliosa dopo tutto il sudore della giornata, e per qualche minuto Emmanuel restò a galleggiare godendosi la sensazione e guardando il cielo. Quando si voltò verso di lei, la vide nuotare a grandi bracciate verso il punto in cui spesso si era spinta con Jimmy. Preoccupato, si mise d’impegno a nuotarle dietro. Non era ancora a metà strada che la vide arrampicarsi su una roccia piatta e sedersi dandogli le spalle. Non si era mai spinto così lontano, e gli ci volle un bel po’ di tempo. Quando la raggiunse, era senza fiato. Si aggrappò al bordo scabro del roccione e vi si issò sopra con fatica, ma lei non si voltò nemmeno.
Emise un fischio, sentendosi nervoso e inopportuno. «Non avevo mai nuotato così tanto».
Lei non rispose subito, ma alla fine disse: «Mi dispiace... ma non ho davvero niente da dire. Faccio un’altra nuotata», saltò giù in mare e si allontanò in fretta.
La guardò. Era troppo stanco per seguirla subito, del resto si stava dirigendo verso la spiaggia. Il sonno aveva allentato il suo autocontrollo, ed era stato il primo risveglio in cui aveva dovuto fare i conti con la realtà della morte del padre. Ci era passata anche Lillian, ma lei era stata colta di sorpresa. La osservò mentre usciva dall’acqua e si avvolgeva nell’asciugamano: gli sembrava di vedere la tensione nelle sue membra. Doveva aiutarla a superare questa fase. Povero tesoro, pensò, e fu un pensiero di semplice affetto.
La nuotata di ritorno gli sembrò interminabile. Cercò di prendersela comoda, di godersela, ma alla fine si trattò soltanto di tornare all’asciutto in qualche modo. Si arrampicò sul loro scoglio, troppo sfinito anche per prendere il telo. Lei si era vestita e si stava asciugando i capelli.
«Sii buona. Passami il telo», le chiese. «Non ho il fisico da nuotatore e sono troppo vecchio per imparare. A tuo padre piaceva nuotare?».
Lei smise di asciugarsi e disse: «Non aveva molto tempo per farlo. E il mare dalle nostre parti è freddissimo».
«Le donne sono più portate degli uomini. Soprattutto dei tipi di città come me. Immagino che tuo padre non abbia sofferto di rachitismo da bambino».
«No, non mi pare», bofonchiò lei e ricominciò a frizionarsi i capelli.
Emmanuel continuò a parlare e a rivestirsi, come se non si stesse curando affatto di lei. «Ti ricordi la prima volta che mi hai parlato di tuo padre? Eravamo in aereo, diretti a New York. Mi hai raccontato le cose che ti diceva e, senza annoiarmi, mi hai fatto capire che uomo interessante fosse».
Lei aveva rinunciato ad asciugarsi i capelli, teneva il capo chino per nascondergli il viso, ma tremava dalla testa ai piedi. Em si alzò, si mise la cintura e le si avvicinò prima di sedersi. «Immagino quanto sia difficile per te dover affrontare questa prova senza il suo sostegno. Ti sembrerà strano, ma stavo pensando... cosa direbbe lui, l’uomo che più ti è stato vicino nella tua vita, se gli dicessi che tuo padre è morto all’improvviso? Forse riuscire a separare le due cose potrebbe aiutarti. Che ne pensi?».
Finalmente alzò lo sguardo: era pallidissima, in preda a un tumulto di emozioni dolorose. Lui ripeté la domanda, in tono sommesso: «Che ne pensi?», e le tese le braccia.
L’abbracciò stretta, in silenzio, finché il peggio fu passato, finché la sentì riaversi dal totale abbandono e cercare l’uscita da quel labirinto di dolore. Allora si calmò un poco e tornò consapevole della presenza di lui, che le scostò i capelli dal viso e glielo asciugò con un lembo del telo, con deliberata goffaggine, per strapparle un sorriso. Poi la lasciò andare. Le diede un fazzoletto e allora lei disse: «Non è facile restare imparziali, quando si vuole molto bene a qualcuno».
