22 APRILE
Villa Rivelli
Toscana
Dall’altra parte del giardino, oltre la peschiera, c’era un muretto basso dietro il quale la campagna digradava, verde e rigogliosa dopo le piogge dell’inverno. In lontananza si vedevano paesini che scintillavano al caldo sole primaverile e la strada che saliva a tornanti dalla valle del Serchio. Per questo suor Domenica Giustina si accorse che stava arrivando quando ancora era lontano.
Era andata con Carina a dar da mangiare ai pesci che guizzavano nella vasca come lampi arancioni. Li avevano guardati abbuffarsi per un po’, poi la suora aveva fatto voltare la bambina e l’aveva invitata ad ammirare il panorama. «Che bella vista, vero?» mormorò e cominciò a elencarle i nomi dei paesi. Carina li ripeté a uno a uno. Dal giorno in cui l’aveva portata in cantina, era cambiata: si era fatta più esitante, più guardinga, forse più preoccupata. Non c’era niente da fare, decise fra sé la suora. Certe cose avevano la precedenza su tutto il resto.
Fu in quel momento che vide l’auto sfrecciare fra gli alberi su per la salita, diretta verso la villa. La riconobbe, nonostante la distanza, perché era rossa, aveva la capote abbassata e perché avrebbe riconosciuto ovunque l’uomo al volante. Il suo arrivo, però, rappresentava un pericolo. Era stato lui a portarle Carina, infatti, e quindi poteva anche portargliela via. Non sarebbe stata la prima volta.
«Vieni, vieni» disse alla bambina e, a scanso di equivoci, la prese per mano e la guidò lungo il sentiero. Attraversarono il grande prato dietro la villa e corsero verso la cantina.
Le tende a una delle finestre si mossero. Suor Domenica Giustina se ne accorse, ma non era quel che accadeva dentro la villa a preoccuparla. Il pericolo veniva da fuori.
Capì subito che Carina non era contenta di scendere in cantina. Non aveva più provato a portarla fino alla vasca limacciosa, ma era chiaro che la bambina temeva proprio questo. Non c’era nulla di cui aver paura, ma la suora non era in grado di spiegarglielo e comunque non aveva intenzione di portarla in fondo alla cantina: voleva soltanto che stesse nascosta vicino alle prime botti.
«Non aver paura. Non c’è nessun pericolo» le sussurrò. Qualche ragno, forse, ma i ragni erano innocui. Se uno proprio doveva aver paura di qualcosa, era il diavolo che doveva temere.
Per fortuna Carina capì almeno in parte quel che la suora le diceva e parve sollevata quando si rese conto che Domenica non voleva andare più in là della seconda stanza. Si accucciò fra due vecchi tini, si sedette sui talloni e mormorò: «Suor Domenica, per favore, non chiudere la porta».
Almeno questo poteva concederglielo, pensò. Non era indispensabile chiudere la porta: bastava che la bambina promettesse di non fare il minimo rumore.
Carina promise. «Aspettami qui» le sussurrò la suora.
La bambina fece di sì con la testa.
Quando lui arrivò, Domenica era nell’orto. Udì prima il rumore della macchina, il rombo del motore e lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote, poi il motore che si spegneva, la portiera che si apriva e chiudeva e, un attimo dopo, i passi di lui che saliva la scala del suo alloggio sopra il granaio. La chiamò per nome. Domenica si alzò, pulendosi con cura le mani sporche di terra in uno straccio che portava appeso alla cintola. Udì sbattere due porte e i passi che scendevano la scala. Poi il cancello dell’orto cigolò. Domenica chinò il capo, umile, ubbidiente, pronta a esaudire ogni suo desiderio.
«Dov’è la bambina?» le chiese. «Perché non è nel granaio?»
Lei non disse nulla. Sentì che si avvicinava e vide i suoi piedi quando le si fermò davanti. Si disse che doveva essere forte. Anche se Carina non era in casa, dove lui aveva ordinato di tenerla, non gliel’avrebbe portata via.
«Hai sentito?» insistette lui. «Domenica, hai sentito quello che ti ho detto?»
Annuì, perché non era sorda e lui lo sapeva. Gli disse: «Non me la porterai di nuovo via».
«Di nuovo?» ripeté lui, stupito. Quando mai le aveva portato via la bambina?
«È mia» disse Domenica.
