Uno

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Jimmy

 

Sarebbe potuto succedere ovunque, in qualsiasi momento, e sarebbe stato peggio. Ad esempio a Parigi o a New York, alla vigilia di una prima, con il cuore malandato di Lillian a tenere tutti col fiato sospeso, Emmanuel in piena crisi da debutto in teatro e io che rimbalzo da un’impasse emotiva a un’altra, rischiando di dire all’uno le parole di conforto destinate all’altra. Invece è successo a Londra, due settimane dopo la prima, alle otto e venti circa, nel bagno di una casa ammobiliata di Bedford Gardens. Sarebbe potuto succedere in albergo o in un appartamento circondato da altri appartamenti, e sarebbe stato peggio. E poi l’ipotesi peggiore di tutte: poteva essere morta davvero. Del resto erano settimane che Emmanuel rimandava il momento di dirle che era licenziata: credo che le abbia anche lasciato credere che sarebbe venuta a New York con noi. Portiamo sempre una segretaria quando viaggiamo, perciò non sarebbe stato assurdo da parte sua. Ieri mattina, quando gli ho chiesto se gliel’avesse detto, ha cercato di mettere in mezzo me: mi ha perfino riproposto la solita manfrina, che lui si guadagna da vivere assumendosi il carico dei problemi emotivi degli altri, e sarebbe giusto che qualcun altro si facesse carico dei suoi. Ma a quel punto sapevo che era questione di ore. Ha pianto molto. Povera Gloria, ha la lacrima facile. Em è stato premuroso con lei per tutto il giorno; Lillian si è lasciata convincere a non farsi vedere, che era poi l’unica premura che potesse usare a Gloria, e anch’io ho fatto del mio meglio. Lei ha consegnato a Emmanuel la sua posta poco prima che uscissimo a bere qualcosa con Cromer per poi andare a teatro, a vedere quella ragazza che Emmanuel si era persuaso di volere per la prossima produzione a New York. Emmanuel le ha offerto un bicchiere di sherry, e ne abbiamo mandato giù uno tutti e tre, nell’imbarazzo generale: in quel momento sembrava stesse abbastanza bene – un po’ taciturna, gli occhi gonfi – ma nel complesso mi era sembrata sotto controllo. Una volta in taxi Emmanuel se ne è uscito con un: «Che peccato che le donne non diventino più belle dopo la pioggia, come la campagna!», e da questo ho capito che si sentiva in colpa. E Lillian ha ribattuto: «Io sono bellissima dopo che ho pianto. Oso dire che è il mio momento migliore». Una replica brillante, sia perché ha fatto ridere Emmanuel sia perché è la verità.

La ragazza che abbiamo visto a teatro sembrava quella giusta, ma non lo era. Emmanuel ha detto che la sua voce lo deprimeva, e Lillian, come da copione, ha detto che la trovava perfetta, così tra dibattito e cena siamo rientrati a mezzanotte passata. Ci siamo seduti a bere un bicchiere e Lillian ha riportato il discorso sull’attrice. È buffo come ad amare di più il contraddittorio siano quelli che non sanno sostenerlo. Emmanuel, per cambiare discorso, ha chiesto come mai tutte le luci fossero accese. Era vero: in soggiorno, fin da prima che rientrassimo, e su per le scale era tutto acceso. In alcune persone la depressione e i brutti pensieri ottundono la capacità di osservazione, ma Emmanuel non è tra questi: lui nota sempre tutto, ma ne parla solo se si annoia. Lillian allora ha detto: «Che strano!», ed è corsa di sopra farfugliando qualcosa a proposito dei ladri. Siamo rimasti seduti sui braccioli delle poltrone, ed Emmanuel mi ha guardato da sopra il bicchiere di succo di lime; poi, aggrottata e di nuovo rilassata la fronte in modo eloquente, mi ha detto: «Jimmy. Qui siamo seduti su poltrone d’altra gente, a bere dai loro bicchieri. D’ora in poi voglio stare in albergo, senza prendere in prestito niente da nessuno».

«Fra tre settimane sarai tranquillo e beato al New Weston», gli ho risposto.

«Non vedo l’ora».

Aveva occhiaie bluastre; ogni volta che cerco di dirgli qualcosa per tirarlo su di morale, sembra che dia solo nuovo slancio alla sua angoscia; può darsi che angoscia non sia la parola giusta, ma è uno stato costante e silenzioso e lo fa apparire così triste, che non trovo un’altra parola per definirla. E poi, proprio mentre sono nel pieno di queste riflessioni, è invece lui a dire qualcosa che mi fa ridere. Questa volta, con quel luccichio negli occhi che la gente scambia per malizia e che è solo innocente divertimento, mi ha detto: «Se di sopra ci sono degli scassinatori, pare che Lillian ci stia andando piuttosto d’accordo...».

È stato in quel momento che abbiamo sentito il grido dal primo piano. Un suono agghiacciante: prima urlo, poi ululato che si è placato in un gemito terrorizzato, seguito da un tonfo e poi dal silenzio. La faccia di Emmanuel si è contratta all’istante nell’espressione vitrea e immobile di chi si dispone ad accettare una disgrazia, e ho pensato che non sarebbe riuscito a muovere un dito, invece in un batter d’occhio era sulle scale, diversi passi avanti a me.

Lillian era distesa sul pavimento del bagno, fuori dalla porta per metà, e la luce dentro era accesa, perciò l’abbiamo vista appena arrivati in cima alle scale. Emmanuel si è inginocchiato accanto a lei. «È svenuta. Tu guarda nel bagno». Non c’era bisogno di dirmelo. Nella vasca c’era Gloria Williams e accanto le sue scarpe, sistemate in bell’ordine come quando si va a dormire. Sennonché Gloria indossava ancora il suo orrendo maglioncino viola chiaro e la gonna nera attillata, e sembrava proprio la copertina di un romanzo giallo.

«È viva», ha detto Emmanuel. L’ha detto senza alcuna intonazione interrogativa, senza neppure alzare lo sguardo. Mi sono reso conto allora che il respiro difficoltoso e gemente che sentivo non era di Lillian, ma di Gloria.

«Sì».

Ho cercato come potevo il battito del suo cuore e l’ho trovato: sussulti stizzosi e irregolari. La vasca era asciutta.

«Aiutami a portare a letto Lillian. Poi chiama il dottore».

Così abbiamo fatto. Emmanuel ha imbevuto un fazzoletto con un flaconcino preso dalla toletta e poi l’ha usato per tamponare la fronte di Lillian, mentre io parlavo al telefono con la moglie del dottore. Quando ho riagganciato, nell’aria c’era un forte profumo di acqua di colonia e non si vedeva più Emmanuel.

Era in bagno, in ginocchio accanto alla vasca, che spruzzava acqua fresca in faccia a Gloria e le dava colpetti sulle mani, senza ottenere molto.

«Fenobarbitone», ha detto. «E Dio solo sa quanto sherry. Sherry!», ha ripetuto con una specie di disgusto incredulo. «Il dottore sta arrivando?».

«Fra circa cinque minuti. Mentre io dicevo alla moglie che Gloria respirava, lui si stava già vestendo. Per fortuna abbiamo trovato un bravo dottore».

«Noi troviamo sempre bravi dottori».

«Quante ne ha prese?».

«La bottiglietta è vuota. Ma non so quante pillole fossero rimaste. Mettiamola a letto, nello spogliatoio». Era molto più bassa di Lillian, ma pesava più del previsto, e il modo in cui respirava cominciava a spaventarmi.

«Dobbiamo metterla seduta, credo. Con dei cuscini dietro la schiena». Abbiamo fatto così. La testa le ricadeva da un lato e poi dall’altro, e ho sentito scricchiolarle le ossa del collo.

«Del caffè nero?», ho suggerito. «Potrebbe aiutarla a svegliarsi?».

«Bisogna tirarle fuori dal corpo la roba che ha preso. Tu sai come si fa a indurre il vomito in una persona in stato d’incoscienza? Per me, accomodati pure».

«Non è in stato d’incoscienza».

Gloria cominciava ad aprire gli occhi, ma si vedeva solo il bianco, e non era una bella immagine. Hanno tremato un poco e poi si sono richiusi. Emmanuel ha esclamato: «Lillian!», come se la semplice idea di lei fosse un peso sulla sua coscienza, ed è corso via.

Ho tentato di sistemare meglio i cuscini dietro la nuca di Gloria, ma lei continuava a scivolare giù: vergognandomi della mia imperizia, le ho scostato dalla fronte i capelli ispidi e spettinati e mi sono chiesto cosa l’avesse spinta a tanto. L’amore per Emmanuel? La perdita di ogni speranza? O magari banale ripicca, ostinata volontà di rivalsa? O più semplicemente sei mesi della propria vita trascorsi a fianco di un eminente drammaturgo inglese? Stavo giusto pensando con una certa vergogna che non riuscivo a dispiacermi davvero per lei, quando ho sentito suonare il campanello e poi Emmanuel scendere le scale. Stava arrivando il dottore, e allora sì, mi è dispiaciuto per Gloria. Poveretta, era di un pallore spaventoso e la sua faccia sembrava un velo adagiato sul nulla...

Il dottore era un signore dall’aria stanca e affidabile; Emmanuel lo stava accompagnando in camera e passando mi ha detto: «Jimmy, fammi un favore: tieni d’occhio Lillian. È piuttosto confusa».

Lillian era distesa sul letto con gli occhi chiusi. Aveva in faccia, come sempre, quello che in altri tempi si sarebbe definito, un “pallore cereo”. Emmanuel le aveva sistemato addosso la pelliccia di visone, il che accentuava quella sua aria fragile e indifesa: perché, sebbene sia alta di statura, è anche assai magra. Ha i capelli biondo cenere, simili a seta cangiante, ed è in tutto e per tutto il contrario di Gloria. Nel sonno sembra delicata e inoffensiva: in quel momento però non dormiva. Ha aperto gli occhi con la lentezza languida di un raffinato macchinario di scena e ha abbozzato un sorriso.

«Che colpo», ha detto. «Jimmy, sii buono. Accendimi una sigaretta».

La sua borsa era sulla sedia della toletta, e dalla specchiera tripla ho visto che mi guardava. Ha un viso tutto occhi, bocca e pelle candida, molto bello se visto a una certa distanza.

«È arrivato il dottore», ho detto. Le ho dato la sigaretta e gliel’ho accesa con un fiammifero. Le sue enormi pupille nere si sono contratte un poco davanti alla fiammella: l’acqua di colonia e il fumo della sigaretta alle erbe formavano una miscela micidiale. Si è adombrata.

«Come mai non è venuto lui?».

«Si sta occupando di Gloria. Non sta molto bene», le ho detto cauto.

Allora le sue lunghe dita ossute mi hanno afferrato la manica e anche la pelle del braccio. «Gloria! Non sarà mica...? Cos’ha fatto? Dio santo, che ha combinato Em stavolta?».

«Ora sta aiutando il dottore, immagino», ho replicato, deciso a fingere di non capire. Lei doveva averlo intuito, perché non ha mollato la presa della manica. «Se tu stai bene, forse è meglio che io vada a vedere se posso rendermi utile di là».

«Jimmy! È stato uno shock tremendo. Non mi ricordo niente. Hai presente la mia medicina per il cuore, di là in bagno? Se te ne vai, è meglio che me la porti qui. Non dire niente a nessuno, prendimela e basta».

Sono andato a prenderla.

In bagno ho visto la bottiglia di cristallo con una foglia di vite d’argento adagiata sul collo dov’era inciso «SHERRY». Era quasi vuota. In qualche recesso della casa un orologio ha battuto l’una. Per le scale ho incrociato Emmanuel, concitato e scuro in volto.

«Ha chiamato un’ambulanza. Come sta Lillian?».

Ha visto la bottiglia che avevo in mano e tutta una ben nota congerie di preoccupazioni gli è affiorata in faccia.

«Sta bene. Fuma. Gloria verrà portata in ospedale?».

Ha annuito. «Sì, ma il dottore ha detto che si rimetterà. Avrà una vita per pentirsi di questa sciocchezza».

«Andrà con lei?».

«Vuole prima parlare con noi». D’un tratto si è fatto amaro, rassegnato. «Bisogna che ci parli tu, Jimmy».

Ho dato a Lillian la sua medicina e lei ha detto che, se qualcuno le avesse portato del brandy, sarebbe stata in grado di alzarsi.

«È meglio se resti a letto», le ho detto con convinzione. «Ed è anche meglio se lasci stare il brandy finché il dottore non ti avrà visitata». E me la sono svignata al piano di sotto. Perché in quel momento proprio non sarei riuscito a sopportarla: la vecchia Lillian di sempre, anzi forse anche peggio del solito perché sì, molte delle segretarie di Emmanuel si erano invaghite di lui, ma nessuna di loro era mai arrivata a compiere un gesto simile. «Si dà il caso che io ami mio marito a tal punto», è un classico esordio, «...a tal punto da poter sopportare tutto da lui. È naturale che abbia altri interessi, e chi sono io – io, sempre ammalata – per mettermi in mezzo? Lo so che non sono mai storie serie. L’unica cosa che gli interessa davvero sono le sue commedie... si sa che gli artisti hanno bisogno di un senso di libertà, di stimoli...», e così via. Un brutto affare, farsi una ragione di un tradimento. «Lui sa che se ha qualche problema, io ci sono sempre», era la classica conclusione. E in effetti lui lo sa. La considero un’autentica iena, ma mi rendo conto di essere molto severo. Ne ha di disgrazie alle spalle – il guaio è proprio che a nessuno è concesso dimenticarsene nemmeno per un istante –, e i giudizi ambigui che dà sui lavori di Emmanuel lo fanno diventare matto...

Ho sentito sbattere i portelloni dell’ambulanza appena fuori casa e ho aperto la porta prima che suonassero il campanello. Hanno salito agilmente le scale con la barella e poi sono scesi, altrettanto agilmente, portando una Gloria che sembrava straordinariamente rimpicciolita. Li seguivano Emmanuel e il dottore. Questi è uscito fuori coi barellieri mentre Emmanuel, con aria colpevole, mi ha chiesto dove fosse il brandy. Lillian ne avrebbe avuto bisogno, prima di affrontare il dottore. Gliene ho versato un dito ed Emmanuel l’ha tracannato con mio grande stupore, per poi porgermi di nuovo il bicchiere.

«Per Lillian, adesso», ho puntualizzato. Non sopportavo quei tristi occhi marroni in cerca di altro dolore.

«Per Lillian». Ed è andato via col bicchiere in mano.

Il dottore ha chiuso la porta e la tenda che la copre e poi mi ha raggiunto (l’ingresso dà direttamente sul soggiorno, un sistema che sembra fatto apposta per moltiplicare gli spifferi che piacciono tanto agli inglesi).

«Vuole qualcosa da bere?». Ero nervoso. Mi aspettavo delle domande e sapevo anche che ad alcune sarebbe stato imbarazzante rispondere. Mi ha chiesto del whisky e io ho preso la bottiglia. Stavo per chiedergli se Gloria stesse bene, o qualcosa di altrettanto ameno, quando ha preso la parola lui. «Lei è un altro segretario di Mr Joyce?».