«No di certo».
Si soffiò il naso. «Quello che ha detto prima, a proposito di separare le due cose...».
«Sì?».
«Be’, sono d’accordo. Solo che mi riusciva molto difficile».
«Adesso va un po’ meglio?».
Annuì. «Avevo bisogno di piangerlo almeno una volta».
«Potresti averne bisogno ancora. Sei così giovane, cara Sarah. Ti aspettano tante cose».
Lo guardò perplessa.
«Piangerlo perché gli vuoi bene, è questo che intendo. E per non sentirti perduta». Adesso basta, pensò, e si alzò in piedi.
Sulla via del ritorno l’idea di averla avuta fra le braccia e il fatto che l’indomani sarebbe tornata in Inghilterra lo riempì di convulsa amarezza. Non poteva sottrarsi a quel sentimento, ma poteva dirigere la sua attenzione verso qualcos’altro, per esempio verso la distanza che avrebbe facilitato le cose, la semplice possibilità di dire: la scorsa settimana, il mese scorso, due anni fa...
Quando finì di fare le valigie, lei lo raggiunse in terrazza. Aveva in braccio il gattino, ronfante di piacere. Pareva che le lacrime le avessero disteso e semplificato i tratti del volto. Era bellissima: le palpebre gonfie e lisce, gli occhi limpidi come ardesia lavata, la bocca e la fronte distese dopo lo scioglimento della tensione. Si era messa una camicia blu scuro con le maniche arrotolate, e aveva una striscia di pelle bianca sul polso, dove prima portava l’orologio.
«Ha dormito tutto il pomeriggio. È così affettuoso che è impossibile non volergli bene. Sarà molto brutto per lui tornare alla vita randagia?».
«Comunque stasera rimedierà un’altra cena sontuosa», le rispose non volendo rovinare la sorpresa di Julius. Aveva preso la grossa damigiana rivestita di corda che era ancora mezza piena di vino, e le porse un bicchiere.
«Intanto che aspettiamo il mulattiere, tanto vale bere qualcosa».
«E guardare l’ultimo tramonto».
Si domandò, in preda a un tremore interiore, cosa questo significasse per lei. «Non porti l’orologio».
«Lo regalerò a Julius. È l’unica cosa che ho che penso possa piacergli. L’ho messo in una scatola. Quella che conteneva la borsetta da sera che mi ha regalato lei».
«Non è troppo grande per un orologio?».
«Sì, ma ci ho messo delle foglie di fico, in modo che non balli troppo. Crede che gli piacerà?».
«Ne sono certo... Sarah!».
Si sistemò il gatto in grembo e alzò gli occhi.
«Credi che andrai a New York?».
«Mi volete per la parte? Tutti e due?».
«Sì. Tutti e due». Sorrise, come per facilitarsi il compito. «Ma forse io non verrò, perché ho delle cose da fare in Inghilterra. È possibile che tu debba andare con Jimmy e basta. Per te va bene?».
«Verrà a vedere la commedia quando andrà in scena?».
«Sì, penso di sì. Ma sarà Jimmy a occuparsi di te. O credi che i tuoi avranno bisogno di te a casa?».
«Credo che ai miei serva soprattutto che io guadagni dei soldi».
«Sarà Jimmy a occuparsi di te», sottolineò per la seconda volta.
Lei arrossì un poco e disse: «Lo so». Poi dopo una pausa aggiunse inaspettatamente: «Mi ha detto che è disposto perfino a sposarmi pur di occuparsi meglio di me a New York».
«E tu cosa gli hai detto?».
Allargò le braccia. ««Be’... niente. L’ho ringraziato. Me lo ha proposto come se mi stesse consigliando di andare dal suo dentista, perché è tanto più bravo del mio».
