18 MAGGIO
Lucca
Barbara fu svegliata dalla suoneria del cellulare. Lo prese più in fretta che poteva e guardò l’altro letto: Hadiyyah dormiva tranquilla, con i capelli sparsi sul cuscino. Vide il numero sul display e sospirò.
«Mitchell» disse soltanto.
«Perché bisbigli?» replicò lui.
«Perché non voglio svegliare Hadiyyah. Che ore sono?»
«È presto.»
«Fin qui c’ero arrivata.»
«Sei sempre stata di mente pronta. Scendi un momento. Dobbiamo parlare.»
«Dove sei?»
«Al solito posto. Davanti al bar della piazza che, tra parentesi, è ancora chiuso, e io avrei proprio bisogno di un caffè. Se la signora Vallera non ha niente in contrario, potresti portarmene una tazza…»
«Non siamo alla pensione, Mitchell.»
«Cosa? Se sei partita di nascosto, Barb, te la farò pagare…»
«Datti una calmata. Siamo ancora a Lucca. Ma come puoi pensare che rimanessimo alla pensione, con i nonni di Hadiyyah in arrivo?»
«Sono già arrivati. Sono al San Luca Palace Hotel, per tua informazione.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Faccio il giornalista, no? So molte cose, fra cui alcune che ti potrebbero interessare. Ragion per cui ti consiglio di sbrigarti a venire qui in piazza… Anzi, no. Il caffè mi ci vuole proprio. Vediamoci in piazza del Carmine tra venti minuti. Dovrebbero bastarti per le abluzioni mattutine, no?»
«Mitchell, non ho idea di dove sia piazza del Come-si-chiama.»
«Del Carmine. Non è per questo che sei in polizia, Barb? Per indagare? Indaga un po’ e lo scoprirai.»
«E se io non volessi venire a prendere il caffè con te?»
«Premo invio.»
Barbara ebbe una fitta allo stomaco. «Va bene, vengo» disse.
«Saggia decisione» replicò Mitchell Corsico e chiuse la telefonata.
Barbara si vestì in fretta e furia. Guardò l’orologio. Non erano ancora le sei del mattino, ma quasi quasi era meglio così: tutti dormivano ancora nella Torre Lo Bianco.
Con le scarpe in mano, scese le scale in punta di piedi. Temeva di avere delle difficoltà a uscire, invece per fortuna la cosa si rivelò piuttosto semplice. La grossa chiave infilata nella serratura girò senza fare rumore e lei si ritrovò fuori a chiedersi da che parte fosse piazza del Carmine.
Prese una direzione a caso sperando di incontrare qualcuno che fosse già per strada a quell’ora antelucana. I primi esseri umani in cui si imbatté furono due uomini che potevano essere padre e figlio, i quali spingevano due carretti di legno carichi di verdura in una stradina fra una chiesa e il muro di un giardino. Stringendosi nelle spalle con aria speranzosa domandò: «Piazza del Carmine?»
I due si guardarono, poi il più anziano le disse «Venga con noi» e la invitò a seguirli con uno di quei cenni del capo tipicamente italiani cui Barbara si era ormai abituata. Mentre si incamminava dietro ai due, si pentì di non essersi portata delle briciole di pane da lasciarsi dietro per ritrovare la torre dopo l’incontro con Mitchell Corsico. Purtroppo ormai era troppo tardi.
Entro breve giunse al luogo dell’appuntamento, una piazza per niente turistica dove si trovavano uno squallido ristorante, un supermercato ancora chiuso e un grande edificio di epoca imprecisata con la scritta mercato centrale sulla facciata bianca e striata di muffa. Anche i suoi compagni di strada erano diretti lì. Il più giovane si voltò a dirle: «piazza del Carmine» e spinse il carretto dentro il mercato, seguito dall’altro e, a ruota, da Barbara.
Trovare Mitchell Corsico fu facilissimo: le bastò dirigersi verso la parte del mercato da cui proveniva odore di caffè. Il giornalista era appoggiato a uno stretto bancone a due passi da un intraprendente africano giovanissimo che vendeva caffè da asporto da un carrello della spesa.
Corsico la salutò sollevando il bicchiere di carta e disse: «Vedi che ti sottovaluti?»
Barbara gli lanciò un’occhiataccia e andò a comprarsi un caffè anche lei. Era a malapena bevibile, ma alla disperata andava bene anche così. Dopo aver messo in mano al barista improvvisato una manciata di spiccioli sperando che bastassero, si avvicinò a Corsico con il bicchierino in mano.
«Allora?» gli chiese.
«Allora te lo chiedo io. Perché non mi hai telefonato?»
Barbara rifletté un momento, cercando di capire fino a che punto poteva tirare la corda, poi disse: «Senti, Mitchell: se ho qualcosa da dirti, ti telefono, altrimenti no».
Corsico la guardò bene in faccia, decise che la sua espressione non lo convinceva e scuotendo benevolmente la testa disse: «Non è così che funziona». Bevve un sorso di caffè e girò il portatile in modo che Barbara vedesse bene lo schermo. Il titolo dell’articolo era: Disperati i genitori della giovane mamma morta in Italia. Le bastò leggere poche righe per capire che Corsico era riuscito a intervistare gli Upman, i quali erano andati giù pesanti con le critiche ad Azhar come padre e come uomo, accusandolo di aver «rovinato» la loro povera figlia e dipingendolo a fosche tinte degne di un romanzo di Thomas Hardy.
«Come diavolo hai fatto a convincerli a parlare?» gli chiese tanto per dire qualcosa mentre cercava affannosamente un modo per placarlo.
«Ieri sono andato alla fattoria a fare due chiacchiere con Lorenzo Mura e, combinazione, loro sono arrivati mentre io ero lì.»
«Che fortuna» commentò Barbara.
«La fortuna non c’entra niente. Allora, sentiamo: dove vi ha nascosto Lo Bianco?»
Barbara strizzò gli occhi e non rispose.
Corsico ne prese atto e si esibì in un sospiro rassegnato da martire. «Non avresti dovuto lasciare che ti pagasse il conto dalla signora Vallera. È una che si alza presto al mattino, sai? È bastato bussare alla porta e mi ha aperto, e non c’è voluto molto per spiegarle cosa volevo sapere. Mi ha nominato varie volte l’ispettore e, a casa mia, due più due fa ancora quattro. A questo punto immagino che gli Upman non saranno molto contenti quando sapranno che l’ispettore ha portato via dalla pensione te e la loro cara nipotina. E immagino anche che tu non voglia che io vada al San Luca Palace Hotel a dirglielo mentre fanno colazione.» Digitò alcuni comandi e Barbara vide che era entrato nel suo account di posta elettronica, aveva allegato l’articolo sui genitori disperati a un messaggio indirizzato al suo caporedattore e teneva il dito sospeso sul tasto invio. «Allora, il patto è sempre valido? Perché come ho cercato di spiegarti e come ti ho ripetuto fino alla nausea, io ho bisogno di qualcosa da dare in pasto alla belva, se non voglio finire sbranato a mia volta.»
«E va bene, va bene» esclamò Barbara. «Era E. coli, ed è stata somministrata con l’intento di uccidere, o perlomeno di provocare gravi danni alla vittima. Posso confermarti anche che veniva da dove ti ho detto, la DARBA Italia, un’azienda che produce e testa apparecchiature medicali, fra cui gli incubatori che si usano nei laboratori per coltivare e studiare i batteri. Una delle specie batteriche con cui lavorano è l’E. coli, e Mura se ne è procurato una provetta. Il tipo che gliel’ha consegnata…»
«Dammi nome e cognome, Barb.»
«Non posso. Non ancora, Mitch.»
Corsico le agitò un dito sotto il naso con fare ammonitore. «Non sono queste le regole del gioco.»
«Piantala, Mitchell. Questo tipo si è prestato a collaborare alle indagini con un microregistratore nascosto. Se ti faccio nome e cognome, salta tutto.»
«Di me ti puoi fidare.»
«Sì, quanto dei miei capelli quando mi dicono che non crescono più.»
«Non pubblicherò il nome finché tu non mi darai il via libera.»