Poi alzò gli occhi. Lui la guardava perplesso, come se stesse cercando di decifrare il significato delle sue parole. Dopo un po’ lo capì e, quasi a conferma di questo, le mise una mano sulla nuca e la attirò a sé dicendo: «Tesoro, tesoro».
La sua mano sulla pelle le fece l’effetto di un ferro arroventato che l’avrebbe marchiata per sempre. Sentì il calore diffondersi in tutto il corpo, fino nel sangue.
«Tesoro, tesoro, tesoro» mormorò ancora lui. «Non me la riprenderò mai più.» Si chinò e le sfiorò le labbra, insinuandole la lingua nella bocca, indagatrice, carezzevole. Poi le sollevò la veste di lino.
«L’hai nascosta?» le chiese, bocca nella bocca. «Perché non è nel granaio? Te l’ho detto, no? La bambina deve rimanere nel granaio. Te lo sei dimenticata, tesoro?»
Domenica si chiese come avrebbe potuto tenere Carina nascosta nel granaio, al freddo: era una bambina, e i bambini hanno bisogno di muoversi.
Le coprì il collo di baci, la accarezzò, la toccò, finché lei non si sentì ardere. Allora lui la fece stendere a terra e sulla nuda terra la penetrò, muovendosi insieme a lei con un ritmo ipnotico cui Domenica non riusciva a resistere.
«La bambina» le sussurrò. «Te l’ho restituita, capisci? Non me la riprenderò. Ma dimmi dov’è. Dov’è? Dov’è?» A ogni spinta le ripeteva quelle parole. «Dov’è? Te l’ho riportata, tesoro.»
Domenica lo accolse. Si lasciò invadere da quelle sensazioni finché non raggiunsero l’apice e le cancellarono ogni pensiero.
Dopo, lui rimase ansante fra le sue braccia solo un attimo. Si rialzò quasi subito, si rassettò i vestiti e la guardò dall’alto in basso con una smorfia che non parlava di amore. «Copriti» le ordinò. «Dio mio, copriti.»
Lei si abbassò la veste, ubbidiente, e guardò il cielo sereno, senza una nuvola. Il sole brillava, le inondava il viso come i raggi della grazia di Dio.
«Hai sentito quello che ti ho detto? Hai sentito?»
No, Domenica non aveva sentito niente: era lontana, fra le braccia del suo amato. Adesso, però…
La tirò per un braccio. «Domenica, dov’è la bambina?» urlò.
La suora si alzò barcollando e, confusa, guardò giù, fra le file di lattughe, nel punto in cui nella terra era rimasta impressa la sagoma del suo corpo. «Che cos’è successo?» mormorò. Poi lo guardò e ripete la domanda, con insistenza: «Roberto, che cosa mi hai fatto?»
«Pazza» fu la sua risposta. «Sei sempre stata pazza.»
A quel punto lei capì che tra di loro era davvero successo qualcosa: lo sentiva fisicamente, dentro di sé, e ne sentiva l’odore nell’aria. Si erano accoppiati nella terra come animali e lei aveva insozzato di nuovo la propria anima.
Lui continuava a chiederle dov’era la bambina e Domenica si sentiva come se una spada le avesse trafitto il cuore lasciandola esangue. Gli disse: «Mi hai portato via la bambina già una volta. Non ti permetterò di farlo di nuovo».
Lui si accese una sigaretta, spense il cerino e lo buttò da una parte. Aspirò il fumo: «Perché hai così poca fiducia in me, Domenica? Ero giovane, e tu anche. Adesso siamo più maturi. L’hai nascosta da qualche parte? Portami da lei».
«Che cosa le vuoi fare?»
«Niente. Voglio essere sicuro che stia bene. Le ho portato dei vestiti. Vieni, te li faccio vedere. Sono in macchina.»
«Lasciameli e vattene.»
«Tesoro» mormorò lui. «Non posso.» Lanciò un’occhiata verso la villa, silenziosa ma vigile, oltre la magnifica siepe di camelie. «Non ti conviene che io resti qui» le disse. «Non conviene né a te né a me.»
Domenica capì l’antifona: se lei non gli avesse fatto vedere la bambina, sarebbe rimasto e avrebbe fatto scoppiare uno scandalo.
«Fammi vedere i vestiti» gli disse.
«È quello che intendo fare.» Aprì il cancello e la lasciò uscire per prima. Quando gli passò accanto, sorrise e le sfiorò il collo con le dita, provocandole un brivido.
Arrivati alla macchina, Domenica vide due sacchetti posati per terra. Non era una bugia: erano pieni di vestiti piegati con cura. Usati, ma ancora in buono stato.