«In un certo senso. Mi occupo più che altro dei suoi affari, gli organizzo i viaggi. E quando dirige le sue commedie, gli faccio anche da assistente».

«Miss Williams invece è la sua segretaria?».

«Lo era».

Gli ho teso il bicchiere e mi ha rivolto un’occhiata tagliente.

«Che cosa intende dire?».

«Ha lavorato per lui negli ultimi sei mesi. Stiamo per partire per New York e lui ha deciso di non portarla con sé». Avvertivo una nota nervosa, spazientita, nella mia stessa voce; immaginavo di sostenere lo stesso colloquio con la polizia e, se non avessi gestito la faccenda con la dovuta cautela, anche coi giornali. Prima che fosse lui a farmelo notare, ho detto: «Senta, mi rendo conto perfettamente che è una cosa molto seria. Siamo tutti sconvolti. A parte il resto, è stato uno shock. Purtroppo io non so che si fa quando capita una cosa del genere, ma se lei mi dice cosa sarebbe utile... che cosa vuole sapere», mi è uscito di bocca un sospiro ben poco convincente, «...sono naturalmente a disposizione».

Il dottore si rigirava il bicchiere tra le mani guardandomi con aria stanca, senza dire una parola. Così sono andato avanti. «Questa mattina Mr Joyce le ha detto che non sarebbe venuta a New York. Per lei è stata una grande delusione. Credo sia per questo che ha preso il fenobarbitone».

«Da dove trae la certezza che lo ha preso lei di sua volontà?».

È stato il momento più brutto della serata.

«Ma... deve essere andata così! Era sola in casa». Il gelo mi ha avvolto la spina dorsale. «No, non ne ho la certezza. È evidente».

Allora ha sorriso, un sorriso sconsolato inadatto alla circostanza.

«Credo anch’io che lo abbia preso da sola. Mi domandavo solo come mai lo credesse lei».

«Ma si rimetterà, vero?».

«Dovrebbe riprendersi. Le tireranno fuori dal corpo quello che ha preso, e poi tornerò a visitarla. Il punto è che, Mr...».

«Sullivan».

«Mr Sullivan, il punto è che una persona non fa una cosa del genere senza una ragione, o almeno qualcosa che gli sembri tale. E come lei sa, quale che sia questa ragione, si tratta di un gesto perseguito dalla legge. C’è qualche possibilità che abbia ingerito quelle pillole per errore?».

«Non lo so. Immagino sia possibile...». E ho lasciato quella tenue, improbabile pagliuzza di speranza sospesa nell’aria.

«È molto affezionata a Mr Joyce?».

«Be’...credo che lo ammiri molto. Sa, lavorare per Mr Joyce è considerata una gran fortuna: il teatro, la pubblicità...». Ho colto la palla al balzo. «A questo proposito, le sembrerà cinico parlarne ora, ma parte del mio lavoro è assicurarmi che fatti di questo genere non arrivino alla stampa. Non che ci siano dei precedenti, intendiamoci!».

«Certamente», ha replicato lui in un tono vagamente irridente, ma non ostile. «Chi l’ha trovata, e quando?».

«Mrs Joyce. Circa cinque minuti prima che la chiamassimo».

«Più o meno venti minuti dopo la mezzanotte, allora. E dove l’ha trovata, Mrs Joyce?».

«Su al primo piano. È salita a controllare perché le luci erano accese e l’ha trovata».

«Sul letto?».

E io, per qualche sciocco motivo, ho annuito.

«La sua famiglia? Avete nomi e indirizzi? In ospedale lo chiederanno. Fin da stasera, probabilmente».

«Vive con la sorella. L’indirizzo posso trovarglielo».

Me ne stavo giusto occupando, quando è entrato Emmanuel. È andato dritto al carrello dei liquori e si è versato dell’altro brandy. Poi si è voltato verso di noi: gli brillavano gli occhi e aveva una vivacità innaturale.

«Riempi il bicchiere al dottor Gordon, Jimmy». Ci ha guardati entrambi con simpatia, ma in quello sguardo c’era una punta di sfida che conosco e temo. «Be’, allora? A che punto siete arrivati? L’abbiamo già tirata fuori dalla vasca?».

Ci guardava a turno, evidentemente deliziato delle nostre diverse reazioni. Poi ha detto con voce deliberatamente priva di emozioni: «Sono certo che Jimmy non le ha raccontato proprio tutto, dottore. È convinto di dovermi proteggere, di dover tenere a freno almeno una certa parte di me. L’abbiamo trovata nella vasca da bagno, quella ragazza, si è scolata tutto lo sherry rimasto nella bottiglia e ha preso il fenobarbitone perché crede di essere follemente innamorata di me, o forse lo è davvero. Del resto l’abbiamo avuta una relazione, breve quanto deludente, e io l’ho lasciata. Vede, non sono mai stato innamorato di lei. Capitano, questi equivoci. Soprattutto quando uno è irresponsabile e poco scrupoloso. Anzi, probabilmente sono inevitabili, eppure uno non se lo aspetta mai. Aspettarsi le cose uccide l’esperienza e un’esperienza ogni tanto ci vuole. Anche quando si tira avanti e la vita è sempre uguale».

Lo conosco bene, quel discorso. Quel parlare esplicito e autocompiaciuto, che offre spietato all’interlocutore l’altra faccia della medaglia, convincendolo che esista solo quella. Alla fine lo si odia, con tutte le buone ragioni che lui stesso fornisce con prodigalità. Si stava versando di nuovo da bere.

«Emmanuel, sei già ubriaco. Se bevi ancora ti sentirai male. Non è divertente. Bevi un po’ di succo di lime e stenditi in silenzio».

È rimasto in piedi lì dove l’ho fermato, e ha accennato un applauso. Il dottore, coi suoi modi convenzionali che erano se non altro rassicuranti, ha fatto un verso con la gola e si è alzato annunciando che andava a visitare Mrs Joyce di sopra.

«Sono sicuro che sarà felicissima di vederla», gli ha detto Emmanuel in tono cerimonioso.

Ho accompagnato il dottore, certo che Emmanuel, seppure ci aveva pensato, non lo avrebbe fatto, e quando sono tornato, stava bevendo altro liquore.

«Dove ti porterà il tuo coraggio, Jimmy... e la tua fedeltà. Perché non mi hai trovato prima? Avresti potuto dirmi di smettere di... di...».

«Di bere?».

Ha fatto un gesto amaro, rassegnato. «Ancora prima».

«Non ero nemmeno nato, ancora prima».

«Allora la colpa è solo mia, di nuovo». Ha avvicinato la faccia alla mia. «Jimmy, ma non la vuoi una vita tua?».

«No. Ci ho pensato, e la risposta è no».

C’è stato un silenzio senza pace, scandito dalla voce di Lillian che si alzava e si abbassava su in camera da letto.

«Lo sai quanti anni ho?».

«Sì, ne hai sessantuno».

«Sessantadue, sessantadue», mi ha corretto in tono pacato.

«Tecnicamente, ne avrai sessantadue soltanto il diciannove settembre».

Mi ha lanciato un’occhiataccia. «Sono uno che guarda avanti, io».

È tornato il dottore, annunciando che Mrs Joyce stava bene. Le aveva dato un sedativo e adesso avrebbe dormito. Ha detto che avrebbe telefonato l’indomani e si è congedato.

Allora Emmanuel ha alzato gli occhi speranzoso e ha detto: «Jimmy, andiamo a bere qualcosa. Troviamo uno di quei locali dove ti scordi chi sei appena entrato e sono già tutti ubriachi!».

«Non si può», gli ho detto. «Non è il paese giusto. Qui non si può bere tutta la notte. Andiamo a dormire».

Non mi ha dato retta. «Perché non vuoi una vita tua? Una vita sentimentale? Sei giovane».

«Ho già la tua», ho detto in tono affettuoso: sembrava fatto di carta o di vetro.

«Era bellissima. Portava un vestito di cotone azzurro. Era vecchio, un po’ scolorito sulle spalle, dove batteva il sole. Aveva i capelli di un castano profondo, le spalle rotonde, la sua pelle profumava di frutta. Eravamo in una cavità gessosa tra le colline, vicino al mare, il vento faceva tremare i papaveri e l’aria azzurra fremeva di allodole. Io facevo le domande e lei rispondeva, non diceva mai niente di più di quel che le chiedevo. Mi riempiva fino all’orlo senza tracimare mai. Aveva il sorriso più completo che abbia mai visto. È stata una bella giornata».

Si è tolto le mani dalla faccia e ha detto. «Jimmy, adesso un drink mi ci vuole proprio».

«Anche a me». Mi sono alzato per prendere da bere e lui ha continuato: «Te le avevo già dette queste cose, vero? Le racconto spesso, no?».

«Sì, me le avevi già dette». La cosa strana è che in un certo senso, invece, quella era la prima volta. Il sentimento era lo stesso: ma l’ambientazione e spesso la ragazza cambiavano ogni volta. Conoscevo la versione ambientata in un pub dai vetri appannati, dove lui e lei dividevano un piatto di patate fritte belle calde in un giorno di nebbia; quella dove erano su un tram scoperto sotto un cielo minaccioso, lei portava l’impermeabile e il vento le scioglieva i capelli... no, quella volta la ragazza era la stessa, mi pare, solo che Emmanuel aveva scelto aspetti diversi di lei: le sue dita che prendevano le patatine, i suoi occhi che sondavano il cielo, il suo collo prima che fosse ricoperto dai capelli. In un’altra versione erano allo zoo e nevicava, in un’altra erano in barca in mezzo a un lago in un pomeriggio di settembre, e le foglie cadendo nell’acqua intorno a loro nascondevano il riflesso della ragazza. So che questa scena ha avuto luogo una volta sola nella sua vita: e più versioni se ne accumulano, più ne ho la certezza. C’è una sorta di gioia pura quando ripercorre il ricordo, e altrettanto puro è il rimpianto, quando arriva alla fine. Se gli chiedessi il nome di lei, mi direbbe ogni giorno un nome diverso, ma la ragazza è sempre la stessa e ogni volta che ne parla aggiunge una scena diversa, un’angolazione diversa. Lo fa solo quando è ubriaco, comunque, e non credo che ne abbia mai parlato con altri che con me.

Per le scale è inciampato e si è aggrappato al mio braccio. È rimasto così per un momento e poi ha detto a voce abbastanza alta da farsi udire: «Vecchio bastardo... Non riesco neppure a fare le scale».

Ormai era verde in faccia.

«Dobbiamo stare attenti a non svegliare Lillian», gli ho detto senza sperarci troppo e lui ha annuito, dandosi un tono.

Davanti alla porta del bagno mi ha guardato come se mi conoscesse appena e ha detto: «Jimmy, se devi andare in bagno, vacci adesso, perché io dovrò vomitare». Mi ha fatto quel sorriso contrito e imbarazzato che usa sempre con le attrici di cui non si ricorda il nome. Poi ha aggiunto: «Ho il cuore nello stomaco».

Più tardi mi sono sincerato che fosse andato a dormire e sono crollato anche io, senza però riuscire a rilassarmi. Gli altri in un modo o nell’altro hanno trovato la pace, mentre io resto a rigirarmi in testa i problemi pratici cercando consolazione nel fatto che sarebbe potuta andare molto peggio. Se mi fermo a pensarci, mi paralizzo. E se davvero il fenobarbitone glielo avesse dato qualcuno? Emmanuel no di certo. Sarebbe capace di colpire in faccia una persona in un eccesso d’ira, ma avvelenarla... questo no. Io non sono stato: non ho propensione alla violenza. Resta solo Lillian. Ha il pallino delle medicine e potrebbe aver pensato che il fenobarbitone avrebbe garantito a Gloria una morte rapida e serena. Naturalmente Lillian non ha fatto nulla del genere, ma io ero abbastanza stanco, amareggiato e pieno di autocommiserazione – il solito corredo di sentimenti retrivi – da prendere in considerazione questa ipotesi come se fosse perfettamente naturale. Del resto questa parte dei guai di Emmanuel è solo affar mio – lui non deve far altro che sorridere; mentre Lillian se ne sta a letto a macerarsi nella nostalgia e a tenere buona la sua valvola mitrale.

 

 

2
Lillian

 

Mi è capitato di svegliarmi in così tante camere diverse che ormai ho imparato a concentrarmi sulla forma del mio corpo anziché sull’ambiente circostante. Conosco tre tipi di risveglio. Uno è come ritrovarsi su una spiaggia piena di scogli dopo aver fluttuato in acque placide; ho le membra pesanti e un senso di ottundimento e il giorno entra duro e scivoloso sotto le palpebre e le ossa fanno male, come dopo un naufragio lunghissimo. Il secondo tipo di risveglio è come una nave che avanza in modo così fluido e discreto da evitare ogni scontro con la memoria dei sogni; l’approdo alla realtà è così delicato che quasi mi stupisco di esserci arrivata. Poi c’è il terzo tipo, quando mi sembra di scoprire poco a poco me stessa distesa sulla sabbia calda, con l’acqua che scivola via dalle membra lasciandole immerse in una piacevole inerzia. Il terzo tipo è il migliore, ma si verifica giusto quando ho preso i sonniferi, e nemmeno sempre. È il momento in cui penso solo a me stessa, in anticipo sul primo passo falso della giornata, quando immagino di avere davvero voglia di fare colazione e poi di vestirmi – indossare per la prima volta un paio di scarpe semplici ma di superba fattura e una sciarpa nuova dai colori vivaci – e poi ancora passare la mattinata con una persona molto giovane e molto bisognosa di incoraggiamento e benevolenza; il pomeriggio andare a comprare delle bellissime camicie per Em e una giacca a vento o come si chiamano per Jimmy, a cui piace tanto l’abbigliamento sportivo anche se, fosse per lui, non metterebbe mai piede fuori di casa, e correre a casa per dare loro i miei regali, mentre consumiamo un sontuoso tè all’inglese; Em chiederebbe la mia opinione su un personaggio per la sua prossima commedia, quella che ancora non ha cominciato a scrivere, ma lui e Jimmy hanno l’aria birichina ed è chiaro che c’è una bella sorpresa in serbo per me, e quando non ne posso più di aspettare ecco che uno di loro – Jimmy – va a prenderlo e lo porge a Em che lo porge a me: un cesto di vimini con dentro il cucciolo di labrador dal pelo dorato che desidero da una vita e che Em non mi ha mai permesso di prendere per via della quarantena e della sua asma – ma adesso è cambiato tutto, e questo cucciolo lo ha scelto apposta per me...