«Scordatelo. Non ho altro da dire. Scrivi il tuo articolo lasciando i nomi in bianco, mettici degli asterischi, fa’ quello che ti pare. Quando avremo i risultati delle intercettazioni, ti dirò chi, come e quando e potrai inviare l’articolo. Non si può fare altrimenti. La posta in gioco è troppo alta.»
Corsico bevve un altro sorso di caffè e intanto rifletté. Il mercato cominciava ad animarsi. Stavano arrivando altri venditori che disponevano le loro merci sui banchi. L’intraprendente barista africano faceva affari d’oro.
Dopo un po’ Corsico disse: «Il problema è che… ho paura che tu mi freghi. Dovresti darmi un minimo di garanzie…»
Barbara indicò il portatile e disse: «Le hai già. Se non ti do quello che vuoi nei tempi che decidi tu, premi invio».
«Per mandare questo al giornale, intendi?» Cliccò e il messaggio per il caporedattore partì. «Ops» fece Corsico serissimo. «È andato, Barb.»
«È andato anche il nostro accordo, allora.»
«Non credo proprio.»
«Ah no? E perché?»
«Per via di questo.» Pochi altri comandi sulla tastiera e Corsico le mostrò un altro articolo che stava scrivendo. Questa volta il titolo era Colpevole il padre. Barbara lo scorse velocemente, digrignando i denti suo malgrado.
Corsico era arrivato a Doughty. O viceversa. O forse a Emily Cass o Bryan Smythe. No, più probabilmente a Doughty. Il quale gli aveva spifferato tutto quanto, dalla A alla Z, dall’alfa all’omega, su Azhar, su di lei, sulla scomparsa di Hadiyyah e poi sul rapimento in Italia, specificando nomi, cognomi, date e luoghi. Aveva puntato una pistola carica alla testa di Azhar. E a lei aveva rovinato la carriera.
In quel momento Barbara scoprì che riflettere diventava impossibile, quando si aveva il cuore che saltava qua e là come un canguro ferito. Alzò gli occhi dallo schermo del computer e l’unica cosa che riuscì a dire fu: «Non puoi fare questo».
«Con mio sommo rammarico…» replicò lui in un tono così falsamente solenne che le venne voglia di prenderlo a pugni in faccia. Poi Corsico guardò l’orologio e in tono diverso, inesorabile, disse: «Mezzogiorno dovrebbe andar bene. Che te ne pare?»
«Mezzogiorno? Di cosa stai parlando?» In realtà sapeva benissimo a cosa alludeva.
«Del tempo che ti resta prima che questa chicca prenda la via del ciberspazio, Barb.» «Non posso garantirti che…» «Io invece sì» replicò lui agitandole un dito sotto il naso.
Barbara considerò un miracolo il fatto di essere riuscita a tornare alla Torre Lo Bianco, anche se prima di arrivarci aveva sbagliato strada più volte. Scoprì però che tutti conoscevano la torre per via del suo bel giardino pensile e, oltre a sapere dov’era, la usavano come punto di riferimento. Tutti coloro a cui chiese indicazioni la aiutarono volentieri, ma in italiano e dandole spiegazioni via via più complicate. Le ci volle quasi un’ora e, quando finalmente arrivò, trovò tutti riuniti in cucina.
Salvatore prendeva il caffè, Hadiyyah era davanti a una tazza di cioccolata fumante e la signora Lo Bianco stava mostrando a uno a uno alla bambina quelli che a Barbara parvero tarocchi molto particolari. Si concentrò su di essi per evitare lo sguardo interrogativo di Salvatore. La carta che la signora Lo Bianco aveva appena posato sul tavolo raffigurava una donna con una lunga veste e un vassoio in mano su cui facevano bella mostra di sé due bulbi oculari che, a giudicare dal sangue che le colava sul viso, dovevano esserle stati cavati di fresco. In un’altra era raffigurato un uomo crocifisso a testa in giù. Poi c’erano un ragazzo incatenato a una colonna e trafitto da numerose frecce e un altro, molto giovane, in un calderone con il fuoco acceso sotto.
«Bloody hell!» esclamò Barbara. «Che cosa fate?» «La nonna mi sta insegnando le storie dei santi» rispose tutta contenta Hadiyyah.
«Non poteva sceglierne qualcuna meno sanguinosa?» «Credo che siano tutte così» le confidò Hadiyyah. «Perlomeno quelle che ho visto finora. La nonna dice che capisci di quale santo si tratta dalla morte che ha fatto, che è raffigurata nell’immaginetta. Vedi questo sulla croce a testa in giù, per esempio? È san Pietro. Quello con le frecce è san Sebastiano e questo…» disse indicando l’immagine del giovane nel calderone «è san Giovanni Evangelista. Qualsiasi cosa gli facessero, lui non moriva. Vedi che Dio manda una pioggia d’oro per spegnere il fuoco?»
«Guarda, guarda» la interruppe la madre di Salvatore mettendole davanti un’altra immaginetta con una giovane donna legata a un palo e circondata dalle fiamme di un rogo.
«Giovanna d’Arco» disse Barbara.
«Brava, Barbara!» esclamò soddisfatta la signora Lo Bianco.
«Come facevi a saperlo?» le chiese Hadiyyah, altrettanto piena di ammirazione.
«Perché l’abbiamo ammazzata noi inglesi» rispose Barbara. Poi, non potendo tergiversare oltre, disse a Salvatore con un sorriso: «Morning».
«‘Giorno, Barbara» rispose lui. Si alzò educatamente e le indicò la moka pronta sul fornello. Accanto c’era un assortimento di biscotti e dolci vari. «Cake for breakfast?» si stupì Barbara, pensando che non le sarebbe dispiaciuto fare colazione così tutti i giorni.
Hadiyyah intervenne dicendo: «Si dice ‘torta’, Barbara».
La signora Lo Bianco si complimentò: «Giusto, torta. Brava, Hadiyyah!» E le fece una carezza sulla testa. Poi, rivolta al figlio, aggiunse: «Che tesoro questa bambina». Lui borbottò «Sì, sì», ma sembrava di cattivo umore.
Al momento di servire il caffè a Barbara, disse qualcosa che Hadiyyah tradusse in questi termini: «Salvatore vuole sapere dove sei stata». La signora, intanto, le mostrava un’altra immagine, san Rocco.
Barbara mimò dei passi muovendo le dita sul tavolo e disse «Out for a morning walk».
«‘Ho fatto una passeggiata’» le suggerì Hadiyyah.
Barbara ripeté diligentemente, ma con difficoltà.
«Ah. E dove sei andata?»
Hadiyyah tradusse la domanda di Salvatore.
«Mi sono persa. Digli che per un pelo non sono finita a Pisa» rispose Barbara.
Salvatore ascoltò la traduzione di Hadiyyah e sorrise, ma Barbara si accorse che non era convinto e si preparò a dare ulteriori spiegazioni. Non ci furono altre domande, però, perché in quel momento suonò il cellulare di Salvatore, che guardò il display e annunciò: «L’ispettore Lynley».
Barbara, mettendosi un dito davanti alla bocca, gli fece segno di non dire dove si trovava. Salvatore annuì, complice.
Rispose sorridendo: «Pronto, Thomas». Ma un attimo dopo cambiò faccia, guardò Barbara e uscì dalla cucina.
Victoria
Londra
Non avendo più sentito Barbara, Lynley aveva pensato: Nessuna nuova, buona nuova, ma in cuor suo sapeva che era altamente improbabile che fosse davvero così. Non rimase particolarmente sorpreso, quindi, quando il senso di relativa tranquillità che provava cessò bruscamente al suo arrivo al lavoro. Winston Nkata gli riferì il risultato delle verifiche effettuate: nessuno dei parenti e conoscenti di Angelina Upman aveva alcun rapporto con l’Italia, a parte il fatto che al momento i suoi genitori si trovavano a Lucca. Poco dopo, l’ispettore investigativo John Stewart lo abbordò nel corridoio e gli porse una copia del Source.
In prima pagina c’era una foto molto grande e molto commovente di Hadiyyah Upman che guardava verso una finestra davanti alla quale c’era un assortimento di piante grasse che Lynley riconobbe immediatamente. La foto illustrava un articolo intitolato Quando tornerà a casa? e firmato Mitchell Corsico. Testo e foto, messi insieme, significavano il peggio del peggio, perché il modo in cui Mitchell Corsico era venuto a sapere dove Barbara Havers teneva nascosta Hadiyyah non poteva essere che uno. E sia Lynley sia John Stewart sapevano qual era.