Lo guardò. Lui le disse: «Voglio che stia bene, Domenica. Devi imparare a fidarti di nuovo di me».
Lei annuì bruscamente, voltò le spalle all’auto e disse: «Vieni».
Fece strada fino alla siepe di camelie, ma prima di scendere in cantina si fermò e si voltò a guardare il cugino. Lui le fece un sorriso, uno di quelli che lei ben conosceva. Niente paura, voleva dire. Sono innocente, proclamava. Bastava che lei gli credesse, come gli aveva creduto un tempo.
Entrò e lui la seguì. «Carina, vieni qui» disse Domenica a bassa voce. «Va tutto bene, piccola.» Per tutta risposta, si udì uno scalpiccio e la bambina spuntò dal suo nascondiglio fra i tini.
Andò loro incontro quasi correndo. C’era poca luce, ma suor Domenica Giustina vide che aveva ragnatele sui capelli scuri, le ginocchia nere e i vestiti macchiati dalla polvere che si era accumulata nella cantina nel corso degli anni.
Il volto della bambina si illuminò quando vide con chi era la suora. Senza paura, gli andò incontro dicendo: «Yes! Yes! Have you come to fetch me? Do I get to go home?» Voleva sapere se era andato a prenderla per riportarla a casa.
Lucca
Essere convocati nell’ufficio del pubblico ministero era meno irritante che essere costretti ad andarlo a trovare a Barga, ma solo di poco. Mentre l’invito a casa era deliberatamente offensivo, un colloquio in ufficio era una seccatura, un fastidio paragonabile a un prurito che non se ne va nemmeno grattandosi. Salvatore Lo Bianco sapeva che avrebbe dovuto essere almeno moderatamente grato a Piero Fanucci per non aver aspettato fino alla sera per richiedere la sua presenza, al cospetto suo e dei suoi cymbidium, ma non ci riusciva. Perché aveva fatto quotidianamente rapporto, come da istruzioni, eppure l’interesse di Fanucci per le indagini continuava a crescere, rasentando l’interferenza. Il procuratore non era stupido, ma la sua mente era chiusa, inaccessibile come la cella di una prigione di cui nessuno ha la chiave.
Sapeva di avere potere direttivo sulle indagini e si divertiva a esercitarlo a suo piacimento. Era lui che assegnava i casi e, se non era d’accordo con il modo in cui venivano gestiti, revocava l’assegnazione e incaricava qualcun altro. Quindi, quando si veniva convocati, bisognava ottemperare. O essere pronti ad accettare le conseguenze della propria insubordinazione.
Lo Bianco si recò pertanto a palazzo Ducale, dove Piero Fanucci aveva l’ufficio più lussuoso. Andò a piedi, perché non era lontano. Era in piazza Grande, dove un gruppo di turisti ammirava la statua dell’amata Maria Luisa di Borbone e scattava foto, mentre la guida raccontava loro la storia dell’odiosa Elisa Bonaparte, condannata dal fratello a regnare su quella provincia fuori mano. Sul lato sud della piazza alcuni bambini ridevano su una giostra che li portava in un viaggio immaginario.
Anche Lo Bianco, come i turisti, osservò la scena e si fermò un momento a riflettere su cosa dire al pubblico ministero. Aveva ricevuto informazioni da una fonte del tutto inaspettata: sua figlia Bianca, che frequentava la scuola elementare statale Dante Alighieri, la stessa cui era iscritta la bambina scomparsa.
Non era insolito che i bambini che abitavano fuori le mura andassero a scuola nel centro di Lucca. Insolita era la quantità di informazioni che Bianca aveva raccolto sull’inglesina.
Per non spaventarla, Lo Bianco non le aveva detto che Hadiyyah Upman era scomparsa, ma Bianca aveva visto i manifesti affissi in giro per la città e aveva riconosciuto la sua compagna di scuola. Aveva raccontato tutto alla mamma, che la conosceva, e Birgit, grazie a Dio, aveva avvertito Salvatore.