«Non credo siano questi i suoi sentimenti. Non crede che qualcuno possa volergli bene, a meno che non si renda utile. Probabilmente è colpa mia». E poi di punto in bianco le raccontò della ragazza di campagna, tutta la storia, tutte le incognite, comprese le ricerche durate anni che alla fine lo avevano condotto a Jimmy: quando finalmente lo aveva trovato e lo aveva fatto venire a Londra, si era detto che vedendolo tutti i dubbi si sarebbero dissipati, e invece non era successo, non era mai stato sicuro, e per questo (solo per questo?) non aveva detto a Jimmy la verità.
Mentre raccontava questa storia a Sarah, pensava alla pura verità, senza soffermarsi nemmeno sui motivi per cui lo diceva proprio a lei. Ma alla fine si accorse che quel peso si alleggeriva un poco e la guardò preoccupato, temendo di averlo in qualche modo trasmesso a lei. Ma Sarah lo ascoltava tranquilla, senza dire o fare nulla, e adesso lo guardava con generica simpatia dicendo: «Io credo che chiunque sarebbe felice di scoprire di essere suo figlio».
«Quindi avrei dovuto dirglielo, secondo te?».
Lei tentennò un poco. «Questo non lo so. Volevo dire solo che lui sarebbe felice di saperlo».
Guardarono le nuvole simili a un coro velato, che si accumulavano bianche in un cielo già indorato dal sole che si ritirava piano, lasciandosi dietro striature verdi e rosa, tenere e struggenti come un lamento nell’aria, il mare simile ad acciaio brunito, la terra scurita da un’ombra misteriosa, l’aria di velluto impreziosito da stelle e gialle luci domestiche.
«Potresti dirglielo tu per me?», le domandò dopo un lungo, piacevole silenzio.
«Non preferisce dirglielo lei?».
«No... no, meglio di no. Tu credi che dovrei?», si prese qualche secondo prima di proseguire: «Avrei molte difficoltà a farlo dopo tutti questi anni». Le rivolse uno sguardo quasi supplichevole. «Se avessi in un modo o nell’altro la certezza che è figlio mio, sarebbe diverso. Ma così come stanno le cose, temo di sollevare un polverone riguardo a sua madre... inoltre, se non lo so, la colpa è solo mia».
«Va bene. Glielo dirò quando mi sembrerà il momento giusto. Si fida?».
«Te ne sono davvero molto grato».
«Anch’io sono grata a lei. Sembra passato così tanto tempo da stamattina, eh?».
«Tantissimo».
«E stasera questa casa sarà come se noi non ci fossimo mai passati».
«Ah», disse lui. «Credi che non abbiamo lasciato nessun segno?».
Emmanuel si sentì addosso lo sguardo serio di lei, nel crepuscolo.
«Ne dubito. La casa ha di certo lasciato un segno in noi, ma il contrario no: ha troppi anni alle spalle».
Sentirono i passi lenti e gentili di un mulo o di un asino sul selciato di pietra. È la fine, pensò Emmanuel, la fine di questa nostra giornata. Sulla barca non sarà così: la fine è questa. Si alzò in piedi. «Come farai a trasportare il gatto?».
«Mi legherò una fascia al collo. È bravo a adattarsi. E ha già fatto i suoi bisogni in un vaso di fiori, da bravo micino».
Caricato il mulo, Em si accinse a chiudere a chiave la porta e la vide in piedi proprio nel punto in cui era quella mattina quando aveva rivelato il contenuto del telegramma. Si sentì travolgere dalle stesse emozioni. Si affrettò a voltarsi e a chiudere la porta: la mattina era rimasto in silenzio per via della presenza degli altri, adesso almeno si tratteneva per sua pura volontà, e cercò di farsi forte della differenza.