Stewart, peraltro, lo dimostrò dicendo: «Allora che si fa, Tommy? Glielo do io questo al capo, o glielo dà lei? Se vuole il mio parere, Barbara se la fa con il Source da chissà quanto tempo. Da anni, probabilmente. Si fa pagare per le informazioni che gli passa, ma questa volta ha esagerato».
Lynley ribatté: «Lei manifesta troppo apertamente le sue antipatie, John. Le consiglio di smetterla».
Stewart fece una smorfia a metà fra il divertito e l’arrogante. «Ah, sì? Ma già, da lei cos’altro mi potevo aspettare?» Lanciò un’occhiata in direzione dell’ufficio di Isabelle Ardery per fargli capire qual era l’argomento successivo. «Il capo ha parlato con il CIB1, Tommy. Ormai lo sanno tutti.»
Lynley replicò pacato: «Vuol dire che le sue fonti sono migliori delle mie, John». Si batté il giornale ripiegato sul palmo della mano e concluse dicendo: «Posso tenerlo?»
«Certo. Posso procurarmene tutte le copie che voglio. Nel caso non dovesse arrivare sulla scrivania di Isabelle.» Sottolineò il nome Isabelle, strizzò un occhio e si allontanò con passo energico. Erano arrivati all’ultimo set e John Stewart era deciso a vincere la partita.
Lynley aspettò che se ne fosse andato e, quando fu solo, lesse l’articolo. C’erano tutti gli ingredienti tipici del giornalismo scandalistico: i buoni erano in bianco, i cattivi in nero e non esistevano sfumature di grigio. Nel caso specifico, Taymullah Azhar e Lorenzo Mura erano i cattivi, per motivi che avevano a che fare con la morte di Angelina Upman (bianca) e l’allontanamento di Hadiyyah (bianca) dal padre. Poiché al momento Azhar (nero) si trovava in carcere, grazie all’intervento dell’ispettore Lo Bianco (anzi, Lo Bianchissimo), responsabile delle indagini sulla morte di Angelina Upman, la bambina era tornata nella villa in cui aveva già abitato con la madre e Lorenzo Mura (cfr. foto a pagina tre), in attesa di una sistemazione migliore. La piccola però era il ritratto della tristezza e dello sconforto. Urgeva fare qualcosa per rimediare ai torti subiti dalla povera bambina, ma nessuno sembrava intenzionato a muovere un dito. Hadiyyah era sola, in balia delle autorità di un Paese straniero (nerissime). Quanto tempo doveva ancora passare perché il ministro degli Esteri britannico (bianco, ma in fase di rapido annerimento) intervenisse per fare in modo che venisse riportata a Londra, dove era giusto che stesse?
Ampio spazio era dedicato al riepilogo delle vicissitudini di Hadiyyah dal mese di novembre in poi. Curiosamente, non si accennava neppure al fatto che New Scotland Yard avesse inviato sul posto un suo funzionario per seguire da vicino la vicenda.
Lynley sapeva che questo era un dettaglio importante, indicativo di collusione tra l’autore dell’articolo e Barbara Havers. Se il giornalista l’avesse nominata, infatti, avrebbe rivelato l’identità della propria fonte, e ovviamente non era così ingenuo. Eppure l’unico modo in cui poteva essere venuto a sapere dove si trovava Hadiyyah era tramite Barbara. Ed era solo con la collaborazione di Barbara che poteva essersi procurato quella foto della bambina.
A Lynley era chiaro inoltre che quell’articolo smentiva tutto ciò che Barbara Havers aveva detto riguardo alle proprie interazioni con Corsico. Non sarebbe stata la prima rappresentante delle forze dell’ordine a venir denunciata perché vendeva informazioni riservate alla stampa scandalistica. Purtroppo accadeva sempre più di frequente. Il problema era che, sommato alle altre macchie che Barbara già aveva sul curriculum, quello scandalo avrebbe segnato la fine della sua carriera di poliziotta.
Lynley andò nell’ufficio di Isabelle. Il fatto che il sovrintendente avesse coinvolto il CIB1 voleva dire che aveva sufficiente materiale contro Barbara. Ma doveva esserci un’altra spiegazione di quell’articolo.
Buttò il giornale nel primo cestino che trovò, pur sapendo che si trattava di una soluzione solo temporanea perché, come gli aveva fatto giustamente presente John Stewart, non occorreva andare lontano per procurarsene un’altra copia. Alla stazione di St. James’s Park si potevano trovare tutti i tabloid che si volevano e Stewart probabilmente si era già precipitato a farne incetta. Voleva essere sicuro che a Isabelle non sfuggisse l’articolo messo in prima pagina dal Source e si sarebbe occupato personalmente di farglielo avere al più presto.
La porta era aperta, ma Isabelle non c’era. Nell’ufficio c’era però Dorothea Harriman, che stava sistemando una pila di dossier sulla scrivania. Quando vide Lynley, disse: «È andata al Tower Block».
«Quando?»
«Poco più di un’ora fa.»
«Le ha telefonato lui, o lo ha chiamato lei?»
«Nessuno dei due. Era un incontro già in programma.»
«Con il CIB1?»
Dorothea fece una faccia dispiaciuta.
«Accidenti» borbottò Lynley. «Ha visto se si è portata qualcosa?»
«Aveva in mano un giornale. Un tabloid.»
Lynley annuì e tornò nel proprio ufficio. Chiamò subito Salvatore Lo Bianco. Se Barbara aveva sgarrato fino a quel punto, era suo dovere avvertire il collega italiano.
Lo Bianco era ancora a casa e lì per lì Lynley sentì parlottare in italiano in sottofondo, ma le voci si spensero appena l’ispettore si allontanò per parlare più tranquillamente.
Salvatore lo aggiornò sui vari fronti: gli raccontò la visita fatta alla DARBA Italia, ciò che vi aveva scoperto, i successivi colloqui con Daniele Bruno, gli abboccamenti tra questi e Lorenzo Mura riguardo all’E. coli. «Ho patteggiato con l’avvocato di Bruno. Si è impegnato a collaborare. Andrà a parlare con Mura con un microregistratore nascosto addosso» concluse. «In questo modo risolveremo il caso entro stasera, penso.»
Lynley disse: «E la bambina? È con Barbara Havers?»
«Sta bene ed è con Barbara.»
«Salvatore, mi dica una cosa. È una domanda strana, lo so, ma a me può dirlo… Barbara è a Lucca da sola?»
«In che senso, scusi?»
«L’ha vista in compagnia di qualcuno?»
«So che ha incontrato Aldo Greco, l’avvocato di Taymullah Azhar.»
«Mi riferivo a un inglese» disse Lynley. «Uno che potrebbe essere vestito da cowboy.»
Dopo un breve silenzio, Salvatore fece una risatina e disse: «Strana domanda, ispettore. Perché me lo chiede?»
«Perché è un giornalista di Londra ed è appena uscito un suo articolo su un tabloid da cui mi par di capire che si trova a Lucca.»
«Ma perché Barbara dovrebbe essere in compagnia del giornalista di un tabloid?» obiettò piuttosto ragionevolmente Salvatore. «E di che tabloid si tratta?»
«Si chiama Source» rispose Lynley e si rese conto che non ce la faceva a continuare. Non aveva il coraggio di raccontare a Salvatore della foto di Hadiyyah vicino alla finestra della Pensione Giardino e tantomeno di spiegargli che cosa significava la pubblicazione di quella foto. Pensò che in fondo il collega italiano poteva andare a leggersi l’articolo su Internet o cercare una copia del Source da un giornalaio ben fornito, se proprio voleva, e mettere insieme i tasselli da solo. Con un po’ di fortuna, li avrebbe composti in un ordine che non facesse sfigurare troppo Barbara. Disse perciò soltanto: «Si chiama Mitchell Corsico. Barbara lo conosce, come tutti noi qui a Londra, del resto. Se non si sono ancora incontrati, forse lei potrebbe essere così gentile da avvertirla che Corsico è lì, quando la vede».