Mentre mangiavano un gelato senza infamia e senza lode comprato nell’unico bar sulle mura della città, Lo Bianco aveva sondato con cura la figlia. Aveva appreso così che Bianca in un primo tempo aveva creduto che Lorenzo Mura fosse il padre di Hadiyyah. Evidentemente non si era resa conto che, se fosse stato così, la bambina avrebbe certamente parlato meglio l’italiano. Poi però Hadiyyah le aveva confidato che suo padre viveva a Londra. Faceva il professore all’università, le aveva detto tutta fiera. Lei e la sua mamma erano in Italia ospiti di Lorenzo, un amico della mamma. Il papà sarebbe dovuto venire a trovarle per Natale, ma siccome aveva troppo da lavorare aveva rimandato il viaggio fino a Pasqua. Poi però gli erano capitate altre cose da fare, perché era uno che lavorava moltissimo… Ecco, ti faccio vedere la sua foto. È uno scienziato. Mi manda delle e-mail e io gli rispondo e forse riuscirà a venire quest’estate…
«Secondo te suo papà è venuto a prenderla per riportarla a Londra?» aveva chiesto Bianca al padre con uno sguardo troppo preoccupato per una bambina di otto anni.
«Può darsi, tesoro» aveva risposto Lo Bianco. «Sì, può darsi di sì.»
Il dilemma adesso era se riferire tutto questo a Piero Fanucci. Stabilì che avrebbe deciso se dirglielo o no a seconda di come fosse andato il colloquio.
Salendo lo scalone incontrò la segretaria di Fanucci. Era una settantenne dotata di grande spirito di sopportazione che gli ricordava sua madre. Ma, invece che di nero, si vestiva sempre di rosso. Aveva i capelli tinti del colore del carbone e dei brutti baffetti che, per quanto Lo Bianco aveva avuto modo di vedere negli anni, non si era mai presa la briga di eliminare o camuffare. Lavorava ancora con Fanucci solo perché il pubblico ministero la trovava repellente e quindi non l’aveva mai molestata. Se avesse provato per lei la minima attrazione, la poveretta non avrebbe retto nemmeno sei mesi. Nella sua carriera Fanucci si era lasciato dietro una scia di donne psicologicamente e spiritualmente distrutte.
Varcata la soglia del suo ufficio, Lo Bianco fu informato che doveva aspettare: Fanucci era occupato con un giovane sostituto, al quale molto probabilmente stava dando una lavata di capo. Con un sospiro, Lo Bianco prese una rivista e cominciò a sfogliarla. Dopo aver appreso qual era l’ultimo attore americano che, omosessuale non dichiarato, si accompagnava con una top model vent’anni piti giovane di lui e dotata del giusto grado di stupidità, decise che era troppo trash e la mise da parte. Lasciò passare cinque minuti e chiese alla segretaria di riferire a Fanucci che stava aspettando di essere ricevuto.
La donna rimase scioccata e gli chiese se era sicuro di voler provocare «un’eruzione del vulcano». Lo Bianco rispose affermativamente.
Di fatto non fu necessario interrompere Fanucci, perché dal suo ufficio uscì un ragazzo pallido come un cencio che corse via con aria mortificata. Lo Bianco entrò senza farsi annunciare.
Piero Fanucci lo squadrò. Era ancora paonazzo, dopo il colloquio con il giovane procuratore, e i bitorzoli che aveva sul viso risaltavano più chiari del solito. Decise di non fare commenti sulla brusca entrata di Lo Bianco e indicò con un cenno il televisore che teneva su una libreria. Lo accese senza preamboli e fece partire la registrazione di un programma della BBC andato in onda quella mattina.
Lo Bianco non parlava benissimo l’inglese e quindi non era in grado di seguire i rapidi scambi di battute fra i due presentatori, impegnati in un’oscura discussione sui quotidiani del Regno Unito, ma capì subito che non c’era bisogno di traduzione. Piero Fanucci fermò il video quando i presentatori mostrarono la prima pagina di un tabloid, il Source, che parlava della bambina inglese rapita a Lucca.
Era uno sviluppo preoccupante: quando un tabloid dava una notizia così, tutti gli altri lo seguivano. Stava per arrivare un’invasione di giornalisti britannici.
Fanucci spense il televisore e fece cenno a Lo Bianco di sedersi mentre lui rimaneva in piedi: era un modo come un altro per sottolineare che comandava lui, rifletté l’ispettore.
«Che cos’altro hai saputo dal tuo amico accattone?» chiese Fanucci, intendendo ovviamente il tossicodipendente che chiedeva l’elemosina con il cartello HO FAME. Lo Bianco lo aveva già portato in questura una volta, ma Fanucci voleva un secondo interrogatorio che, a suo dire, doveva essere più serio e più lungo, volto a «rinfrescare» la memoria al poveraccio.