Camminando dietro al mulo raggiunsero il porto, sotto una luna giovane seminascosta dietro veli di nuvole, come una bella ragazza su un letto di piume. Il mulattiere parlava col suo animale, loro invece restarono in silenzio finché non videro Julius che li aspettava. Portava una camicia pulitissima e i capelli crespi e scoloriti dal sole erano pettinati con cura all’indietro. Aveva un’espressione seria, ma ingentilita da un sorriso allegro.
«Ho ordinato le quaglie... piccoli uccelli arrosto. Che bella idea per portare un gatto! Immagino ti dispiaccia lasciarlo, vero?».
«Le dispiace molto, infatti», rispose Emmanuel anticipandola.
La cena fu un grande successo. Sarah e Julius erano una compagnia deliziosa: Julius bevve quattro bottigliette di aranciata, il gatto sgranocchiò così tante ossa di quaglia che non gli restarono energie neppure per rizzare il pelo quando comparivano i rivali. Dopo cena Sarah diede a Julius l’orologio: lui lo apprezzò molto e le disse del gatto. Poi corse dentro al ristorante e tornò con un rotolo di carta bianca.
«Voglio regalarti anche questo».
Si trattava di un vivace scorcio di vita marina, tratteggiato a inchiostro indiano con notevole abilità e attenzione ai dettagli. Nell’angolo stava la firma: «con affetto da Julius Lawson». Su in cima il titolo: Vita nel Mar Rosso.
«L’ho fatto questo pomeriggio. È senza dubbio quello che mi è riuscito meglio. Hai detto che ti interessavano gli animali marini, no?».
«Sì. È bellissimo».
«Cinque specie però non sono realistiche. Non le ho mai viste. Le ho disegnate come me le immagino a partire dal nome».
Lei lo ammirò di nuovo.
«Hai notato la tabella delle profondità?». E le indicò un lato del disegno, dove erano state tracciate linee sottilissime, per tutta la larghezza del foglio. «Tutti gli animali sono collocati nel giusto livello di profondità. Non tutti i pittori ci avrebbero pensato».
Lei lo ringraziò con solennità e lui si rilassò. «Non è un disegnino qualunque. Potresti anche incorniciarlo e appenderlo a una parete».
Sarah lo arrotolò con cura e gli promise che lo avrebbe incorniciato una volta arrivata a casa.
Quando fu l’ora d’imbarcarsi sul caicco, Julius si fece taciturno. Saltava dentro e fuori dalla barca come un uccellino, aiutandoli a sistemare i bagagli più piccoli. Alla fine strinse la mano a Emmanuel e lo ringraziò con un inchino solenne per la favolosa cena e quando Emmanuel, un po’ imbarazzato, gli diede una banconota da cento dracme dicendo: «Io non so cosa ti piace, perciò scegli tu cosa comprare», Julius osservò i soldi stupefatto e disse: «È la paghetta di cinque settimane! Lei è davvero generoso. Non so come ringraziarla».
Quando Sarah lo salutò, lui l’abbracciò con slancio e le sussurrò qualcosa, ma il motore si era appena acceso e dovette scendere. Saltò sul molo, gli occhi lucidi di commozione, e gridò: «Tornate! Tornate presto!». E loro, pur non sapendolo con certezza, dissero: «Sì!». Poi il caicco cominciò ad allontanarsi sciabordando e lo videro diventare sempre più piccolo, un bambino inerme.
Si sedettero su un portellone, più o meno in mezzo alla barca. I passeggeri erano molti, tutti greci, seduti a terra in mezzo a cassette di pesce e damigiane di vino, che parlavano fitto tra loro oppure gridavano rivolti ai passeggeri di un’altra barca che viaggiava a poca distanza. Emmanuel e Sarah avevano entrambi lo sguardo fisso verso la costa, ma lui si voltò a guardarla: aveva un’espressione seria, quasi grave, poi la vide come ritirarsi dentro di sé. «A cosa pensi?», le domandò.