E mi ritrovo di nuovo dove tutto è cominciato: l’ultima volta che ho avuto in dono un cucciolo, a Wilde, per il mio quattordicesimo compleanno, era il 1925. Ero nell’ultima vera camera da letto che ho avuto, la ricordo meglio con gli occhi chiusi. La ricordo per intero, quella giornata, con le sue correnti di piacere e i picchi di pura gioia. Credo sia l’unica giornata di cui abbia memoria in cui non c’è nulla che vorrei dimenticare o aver già dimenticato. È stata la prima volta che ho avuto una bestiola tutta mia, è stato l’ultimo compleanno prima che mi ammalassi, la prima volta che sono rimasta in piedi per cena e mi sono cambiata proprio come gli adulti (calze color bronzo e i gioielli del battesimo); l’ultimo autunno passato a Wilde, giornate di una perfezione perdurante di cui forse non ero consapevole, allora, ma a cui adesso non posso evitare di pensare ogni volta che dico la parola “autunno”. È stata anche l’ultima volta che ho accettato i miei genitori così come il cucciolo ha accettato me. Dopo, ogni cosa ha accelerato ed è precipitata; tutto è accaduto troppo in fretta, come se dovessi rincorrerla, la mia vita, correndo a perdifiato e gridando inascoltata per il bisogno di scegliere, mentre gli eventi si succedevano frenetici, del tutto al di là del mio controllo. Una tempesta di carte: questionari d’esame che non ero riuscita a passare, ricette del medico per fermare un dolore che non riuscivo a descrivere e i certificati di morte dei miei genitori, saliti entrambi su una nave per la prima volta e annegati, e poi cataloghi di libri e oggetti, quadri, argenteria e cristalleria, tutto venduto all’asta a Wilde; un quadro sistemato su un sedile di un treno e poi Em, con quell’aria intelligente, goffa e così irresistibile che, sebbene qualcuno avesse avuto la pessima idea di avvolgere i panini nella carta di giornale, ne presi uno lo stesso, pensando alle cattiverie che i miei avevano sempre detto a proposito degli ebrei...

Il matrimonio con Em: carte, carte a non finire. Allora mi era sembrato di essere arrivata alla fine della corsa, di aver raggiunto un traguardo, ma invece no: lui si era solo fermato un momento per guardarmi bene, godersi la vista e poi riprendere il cammino. Io ero debole di cuore, non riuscivo a stare al passo, annaspavo e pestavo i piedi, sempre con la sensazione che Em avesse le ali: per lui il terreno non era mai impervio. Io invece mi sentivo debole e piena di dispetto. Em era sempre in moto, sempre avanti a me di qualche spanna, e anche lui spargeva carte come tracce del suo cammino: copioni, opinioni, lettere, tagli, inviti e biglietti del teatro, di navi, di treni e di aerei. «Io prendo l’aereo. Tu mi raggiungi in nave, così viaggi più comoda». Comoda! Sempre in mezzo all’oceano, mi sembrava di essere, nel buio, lontana: lontana dalla mia famiglia, o da quel che ne restava, che non aveva mai approvato il mio matrimonio (figurarsi, un mezzo ebreo e per di più artista andava oltre le loro più fosche prospettive!), essendosi sempre concentrata sulle origini di Em con la stessa esclusività con cui io mi concentravo sui suoi obiettivi; e lontana anche da Em, al punto che mi sembrava di avere di lui solo notizie di seconda mano: i suoi scritti per esempio, oppure ciò che mi riferivano le persone che lavoravano con lui e che da lui erano illuminate come dalla luce di un faro; e infine i giornali, che riportavano dicerie e resoconti delle sue esternazioni più eclatanti e tranchant e che per me erano come bengala lanciati nella notte a illuminare brevemente un cielo scuro. E per soli due anni c’è stata Sarah, che però poi è morta, dopo un’agonia tale che sono stata tentata di ucciderla io stessa. Le sono rimasta accanto per diciassette ore di fila, finché i deboli rantoli meccanici si sono interrotti e la testolina è rimasta immobile. Poi ci sono stati i telegrammi. Odio omicida, e molta paura di Dio. Volevo che ai figli del dottore capitasse quello che era capitato a Sarah; volevo che tutti soffrissero per lei, che si immolassero al suo dolore che nessuno poteva lenire, che passassero per le stesse forche caudine che erano toccate alla mia piccola, bellissima, adorata Sarah. Ho pianto, li ho implorati di fare qualcosa per lei, ma loro non facevano niente, e quando tutto è finito ho cercato di uccidere una delle infermiere. L’ho assalita con la precisa intenzione di ucciderla. Allora Em mi ha portato via e siamo rimasti fuori per quasi un anno. Viaggiavamo, ma stavolta lui stava quasi sempre con me e portava il fardello della mia amarezza, cosicché a un certo punto il mio cuore si è sciolto, da indurito e pesante che era, e di colpo si è aperto al lutto: un sollievo, un languore indicibile, affondare nel semplice e puro dolore della morte di Sarah. Fu quasi come sanguinare a morte. Em mi ha trasfuso tutto il suo amore, un po’ alla volta; ha dato a me ogni stilla di vita, ogni alito di compassione. All’inizio non riuscivo a parlare di lei: solo dopo, per la prima volta, mentre Em mi teneva la testa, sono riuscita a dire piangendo: «Sarah è morta... Sarah è morta», e da allora per un po’ non ho parlato d’altro. Lui l’ha pianta insieme a me e pian piano l’ha trasformato in un dolore normale – compatibile con la vita – e così ha insegnato anche a me come convivere con la sua morte. Diceva che per la sua morte non c’erano colpe: non c’era nessuno da odiare o da perdonare. Perciò non c’era nemmeno il terrore e la bruttura di quando invece qualcuno è responsabile di una tragedia...

Ecco cosa mi passa per la mente le mattine in cui ho un risveglio del terzo tipo: cose del passato, morte e sepolte, ma che almeno risvegliano una memoria di vita, un senso di gratitudine per aver vissuto, per quel tempo concitato e vitale che alla fine mi ha spenta del tutto. Da Em è venuta Sarah; da Sarah è venuto Em. Ma tutto questo mi ha riguardato da vicino, e io ho tanto bisogno di cose che mi riguardino da vicino.

La cameriera a giornata che mi ha servito la colazione mi ha informata che Mr Joyce ha dormito fino a tardi e che ora stava bevendo il caffè mentre leggeva la posta. Per me c’era una lettera sola e, buffo a dirsi, soltanto aprendola mi è tornata in mente la scena sconvolgente di ieri notte, quando ho trovato quella donna riversa nella vasca da bagno.

 

Cara Mrs Joyce,

mi domando se lei abbia un’idea, anche vaga, del dolore che mi ha causato in queste ultime settimane. Ma probabilmente è così presa da se stessa da non accorgersi nemmeno della mia esistenza (del resto è possibile che io non esista già più nel momento in cui leggerà questa lettera). Per tutto questo tempo, l’unico della mia vita che per me abbia una qualche importanza, io l’ho osservata chiedendomi: perché l’ha sposata? Cos’altro prova per lei oltre alla pietà per la sua debolezza, quella debolezza che lei continuamente usa a suo danno? Deve aver pensato che io fossi solo una delle tante segretarie – capisco ora che ce ne sono state molte prima di me – ma non si è accorta che io sono diversa, perché io ho un cuore. Forse non ho la sua istruzione, il suo buon gusto e la sua bellezza, ma le assicuro che queste cose non contano affatto quando si provano dei sentimenti. Io volevo solo stare con lui, non ho mai messo in discussione il vostro vincolo. Lui non la lascerebbe mai, sebbene Dio sa quanto lo vorrebbe. Ma lei nemmeno questo ha voluto concederci. Lei vuole tenerli avvinti entrambi, questi due uomini, e come madre non è migliore che come moglie. Perché è solo questo che Jimmy vuole da lei, se ne era accorta? Io avrei sopportato tutto di buon grado, se solo avessi avuto la possibilità di stare ancora insieme a lui, e invece all’improvviso per qualche motivo misterioso ecco che non andrò a New York! Mi danno il benservito, come se io fossi una qualunque! Lui di suo non avrebbe mai fatto una cosa del genere, non a me, perciò non mi è stato difficile fare due più due e capire chi è stato. Lasci che le dica che un giorno o l’altro lei supererà il limite, e allora che Dio l’aiuti, dato che non ha voluto aiutare me. È strano: la gente di solito la compatisce per il suo passato, mentre io, se ho un briciolo di pietà per lei, ce l’ho per il suo futuro. Io, grazie a lei, un futuro non ce l’ho più, però almeno una volta ho avuto un regalo. Lei, neanche quello.

Gloria Williams

 

C’era qualcosa, in quelle pagine impeccabilmente battute a macchina, qualcosa di meccanico e malevolo che accentuava il livore del messaggio: solo la firma era fatta a mano, uno scarabocchio fatto con dell’assurdo inchiostro verde, goffo come qualcuno che venga di colpo sorpreso con la sola biancheria addosso. Stavo ancora fissando il foglio, quando è entrato Em. È andato direttamente alla finestra, spalle alla luce, ma si vedeva lo stesso che aveva l’aria stravolta. Mi ha fatto rabbia che, in tutto questo, fosse proprio lui ad apparire prostrato.

«Come stai?».

Non gli ho risposto. L’ho solo guardato come se mi sfuggisse il senso della domanda. Stavo pensando alle ginocchia informi rivestite di seta di Gloria, mentre giaceva scomposta nella vasca: l’orrore che lui l’abbia toccata e la frustrazione di una rabbia non più innocente, perché sono tante le cose che so e che non posso perdonare. Massacrava con le dita una scatola di fiammiferi, che sembrava fissare intensamente, ma io sapevo che mi sbirciava con l’abile dissimulazione di chi è in attesa che si apra il varco giusto per far leva sulla compassione, per rendermi inerme e ansiosa di proteggerlo.

«Come sta Miss Williams?».

«Non è morta. Si rimetterà».

Avevo voglia di fumare e tremavano le mani anche a me. Non avevo fiammiferi e subito Em si è precipitato ad accendermi la sigaretta. Faceva pena, tanto s’impegnava, e la mia rabbia ha avuto un’impennata.

«Se non ricordo male, era più di un anno e mezzo che non si arrivava a queste altezze».

«Lillian, cara, non era mai successo che trovassimo una persona svenuta nella vasca da bagno». Ma aveva gli occhi gonfi di lacrime e si è lasciato cadere di colpo sul letto.

«Se volevi la prova definitiva del fatto che una ragazza possa letteralmente morire d’amore per te...».

«Non voglio niente del genere. Proprio no». Ha fatto per prendere una sigaretta delle mie, l’ha rimessa a posto e ha messo mano alle sue.

«Sarebbe potuta morire! E pure io, trovandola. E tu, come ne esci tu? Hai avuto fortuna? Sei stato un incosciente! O forse invece speravi che le cose andassero in un altro modo. In un colpo solo ti saresti ritrovato libero di continuare a fare gli stessi errori di sempre, e senza nessuno a giudicarti. Tranne Jimmy, forse: lui è il pubblico ideale per te, tonto e fedele...». Ho sentito d’un tratto questa vocina sottile e feroce, che non avevo mai sentito prima: la voce ha deformato tutto il resto al punto che ciò che stavo dicendo è sembrato perfettamente plausibile: lui avrebbe una vita migliore se io morissi e restasse solo Jimmy a prendersene cura. Che cosa strana: ho smesso di parlare e i pensieri si sono ritirati nel silenzio. «Non posso certo ammirarti».

«No», ha ammesso. «Non vedo come potresti».

«E non so nemmeno come aiutarti».

«Sono questi i motivi?». Aveva quell’aria triste e smarrita e somigliava a Sarah in modo intollerabile; mi sembrava di vedere un pesce che si contorceva disperato dentro la sua testa: dovevo farlo ridere o lo avrei perso.

«Chiedo solo che non si facciano trovare in quel modo nella vasca da bagno. Non fa bene al mio cuore».

«Potresti chiedere di più». Mi ha teso la mano e mi sono stretta nelle coperte.

«Se lo facessi, diresti che ti faccio sentire in colpa. Non creiamo deserti, sono parole tue».

«Quello che dico è... pensa a te stessa. Non creare un clima di tensione».

«Ricordi quando hai detto quella frase? Non creiamo deserti?».

«La dice Cherry in La corsa delle orchidee. Prima di voltarsi e andarsene». Sembrava assorto, un suo modo di essere evasivo.

«Lo hai detto tu, dopo che è morta Sarah. In Florida, sulla spiaggia, al buio. E poi lo hai messo nella tua commedia. Come fai sempre». Nel dire il suo nome ho provato la solita, dolce fitta di dolore. Questa è una cosa che Miss Williams o chi per lei non può togliermi, e la vita contenuta in questo sentimento mi ha fatto scoppiare a piangere. «Non ti saresti comportato così, se lei ci fosse ancora. O se fosse nato un altro bambino! Adesso ci sarebbe un netto confine tra la vita reale e quella della scrittura, non sarebbe un tutto indistinto. Avrebbe sedici anni... è insopportabile dover immaginare come sarebbe ora e non poterlo fare. Un colpo del genere, a tua figlia, lo avresti risparmiato. Avresti vissuto con maggiore decenza, maggiore... buon senso! Quanto vorrei che ti preoccupassi di meno del genere umano e che vivessi più come... come...».

«Come un gentiluomo? O semplicemente come tutti gli altri?». Ma nessuno di noi due era in vena di ridere. Em ha preso il tovagliolo dal mio vassoio.

«Cara, non ti agitare. Restatene tranquilla a letto tutta la mattina. Cerca di stare tranquilla». Mi asciugava il viso, adesso il contatto con lui non mi dispiaceva.

«Tu che farai?».

«Jimmy mi ha organizzato la mattinata minuto per minuto. Vado a pranzo con Sol Black e poi c’è quella serata dai Fairbrother, ma direi che tu puoi chiamartene fuori».

«E nel pomeriggio?».

Ha irrigidito il viso, di nuovo evasivo.

«Lavoro».

«Qui?».

«No, Lillian. Fuori. Lo sai che qui non riesco a lavorare».

«Ma non verrò a disturbarti. Staccherò il telefono. Verrò solo a chiamarti quando sarà l’ora di prepararsi per la cena».

«Te l’ho detto almeno cento volte che non riesco a lavorare in casa. Devo essere da solo». Ha la capacità di arrabbiarsi facendo sfoggio della sua pazienza.

«Ci vengo, dai Fairbrother. Preferisco così». Era l’unico scampolo di giornata che potevo trascorrere con lui. «E non credere che me ne starò tutta la mattina a letto. Ho tante cose da fare, prima della partenza per l’America».

«Riposati almeno un po’ il pomeriggio, prima che usciamo. Davvero, come ti senti?».

«Benissimo».

«Jimmy ha detto di non rispondere al telefono. Ci pensa lui».

«Adesso non cominciare a dirmi quant’è bravo Jimmy».

Mi ha accontentato.

«Forse potrei occuparmi io della prossima segretaria. Potremmo optare per una signora. Non costa di più e di sicuro non porterebbe quelle orribili calze».

«Erano così orribili le calze di Gloria?».