Lo Bianco aveva cercato di evitarlo perché, mentre il procuratore era convinto che i tossici fossero capaci di qualsiasi cosa pur di comprarsi la droga, lui la pensava diversamente. Nel caso specifico, poi, si trattava di un personaggio del tutto innocuo: Carlo Casparia chiedeva la carità vicino alla porta San Jacopo da sei anni e non aveva mai causato problemi, se non alla sua famiglia e alla sua salute.
Rispose: «Piero, da Casparia non otterremo altro. Credimi, è completamente stordito, non può aver pianificato un sequestro di persona».
«Pianificato?» ripeté Fanucci. «Perché dici che è pianificato, Ciccio? L’ha vista e l’ha presa, ecco com’è andata.»
E poi? si chiese Lo Bianco, ma non lo disse ad alta voce: si limitò ad assumere un’espressione perplessa.
«L’occasione fa l’uomo ladro, amico mio» continuò Fanucci. «Non ti sembra? Ti ha raccontato che ha visto la bambina, no? Se è completamente stordito, com’è che se lo è ricordato? Perché si ricorda proprio questa bambina e non un’altra? Come te lo spieghi?»
«Gli ha dato da mangiare, Piero. Gli ha dato la sua banana.»
«Gli ha dato una speranza, ecco cosa gli ha dato.»
«Una speranza? E che speranza?»
«La speranza di incassare dei soldi. Devo spiegartelo io cosa succede quando un bambino viene rapito?»
«Non c’è stata nessuna richiesta di riscatto.»
«Perché avrebbe dovuto chiedere un riscatto? Ci sono tanti altri modi per far soldi con una bambina innocente.» Fanucci cominciò a contare sulle sei dita della mano destra. «La puoi caricare su una macchina e portare oltreconfine. La puoi vendere al racket della prostituzione. Oppure come schiava. La puoi dare a un pedofilo che la chiude in cantina. A una setta satanica che pratica sacrifici umani. A uno sceicco arabo per il suo harem.»
«Tutte cose che richiedono un’accurata pianificazione, no?»
«Tutte cose che non sapremo finché non avrai interrogato di nuovo Carlo. Fallo al più presto, per piacere: voglio leggere il verbale dell’interrogatorio nel prossimo rapporto. Come altro intendi investire il tuo tempo, Ciccio, se non in questo modo e indagando in questa direzione?»
Lo Bianco cercò prima di tutto di non perdere la calma. Poi decise di rispondere a quella domanda irriverente rivelando al procuratore un particolare emerso grazie ai manifesti e ai volantini che erano stati sparsi in tutta la città. Aveva ricevuto una telefonata da due alberghi, uno dentro le mura e l’altro in zona Arancio, non lontano dalla strada per Montecatini. Qualche tempo prima era passato da loro un tipo con una foto che ritraeva la bambina scomparsa insieme a una bella donna, presumibilmente la madre. Voleva sapere se erano ospiti lì e aveva lasciato un biglietto da visita alla reception. Purtroppo in entrambi i casi il biglietto era stato buttato via.
Fanucci inveì contro la stupidità delle donne. Lo Bianco non precisò che in entrambi i casi alla reception c’era un uomo, ma disse semplicemente che la cosa era successa più o meno un mese e mezzo prima. E questo, disse, era tutto.
«Chi era questo tipo?» domandò Fanucci. «Che faccia aveva?»
Lo Bianco scosse la testa. Cercare di far ricordare al receptionist di un albergo una persona vista un mese o due prima e probabilmente per meno di un minuto… Allargò le braccia. Era un’impresa disperata.
«Nient’altro? Non hai scoperto nient’altro?» domandò Fanucci in tono imperioso.
«Riguardo a quest’uomo che cercava la donna e la bambina, purtroppo no» mentì Lo Bianco. Poi, prima che Fanucci gli facesse la predica accusandolo di essere un incompetente e minacciando di revocargli l’incarico, L’ispettore gli gettò un amo.
Gli rivelò che fra la bambina rapita e il padre c’era stato uno scambio di e-mail. «Il padre adesso è a Lucca» disse. «È un aspetto che va approfondito.»
«Cosa c’è di strano se un padre da Londra scrive e-mail alla figlia che abita in Italia?» chiese Fanucci in tono sprezzante.
«Le ha promesso più volte di venirla a trovare e poi non è venuto» spiegò Lo Bianco. «Promesse non mantenute, cuori spezzati, figli che scappano di casa: mi sembra un aspetto che merita di essere approfondito.» Guardò l’orologio. «Ho appuntamento con loro - i due genitori insieme - fra quaranta minuti.»