Lei teneva ancora lo sguardo fisso quando rispose: «Cercavo di farmi una ragione della partenza. Voglio dire... stiamo lasciando l’isola. È un momento importante. Eppure fra qualche anno faremo fatica a ricordarcelo».
Emmanuel fu sul punto di obiettare, di dirle che quella partenza significava tanto per lui, ma poi dovette riconoscere l’essenziale verità di ciò che aveva detto. A distanza di anni, si sarebbe ricordato solo un aspetto di quel particolare frangente, mentre tutti gli altri si sarebbero persi nel flusso indistinto delle esperienze. Così non disse nulla.
La barca uscì piano dall’insenatura, poi prese velocità. Dietro di loro la massa montuosa dell’isola incombeva sul porto illuminato, che pian piano si rimpiccioliva, e loro stessi diventarono come minuscoli stami nel cuore di un fiore enorme. Intorno a loro il mare scuro, sopra di loro un cielo carico di stelle. I passeggeri adesso avevano abbassato il tono di voce, l’altro caicco viaggiava a velocità costante e a costante distanza. Il gattino giaceva quieto nella fascia, un foulard quadrato che Sarah aveva adattato allo scopo. «Julius ha cambiato la vita di questa bestiola. Mi permetteranno di portarlo in Inghilterra?».
«C’è la quarantena, credo. Troveremo una soluzione».
Erano seduti sul portellone. Di punto in bianco lei disse: «Adesso abbiamo lasciato l’isola».
«Siamo in viaggio, allora».
Sarah sorrise; poi sbadigliò e annunciò che avrebbe cercato di dormire un po’. Lui le sistemò il proprio soprabito come cuscino e la coprì col suo. Il gattino uscì fuori dal giaciglio, si stiracchiò, sbadigliò e le si adagiò intorno al collo. Creature giovani, pensò Emmanuel: hanno avuto una giornata impegnativa. Lei gli tese la mano e disse: «È stato molto buono con me. Mi ha fatto capire che non si è sempre completamente soli, che di tanto in tanto si incontrano altre persone». Le prese la mano e, animato da un sentimento di cui lei non era al corrente, la baciò. Lei disse con voce roca di sonno: «Nessuno mi aveva mai baciato la mano prima d’ora», e gli parve di vederla cedere al sonno un momento dopo. Si prese il tempo di coprirle la mano col soprabito, e fu tutto. Il gattino sollevò la testa, cercò una posizione migliore tra la spalla e il collo di lei, ed ecco che entrambi dormivano tranquilli.
Lui invece non si sentiva stanco. Aveva immaginato di parlare con lei ore e ore: adesso però non era deluso, Sarah era lì e lui poteva guardarla. Si accese una sigaretta e osservò l’isola indietreggiare in una nebulosa di luci, sullo sfondo di un cielo che non aveva confini. Avevano lasciato l’isola, e presto lui avrebbe lasciato Sarah. Era tutta una questione di partenze. E dove sarebbe andato? La grande domanda. Sarebbero arrivati, scesi dalla barca... e poi? Rifletté a lungo sul significato degli arrivi nella sua vita, e la sigaretta finì. Usò come cuscino la borsetta di lei, che era scivolosa e dura. Era stanco, stanchissimo: sentiva la barca pulsare della sua stanchezza, quella barca che andava rapida verso una destinazione ignota anche se lui sapeva benissimo che c’era il mare tutt’intorno ed era sul mare che viaggiavano. Guardò Sarah, concentratissima sui propri sogni, e il gattino adagiato morbidamente intorno al suo collo: anche i suoi occhi, due minuscole fessurine, esprimevano una totale concentrazione ed Em desiderava imitarli, in questo se non in altro. Si coricò. Si mise a guardare le stelle e pensò: loro stanno lassù tutto il tempo, io non riesco a stare nemmeno qui, adesso. Posò la mano sulla schiena del gatto e chiuse gli occhi...