«Tutte unte e tirate! Calze in crisi d’ansia». È stato un sollievo che lui non le avesse notate. Ha abbozzato un sorriso quando ho detto “calze in crisi d’ansia”. «Qualunque cosa, ma non un’altra vergine nevrotica. Con tutta l’immaginazione sbilanciata da una parte sola».

Una risata improvvisa.

«Che c’è?».

«Stavo pensando a quanto poco tutto ciò abbia a che fare con il concetto di essere una signora».

«Em, hai capito benissimo cosa intendo».

«Intendi qualcuno che non sia cresciuto nei bassifondi, come me».

«Adesso stai facendo il difficile. Per te è diverso, tu sei un artista».

«Suona un po’ come quella frase che mi sono sentito dire da un sacco di brava gente: “Di solito non ho simpatia per gli ebrei, ma tu sei diverso”».

«Perché te la prendi con me? Io non l’ho mai detto».

Gli è caduto il tovagliolo dal pavimento. Gli tremavano ancora le mani. «Lillian... immagina di incontrare un elefante e fare una considerazione del genere, che è diverso dagli altri. Quanti elefanti hai conosciuto in vita tua? Sei proprio sicura che quello che hai incontrato tu sia proprio un elefante? Ti rendi conto di quanto è volgare e ristretto questo modo di ragionare? Se io sono l’eccezione, sono proprio curioso di conoscere la regola! Tu invece ti senti così al sicuro nella regola da poterti permettere di tollerare l’eccezione. Il fatto è che la vita ti ha abituata a dare per scontate tante cose, ma invece non possiamo dare per scontato niente, tranne poche cose spiacevoli o del tutto irreali. Te lo dico io, le buone intenzioni sono un terreno fertile: sono quelle che si fanno strada meglio di tutto e dividono la società al suo interno...».

È entrato Jimmy.

«Ho bussato. Una filodrammatica di Bradford chiede i diritti per poter rappresentare La nostra piccola vita».

«Un testo così mediocre! Perché continuano a metterlo in scena?».

«Sette donne, due soli uomini, scenografia unica». Jimmy sa tutto delle opere di Em. «I Cappellai matti, si chiama la compagnia», ha aggiunto in tono mesto. Sembrava stravolto anche lui.

«Perché vogliono farlo?».

Jimmy allora ha sollevato la cornetta del mio telefono.

«Mr Joyce vorrebbe sapere perché volete rappresentare la commedia». Em ha sogghignato sarcastico.

«Dicono che lo fanno per raccogliere fondi per costruire una piscina nel loro club».

«No. Digli che io non ce l’ho, una piscina. Ma guarda che gente!».

«Mr Joyce è molto dispiaciuto, ma i diritti vengono concessi solo per iniziative di beneficienza di portata internazionale».

Dopo che Jimmy ha riattaccato, Em ha detto, stizzito: «Quella commedia è come le trapunte degli alberghi da due soldi. È sempre più inconsistente, e chissà come te la ritrovi da tutte le parti. Comunque non credevo ci lasciassimo assediare al telefono in questo modo».

«Infatti di solito non è così. La colpa è mia. Stamattina non riesco a smettere di essere diplomatico. Dev’essere una debolezza di carattere. Come ti senti, Lillian?».

«Bistrattata. Em mi stava dando una lezioncina sulle diseguaglianze sociali».

Em si è alzato dal letto e Jimmy ha detto: «Emmanuel, è necessario che tu ti faccia la barba. Non ti sembra, Lillian? Non può andare a pranzo fuori così, sembra un biscotto al carbone».

Non ho avuto il tempo di dichiararmi d’accordo che ha suonato il telefono e Jimmy è stato inghiottito da una sequela di lunghi silenzi intervallati da brevi sbuffi di scontento. Em ha acceso un’altra sigaretta ed è andato alla finestra. Pioveva, e probabilmente la pioggia sarebbe durata tutto il giorno insieme a quel sole pallido e freddo, simile alla faccia di chi vorrebbe ridere ma non ne è capace. E di colpo, siccome io pure vorrei ridere ma non ne sono capace, ho avuto una visione di noi tre bloccati in quella scena che si ripete all’infinito, nel nostro minuscolo mondo fatto di reciproche concessioni, equivoci elevati a tradizioni di famiglia e una specie di disagio idiosincratico. Em si è voltato verso di me, e per un momento ho creduto che la stessa visione fosse passata anche nella sua mente.

«Le locandine sono troppo piccole», diceva Jimmy, «prova a immaginarle a Piccadilly Circus. Sarebbe un disastro. Dovresti metterci delle cornici così spesse che sembrerà di guardare da un binocolo messo al contrario...».

Em stava spegnendo la sigaretta e non prestava ascolto a Jimmy. Stava per andarsene. Se solo non ci fosse stato Jimmy al telefono avrei cercato di fermarlo: avremmo potuto parlare di telescopi, di qual è il lato giusto da cui guardare e del fatto che si tratta solo di una sofisticata ammissione di fallimento, a cui si ricorre quando non si riesce a vedere proprio niente... Se ne è andato e io l’ho seguito con gli occhi. Non gli ho mostrato la lettera, ma fra un po’ di tempo, qualche settimana, mi lascerò sfuggire qualcosa in proposito, come per sbaglio. Il mio riserbo gli farà la dovuta impressione, e questo già mi scalda, come fosse la rapida fiammella che riduce in cenere la lettera di Miss Williams...

Quando Jimmy ha finito, gli ho chiesto se voleva pranzare con me. Ha detto di no, doveva andare a bere qualcosa con la ragazza che avevano visto la sera prima per dirle che non era adatta al ruolo di Clemency. Alle due poi aveva le audizioni per i sostituti, probabilmente non avrebbe pranzato affatto. La sua faccia trasformava le ragioni in pretesti. Uno di quei momenti in cui ho la certezza, trasparente e amara, di conoscere una persona. «Ci vediamo dai Fairbrother?», ha chiosato con aria speranzosa.

«Mio caro Jimmy, dai Fairbrother non ci vado certo per vedere te».

«Che peccato», ha sospirato lui nel riuscito tentativo di sembrare deluso. Quando se ne è andato, ho appallottolato la lettera in una mano per la rabbia, la nausea di essere presa in giro. Odio tutto questo: la comprensione a buon mercato, la condiscendenza che dimostrano a me e a se stessi. Vorrei essere io a chiedere certe concessioni, quando ne ho bisogno: preferirei che mi dicesse che sono una strega. So che lo pensa, ma non lo direbbe mai. È una cosa che non si può dire a chi ama la poesia e i gioielli siciliani e la campagna inglese. Soprattutto non si può dire alla moglie di Em: una specie di reliquia sacra. Ho guardato la lettera, ridotta ora a quel che era sempre stata. A Em non importa niente di Gloria: probabilmente ne è anzi infastidito, annoiato. Magari al punto di commettere un gesto violento, da auspicare la sua morte. L’idea mi ha riempita di sgomento, perché va troppo d’accordo con la seconda immagine che ho di lui, non il maestoso uccello migratore, ma la figura defilata dagli occhi mesti, solo sul molo, al porto; solo contro la legge, la società che lo odia, non capisce cosa ci faccia lì, e lui non li odia ma il perché non lo sa neanche lui. Io sono l’unica a saperlo ma loro non mi sentono e lui non capirebbe, perché è troppo preso dalla folla, dal suo dolore feroce, ed è indifferente al loro giudizio. Adesso ho mal di testa e sta piovendo forte. L’unico tipo di giornata che mi si prospetta quando sono sola sembra preso dal diario di una scolaretta: la mattina avevo mal di testa – sarò per caso innamorata? Il pomeriggio sono uscita a comprare dei dischi. Un accostamento insolito per sembrare colta: Satie e Seurat, Renoir e Roussel. I goffi metri di giudizio che sono già patetici nei giovani e nei vecchi sono vere e proprie cadute di stile. È meglio che resti a letto finché non mi sento bene o finché non è ora di uscire a cena. Se potessi dire loro che la semplice conoscenza di una cosa ti dà una chiave che funziona solo nel tuo mondo privato, non scriverebbero di Satie nei loro diari: ma a Sarah non è stato concesso nemmeno il tempo di imparare a scrivere il proprio nome. A lei piacevano i colori, i suoni fatti apposta per catturare la sua attenzione. Se ripenso ai suoi scoppi di risa, repentini come gli scatti d’ira di Em, mi sembra incredibile che mi siano rimasti solo questi ultimi...

 

 

3
Emmanuel

 

Uscì di casa con quel falso senso di libertà che sempre lo accompagnava quando se ne andava dal posto in cui aveva dormito. Nessun senso di liberazione, nessun movimento verso una condizione migliore, solo un’apertura: il giorno, le strade della città che gli si dipanavano davanti. Jimmy e Lillian gli avevano organizzato la giornata per filo e per segno, come al solito. Pranzo con Sol e poi la ricerca di una nuova Clemency, alla svelta però, perché aveva annunciato di voler lavorare tutto il pomeriggio. Il che voleva dire rinchiudersi in quella tremenda mansarda a Shepherd Market che gli aveva affittato Jimmy. Per una settimana ci aveva provato davvero, a scrivere, ma poi era stato sconfitto dalla confortevolezza anonima della stanza, quella sua disinvolta, quasi furtiva aria artistica: il divano, le librerie scadenti piene di volumi – i casi editoriali degli ultimi trent’anni –, le cartoline con riproduzioni di arte etrusca e i brutti posacenere di porcellana sbeccata. Era un posto dove essere giovani e poveri, frivoli e seri, e follemente innamorati. Lui aveva superato i sessanta; il suo reddito era quello che serviva per pagare uno sproposito di tasse; essere frivolo gli costava uno sforzo sempre maggiore, mentre alla serietà aveva rinunciato da un pezzo. Infine faticava parecchio a ricordare l’ultima volta che era stato innamorato. Quella stanza insomma sembrava fatta apposta per ricordargli tutto quello che aveva perso; così l’aveva usata solo ogni tanto, e non per scrivere. Del resto non era affatto sicuro di voler scrivere un’altra commedia. Lamico del povero sarebbe rimasta in cartellone a Londra ancora per un anno e la produzione a Broadway era ormai cosa certa, restava solo da trovare la ragazza adatta al ruolo di Clemency. Sui diciannove anni, come Betty Field. Ma non c’era nessuna come lei. Le giovani attrici ormai non sapevano lasciarsi più andare come una volta: niente più graziose, irresistibili scimmiette autoironiche. Di questi tempi erano tutte serie e informate, parlavano di sincronizzazione e altri concetti astrusi, non erano più in contatto coi loro corpi: per Em era come cercare un tenero gattino e ritrovarsi in grembo un ballerino professionista. Ma quei discorsi, quei pensieri, non gli facevano bene; la nostalgia è una droga pericolosa: si sviluppa un tale grado di tolleranza che presto anche le dosi più massicce non bastano a stimolare l’immaginazione, che si ritrova a dover vivere delle proprie riserve, senza nessuna estate di caccia all’orizzonte.

Era salito su un autobus – non sapeva dove andare, ma come sempre aveva comprato un biglietto di corsa singola e si era lasciato portare, tra lunghe soste e speranzose accelerazioni, giù per Bayswater Road. Ormai pioveva forte, e il parco mostrava la sua faccia peggiore: gli alberi enormi con le foglie nuove ancora chiuse e bagnate, l’erba che cresceva a sprazzi, stremata dal gelo e dalla fuliggine, e tutto questo sotto un cielo sporco e minaccioso. Quando prima si era affacciato dalla camera di sua moglie, aveva intravisto una scia azzurra, il colore preferito di Lillian. Povera Lillian. Se solo avesse avuto davvero voglia di scrivere un’altra commedia; se solo, almeno, non avesse sentito così forte l’esigenza di non scriverla... Ma che altro poteva fare, l’estate a venire? L’impossibilità di immaginare un futuro tanto in là gli riportò alla mente gli eventi recenti: le ultime settimane, la sera prima. Lillian, che avrebbe potuto avere un brutto attacco di cuore, Gloria, che avrebbe potuto riuscire nel suo proposito suicida, Jimmy, che avrebbe potuto lavarsi le mani di quella squallida vicenda... Ma quando poi l’elenco arrivava al suo nome, lo assaliva quello stesso sconforto che lo costringeva a bere (aveva già strappato a Jimmy, con un trucco, il primo drink della giornata), la nausea di essere l’uomo che era, il panico al pensiero delle conseguenze che, come schizzi d’inchiostro, investivano chi gli viveva vicino. E allora doveva fuggire, andar via da se stesso, dalla persona che detestava, e diventare un uomo che quelle cose le faceva in modo naturale. Aveva la nausea, di nuovo, doveva scendere dall’autobus; doveva smettere di bere, di sedurre le segretarie, di dare dispiaceri a Lillian... Scese e prese un taxi (prendeva sempre il taxi quando sapeva dove andare) e si fece portare a teatro, dove almeno c’era Jimmy. In macchina si sentì riempire di una tale profonda gratitudine nei confronti di Jimmy, da temere quasi d’incontrarlo di persona. Gli era già capitato, ormai diverse volte, e in un’occasione gli aveva persino detto: «Non so perché lo fai. Vali sei volte più di me». Jimmy lo aveva guardato in quel suo modo cinico e affettuoso e aveva replicato: «Sì, ma di Emmanuel Joyce non ce ne sono sei. Ringraziando il cielo, devo aggiungere».

Lo trovò intento a discutere alcuni scatti con il fotografo. Entrambi tenevano le mani poggiate su un ampio tavolo dove erano sparsi i negativi lucidi. Il fotografo sembrava infastidito, mentre Jimmy scartava un negativo dopo l’altro con una specie di metodico accanimento. Entrambi alzarono gli occhi al suo ingresso, il fotografo mise su un’aria allegra mentre Jimmy si limitò a un cenno di saluto. «Non che tu non abbia fatto un ottimo lavoro, Lionel, in generale... solo che volevamo un effetto un po’ diverso, soprattutto per Miss Cockeral», s’interruppe e fece un gesto col pollice e l’indice, come a misurare una piccola distanza. «Capisci cosa voglio dire?».

Il fotografo, come un cavallo lasciato in mezzo a un pascolo intonso, tirò indietro la testa, annusò l’aria come alla ricerca di significati nascosti e parve placato.

«È difficile, ma se c’è qualcuno che può capirlo, quel qualcuno sei tu». Jimmy cominciò a radunare i negativi. Aveva implicitamente dichiarato chiuso l’argomento, e ora parlava di decisioni già prese. «Ascolta, Lionel. Sarà impegnata nelle riprese per il resto della settimana e sappiamo bene che, purtroppo per te, non sarà disposta a collaborare come si deve. Ci parlo io e organizzo qualcosa per la prossima settimana. Sono certo che saprai trarne degli scatti magnifici. Che ne pensi? A proposito, conosci Mr Joyce?».

Il fotografo tese una mano che somigliava a un filetto di pesce.

«Ora gli mostro le foto», proseguì Jimmy sempre con quel tono conciliante.