Salvatore, invece di domandargli perché non chiamava Barbara e glielo diceva lui direttamente, replicò: «E sembra un cowboy, ha detto?»
«Si veste da cowboy. Non so perché.»
Salvatore fece un’altra risatina sommessa. «Non mancherò di riferire a Barbara. Abbiamo appuntamento più tardi. Io comunque non l’ho visto. Un cowboy a Lucca? No, no. Se mi fosse capitato sotto gli occhi, l’avrei notato.»
Lucca
Barbara cercava di far finta di niente, ma si sentiva come se avesse una bomba a orologeria nella tracolla. Cercava di comportarsi come se fosse tutto normale e si trattasse semplicemente di andare ad assistere al montaggio di un microregistratore addosso a Daniele Bruno. Quando uscì con Lo Bianco per andare in questura, però, l’unica cosa cui riusciva a pensare erano le lancette dell’orologio che avanzavano inesorabili verso le dodici, ora in cui Mitchell Corsico avrebbe premuto invio.
Non poté protestare, quando Salvatore propose di andare a piedi. In altre circostanze, avrebbe sicuramente apprezzato la passeggiata, perché era una bella giornata, i rintocchi delle campane riecheggiavano sopra le loro teste, i negozi cominciavano ad aprire, nell’aria si sentivano profumo di pane e di dolci appena sfornati e i bar erano pieni di gente che faceva colazione prima di recarsi al lavoro. I saluti che si scambiavano studenti e lavoratori passando in bicicletta erano punteggiati da allegri scampanellii. Sembrava di essere sul set di un film di Cinecittà. Quasi quasi Barbara si aspettava di sentire qualcuno che gridava: «Stop! Buona la prima!»
Lo Bianco era cambiato. Era meno allegro che a colazione, più serio. Sarà stato per via di qualcosa che gli aveva detto Lynley al telefono, immaginò Barbara, ma data la scarsa conoscenza dell’inglese di Lo Bianco e la propria ignoranza dell’italiano non c’era modo di farsi raccontare che cosa gli avesse detto. Avrebbe potuto telefonare a Lynley e chiederglielo direttamente, ma aveva la sensazione che le convenisse evitare. E così continuò a camminare in silenzio, lanciando occhiate preoccupate a Salvatore.
Quando arrivarono a destinazione, vide con sollievo che davanti alla questura c’era un furgone bianco. Le scritte sulle fiancate erano incomprensibili, ma considerando che bloccava il traffico per la stazione eppure nessuno lo mandava via, dedusse che non doveva trattarsi di un veicolo commerciale, bensì del mezzo attrezzato per ascoltare il colloquio registrato di nascosto da Daniele Bruno. Quando vide che Lo Bianco bussava sul portellone posteriore, capì di averci visto giusto.
Un agente con un paio di cuffie in testa aprì lo sportello e scambiò poche parole con l’ispettore, che alla fine disse: «Va bene» ed entrò in questura.
Daniele Bruno e il suo avvocato erano già arrivati e li stavano aspettando. Ci fu un altro scambio concitato e incomprensibile in italiano, che Rocco Garbelli tradusse cortesemente a Barbara per sommi capi: il suo cliente voleva sapere come doveva fare per indurre Lorenzo Mura a confessare.
Barbara ebbe l’impressione che Bruno non stesse solo chiedendo consigli a Lo Bianco: sudava copiosamente - tanto da rischiare di mandare in corto circuito l’impianto di registrazione che aveva addosso - e pareva avere una serie di timori che non potevano riguardare soltanto la propria capacità di recitare la parte assegnatagli da Salvatore. Chiese perciò a Garbelli che cos’altro c’era.
L’avvocato le rispose: «Una questione di famiglia». Poi parlò a lungo con Lo Bianco, mentre Daniele Bruno li ascoltava con espressione ansiosa. Lo Bianco pareva interessato e diede una risposta altrettanto lunga. Barbara li avrebbe strozzati volentieri. I minuti passavano. Perché non si sbrigavano? Lei aveva urgentissimo bisogno di capire che cosa stava succedendo.
Garbelli finalmente le spiegò che la vera paura di Daniele Bruno non era finire in cella. Quello che temeva ancor più della prigione era il disprezzo della sua famiglia. Daniele aveva un disperato bisogno di rassicurazioni su questo fronte, che Lo Bianco però non poteva o non voleva dargli. Il fatto che si rifiutasse di placare i timori di Daniele Bruno venne sviscerato da tutti i punti di vista per almeno mezz’ora.
Poi Bruno insistette per spiegare a Lo Bianco come aveva fatto Lorenzo Mura a convincerlo. Gli aveva detto che gli servivano dei batteri di E. coli per fare un certo esperimento nel vigneto e di non essere riuscito a procurarseli in nessun altro modo, e Daniele gli aveva creduto. Sosteneva di averne bisogno per il vino, raccontò. Già, pensò Barbara: avrà voluto vedere se Azhar beveva abbastanza in fretta da ingerire ancora vivi i batteri che gli aveva messo nel bicchiere.
Esauriti finalmente tutti i possibili argomenti di discussione, si spostarono in una delle salette adibite agli interrogatori, dove Daniele Bruno si tolse la camicia, mettendo in mostra il torace possente. Arrivò un tecnico e ci fu un’altra lunga confabulazione. Garbelli disse a Barbara che stavano spiegando al suo assistito come funzionava il registratore.
Barbara, sempre meno interessata ai dettagli tecnici e sempre più preoccupata per il passare dei minuti, si chiese dove fosse Mitchell Corsico e cominciò a pensare a qualche stratagemma per impedirgli di spedire a Londra l’articolo su Azhar, nel caso a mezzogiorno non fosse stata in grado di indicargli i nomi e i luoghi richiesti. Poteva telefonargli e riempirlo di balle, ma Mitchell non l’avrebbe presa bene, quando fosse emersa la verità.
Mentre il tecnico dava gli ultimi ritocchi a Daniele Bruno nella sua nuova veste di microspia umana, si aprì la porta ed entrò Ottavia Schwartz.
Barbara le sentì dire: «Upman» e chiese cosa stava succedendo, ma nessuno le rispose. Lo Bianco uscì in gran fretta dalla stanza.
Rocco Garbelli la aggiornò. I genitori di Angelina Upman erano lì e insistevano per parlare con l’ispettore capo Lo Bianco. Volevano che intervenisse perché non avevano trovato la nipotina alla Fattoria di Santa Zita. Hadiyyah non c’era più, pareva che si fosse allontanata in compagnia di una donna inglese, e loro erano venuti per denunciarne la scomparsa.
Gli Upman non sapevano l’italiano e quindi ci voleva un’interprete. Ottavia Schwartz, con la grande efficienza che la contraddistingueva, aveva già provveduto a chiamarne una, che però impiegò più di venti minuti ad arrivare. Nel frattempo gli Upman vennero lasciati a fare anticamera nell’atrio, cosa che non gradirono affatto. Ciò emerse con chiarezza quando entrarono finalmente nell’ufficio di Lo Bianco. Lì per lì l’ispettore pensò che Upman fosse così pallido perché si sentiva male, invece era furibondo e non esitò a comunicarglielo.
Giuditta Di Fazio, l’interprete, aveva appena finito di fare le presentazioni quando Upman si lanciò in un’invettiva che, sebbene lei fosse molto brava a tradurre, la mise a dura prova.
«Vi sembra il modo di trattare due persone che vengono a denunciare la scomparsa di una bambina? Siete una massa di cialtroni scansafatiche» esordì Upman. «Prima è stata rapita, poi le è morta la mamma, ammazzata dal padre. E adesso è scomparsa dall’unica casa che abbia mai avuto in questo Paese di merda. Che cosa deve succedere ancora, perché qualcuno si decida a fare qualcosa? Devo chiamare l’ambasciata? Guardi che sono pronto a farlo. Ho i mezzi e le conoscenze necessarie. Voglio qui mia nipote, e subito. E non stia ad aspettare la traduzione della signorina: sa benissimo perché sono venuto e che cosa voglio.»