Il fotografo emise una specie di nitrito, ritrasse la mano e guardò preoccupato i negativi.

«Gli dirò che sono solo delle prove», lo rassicurò Jimmy. «Ci vediamo, Lionel», aggiunse distrattamente.

Emmanuel sorrise, contento di avere già la possibilità di parlare con Jimmy.

Il fotografo lo guardò deferente, quasi intimorito, poi se ne andò.

«Muore dalla voglia di lavorare con te». Jimmy accese una sigaretta. «Dio santo. Guarda cos’ha fatto a Elspeth! È una bomba tutta curve e qui sembra una creatura uscita da sotto un sasso». Ficcò i negativi in un cassetto. «Non hai dimenticato il pranzo, vero?».

«No».

«Hai la chiave della tua stanza?».

Si tastò incerto le tasche, e prima che Jimmy gli dicesse di non preoccuparsi perché aveva la copia, sbottò: «Jimmy, non lo so se voglio scrivere un’altra commedia».

«Perché no?».

«Domandarsi perché no non è una buona base di partenza. Non ho molto da dire». Poggiò la mano sulla scrivania, caricandovi il peso. «Ho perso il contatto. Provo un misto di inutilità e completo distacco».

Nel silenzio che seguì, Emmanuel sapeva esattamente cosa Jimmy stesse tacendo. «Hai l’indirizzo di casa di Gloria?».

«È ancora in ospedale».

«Voglio andare a trovare sua sorella». Dopo un istante aggiunse: «Sento il dovere di farlo».

Dopo che Jimmy glielo ebbe detto, Em domandò: «Cosa sai di questa ragazza che Sol ci porterà a pranzo?».

«Quello che ha detto Sol. Cioè niente. Esperienza non ne ha. Ah ecco... Sol ha detto che è una creatura fuori dal mondo».

«Come fargliene una colpa. Non è certo un bel mondo».

«Vieni con me, devo andare in farmacia».

«Devo fare qualcosa, o Sol mi convincerà a ingaggiarla così, sulla fiducia. Perché non puoi venire?».

«Devo dire a Annie che non se ne fa niente. Poi ho una chiamata alle due».

«Annie?».

«Quella di ieri sera. Hai detto che ha una voce deprimente».

«Oh, sì. Non sei d’accordo?».

Jimmy parve imbarazzato. «Io la trovo deprimente in altri modi». Poi aggiunse, quasi rabbioso: «Non merita riguardi! Glielo dicevo che non è adatta al ruolo di Clemency, ma ha insistito così tanto per avere un appuntamento con te».

«Be’, potrei aver bisogno di te con la ragazza di Sol. Anche se dubito possa essere quella giusta».

«Se mai la troveremo, la ragazza giusta, m’innamorerò di lei. Perché sono innamorato di Clemency. Farmacia, adesso?».

«Sì, drugstore», assentì Em in tono affettuoso. In quel momento volle a Jimmy un bene dell’anima.

 

Sol Black – cui si doveva la scelta del ristorante – lo aspettava all’ingresso del locale, uno stretto pertugio dalle pareti imbottite. Restarono lì davanti per alcuni minuti a scambiarsi saluti in mezzo al traffico non sempre scorrevole di camerieri e avventori (nessuno dei due era un omone), poi Sol indicò un tavolino basso, piccolo, addossato a un angolo vicino al bar, tra due gruppi di bevitori. Le sedie, alte più del ripiano, erano state infilate subito dietro, ma Sol riuscì con una certa destrezza a estrarle e disporle attorno. Presero posto intorno al tavolo traballante ed Emmanuel si spolverò via dalle ginocchia alcune briciole di patatine. Era quasi buio, tuttavia era chiaro che nel locale predominava il rosso; l’aria era impregnata di profumo, vestiti francesi e abiti da uomo umidi (fuori pioveva ancora). Sol cominciò a parlare, ma il concerto di cubetti di ghiaccio (o era un tintinnio di gioielli?), risate femminili poco opportune e il pesante chiacchiericcio degli uomini che discorrevano di soldi riduceva qualunque conversazione a un mero scambio di amenità. In più Emmanuel aveva il condizionatore acceso a pochi centimetri dall’orecchio destro, perciò si sporse un poco verso la faccia lucida e bianchiccia di Sol.

«Ma tu non hai da bere!», disse subito questi. Aveva un modo tutto suo di far apparire tragiche piccole manchevolezze di cui non importava niente a nessuno. «Ehi! Ordiniamo anche per Martha».

Emmanuel disse che a pranzo non beveva.

«Ma non mi dire! Gesù! Ti ammiro molto, sai? Sicuro di non voler fare un’eccezione, solo per oggi?».

«Succo di pomodoro», articolò Em, ma gli sembrò che la sua voce venisse risucchiata per intero dalle pareti imbottite.

Sol ordinò due Bloody Mary e un succo di pomodoro per Mr Joyce, dopodiché il cameriere passò oltre come il cavallo su una scacchiera.

«Ti dicevo di questa ragazza, sai, Martha... non è una delle tante, mi devi credere. Bella è bella, certamente, ma di una bellezza non convenzionale. Ma soprattutto è intelligente! Ha letto tutto! E capisce davvero il tuo lavoro: ha fatto dei commenti che mi hanno veramente colpito! Piccole cose, beninteso. E poi, hai presente tutti quei russi? Be’, lei li ha letti tutti quanti! Non solo i dialoghi, ma proprio tutto». Aveva la faccia madida e gli era venuto il fiatone. «E poi la musica», aggiunse con voce roca. «Ragazzi! Sa proprio tutto di musica». Arrivarono i drink e Sol fece portare via il conto.

«Ma ha mai recitato, Sol?», domandò Emmanuel con delicatezza.

«E me lo chiedi? Ma certo. Ha fatto parte di una compagnia di repertorio. Ha voluto fare la gavetta. È una donna colta!». Bevve una gran sorsata. «Ha vent’anni, sai, è una ragazzina. Cosa vuoi che abbia fatto? Ci tengo che abbia successo, perché sono certo che ha la stoffa... Io non sono un tipo tenero», aggiunse accorato. «Guardami». Rivolse a Emmanuel un’occhiata eloquente. «Broadway, Londra, Hollywood. Sono stato dappertutto. Per me si assomigliano tutte. Non c’è nulla che io non sappia sulla natura umana e se dico che questa ragazza ha ciò che il pubblico vuole e che l’attende un grande futuro, puoi star certo che è così».

«L’hai vista la commedia, Sol?».

«Ci ho portato Martha ieri sera. È splendida. Lei ne va pazza. In particolare per la ragazza, come si chiama, Vlem... Clem...».

«Va bene, basta con la pubblicità, Sol. Vorrei vederla».

«Bene, perché sta arrivando».

Fece per alzarsi e Em tenne fermo il tavolo.

Una ragazza alta con un tailleur blu camminava risoluta verso di loro. La gonna stretta, la giacca posata sulle spalle. I capelli castani erano pettinati con cura all’indietro e lasciavano scoperto un bel viso largo, ben proporzionato. Sol la presentò. Tutti sorridevano, e lei si sedette su una terza sedia che sembrava essersi materializzata dal nulla. Portava una camicetta bianca scollata, e quando si sedette Emmanuel si accorse che aveva il più bel seno che avesse mai visto. Questo lo fece ridere, cosa che accadeva di rado: gli altri due lo guardarono perplessi ma proprio in quel momento il capocameriere, un uomo dallo sguardo diabolico e le spalle larghe quanto un pianoforte, sopraggiunse per posare un menu che era grande circa due volte il tavolo. I due uomini protessero i loro bicchieri come segreti inconfessabili tra le gambe intorpidite dai crampi, e si sforzarono di guardare nella direzione più opportuna, ovvero il menu. Era un ciclostilato in inchiostro violetto, su ruvida carta grigia. I nomi delle pietanze erano in francese, ma Emmanuel era interessato ad altro. Guardò i suoi commensali: Sol, d’appetito com’era, doveva fare i conti con la sua pancia in espansione, mentre la ragazza – Martha Curling si chiamava – cercava di decidere che cosa gli uomini si aspettavano che ordinasse; il capocameriere aveva messo su una maschera di infida benevolenza; ma gli occhi di Em tornarono presto sul seno di Miss Curling: avrebbe voluto complimentarsi apertamente con lei, scoppiare di nuovo a ridere per celebrare quel mirabile fenomeno della natura. Ordinò ostriche in onore di quel seno, poi si sforzò di prestare maggiore attenzione a ciò che si diceva intorno al tavolo.

«...ci affondi il coltello ed esce tutto il burro», stava dicendo Sol.

La ragazza giocherellava col bottone alto della camicetta. Aveva grandi mani che non controllava bene, ed Emmanuel avrebbe voluto che le togliesse di mezzo. Dovrà pur abbassarle per mangiare, rifletté.

«È una ricetta russa?», gli stava domandando Martha. «C’è scritto Kiev», aggiunse con aria competente. Emmanuel le rivolse un sorriso raggiante e non rispose: era solito non replicare a domande irrilevanti. Martha smise di tormentare il bottone e ordinò una bistecca. Il cameriere se ne andò e Emmanuel dovette ammettere che, per sgradevole che fosse, la sua presenza diffondeva una certa calma.

Poco dopo erano seduti attorno a un tavolo che non era troppo diverso da una rotatoria su una strada di scorrimento, solo che era più piccolo e molto più malfermo. Ma era comunque un buon tavolo, osservò Sol con soddisfazione. Voleva bene alla gente, Sol, ma la gente lo faceva sudare, e lui somigliava già a una candela mezza sciolta. Mangiarono quanto ordinato: ma la ragazza esibiva una sicumera apatica che dispiaceva a Em. Cercava di sostenere il suo sguardo coi grandi occhi azzurro pallido, da cui lasciava trasparire troppo di ciò che aveva dentro. Passò diligentemente in rassegna le commedie di Em, facendo paragoni e dispensando le sue innocue opinioni come fossero diserbante su un prato ben tenuto, con Sol dietro che le dava manforte. Emmanuel mangiava le sue ostriche sforzandosi di non apparire aggressivo e nemmeno esasperato. Gli altri due bevevano il vino che il sommelier aveva versato loro con aria altezzosa: la ragazza peggiorò la propria posizione mostrando di padroneggiare anche il registro spavaldo e Sol diventò subito paonazzo. Praticamente gli stava chiedendo la parte, ma Sol intervenne abilmente – non gli mancava una certa sensibilità – e dirottò la conversazione su Lillian e Jimmy.

«Sono i suoi figli?», domandò lei con aria sconfitta, il viso atteggiato a un blando interesse di facciata che Emmanuel ormai associava a quella domanda.

«Mia moglie e Jimmy Sullivan. È il mio regista... in effetti si occupa di tutto».

«Vuole dire che non ha figli?».

«Ne abbiamo avuta una: è morta di meningite. Mia moglie non poteva averne altri. Ha problemi ai reni e anche al cuore. Sarebbe molto pericoloso per lei. Perciò no, niente figli». Lo disse in un modo spietato, a se stesso e alla ragazza, in modo che a lei non venisse mai più in mente di fare domande simili e in modo da dare a se stesso l’illusione di stare parlando di qualcun altro.

La giovane era ammutolita. Allora Sol si sporse e disse: «Devi dire a Lillian che l’ho vista giovedì alla prima ed era così bella che ho deciso di mandarle dei fiori. Non scherzo!». Gli occhi erano velluto profondo e il suo cuore era come un grande, morbido cuscino pronto ad accogliere tutti.

Stavano bevendo del caffè amaro e molto caldo. Emmanuel disse: «Io glielo dico Sol, ma tanto non mi crederà».

«Allora glieli mando davvero, i fiori!». E sfoderò un sorriso contagioso. «Cosa le piace?». Fece per prendere qualcosa dal taschino e ne venne fuori una cascata di oggetti, portafogli e carte varie.

«Qualcosa di azzurro, che profumi».

«Azzurro, che profumi», appuntò con diligenza su un taccuino minuscolo. «Potrebbero essere... come si chiamano... i gia...».

«Giacinti», lo soccorse Martha. «Sono ancora di stagione, vero?».

«Sì», disse Emmanuel sorridendole. Si rese conto, col più freddo distacco, che con il suo sproloquio l’aveva riempita di dubbi su stessa invece che su di lui.

Alla fine riuscì a svignarsela, riconquistò il suo cappotto in cambio di un piccolo obolo e s’incamminò verso Finchley Road, dove Gloria e sua sorella vivevano e gestivano un piccolo servizio di dattilografia. Ci arrivò per vie traverse: come sempre prese un autobus di cui non conosceva la destinazione, cosa di cui si rese conto solo dopo mezz’ora perché, in fuga dal ricordo degli eventi recenti, si era lasciato dietro quelli passati, superando a ritroso i diaframmi delle scelte di vita e relative responsabilità, per arrivare al nucleo originario delle sue intenzioni...

Tanto tempo prima, all’inizio di tutto, le sue intenzioni erano state lampanti: la sua vita era soffocata da una melma di povertà, fame, freddo e asfissia, e lui se ne era cavato fuori con fatica, rinforzandosi segretamente con fantasie come quella in cui il re lo mandava a chiamare e lo nominava primo ministro. «Mai, dacché porto la corona, ho avuto un primo ministro di nove anni! Non c’è obiettivo che tu non possa raggiungere, ragazzo, se continui di questo passo». Continuò così, e di certo l’ambizione non mancava in Napoleon Road 492. Gli dava perfino la forza di assistere alle liti dei suoi genitori che si facevano a pezzi. Suo padre era un ometto basso, forte come un gatto, gli occhi scintillanti di convinzioni astratte e scarsa resistenza al lavoro: era spesso disoccupato e più spesso ancora ubriaco; sua madre invece era olivastra, pallida e delicata, dispensatrice di silenzi raggelanti e dotata di un cupo spirito di sacrificio: aveva sfidato la sua famiglia – erano ebrei ortodossi – sposando un cattolico irlandese, e c’era voluto tanto di quel coraggio che il suo spirito aveva continuato a bruciare come una candela accesa per il resto dei suoi giorni. Em aveva sempre pensato a loro come un’entità unica e indivisibile fatta di elementi inconciliabili, come il fuoco e l’acqua. Ma la sera in cui aveva concepito i suoi propositi la ricordava con nitore assoluto, insieme all’odore di sarde fritte e alla faccia accaldata di sua madre che si consumava nell’attesa. Portava un grembiule a fiori che le stava grande e le scarpe, che indossava solo fuori casa e nelle occasioni speciali. Come quella sera: l’anniversario di matrimonio dei suoi genitori, e come sempre stavano aspettando suo padre, lo aspettavano da quasi quattro ore, coi pesci pronti a finire in padella. Durante l’attesa sua madre aveva pianto un poco, per quella sua fragile prospettiva di piacere che andava in pezzi ancora una volta, mentre lui, Em... ah, come si struggeva per quelle sarde! Placata la salivazione, nella sua mente le aveva trasformate una a una in pesci grossi come balene, così grandi da portarlo sulla schiena, così possenti da inghiottire in un sol boccone tutti quelli che gli davano fastidio. Lui stesso, per un certo tempo, si era trasformato in una sardina, contornato da tante sue simili dai corpi lucidi, grassocci e guizzanti, poi gli era venuta la smania di contarle, di vedere quante gliene sarebbero toccate. L’aria torrida intanto filtrava dalla strada sporca e, superando la misera barriera delle tendine di tulle, invadeva la stanzetta facendosi sempre più pesante, incombendo su di loro come una massa d’acqua calda, e l’attesa di qualcosa di bello si trasformò in breve nell’agonia che precede una scenata. Dopo che sua madre aveva pianto, cosa che faceva con patetica discrezione, giusto un gemito trattenuto e poche lacrime fredde, Emmanuel aveva capito che la serata era rovinata, che a lei delle sardine non importava molto e che se non ci stava attento rischiava di vederle sfumare via. Decise di giocare d’anticipo, sulla base del fatto che sua madre reagiva a due cose: il mal di pancia e gli ordini impartiti con fermezza. Il mal di pancia non era nemmeno da prendere in considerazione, se voleva che gli agognati pesci finissero nel suo piatto: perciò prese in mano la situazione e si mise a urlarle contro. Lei scuoteva il capo, un po’ rossa in volto, sorrise accennando a non so più quale maschio di famiglia, e cucinò tutto il pesce disponibile. Lui stava a guardare i piccoli pesci argentati fremere nel grasso bollente (sua madre ne usava un tipo particolare), contrarsi un poco, perdere la loro argentea bellezza e diventare croccanti e appetitosi. Gli aveva appena piazzato davanti un piatto con dentro ben sette sardine – cinque grandi e due piccole – quando arrivò suo padre.

Anni dopo, tra i compiti di Em ci sarebbe stato quello di decidere chi, fra gli attori di seconda categoria, era bravo nelle uscite e chi era bravo nelle entrate. Suo padre era uno che dava il meglio nelle entrate. Aprì la porta con uno scatto che la fece oscillare un poco sui cardini e si piazzò di sbieco, con aria torva, nell’ingresso: ansimava e aveva una macchiolina di sangue vicino all’occhio sinistro. Sorrideva, e gli occhi gli brillavano di collera pura. Tacque il tempo necessario a che tutti fossero raggelati da quella faccia diabolica, poi disse: «Ho sopportato anche troppo: devo togliermi la vita perché essa abbia un senso... se restassi qui sarei come una mosca su un lurido grumo di zucchero, ecco cosa sei tu, mia cara, un dolce, lurido grumo di zucchero... mi fai venire una voglia di fuggire che potrei glorificare il più lercio angolo di strada, tutto, purché sia fuori da questo buco... ci hai mai pensato che se fossimo morti servirebbe suppergiù la stessa quantità di spazio per seppellirci? Non è una cosa brutta da pensare? Ma tu stai lunga distesa dal giorno in cui ci siamo sposati, non ti sei mai rialzata, perciò questa sarà una delle mille e mille cose che ti sono sfuggite...». E così via. Non si ricordava tutto. Sua madre piangeva e quando lui gli passò accanto per infamarla da vicino, a Emmanuel era venuta in mente la volta che lo avevano portato al circo, il più bel giorno della sua vita, perché suo padre aveva lo stesso odore del leone, un puzzo di carne, pelo e segatura. «Se tu fossi lontana come le stelle, potrei soffrire la tua mancanza, ma non molto perché tu non brilli, la tua luce non si vedrebbe a un miglio di distanza... Tu sei il tipo di donna che uno incontra in una vita di stenti e poi passa la vita a pentirsene. Io ho grandi pensieri sulla rovina di questo paese e arrivo in questo antro puzzolente di pesce, con te che frigni e... cosa sarebbe questo banchetto maleodorante? Quando uno è povero, le poche cose che ha gli costano soldi, e io ho te e quel rospo lì... io ero più piccolo di lui quando ho cominciato a mantenermi da solo. Sarete pure tutto quello che ho, ma potrei fare benissimo a meno di voi! La vita familiare mi ha stancato fin dalla prima volta che mi sono appartato con una ragazza! E con cosa mi ritrovo ora? Con quel piccolo selvaggio lunatico, che non fa altro che masticare e sputare e che farà una brutta fine, questo è sicuro com’è sicuro che la gallina farà l’uovo! Stupido moccioso senza sangue né cervello! Guardalo, ha un futuro che non va oltre il suo naso e ti guarda come se fosse un cagnetto da compagnia».

Emmanuel non si era mai sentito tanto importante. Si sforzò di mettere a fuoco la punta del naso ­­– un indizio del suo futuro – ma era già così ebbro di parole che gli girò la testa. Sua madre si era lasciata cadere sull’unica poltrona presente in casa; suo padre si sbracciava minaccioso su di lei, i pezzi della sua mente troppo affollata le cadevano addosso come relitti di una nave su un mare scosso dai brividi.

«...Io sono un uomo che porta un grande peso sulla schiena, ma non c’è nessun fiume da attraversare, nessun bambino santo che mi benedica e nessun approdo in vista: il fiume è quello che porto sulle spalle, perché tu sei questo, Leah, una pesante massa d’acqua. Ora potrei essere in America a fare grandi cose, ma da quando ci siamo sposati, la mia vita è come ingrigita, svuotata d’ogni gioia, perché nessuno è bravo quanto te a trasformare un’opportunità in una tragedia. Certo, posso camminare per le strade, sentire sopra la mia testa l’enorme massa delle stelle e la grandezza del mondo tutt’intorno a me, ma poi torno qui da te, in questo buco pieno di amarezza, dove tu riesci a tirare fuori da me il peggio. Ma un giorno la nave salperà e io sarò lì sopra, ci puoi giurare! È forse colpa mia se la tua famiglia ti fa soffrire? Qual è il mio peccato, non essere ebreo? Hai pensato cosa ha significato per mia madre dover rinnegare i suoi santi per accettare questo marmocchio?».

A quel punto sua madre emetteva un gemito, si sfilava il grembiule e piombava in un silenzio risentito. Non ricordava come fosse proseguita la scenata: i due probabilmente erano andati nell’altra stanza, quella dove dormivano, e lui era rimasto solo. Parole, parole, parole: non si soffermava sul loro significato, ma era completamente ammaliato dal loro potere. Possedevano una specie di forza che sfidava il suo intelletto ancora acerbo e aperto al nuovo (quella fu la prima volta che rifletté sulle dimensioni del proprio intelletto, e si rese conto di quanto fosse piccolo proprio perché lo sentiva crescere, con un’urgenza irregolare e dirompente). Gli faceva male, e non capiva perché. Si ricordava di essersi guardato le braccia e le gambe alla ricerca di qualche segno, mentre brandelli dello sproloquio di suo padre gli vorticavano in testa come fuochi d’artificio. Adesso si sentiva grande, grande come quella stanza: se muoveva una mano, poteva far crollare i muri. Ma con gli occhi era già fuori e con qualche altra parte di sé era ancora più lontano, più in alto e più lontano. Cercava di fermare qualcuno di quei brandelli, di esaminarli da vicino. L’America? Le stelle? Sua nonna, che non aveva mai visto, che rinnegava i santi? L’America era una fantasia più praticabile: se pensava all’America, la sua mente gli forniva immagini potenti e variegate. Gli correvano incontro al galoppo cowboy intenti a mangiare gelati dorati, intorno a lui si snodavano fiumi solcati da canoe indiane e poi montagne, cactus, animali, tutto sparso come polvere magica. La sostanza delle stelle non era l’oro, ma l’argento: erano appuntite e asciutte, tali che se le raccoglievi tutte insieme con la mano formavano una massa d’incomparabile splendore, e l’aria intorno era tiepida, come piume sulla pelle. Sua nonna, vestita di una tunica bianca perché era morta, aveva in mano un ombrello come la dama di quella pantomima che aveva visto in Drury Lane e lo brandiva contro i santi tutti in circolo, tutti maschi, con barbe chiare, i piedi nudi e le pesanti palpebre ieratiche; e lui rideva perché sua nonna non riusciva, con l’ombrello, a spezzare il cordone dei santi... Quella parte di lui poteva arrivare dovunque, nemmeno lui era in grado di fermarla, era come una macchina dal funzionamento imprevedibile. Forse suo padre, quando usava tutte quelle parole rabbiose ed estranee, aveva dentro una macchina dello stesso genere? No, si era risposto: suo padre era troppo arrabbiato e pieno di amarezza. Forse la sua macchina era rotta, oppure era lui che non la usava a dovere. Era una soluzione facile, ma con risvolti inquietanti: se la macchina si piegava così facilmente alle intenzioni del suo proprietario e costui era animato da cattive intenzioni, allora poteva succedere di tutto... Si sentì attraversare da tanti rigagnoli neri, oleosi e sotterranei, che lo invadevano rapidi e silenziosi, e i suoi piedi si avvinghiarono d’istinto alle gambe della sedia: adesso il sole era un enorme occhio rosso che lo fissava malevolo, e lui sentiva il sangue pompargli dietro le orecchie – era diventato piccolo come una goccia o un granello, ansante e scottato – e si ribellò col peso che gli restava contro la macchina, che diede un sussulto convulso e poi si arrestò, e le parole restarono sparse intorno, inerti come vetri rotti. Andavano usate nel modo giusto: le parole, se messe insieme come si deve, potevano coprire tutto, arrivare dappertutto. Guardò le proprie mani ai lati del piatto con il pesce. Erano mani piccole, paffute e senz’ossa, grigiastre, calme, piuttosto sporche; erano lì, pronte a eseguire ogni suo comando, poteva muovere un dito, ruotare il polso, sulle sue mani aveva un potere assoluto: erano un altro ingranaggio di quella macchina stupefacente. Sentì di essere una creatura superba che poteva muoversi a piacimento in quella stanzetta puzzolente di fritto. Le sue dimensioni erano ideali. Guardò le proprie mani e pensò: «Scriverò parole. Le userò così». Sentì come un’esplosione nel cuore, che arrivò anche agli occhi. Andò alla stufa, quella dove sua madre aveva fritto le sardine, e aprì lo sportello del camino. Il fuoco era quasi del tutto spento: solo pochi tizzoni ardevano ancora in un mucchio di braci spente. La padella con le sardine era sul piano di cottura; ne toccò una, quasi completamente fredda. Con cautela prese la padella e ne rovesciò il contenuto nel fuoco, che diede come un fremito di stupore prima di mettersi a crepitare alzando una vivace fiammella. Nuove lingue di fuoco trasparenti, con insolite striature di un blu ultraterreno avvolsero i pesci. Gli piaceva, il fuoco, e quando cominciò a spegnersi vi rovesciò sopra uno a uno i pesci del suo piatto. Aspettò fino alla fine, poi aprì il cassetto più basso del comò, che era il suo letto, spense il gas e si addormentò.

Em si riscosse: l’autobus era giunto al capolinea e venne a sapere dal conducente che non era più vicino ora a Finchley Road di quanto lo fosse stato prima di salire in vettura. L’uomo trovò molto spassosa la sua smaccata assenza di senso dell’orientamento, e lo rimproverò per non avergli detto subito dove doveva andare; gli suggerì due o tre modi di raggiungere Finchley Road con il trasporto pubblico, insistendo sul fatto che lui non aveva nessun interesse personale a che Emmanuel arrivasse a destinazione, cosa che rendeva nobile il suo prodigarsi.

Emmanuel chiese scusa e riuscì a placarlo, poi l’autista gli domandò se fosse straniero. Non gli sembrava, a dire il vero. Anzi, buffo a dirsi, ma gli sembrava di averlo già visto da qualche parte.

«Vivo quasi sempre all’estero».

«Ah, ecco. Deve essere per questo. Le conviene prendere un taxi allora», aggiunse con evidente compatimento.

Scesero insieme i gradini dell’autobus e l’autista, in un prevedibile slancio di generosità, gli fece notare che ogni cosa aveva il suo lato positivo.

 

Gloria e sua sorella occupavano insieme una parte di un pregevole edificio neo Tudor, ben lontano dalla carreggiata di Finchley Road. Non ci era mai stato prima e non aveva mai incontrato la sorella di Gloria, che era più grande di lei e si chiamava Beryl. La attese in una saletta arredata a questo preciso scopo e in quel lasso di tempo si rese conto che l’istinto, quello che lo aveva spinto fin lì, lo aveva abbandonato: adesso non sapeva cosa dire alla persona che era venuto a trovare.

La quale arrivò di lì a poco vestita alla maniera di una donna in carriera di vent’anni prima: il classico tailleur blu scuro che, si dice, non invecchia mai e invece invecchia eccome, né più né meno di chi lo indossa, una camicetta bianca con il fiocco al collo, orecchini di perle che non riuscivano a ingentilire l’insieme e capelli raccolti in un’acconciatura ritorta e rigida, con la grazia di un’aiuola in un giardino municipale. La sua faccia esprimeva l’energia contratta di chi resiste all’onda d’urto di un grosso imprevisto. Mise su un’espressione cauta e spigliata, che sembrava nascondere curiosità mista a risentimento.

«Mr Joyce, vero? Non mi aspettavo una sua visita».

«Sono venuto a chiederle se ha avuto modo di vedere sua sorella».

«Questa mattina stava dormendo. Ci tornerò stasera, dopo il lavoro. Hanno detto che sta abbastanza bene, comunque».

Ci fu un breve silenzio e poi la donna aggiunse: «È stato un bruttissimo colpo, si capisce». Lo disse guardando dall’altra parte, come se non ci fosse altro modo per dirlo.

«Può dedicarmi qualche minuto, per parlare di Gloria?».

Lo sguardo di lei si fece più profondo. «Ma certo. Perché non si siede? Vado a chiedere alla mia sottoposta di rispondere al telefono».

Mentre se ne andava, Emmanuel notò che quel che aveva addosso non era poi tanto diverso da ciò che indossava la ragazza che aveva conosciuto a pranzo: la differenza fra le due per qualche motivo lo commuoveva. Si sedette su una delle scomode sedie e si mise a osservare un acquerello raffigurante delle giunchiglie dall’aria arcigna dentro un cestino dorato. Poi Beryl fu di ritorno, si sedette e i due si fissarono per alcuni secondi.

«Volevo dirle», esordì con cautela Emmanuel, «che non avevo la più vaga idea che Gloria potesse tentare il suicidio. Andrò a New York fra una settimana o due e ieri ho dovuto dirle che non posso portarla con me... con noi. Non mi ero nemmeno reso conto che lei lo desiderasse tanto, non finché il mio assistente, Mr Sullivan, mi ha detto di aver avuto quest’impressione. Non potevo in nessun modo sospettare che la mia decisione avesse queste conseguenze».

Lei non disse nulla, perciò Emmanuel domandò: «Lei sapeva che sua sorella si aspettava di essere invitata a New York con noi?».