Mentre Giuditta traduceva in italiano il discorso di Upman, sua moglie tenne gli occhi bassi, stringendo con forza la borsetta, e quando il marito si lanciò nella seconda sfuriata si limitò a mormorare: «Calmati, caro. Cerca di calmarti».
«Com’è possibile che a dirigere le indagini su reati commessi ai danni di cittadini britannici sia uno che non parla una parola di inglese? Non ci posso credere! L’inglese, la lingua più parlata al mondo… e lei non sa una parola? Santo Iddio…»
«Ti prego, Humphrey.» Dal tono si capiva chiaramente che la signora Upman, più che temere l’ira del marito, se ne vergognava. Si rivolse a Lo Bianco dicendo: «Lo perdoni. Non è abituato a viaggiare e…» In cerca di una scusante, alla fine optò per: «Non ha fatto colazione. Siamo venuti a prendere nostra nipote Hadiyyah per riportarla con noi in Inghilterra in attesa che le cose qui si sistemino. Siamo andati subito alla Fattoria di Santa Zita, ma Lorenzo ci ha detto che la bambina era andata via con una signora inglese. Una certa Barbara. Non ricordava il cognome, ma l’aveva già vista in compagnia di Taymullah Azhar. Stando alla descrizione che ce ne ha fatto, credo che sia la stessa persona che è venuta da noi con Azhar l’anno scorso, a cercare Angelina. Noi chiediamo soltanto…»
Il marito la interruppe bruscamente. «Credi che chiedere con quest’aria supplichevole servirà a qualcosa? Stammi bene a sentire: sei tu che sei voluta venire qui con il primo aereo, no? Be’, adesso che ci siamo, chiudi quella bocca e lascia fare a me.»
La signora Upman arrossì per la rabbia e ribatté: «Se fai così, non ce la daranno mai, la bambina».
«Oh, ce la daranno eccome! Vedrai!»
Nel frattempo Giuditta Di Fazio traduceva in chuchotage, in modo che Lo Bianco riuscisse a seguire la discussione tra i due coniugi. L’ispettore osservava Upman chiedendosi se non fosse il caso di chiuderlo per un po’ da solo in una delle salette per vedere se si calmava. Poi disse a Giuditta: «Spieghi ai signori che il loro viaggio è stato prematuro. Stiamo per avere la conferma dell’innocenza del padre di Hadiyyah per quanto riguarda la morte di Angelina Upman. Per il momento non posso dire altro, ma il professore verrà rilasciato tra poche ore e immagino che non sarebbe affatto contento se, in sua assenza, la bambina venisse affidata al primo che si presenta. Non è così che funziona, in Italia».
Upman, paonazzo, esclamò: «Il primo che si presenta? Come osa? Secondo lei ci siamo precipitati qui per… per cosa? Per rapire una bambina che è nostra nipote a tutti gli effetti?»
«Assolutamente no. Ha detto lei stesso che siete venuti per riportarla in Inghilterra in attesa che le cose qui si sistemino. Da parte mia posso assicurarvi che, per quanto riguarda il professor Azhar, le cose sono sistemate. Siete stati molto premurosi a venire in Italia - convocati dal signor Mura, immagino - ma ribadisco che non era necessario. La posizione del professore nell’inchiesta sulla morte della madre di Hadiyyah è stata chiarita. Verrà rilasciato oggi stesso.»
«Non me ne frega niente. Colpevole o innocente, per me è lo stesso.»
«Humphrey!» lo riprese la moglie in tono severo, mettendogli una mano sul braccio.
Upman se la scrollò di dosso e la investì: «Sta zitta, per la miseria!» Poi si rivolse di nuovo a Lo Bianco: «Si decida, lei: o mi dice dov’è la figlia di Angelina, o si ritroverà nel mezzo di un incidente diplomatico da cui non uscirà indenne, gliel’assicuro».
Lo Bianco cercò di controllarsi, ma stava per sbottare, e si vedeva. Aveva sempre creduto che gli inglesi fossero i campioni del self-control, calmi, flemmatici, razionali. Certo, c’erano gli hooligan, temuti ovunque andassero, ma Upman non sembrava far parte di quella categoria. Era squilibrato? Aveva una malattia che gli aveva fatto perdere il senno e la buona educazione? Disse: «Ho capito, signor Upman, ma purtroppo non so dove sia questa signora inglese… Come ha detto che si chiama?»
«Barbara» intervenne la signora Upman. «Non mi ricordo il cognome, e Lorenzo neppure, ma qualcuno saprà dov’è, no? Negli alberghi bisogna dare le proprie generalità. A noi hanno chiesto il passaporto e ci hanno registrato. Dovreste riuscire a rintracciarla.»
«Sì, sì, certo» disse Lo Bianco. «Ma bisognerebbe sapere il cognome. Il nome di battesimo non basta. Potrebbe essere ovunque. E non so nemmeno perché abbia portato via Hadiyyah dalla casa del signor Mura. Lui non ha fatto nessuna segnalazione, né a me né ai miei colleghi, quindi…»
«L’ha portata via perché glielo ha chiesto il pakistano» sentenziò il signor Upman. «Fa tutto quello che vuole lui. Scommetto che ci va a letto insieme da quando Angelina se n’è andata, l’anno scorso. Quello è uno che non perde tempo, e anche se una è racchia…»
«Basta!» gridò Lo Bianco. «Non so chi sia questa Barbara. Faccia denuncia di scomparsa, se ritiene, e ci lasci lavorare. Qui abbiamo finito.»
Uscì dall’ufficio con il sangue alla testa e, prima di tornare da Daniele Bruno, si fermò a prendere un caffè. Era poco probabile che un espresso gli calmasse i nervi - caso mai il contrario - ma aveva bisogno di un momento per pensare e quello era l’unico modo per ritagliarselo.
Aveva appena mentito per la seconda volta in difesa di Barbara Havers e doveva chiedersi perché. Doveva chiedersi anche perché sentiva il bisogno di chiederselo, visto che chiunque, nei suoi panni, a quell’ora l’avrebbe già sbattuta fuori dalla questura. Da quando era arrivata, gli aveva procurato un guaio via l’altro e lui si trovava già in una posizione molto delicata. Fatta questa considerazione, si chiese anche perché si era preso la briga di nasconderla in casa propria per poi sostenere di non sapere dove fosse. E perché, durante la telefonata con Lynley, aveva negato di averla vista in compagnia di un giornalista vestito da cowboy con cui invece l’aveva senz’altro vista e pure sentita litigare. A tutto questo adesso si aggiungeva il presunto rapporto sentimentale che la legava a Taymullah Azhar. Upman era pazzo furioso, questo era chiaro, ma Lo Bianco non aveva forse sospettato fin dall’inizio che fra Barbara e il professore ci fosse qualcosa di più di una semplice solidarietà tra vicini di casa, se lei era addirittura partita da Londra per andare a occuparsi di sua figlia?
La conclusione era che non poteva fidarsi di Barbara Havers e che però voleva fidarsi. Non sapeva proprio perché.
Finì di bere il caffè e si avviò verso la stanza dove Daniele Bruno e il suo avvocato lo stavano aspettando. Stava per svoltare l’angolo del corridoio quando vide che la porta si apriva e Barbara Havers usciva con un atteggiamento che…
Lo Bianco indietreggiò per non farsi vedere. Quando si affacciò di nuovo a guardare, Barbara stava entrando nel bagno delle donne. E tirava fuori dalla borsa un cellulare.
Con i nervi a fior di pelle, Barbara vide i minuti trasformarsi in mezz’ora, poi in tre quarti d’ora. Il microregistratore era stato sistemato sotto i vestiti di Daniele Bruno. Mentre aspettavano che Lo Bianco tornasse, lo avevano provato e avevano scoperto che non funzionava, con il risultato che erano dovuti andare a prenderne un altro per sostituirlo. Barbara aveva guardato l’orologio, si era resa conto che i minuti passavano a una velocità che le sembrava il doppio del normale e aveva capito che doveva fare qualcosa.