«Sapevo che ci sperava, naturalmente». Una pausa, poi aggiunse bruscamente: «Non è possibile che lei non sospettasse nulla! Si sarà pur accorto che Gloria credeva di essere innamorata di lei».

Preso in contropiede, Emmanuel ripeté: «Lo credeva?».

«La gente si illude sui sentimenti così come s’illude su tante cose, le pare? E se passi il tempo a pensare a certe cose, è naturale che il tuo giudizio si offuschi. Gloria ha la testa piena di romanticherie, certo». Quest’ultima frase le uscì di bocca in un misto di orgoglio e amarezza. «Ma devo dirglielo», aggiunse. «Non credo che lei sia stato di grande aiuto».

«Sono stato un completo disastro».

Non lo negò, ma Emmanuel ebbe la sensazione che stesse per aprirsi a uno scambio più confidenziale. Rifletteva. Poi indagò: «Le darà delle buone referenze, immagino».

«Sì, certo. È un’ottima segretaria».

«Di solito, quando capita un lavoro temporaneo interessante, lo riservo a lei. Ma al momento temo che non ce ne siano. E Gloria si stanca a stare tutto il tempo qui a battere a macchina. Se lei le scrivesse delle referenze molto buone, potrei anche riuscire a trovarle un buon impiego che la distragga».

«Non le farebbe bene una vacanza, prima?».

Un’ombra di emozioni contrastanti le attraversò il viso. Si schiarì la gola senza averne bisogno e disse: «Al momento temo non sia possibile. La nostra è una piccola attività, sa, siamo solo noi due e una tirocinante. Che potrò tenere fino a quando resterà una mezza incapace, perché dopo non potrò più pagarla. Gloria dovrà adattarsi finché non usciremo dal periodo di magra», si affrettò a concludere.

«E lei?».

«Di solito mi prendo una settimana a Natale. Andiamo da mio fratello a Eastbourne; lui è sposato e, come dico sempre, Natale non è Natale senza bambini. Gloria però si prende dei giorni anche in estate».

«Stavo pensando», esordì Emmanuel senza guardarla in viso, «che col suo permesso vorrei offrirvela io una vacanza, a entrambe. Di qualsiasi tipo, dove volete voi...». Provò a indovinare cosa potesse piacerle. «Una crociera, magari. A Madeira o in Grecia, quello che più le piace».

La vide trasalire, giungere le mani in grembo. Il collo le diventò di un rosa scuro e le si riempirono gli occhi di lacrime. Non c’era nessuna avversità a cui far fronte, e la sua trasparente reazione sollevò Em dal vile imbarazzo provato nel tentare di rimediare al proprio comportamento pagando loro una vacanza, e lo mise nella gratificante posizione di benefattore. Aggiunse che avrebbe provveduto anche a una sostituta per l’ufficio durante la loro assenza e che in sei settimane, o giù di lì, non poteva succedere niente di male.

«Sei settimane!», proruppe. Dopo aver armeggiato un po’ estrasse un minuscolo fazzoletto inadeguato allo scopo. Le diede il suo; lei lo prese senza farci caso, piangendo e tentando di spiegargli il suo stato emotivo. Aveva sempre desiderato andare all’estero, ma sua madre era morta appena un anno prima e negli ultimi tredici era stata sempre in cattiva salute; inoltre viaggiare proprio non le piaceva, nemmeno a Natale. Aveva iniziato a fare la dattilografa proprio per quello, perché aveva bisogno di lavorare a casa. Era stata fidanzata per quasi quattro anni, ma lui non era disposto ad accogliere la madre di lei – a cui non era simpatico – e Gloria, ai tempi diciassettenne, aveva detto che sarebbe morta piuttosto che restare da sola con la madre. Non c’era da biasimarla, lei e la mamma non erano mai andate d’accordo. Alla fine il fidanzato ne aveva avuto abbastanza e l’aveva lasciata, e non c’era da biasimare nemmeno lui, beninteso. Ormai Beryl aveva quarant’anni, dieci più di Gloria, si sentiva responsabile per la sorella e aveva cercato di mettere da parte qualcosa per i giorni a venire, il suo cuore non era più quello di un tempo... non se l’era mai sentita di prendersi una vacanza, figuriamoci di andare all’estero. «All’estero!», ripeté passandosi il fazzoletto appallottolato da una mano all’altra con quelle dita lucide e ossute.

Em disse che le avrebbe mandato delle brochure per scegliere tra i vari itinerari e che non doveva preoccuparsi di nient’altro. Adesso doveva andare: si alzò in piedi e lei si affrettò a imitarlo, come una goffa scolaretta, e il fazzoletto le cadde per terra.

«Oh!». Si accorse in quel momento di averlo avuto in mano.

Mentre Em lo raccoglieva, lei gli disse: «È davvero generoso da parte sua fare questo. E pensare anche a me. Mi viene in mente solo ora... forse devo prima parlarne con Gloria. Magari preferisce andare da sola. Potrebbe pensare che lei è un suo amico e che io non ho il diritto di accettare da lei un regalo simile. Inoltre forse da sola si divertirebbe di più».

«Ci vuole qualcuno che la tenga d’occhio», replicò lui con fermezza. «Non è stata bene. Deve andare anche lei, o non se ne fa niente».

La donna s’illuminò in volto e lo seguì un po’ ingobbita lungo il corridoio.

«E se fossi in lei», concluse Em, «non direi niente a Gloria del mio ruolo in questa faccenda. Io lo preferirei di gran lunga. E poi non sarebbe bello, se ci fosse un alone di mistero? Gloria non è forse un tipo romantico?». Le sorrise e quel sorriso, quella benevolenza piena di tatto rivolta proprio a lei, le si stampò nella memoria in maniera indelebile.

 

In taxi reclinò il capo sul sedile. Si rilassò e la mente cominciò a vagare tra momenti che riconosceva e di cui avrebbe fatto a meno. Si sentiva calmo, vigile, con l’acuta consapevolezza di essere in attesa di qualcosa. Da qualche parte, con una delle sue estremità, riusciva a toccarla: come chi va alla deriva nell’oceano e si tiene aggrappato a una zattera; il suo corpo e la zattera reagivano diversamente all’urto delle onde, e la differenza la sentiva sulla punta delle dita... il penoso rossore che le aveva soffuso viso e collo, quel suo goffo scattare in piedi, il modo in cui aveva preso il fazzoletto. E poi il potere dei soldi, il loro uso e abuso, non c’era differenza: la gente generalizza sempre quando non sa bene di cosa parla. Il suo cuore non era più quello di un tempo. E chissà com’era un tempo, il suo cuore, e se lei ne aveva davvero idea. Un cuore sofferente, abbandonato dall’uomo che poi non l’aveva sposata, maltrattato da Gloria e soffocato senza pietà dalla loro madre: i piagnucolii pieni di cattive intenzioni dovevano aver incoraggiato le sostituzioni: «Beryl sì che ha la testa sulle spalle... È forte, Beryl, una gran lavoratrice». E poi c’erano i corpi, che andavano nutriti, vestiti, tenuti al caldo. I tempi bui erano un dato di fatto: che mai faremmo se non ci fosse Beryl! E se lei non avesse il cuore che ha, si chiederebbe cosa farebbe lei se non ci fossimo noi... e Beryl certo non si risparmia, guadagna il pane per sé, per la madre e per Gloria, inchiodata al suo posto dalla certezza di essere un surrogato, di assolvere per loro il ruolo che sarebbe spettato a un uomo, oltre al fardello di cure e faccende domestiche varie che sua madre riassumeva nell’innocuo concetto di “compagnia”; perseguitata da circostanze di cui non aveva colpa ma che era continuamente chiamata ad alleviare, come se avesse il dono dell’ubiquità e un’illimitata disponibilità al sacrificio di sé. Unico sfogo: quella settimana a Eastbourne a dicembre. Un’esausta cognata nubile, stremata dalla responsabilità di una malata cronica e di una ragazzina egocentrica, grata di quelle briciole di effetto e generosità che suo fratello e la moglie erano disposti a concederle. «Si tratta solo di una settimana. Dopotutto è Natale». E per tutta la settimana la tormentava il pensiero di mamma che si legava al dito la sua defezione, dei continui screzi tra lei e Gloria, insieme alla consapevolezza che in una settimana autocommiserazione e risentimento si sarebbero accumulati in misura tale che il resto dell’anno non le sarebbe bastato a stemperarli. Poi la mamma era morta; Gloria, non appena le si fosse presentata l’occasione, l’avrebbe abbandonata senza pensarci due volte, e lei sarebbe rimasta sola e senza risorse, perché per tutta la vita si era adoperata solo per loro e mai per se stessa. La scintilla di profonda dignità che aveva scorto in lei, adesso, a ripensarci, era diventata un faro che illuminava un orizzonte indefinito, pieno di dettagli che non riusciva ad abbracciare con l’immaginazione.

In quel momento, come il lieve spostamento d’aria che precede un vento caldo o il tepore rosso del sole sulle palpebre, questa ridda caleidoscopica di fatti e invenzioni si scosse rabbrividendo e si dispose in una trama armonica, come un vasto arazzo che d’un tratto gli riempì la coscienza. Non intendeva toccarla, provarla, darla in pasto alla sua poderosa macchina creativa: voleva che restasse lì per un po’ e s’imprimesse, senz’altro sforzo che l’esposizione al tempo. Questo lo rese fragile come uno sterpo nell’acqua. Scese dal taxi tremando dal freddo, tanto che gli ci volle un po’ per reperire i soldi da dare al tassista.

Pagava l’affitto di quella casa, ma non riusciva ad abitarla, come sempre. Il soggiorno aveva un che di vigile e anonimo che lo faceva sentire in colpa ogni volta che ci passava. Al piano di sopra udì un rumore concitato di cassetti che venivano aperti e chiusi, e quando passò davanti alla porta aperta del bagno sentì una nuvola di vapore allungarsi verso il corridoio, insieme a un profumo di cipria e prodotti di bellezza. Lillian probabilmente era già pronta per uscire, mentre lui era in ritardo.

Era stata dal parrucchiere: i capelli lucenti erano tagliati secondo una foggia seria e disinvolta, non doveva essere stata una cosa economica. Portava un vestito che Em una volta, per fare la pace, le aveva detto di apprezzare in modo particolare. Era di seta, a motivi floreali, con la gonna aderente sui fianchi e una profonda scollatura quadrata che non nascondeva il suo décolleté ossuto; metteva in risalto le sue eleganti spigolosità, nascondendo però la forma generale del corpo, e a Em non piaceva. Si era messa anche un collier di perle col fermaglio di diamanti e degli orecchini coordinati.

Em era in ritardo, e questo a lei non piaceva; Lillian era già vestita, e questo non piaceva a Em. Lei avrebbe voluto conoscere tutti i dettagli della sua giornata e lui non voleva raccontarglieli; lei avrebbe voluto enumerare tutti i dettagli della propria e lui non aveva voglia di ascoltarli. Questa è la situazione, si disse Em: posso e voglio davvero ricavarne qualcosa? Ma disse: «Sol Black ha detto che eri un incanto giovedì sera, e ti manda i suoi saluti. Era molto colpito. Credo che riceverai dei fiori».

Lei assunse quell’espressione tra l’indulgente e lo schifato con cui accoglieva di solito i complimenti fatti da un uomo che disprezzava. «Che esagerato!». Sospirò, e si mise a riempire di sigarette alle erbe un cofanetto di Fabergé.

«Ti sei riposata?».

Scosse la testa. «Non mi piace stare qui da sola. E tu, hai lavorato?».

«Un po’». L’arazzo gli tremolò dentro come una massa d’aria calda. Si sforzò di tenerlo fuori fuoco.

«Em, stai sviluppando un tic nervoso. Non fai che strizzare gli occhi. Credo che dovresti farti vedere da un oculista. Anche se scrivere non dovrebbe stancarti tanto gli occhi».

«Sono d’accordo con te».

«Mi preoccupa un po’», disse voltandosi in cerca di un cenno di apprezzamento.

«Non darti pensiero. Ti rovinerai l’acconciatura, che è molto bella. Devo solo cambiarmi la camicia. Ci metto un attimo».

Lei però lo seguì nello spogliatoio, nel cui letto Gloria era stata adagiata e su cui lui aveva successivamente dormito.

«Dove sei arrivato?».

«Arrivato?».

«Nella nuova commedia. Fin dove ti sei spinto?».

«Non molto lontano...». L’umore gli si rabbuiò, e la risposta gli uscì brusca suo malgrado.

«Caro, non è una domanda così strana. La gente me lo chiede spesso e io mi sento un’idiota a non averne la più pallida idea».

«Be’, tu digli questo: non molto lontano...». Si tolse con foga i gemelli e si mise alla nervosa ricerca di una camicia pulita.

Lei disse qualcosa, lui sapeva benissimo di che si trattava e non si diede la pena di starla a sentire. Ormai era diviso in tre persone diverse, una più vile dell’altra: l’uomo arrabbiato che si vestiva, quello paziente che attendeva una pausa di silenzio e infine quello disperato di fronte al ben noto copione della sua messinscena e delle bugie che raccontava alla moglie: i lunghi mesi infecondi in cui fingeva di lavorare, le volte in cui aveva simulato un qualche nobile segreto di cui non la metteva a parte, le settimane in cui finalmente riusciva a scrivere e il cui ricordo era il labile contatto che gli restava col proprio talento. E c’era un prezzo da pagare. Una volta che il lavoro era finito, compiuto e altro da lui, Em lo faceva leggere a lei per prima. La stava a guardare mentre tamburellava con le dita, lo pungolava, scribacchiava note; ascoltava i suoi appunti e rilievi e critiche (che lei considerava un aiuto costruttivo) e così facendo le dava in pasto la magnifica ebbrezza del lavoro finito. Era così che i suoi scritti passavano direttamente dal suo cuore, dove avevano preso forma, alle acque di quel fiume Lete che scorreva proprio lì dove lui avrebbe voluto trovare solo allegria e solidarietà.

Lillian era sul punto di piangere: doveva aver alzato la voce. Le raccontò qualche bugia e lei parve sollevata. Mentre uscivano di casa, si allontanò da se stessa al punto da dirgli: «Povero Em! Dovevi dirmi che hai dovuto riscrivere tutto l’atto. Deve essere stato orribile».

In taxi disse anche: «Be’, il minimo che possa fare per te è trovarti un’altra segretaria». Mentre le prendeva la mano guantata di azzurro, Em si riempì di vergogna per la buona volontà fragile che le animava il volto.