Mitchell Corsico non avrebbe aspettato. Aveva in mano un articolo molto più interessante di tutti quelli mandati in redazione fino ad allora. Se lei non gli avesse passato una notizia ancora più sensazionale, avrebbe premuto il fatidico tasto invio fregandosene altamente delle conseguenze per tante persone. Doveva riuscire a fermarlo, a farlo ragionare, oppure minacciarlo… qualcosa doveva fare, anche se non sapeva cosa. Il primo passo comunque consisteva nel telefonargli e perciò, dopo aver aspettato per ben tre quarti d’ora che Lo Bianco tornasse, si scusò educatamente e uscì dalla stanza.
Entrò nel bagno, controllò che i tre gabinetti fossero vuoti, si chiuse a chiave in quello in fondo e fece il numero di Corsico. «Le cose vanno per le lunghe. Ci stiamo mettendo più del previsto» disse.
«Oh, come mi dispiace!»
«È la verità. Non sto temporeggiando. Sono arrivati i maledetti Upman e…»
«Li ho visti.»
«Per la miseria, Mitchell. Dove sei? Devi stare alla larga, non farti vedere. Lo Bianco ha già subodorato qualcosa…»
«Cazzi tuoi, Barb.»
«Cristo, stammi a sentire. Quello sta per registrare tutto.»
«Dimmi come si chiama.»
«Ti ho già spiegato che non posso. Se non riusciamo a far parlare Mura alla prima, bisognerà fare un altro tentativo. Al momento abbiamo solo la parola di uno contro quella dell’altro. Non basta per compiere un arresto.»
«Ho capito, ma a me serve una notizia da mandare a Rodney, Barb.»
«Avrai la tua notizia appena la avrò io. Senti, Mitchell, farò in modo che tu sia presente alla scarcerazione di Azhar. Potrai fotografarlo mentre riabbraccia la figlia Hadiyyah. Avrai l’esclusiva su tutto quanto. Ma devi avere pazienza.»
«Ho l’esclusiva anche su qualcos’altro» le ricordò lui.
«Usalo e siamo finiti, Mitchell.»
«Sei finita tu, Barb. Sei sicura di volere che quella roba diventi di pubblico dominio?»
«Sono sicura che non voglio. Pensa quello che ti pare, ma non sono cretina.»
«Mi fa piacere saperlo. Capirai, allora, che anche se personalmente ti lascerei volentieri tutto il tempo del mondo per procurarmi nomi, date, perché e percome, purtroppo nel mio campo il tempo è importante. Ho delle scadenze da rispettare, io.»
Barbara si spremette il cervello in cerca di una soluzione. Sapeva che, se Mitchell Corsico avesse pubblicato l’articolo sulle rivelazioni che gli aveva fatto Dwayne Doughty, per lei e per Azhar sarebbe stata la fine. Nella migliore delle ipotesi, avrebbe trovato un impiego come operatore ecologico a Southend-on-Sea, mentre Azhar sarebbe stato processato per sequestro di persona e, ammesso che riuscisse a tornare a Londra prima che le accuse nei suoi confronti venissero formalizzate in Italia, avrebbe passato i cinque o dieci anni successivi a cercare di non farsi estradare.
«Ascolta, Mitchell» tentò. «Ti farò avere tutto quello che posso. Ci sarà una trascrizione di quello che si diranno il tipo con il registratore e Lorenzo Mura. Cercherò di metterci su le mani e di mandartela. Te la fai tradurre da quel giornalista italiano tuo amico…»
«Sì, brava, così la pubblica lui per primo. Tu sei fuori, Barbara.»
«Okay, okay. Falla tradurre da qualcun altro… Aldo Greco, l’avvocato di Azhar… Avrai il tuo scoop.»
«Certo. Ottimo. Perfetto.»
Barbara ringraziò il Cielo in cuor suo.
Ma Corsico aggiunse: «Purché me la mandi entro mezzogiorno».
Chiuse la chiamata mentre lei esclamava: «Mitchell!» Imprecò ad alta voce e fu tentata di buttare il cellulare nel gabinetto, ma si trattenne.
Aprì la porta e si trovò davanti Lo Bianco.
L’ispettore capo non poteva fingere con se stesso di non aver capito il tenore della telefonata di Barbara Havers. Aveva colto più volte il nome «Mitchell» e aveva sentito il suo tono di estrema urgenza. E comunque bastava guardarla in faccia per capire che fidarsi di lei era stato un errore. Si chiese brevemente come mai gli dispiaceva così tanto sentirsi tradito e si rispose che era perché Barbara era una collega, ospite a casa sua, e lui aveva appena finito di difenderla dagli odiosi coniugi Upman. Insomma, lui si era prodigato tanto, e lei lo aveva ricambiato così.
Barbara intanto aveva cominciato a farfugliare, incurante del fatto che Salvatore non capiva una parola. Era chiaro però che stava cercando di spiegarsi e voleva che lui cercasse qualcuno in grado di farle da interprete. Salvatore riconobbe bloody, fuck e altre parolacce, oltre a molti Azhar e Hadiyyah e vari riferimenti a London e United Kingdom. Indicando con un cenno del capo il cellulare, le chiese pacatamente se stava parlando con un giornalista e Barbara capì perfettamente perché rispose: «Yes, yes, all right, it was a journalist». Poi si lanciò in una lunga spiegazione sul fatto che costui aveva saputo delle cose da uno di Londra che potevano segnare la sua rovina, e anche quella di Azhar. Azhar rischiava di perdere tutto quanto, compresa Hadiyyah! E per lui sarebbe stata una tragedia, perché quella bambina era tutta la sua vita. «Why why why don’t you speak English?» esclamò a un certo punto, disperata. Se Lo Bianco avesse parlato inglese, avrebbero almeno potuto chiarire quel pasticcio. Perché glielo leggeva in faccia, che c’era rimasto malissimo, manco lei gli avesse dato una pugnalata, bloody bloody bleeding hell, Salvatore.
Ma Salvatore non capì assolutamente nulla del fiume di parole che Barbara gli stava rovesciando addosso. Le indicò la porta e disse: «Vieni con me». Lei lo seguì nel corridoio fino alla stanza in cui Daniele Bruno aspettava che dessero il via all’operazione.
Lo Bianco aprì la porta ma, invece di entrare, si affacciò soltanto per dire a Bruno e al suo avvocato che aveva una piccola faccenda da sbrigare prima di procedere. E la piccola faccenda consisteva nel portare Barbara Havers in un’altra saletta per interrogatori, dove la invitò con un cenno a sedersi davanti a un tavolo.
«Dammi il telefonino, Barbara» le disse e, per essere sicuro che capisse, tirò fuori il proprio e glielo mostrò. «What? Why?» si stupì lei. Salvatore reiterò la richiesta e Barbara gli consegnò il cellulare. Si aspettava che lui richiamasse l’ultimo numero visualizzato nel registro, ma lo scopo di Salvatore non era questo: sapeva già con chi aveva parlato. E, gli venisse un accidente, non intendeva lasciare che gli parlasse di nuovo. Si mise il telefonino in tasca. Barbara lanciò un grido che non aveva bisogno di traduzione. «Mi dispiace, Barbara, ma adesso tu rimani in questura. Devi aspettare qui» le disse. L’unico modo per impedirle di fargli altri brutti scherzi era tenerla chiusa in quella stanza fino alla fine della recita che avevano messo su.
«No! No! You’ve got to understand, Salvatore.» Si mise a spiegargli che non aveva potuto fare altro. L’aveva costretta quel bastardo a fare così. Se non avesse collaborato… Salvatore non aveva idea di che cosa aveva in mano quel farabutto, non se ne rendeva conto, non sapeva quali rischi correvano lei e Azhar. Se quello stronzo avesse fatto quello che minacciava di fare, Hadiyyah sarebbe finita con i nonni, e lei li conosceva, sapeva che gente erano e cosa pensavano. Non le volevano per niente bene, se ne fregavano di lei, povera bambina e, bloody hell, non la volevano fra i piedi, ma Hadiyyah non aveva nessuno al mondo perché la famiglia di Azhar… Te lo chiedo per favore, please, please, please.
«Mi dispiace» ripeté Salvatore, ed era la verità. Ma la chiuse comunque a doppia mandata.
Tornò da Daniele Bruno e Rocco Garbelli. Dopo aver chiesto e ottenuto un bicchiere di vino per calmarsi i nervi, Bruno chiamò Lorenzo Mura da un telefono predisposto per registrare la conversazione, che fu semplice e molto breve. Bruno disse che dovevano vedersi. La polizia era stata alla DARBA Italia. La situazione si stava facendo critica.
Lorenzo Mura esitava. Daniele Bruno insistette. Alla fine si diedero appuntamento nel luogo che Lo Bianco aveva reputato il più adatto perché avrebbe permesso di osservare da lontano l’incontro e di registrare tutto quello che i due si fossero detti. «Ci vediamo al parco fluviale tra un’ora.» Mura accettò e promise di presentarsi al campo di calcio dove allenava i ragazzini. Il tono era un po’ irritato, ma non sospettoso.
Anche Rocco Garbelli andò con loro. Salì sul furgone bianco insieme con l’ispettore. L’intenzione era di parcheggiare vicino al bar che si trovava a un centinaio di metri dal Campetto. In quella stagione e con il bel tempo sarebbe stato sicuramente pieno di gente e il furgone non avrebbe dato nell’occhio: tutti avrebbero dato per scontato che fosse di un avventore.
Naturalmente Daniele Bruno andò con la propria macchina. L’avrebbe lasciata nello spiazzo vicino al Campetto e, una volta sceso dall’auto, si sarebbe seduto a uno dei due tavoli da picnic sotto gli alberi per rimanere costantemente in vista. Appena Lorenzo Mura fosse arrivato, doveva andargli incontro nello spiazzo perché potessero tenerlo sotto osservazione con il binocolo. Era indispensabile, anche per evitare che cercasse di avvertire silenziosamente Mura del fatto che aveva addosso un microfono nascosto.
Lo Bianco e i suoi avevano meno strada da fare di Mura e arrivarono al parco fluviale in un quarto d’ora. Bruno si mise in posizione e loro sistemarono il furgone in modo da poter vedere ogni sua mossa. Fecero anche una piccola prova audio. Dopodiché si disposero ad aspettare i quaranta minuti che mancavano all’appuntamento.
All’ora stabilita Mura non si presentò. Passarono altri dieci minuti. Daniele Bruno si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. Lo Bianco, che aveva le cuffie in testa, lo sentì imprecare: «Merda, merda».
Dopo altri dieci minuti, Bruno dichiarò che evidentemente Mura gli aveva dato buca. Lo Bianco lo chiamò al cellulare e gli disse: «No, caro mio. Aspettiamo ancora». Allo scadere della mezz’ora Lorenzo Mura finalmente arrivò.
Appena scese dall’auto chiese: «Che cosa mi vuoi dire di tanto delicato che non se ne può parlare al telefono?» Il tono era secco, scocciato. Non ancora preoccupato, però.
Daniele Bruno rispose, come convenuto: «Dobbiamo parlare di Angelina e di come è morta, Lorenzo».
«E perché?»
«Per via dell’E. coli e del motivo per cui me l’hai chiesta. Per cosa mi hai detto che ti serviva? Penso che tu mi abbia mentito, Lorenzo. Non avevi intenzione di fare nessun esperimento con le vigne e il vino.»
«Mi hai fatto venire fin qui per questo?» esclamò Mura. «Cos’hai nella testa, me lo spieghi? Perché sei così agitato? Sei tutto sudato…» Si guardò intorno e per un attimo rivolse lo sguardo esattamente nella direzione del binocolo dell’ispettore capo, ma era impossibile che vedesse nulla di più di un furgone bianco parcheggiato insieme ad altri veicoli a una certa distanza da lui.
«La polizia è venuta alla DARBA» disse Daniele Bruno.
Lorenzo lo guardò male. «Me l’hai già detto. Dove vuoi arrivare?»
A quel punto Bruno doveva raccontare la storia che avevano concordato. Lo Bianco si augurò che ci riuscisse. «C’è uno che mi ha visto quando la prendevo» disse. «Lì per lì non ci ha fatto caso, non era nemmeno sicuro di aver visto bene. Non ci ha più pensato finché non è uscita su Prima voce la notizia della morte di Angelina, ma anche allora non ci ha dato molto peso. Ha fatto il collegamento solo quando si è presentata in ditta la polizia.»
Lorenzo Mura non rispose subito. Lo Bianco lo osservava al binocolo: si accese una sigaretta, strizzò gli occhi per il fumo, si tolse una briciola di tabacco dalla lingua. Poi disse: «Daniele, ma cosa stai dicendo?»
«Sai benissimo cosa sto dicendo. Quel ceppo di E. coli… La polizia mi ha fatto delle domande che mi hanno messo in ansia. Se Angelina è morta per un’infezione da E. coli, se con l’autopsia l’hanno trovata… Lorenzo, che cosa hai fatto con i batteri che ti ho dato?»
Lo Bianco aspettò con il fiato sospeso. Dalla risposta di Mura dipendeva l’esito dell’intera vicenda. Dopo un po’ sentì che diceva: «E per questo mi hai fatto venire fin qui dalla fattoria? Per chiedermi che cosa ho fatto di quei batteri? Li ho buttati nel gabinetto, Daniele. Quando ho visto che non mi servivano per quello che pensavo… quell’esperimento con il vino… li ho buttati nel cesso».
«Come mai però Angelina è morta e glieli hanno trovati durante l’autopsia, Lorenzo? La polizia lo tiene sotto silenzio, ma Angelina è morta di E. coli. Stanno zitti perché non vogliono che chi l’ha ammazzata lo venga a sapere.»
«Ma che discorsi fai?» replicò Lorenzo. «Io non l’ho ammazzata. Aspettava un figlio da me, dovevamo sposarci… Se è morta di E. coli… Lo sai anche tu che è un batterio che si trova dappertutto, Daniele.»
«Certi ceppi, sì. Ma non quello di cui stiamo parlando, Lorenzo. Dammi retta. La polizia è venuta alla DARBA…»
«Me l’hai già detto.»
«Hanno parlato con Antonio. Hanno parlato con Alessandro. Hanno capito che c’è sotto qualcosa, e prima o poi vorranno parlare anche con me, e io non so che cosa dirgli, Lorenzo. Se gli dico che ti ho dato l’E. coli…»
«Non devi dirglielo. Assolutamente!»
«Ma te l’ho data e, se devo mentire per proteggerti, devo sapere…»
«Tu non devi sapere niente! Non hanno uno straccio di prova. Chi ti ha visto mentre me la davi? Nessuno. Chi ha visto che cosa ne ho fatto? Nessuno.»
«Non voglio finire in galera, Lorenzo. Ho una moglie e dei figli. La mia famiglia è tutto per me.»
«Anch’io avrei potuto avere una famiglia. L’avrei ancora, se non fosse arrivato quello stronzo. Non venire a parlare di famiglia a me, che non ce l’ho più perché lui me l’ha distrutta.»
«Lui chi?»
«Il musulmano. Il padre della figlia di Angelina. È venuto in Italia a riprendersela. Voleva portarsela via, l’ho capito subito. L’avrei persa… Lei e mio figlio, perché mi avrebbe lasciato, come aveva lasciato gli altri, e io non…» Gli si spezzò la voce.
Daniele Bruno disse: «Allora era per lui che ti servivano i batteri. Ora ho capito. Per il musulmano. Che cosa volevi fare, Lorenzo? Farlo ammalare? Ucciderlo? Che cosa?»
«Non lo so.» Mura scoppiò a piangere. «Volevo liberarmi di lui. Non sopportavo che lei lo guardasse, lo chiamasse Hari, si lasciasse toccare e coccolare da lui sotto i miei occhi, non volevo… non volevo vedere quello che c’era tra loro.» Andò barcollando verso uno dei tavoli da picnic, si lasciò cadere sulla panca e si prese la testa fra le mani, singhiozzando.
«Basta così» decretò Lo Bianco sul furgone, togliendosi le cuffie. Avvertì via radio le auto della polizia che attendevano un suo segnale lungo la strada e dentro il parco fluviale. Non occorreva altro. Era giunto il momento di arrestare Lorenzo Mura.
Sentì scricchiolare la ghiaia nel parcheggio, alzò la testa, vide le auto della polizia e capì immediatamente che cosa era successo. Si mise a correre prima ancora di vedere il furgone bianco lungo via della Scogliera.