Il giorno si era sfaldato in un placido tardo pomeriggio: il cielo sembrava una pellicola lattiginosa e il fiume un campo di grano quasi maturo; i platani lungo l’Embankment erano stati lavati e scossi tutto il giorno e le loro foglie nuove, finalmente in pace, splendevano di un chiaro verde dorato, mentre gli storni si spargevano in cielo come cenere nera diretti verso la rumorosa notte di Trafalgar Square. I Fairbrother davano la loro festa al terzo piano di un edificio elegante che offriva una buona vista di tutto questo, ma la sala era un tale ribollio di attività sociale che nessuno ci faceva caso. Gli invitati erano tutta gente di teatro: quasi tutti avevano almeno a che fare col palcoscenico, ed Em pensò che lo davano a vedere in maniera inequivocabile. Le donne erano nel complesso vestite molto bene, rispetto alla media inglese. Era chiaro che avevano fatto del loro meglio, non senza qualche eccesso. Occhi e bocche erano truccati in modo che li si scorgesse da lontano, capelli e mani erano curatissimi, i piedi elegantemente calzati, i reggiseni ingegnosamente nascosti o del tutto assenti. Profumo e gioielli, autentici o no, erano stati profusi. Alcune di loro avevano un barboncino, molto grosso o molto piccolo a seconda della grandezza della borsa. Le voci, a prescindere dal volume, miravano a farsi sentire. Gli uomini erano più difficili da catalogare. C’erano uomini malati, uomini in piena salute, uomini potenti e uomini nervosi. C’erano uomini che avevano l’aria di aver mangiato troppo e ce ne erano alcuni che, a vederli, sembrava non dormissero mai; altri consideravano il proprio corpo una macchina ben progettata. Uomini che avrebbero voluto essere qualcun altro e altri che non avrebbero fatto a cambio con nessuno. Uomini in cerca di un’opportunità, oppure in fuga da una responsabilità. Uomini che facevano le cose, uomini che se ne appropriavano, uomini che le rovinavano. Uomini con niente da guadagnare o niente da perdere. Ciò che li contraddistingueva come gruppo era il fatto che ognuno conosceva benissimo i trascorsi professionali degli altri. Trionfi e fiaschi erano sotto gli occhi di tutti, in quel mondo. La maggior parte dei presenti aveva alle spalle qualche clamorosa cantonata o dimostrazione di cattivo gusto che il pubblico aveva sanzionato. Molti di loro avevano avuto seri problemi finanziari; alcuni possedevano doti ragguardevoli e solo pochi erano degli artisti.

Lillian fu inghiottita dalla folla quasi subito: rifiutava con garbo i drink che le venivano offerti e conversava brevemente con chi capitava. La stanza sembrava sottoposta a una forte pressione: ai vari olezzi si mescolava un profumo come di cibo freddo estivo, di cui peraltro non c’era traccia; c’era poi la consueta nube aromatica di fumo sopra teste e cappelli, e i rumori riempivano la sala incanalandosi in correnti e trovando una valvola di sfogo nelle finestre che sembravano aperte proprio a questo scopo. La padrona di casa gli aveva messo in mano una qualche bevanda fredda – il bicchiere era gelato e si appiccicava alle dita – e adesso gli chiedeva notizie di Lillian, così Em si guardò intorno distrattamente perché fosse lei a fornire ragguagli su stessa. Parlava con un tale che gli sembrava di avere già visto e con una ragazza che invece non conosceva. Di certo la ragazza aveva poco in comune con l’ambiente circostante: era molto giovane e ascoltava con attenzione chi parlava; indossava un vestitino di cotone con un cardigan ed era visibilmente fuori posto. Lillian aveva intercettato il suo sguardo e lui la indicò a Mamie Fairbrother. S’incamminarono assieme da quella parte. Quando li ebbe raggiunti, si ricordò il nome dell’uomo, George, ma non il suo cognome e lo salutò senza troppo calore. Lillian e Mamie si misero subito a parlare tra loro ed Em, non troppo interessato, si accorse che la ragazza lo fissava con tale aperta e solenne curiosità che gli venne quasi da sorridere. Poi Lillian disse: «Lei è Miss Young. Vuol fare la segretaria, così le ho detto di venire a parlare con te domani mattina».

 

 

4
Alberta

 

Domani mattina ho un colloquio con Emmanuel Joyce. È un drammaturgo e ho conosciuto sua moglie a una festa, ieri sera, dopo due soli giorni che sono a Londra. Gli serve una segretaria che vada a New York insieme a lui, e Mrs Joyce evidentemente trova che io sia la persona adatta. È stata davvero tanto gentile con me, me lo ha anche presentato. Ero lì che pensavo: che faccia potrebbe avere un drammaturgo?, lui se ne è accorto e ha quasi riso... Che magnifica opportunità sarebbe: viaggiare, conoscere gente interessante. Se solo Papà non si preoccupasse tanto. Si preoccupa per cose futili, lo ammette lui stesso. Ma zia Topsy mi appoggerà di sicuro – del resto è stata sua l’idea di iscrivermi a un corso per segretarie – e allora sarà proprio come in un romanzo di Jane Austen, con me nel ruolo di Emma, la zia in quello di Miss Taylor e Papà, lo voglia o no, in quello di Mr Woodhouse. Alla fine si farà una risata e mi darà il permesso, dopodiché non ne parlerà più ma mi lascerà in camera biglietti ansiosi in cui mi ricorda, per esempio, di lavare sempre l’uva prima di mangiarla. «E non guardare i disegni di Goya sulla guerra se sei da sola. Ti rattristerebbero troppo», mi lasciò scritto quando il caro zio Vin mi portò a Parigi. Papà mi ha sempre lasciato andare in viaggio con lui anche se è un attore (del resto è anche suo fratello), perché di solito gli assegnano il ruolo di uomo di chiesa (sebbene spesso, nei film di spionaggio, sotto la tonaca si nasconde un personaggio malvagio; ma a Papà i film non piacciono, senza contare che per andare al cinema dovrebbe arrivare fino a Dorchester); secondo lui comunque i personaggi con la veste talare contribuiscono a consolidare il ruolo della Chiesa nella vita delle persone e perciò zio Vin diffonde il Verbo quanto e più di lui, che prega ogni giorno davanti a circa quaranta persone. Mi chiedo cosa penserebbe di New York e dei Joyce. Ma forse, quando sapranno che questo è il mio primo impiego, non mi vorranno. Lo zio Vin dice che al giorno d’oggi la gente di teatro spesso non mantiene quel che promette. È ora che vada a dormire. Abbiamo passato una così bella mattinata, facendo spese, e ho comprato regali per tutti. Una sciarpa per zia Topsy, e per Clem sei farfalle prese in un negozio sullo Strand, una lente d’ingrandimento per Humphrey e una barba finta per Serena che vorrebbe tanto essere un maschio (un’idea geniale di zio Vin), un diario per Mary dato che ora le piace scrivere e vuole farlo anche lei come me, e per Papà un uovo di marmo, per tenere fresche le mani. Poi zio Vin mi ha portato a pranzo in un ottimo ristorante (antipasti, aragosta, camembert...) e mi ha fatto scegliere un disco come regalo di compleanno, anche se il mio compleanno è stato un po’ di tempo fa. Ho scelto la quarantesima sinfonia di Mozart diretta da Sir Thomas Beecham – dall’altra parte c’è la quarantunesima – e zio Vin ha commentato che è stata un’ottima scelta. Poi mi ha portato a una grande festa al Savoy Hotel, ed è stato lì che abbiamo incontrato i Joyce. (Veramente c’era un sacco di gente famosa, alla festa, ma purtroppo io non sapevo nemmeno chi fossero). Devo lavare il cardigan per domani.

Mercoledì. Zio Vin si è offerto di accompagnarmi, ma gli ho detto che non volevo fare la figura della bambina con i Joyce. Lui ha serrato le labbra e se ne è andato senza una parola. Dopo un po’ l’ho raggiunto in camera sua. Indossava la vestaglia e stava suonando If You Were the Only Girl in the World al pianoforte, con una sigaretta che gli pendeva dalla bocca. Mi sono scusata in un modo che lui ha trovato molto elegante, e abbiamo concordato di vederci dopo il colloquio in un posto che si chiama Notting Hill Gate, che a detta dello zio non è lontano da casa dei Joyce. Dopo mi sono avviata. Portavo la gonna dritta con la camicetta bianca, quella che zia Topsy aveva fatto per Mary ma che le andava grande. Zio Vin mi ha spiegato che autobus dovevo prendere e mi ha salutato incrociando le dita.

Mi ha aperto la porta un tizio. All’inizio era sorpreso di vedermi, poi gli ho spiegato perché ero lì e mi ha chiesto di aspettare in soggiorno, che era praticamente la continuazione dell’ingresso, ed è andato di sopra. Era una stanza lunga e stretta, molto elegante, piena di oggetti preziosi e con ogni cosa ben abbinata, tutto il contrario della casa di zio Vin. Io cominciavo ad agitarmi e dopo un po’ è arrivato Mr Joyce. È un uomo non molto alto, poco più di me, e mi è sembrato stanco: non fosse una persona così famosa, direi che era addirittura imbarazzato. Io lo avevo aspettato seduta e mi sono alzata, poi entrambi ci siamo seduti e nessuno ha detto nulla. Dopo un po’ lui, invece di farmi le domande che mi sarei aspettata, ha detto: «Una buona segretaria deve avere il senso delle proporzioni al posto di un altro. Lei per se stessa ce l’ha?». Poi ha sorriso e ha aggiunto: «Non si disturbi a rispondere: è compito mio decidere se ce l’ha o no. Mi racconti piuttosto come mai ha deciso di diventare segretaria».

Così gli ho detto di Clem che non ha ottenuto la borsa di studio, di Humphrey che vuole andare a Oxford, di zia Topsy che ha speso tutti i suoi soldi per mandare Serena in Svizzera a curarsi i polmoni, di Mary e dei nomignoli che le ha dato Papà, di Papà stesso a cui zia Topsy ha dovuto togliere il libretto degli assegni perché, dice lei, non capisce il concetto di inflazione e di come zia Topsy mi abbia pagato il corso di dattilografia e stenografia. All’inizio avevo pensato di dare una mano a Papà, ma lui ha detto che, benché io rappresenti per lui una figura indispensabile e molto apprezzata in quanto figlia, come segretaria sono un lusso che non può permettersi. E allora sono venuta a Londra in cerca di un impiego. In questo modo non gli ho lasciato dubbi sul fatto che non ne ho mai avuto uno prima d’ora.

«Lei è la più grande?».

Gli ho detto quanti anni ho, e la cosa non lo ha impressionato, con mio grande sollievo. Mi ha domandato anche se ho mai avuto a che fare col mondo del teatro, e gli ho detto di zio Vin. Mi ha chiesto se fossi mai stata all’estero e gli ho detto di Parigi e di zio Vin, di nuovo. Ci ha raggiunto il tale che mi aveva aperto la porta, annunciando che un certo Sol voleva parlargli un attimo. Mr Joyce allora è uscito, chiedendo all’altro di spiegarmi in cosa consiste il lavoro. L’uomo sembrava reticente e ha impiegato un sacco di parole, rimanendo così sul vago che non ho capito molto. A un certo punto Mr Joyce è tornato ed è stato a sentire per un po’, poi l’ha interrotto per dire che voleva assumermi e che per oggi poteva bastare: «Glielo spiegherai dopo, Jimmy». Hanno sorriso entrambi e pure io, perché mi erano simpatici. Mr Joyce mi fissava e mi ha chiesto il mio nome di battesimo. Gliel’ho detto. C’è stato uno strano silenzio in cui sembrava che avessi detto qualcosa di sconveniente; poi mi ha domandato se avessi un secondo nome, e io gliel’ho detto aggiungendo che mi rifiutavo di essere chiamata in quel modo. Hanno sorriso entrambi, Mr Joyce ha detto che non chiamerebbe in quel modo nemmeno una gallina. Mi ha chiesto se può propormi dei nomi alternativi che tutti loro avrebbero usato al posto del mio. Mi concedeva il diritto di veto nella scelta. L’ho ringraziato mentre cercavo di ricordare cosa significasse esattamente diritto di veto, ma in quel momento è arrivata Mrs Joyce e si è subito parlato d’altro, perché le servivano i soldi per il taxi. L’uomo di nome Jimmy mi ha chiesto l’indirizzo e il numero di telefono e io gli ho dato quelli di zio Vin, poi me ne sono andata. Mr Joyce mi ha stretto la mano chiamandomi Miss Young, e poi me l’ha stretta anche Mrs Joyce. Portava dei bellissimi guanti, ma gli spigoli degli anelli graffiavano lo stesso.

 

Mio caro Papà,

questa è una lettera molto importante e vorrei che tu e zia Topsy la leggeste insieme, con molta serietà ma tenendo la mente aperta.

Mi è stato offerto un lavoro meraviglioso da alcune persone che zio Vin conosce, un lavoro come segretaria privata. Vogliono che vada a New York con loro, ma solo per tre mesi circa, poi tornerei in Inghilterra. La paga è enorme per una persona della mia età, più di cinquecento sterline l’anno, con un sovrappiù per il fatto che andremo a New York. Le spese di viaggio e soggiorno sono a loro carico e probabilmente abiterò con loro, perciò ti rendi conto anche tu che con una somma del genere risolveremmo i problemi di Clem e di Humphrey. Inoltre per me sarebbe un’esperienza inestimabile, che potrebbe cambiare la mia vita. Mr Joyce è un drammaturgo, una brava persona, e se tu lo conoscessi, Papà, sono certa che saresti d’accordo con me nel dire che è completamente diverso da come tu immagini una persona che lavora in questo campo. Forse zia Topsy lo conosce, perché ha una certa età e ha scritto moltissime commedie: Emmanuel Joyce, si chiama, e ha una moglie molto gentile e bella, un po’ cagionevole di salute. È stata sua l’idea di offrire questo lavoro a me, dopo che la precedente segretaria è dovuta andare in ospedale. Poi c’è l’agente, un signore molto silenzioso e cortese, Mr Sullivan, che mi dirà cosa fare. Ha l’accento americano, ed è molto timido. È una lettera un po’ sgangherata, ma puoi immaginare quanto io sia emozionata al pensiero di quello che mi attende. Però tu, Papà, se mi darai il permesso di andare, non devi lasciarti divorare dall’ansia. Zio Vin dice che sarebbe una follia rifiutare un’offerta simile, e anche se l’ha detto alzando gli occhi al cielo sono convinta che lo pensi davvero. Dice che è tempo che io veda un po’ di mondo, che la maggior parte della gente per farlo deve pagare e io invece ho la possibilità di farlo senza sborsare un soldo. Ti chiedo solo, se intendi dare il tuo consenso, di farlo nel più breve tempo possibile. I Joyce andranno a New York alla fine del mese e hanno bisogno di organizzare tutto in anticipo. Naturalmente prima di partire verrò a casa a salutare tutti e a fare le valigie, e durante la mia assenza vi scriverei il più spesso possibile. Zio Vin ha letto la lettera e dice che non bisogna perdere tempo. Chiede anche se lo hai visto in La morte in vacanza. Naturalmente lo so che non ci sei andato, ma lo zio sta cercando di dirti che vorrebbe che tu ti interessassi di più al suo lavoro. Abbraccia per me Clem, Humphrey, Serena, Mary, Mrs Facks, Napoleone e Ticky. E naturalmente Zia Topsy.

Con tanto affetto,

la tua Sarah