Correva come un matto. Giocava a calcio e quindi, oltre alla velocità, aveva anche una notevole resistenza. Si diresse verso il Campetto dove allenava i ragazzini e, prima che Lo Bianco riuscisse a scendere dal furgone, lo attraversò, inseguito da quattro agenti.
Si infilò in mezzo agli alberi dall’altra parte del Campetto. Lo Bianco sapeva che al di là c’era un sentiero lungo una berma piuttosto ripida che in quella stagione era ricoperta di erba alta.
Gli agenti non riuscivano a tenergli dietro e stavano per perderlo di vista, ma l’ispettore non si preoccupò. Avendo visto che direzione aveva preso Mura, indovinò subito dove stava andando.
«Basta così» mormorò, più a se stesso che ai suoi uomini. Si voltò, fece un cenno di approvazione a Daniele Bruno e lo lasciò con l’avvocato e i tecnici sul furgone perché lo riaccompagnassero in questura, libero di tornarsene a casa. Nel frattempo lui avrebbe pensato a Mura.
Salì su una delle auto e partì lungo il fiume nella direzione opposta. Il Serchio scintillava al sole. Aprì il finestrino e si godette la brezza pomeridiana.
All’uscita del parco si diresse verso il centro di Lucca, ma prima di arrivare ai viali di circonvallazione prese la strada che costeggiava Borgo Giannotti, con le belle case che si intravedevano appena dietro i muri alti dei giardini. Rimase bloccato per due minuti dietro il camion di una ditta di traslochi che faceva manovra. I guidatori delle macchine dietro di lui strombazzarono spazientiti, ma Lo Bianco restò ad aspettare tranquillamente. Quando poté ripartire, passò davanti al palazzetto dello sport e al campo di atletica leggera del CONI e finalmente arrivò a destinazione.
Nel parcheggio del cimitero comunale c’erano auto e biciclette, ma nessun carro funebre: non c’erano funerali in corso. I cancelli erano aperti come sempre e Lo Bianco entrò rispettosamente. Davanti al gruppo bronzeo di Gesù e della Madonna, striato di ossido e di escrementi di uccelli, si fece il segno della croce. Alle spalle del monumento c’era un imponente mausoleo dall’aspetto sinistro, ma i visi delle statue erano sereni.
Proseguì sul sentiero di ghiaia. Nell’aria aleggiava profumo di fiori e il sole batteva sulle lapidi di marmo. Attraversò un grande campo quadrangolare nel silenzio più assoluto.
Trovò Lorenzo Mura dove aveva previsto: sulla tomba di Angelina Upman, non ancora contrassegnata da una lapide. Si era buttato sulla nuda terra, asciugata dal sole, e piangeva.
Lo Bianco aspettò qualche minuto prima di avvicinarsi. Il dolore di quell’uomo era uno spettacolo straziante, ma Lo Bianco restò a guardare e rifletté sul prezzo dell’amore. Chissà se gli sarebbe mai venuta voglia di legarsi di nuovo a una donna in quel modo.
Quando Mura si fu un po’ calmato, si fece avanti, si chinò e lo prese per un braccio con fermezza, ma senza violenza.
«Mi segua, signor Mura» gli disse. Lorenzo si alzò senza protestare.
Lo Bianco lo accompagnò fuori dal cimitero e lo fece salire in macchina per portarlo in questura.
All’inizio batté con i pugni sulla porta come un’attricetta in un telefilm da quattro soldi. La prima volta Ottavia Schwartz andò a vedere se stava male o aveva urgente bisogno di qualcosa e lei cercò di spiegarsi, di convincerla a lasciarla andare con le buone e con le cattive, ma Ottavia aveva ricevuto ordini precisi. Come tutti gli altri in questura, peraltro, perché nessuno rispose alle invocazioni di Barbara dopo che Ottavia ebbe richiuso la porta a chiave.
Aveva solo bisogno di un cellulare. Cercò di farsi capire da Ottavia a gesti e, quando finalmente si ricordò come si diceva, prese a scandire la parola telefonino. Supplicò, provò in tutti i modi a spiegarle che aveva bisogno di fare soltanto una telefonata brevissima. Invano.
Non le restò che aspettare. Il tempo scorreva lentissimo, sia sull’orologio appeso al muro sia su quello che aveva al polso. A mezzogiorno, scaduto l’ultimatum, cercò di illudersi che Mitchell Corsico avesse bluffato. In realtà sapeva benissimo che quella che aveva per le mani era una storia troppo sensazionale, da prima pagina, e che Mitchell voleva arrivare proprio lì: in prima pagina. La massima aspirazione di tutti coloro che scrivevano per i tabloid, del resto, era proprio diventare una di quelle firme che facevano tremare le ginocchia a chiunque avesse una reputazione da difendere. Barbara lo sapeva fin dall’inizio.
Non le restava che camminare avanti e indietro per la stanza e, visto che aveva con sé le sigarette, fumare. A un certo punto le portarono un panino, che non mangiò, e una bottiglietta d’acqua, che non bevve. Una poliziotta la scortò nel bagno. Nient’altro.
Passarono ore prima che la lasciassero andare. Fu Lo Bianco a liberarla. In quelle ore, erano successe un sacco di cose: Lorenzo Mura era stato portato in questura e interrogato, il suo arresto era stato formalizzato e tutti i dettagli erano stati sistemati.
«Mi dispiace» mormorò l’ispettore, guardandola con una tristezza indescrivibile.
«Yes. I am sorry too» replicò Barbara e, quando lui le restituì il cellulare, gli chiese se poteva…
«Fai pure» disse lui, e se ne andò. Chiuse la porta, ma non a chiave. Barbara si pose il problema delle intercettazioni ambientali, calcolò che le probabilità che quella stanza nascondesse cimici e videocamere erano altissime e uscì nel corridoio per telefonare a Mitchell Corsico.
Naturalmente era troppo tardi. «Mi dispiace, Barb, ma non ho potuto fare diversamente…»
Barbara chiuse la chiamata senza stare a sentire il resto e si diresse stancamente verso l’ufficio di Lo Bianco. Era al telefono con un certo Piero, ma appena la vide arrivare lo salutò e si alzò in piedi.
Con un groppo alla gola, Barbara cercò di spiegargli che non aveva avuto scelta. «Tu mi capisci?» Aveva fatto tutto per via di Hadiyyah, anche se aveva solo peggiorato la situazione, perché adesso sarebbe scoppiato un gran casino e lei non poteva più farci niente. Non di risolutivo, perlomeno. Sapeva già che lui non avrebbe capito, ma voleva dirglielo lo stesso. Perché sì, lui si sentiva tradito, e in un certo senso aveva ragione, ma cos’altro poteva fare lei? L’articolo sarebbe uscito l’indomani mattina su uno dei tabloid più letti in Inghilterra. Avrebbe parlato di lei e Azhar, rivelando il complotto che era stato messo in atto, e da chi era stato concepito. Avrebbe parlato di persone incaricate di rapire Hadiyyah, di somme di denaro passate di mano in mano e di dati informatici alterati. Robaccia che sarebbe sicuramente finita anche sui giornali italiani e comunque, qualora Lo Bianco non si fosse curato della stampa, avrebbe saputo tutto dall’ispettore Lynley, che di sicuro gli avrebbe telefonato. Insomma, lei ci aveva provato in tutti i modi, ma non era riuscita a impedire al giornalista di spedire quell’articolo. Si schiarì la voce e, disperata, disse che le dispiaceva da morire, perché lui si era dimostrato un vero gentiluomo.
Lo Bianco la ascoltò attentamente. Si vedeva che cercava di raccapezzarsi in qualche modo, ma le uniche parole che afferrava erano i nomi: Azhar e Hadiyyah. Le parlò a sua volta di Lorenzo Mura, di Azhar, di Angelina. Barbara intuì che le stava raccontando della confessione di Lorenzo Mura e di quel che lei stessa aveva sospettato, ovvero che il vino contenente il batterio killer era destinato ad Azhar. Annuì energicamente quando Lo Bianco concluse dicendo: «Avevi ragione tu, Barbara. Avevi proprio ragione».
Ma questo, purtroppo, non la consolava affatto.