«Dopodiché mi riferirai…»
«Come sempre» gli assicurò Lo Bianco, pensando che qualcosa gli avrebbe riferito. Il minimo indispensabile per convincerlo che le indagini procedevano nella direzione da lui indicata, per quanto idiota. «C’è altro?» chiese poi alzandosi.
«Veramente, non abbiamo ancora finito» replicò Fanucci con un sorrisetto e lo sguardo impenetrabile, rimarcando per l’ennesima volta che era lui a comandare.
Lo Bianco si risedette e, con l’aria più impassibile che gli riuscì, disse: «Sono tutt’orecchi».
«Hanno telefonato dall’ambasciata britannica» gli svelò Fanucci con una certa soddisfazione. Lo Bianco capì che aveva tenuto per ultima la sorpresa più grossa, ma non fece domande e non mostrò la minima curiosità: il silenzio era l’unica rivincita che poteva prendersi. «Scotland Yard manderà un ispettore,» Con un cenno del capo Fanucci indicò il televisore, la registrazione che avevano appena guardato. «Non possono fare altro, vista la pubblicità che è stata data alla cosa.»
Lo Bianco imprecò. Era uno sviluppo che non aveva previsto, e che non gli piaceva per niente.
«Non interferirà nelle indagini» continuò Fanucci. «Avrà solo il compito di fare da collegamento tra gli inquirenti e la madre della bambina. O almeno così mi è stato detto.»
Lo Bianco imprecò ancora. Oltre a soddisfare le richieste del procuratore, adesso avrebbe dovuto star dietro anche a un funzionario di Scotland Yard. Avrebbe perso un sacco di tempo.
«Chi è questo ispettore?» domandò, rassegnato.
«So solo che si chiama Thomas Lynley. Ma c’è anche un piccolo particolare, che ti converrà tenere presente» rispose Fanucci, facendo una pausa ad effetto. Per non protrarre ulteriormente il colloquio, Lo Bianco questa volta stette al gioco.
«Quale particolare?» chiese stancamente.
«Parla italiano» rispose Fanucci.
«Lo parla bene?»
«Abbastanza, pare. Stai attento, Ciccio.»
Lucca
Lo Bianco aveva scelto l’Antico Caffè Di Simo. In altre circostanze, avrebbe dato appuntamento ai genitori della bambina scomparsa in questura, ma quando convocava le persone in ufficio di solito era a scopo intimidatorio, mentre in questo caso voleva mettere il più possibile a loro agio i due. Se li avesse fatti andare in questura, dove c’era sempre un sacco di gente e di confusione e la presenza della polizia era inevitabile, non sarebbe riuscito a parlare loro con la calma che desiderava. Il Caffè Di Simo, invece, era un locale storico, con l’atmosfera adatta e una pasticceria squisita. Lungi dall’insospettirli, li avrebbe rasserenati: un cappuccino o un caffè macchiato, un piatto di cantucci e avrebbero potuto parlare tranquillamente in una saletta privata con pannelli di legno alle pareti, piccoli tavoli e pavimento bianco.
Madre e padre non arrivarono insieme. Si presentò per prima lei, senza il suo compagno Lorenzo Mura; tre minuti dopo arrivò il professore. Lo Bianco ordinò i caffè e, con il piatto di biscotti in mano, fece strada verso il fondo del bar dove c’era la saletta, che per fortuna in quel momento era vuota. Lo Bianco aveva chiesto al barista di non farci entrare nessuno fino alla fine del colloquio.
«Il signor Mura?» chiese. Gli pareva strano che la signora inglese non si fosse presentata con il suo compagno. Nelle occasioni precedenti, le era stato vicino come un angelo custode.
«Arriva fra poco» rispose Angelina Upman. Poi aggiunse con un sorrisetto sconsolato: «È andato a giocare a calcio». Chiaramente si rendeva conto dell’effetto che poteva sortire dicendo che il suo amante era andato a una partita invece di stare al suo fianco e, come per giustificarlo, spiegò: «Gli fa bene».
Lo Bianco si chiese che bene potesse mai fare una partita di calcio a un uomo nella sua situazione. Ma forse un’ora o due di attività sportiva aiutavano Mura a distrarsi, o semplicemente a prendere un po’ le distanze dall’ansia e dall’agitazione della sua compagna per la sorte della figlia.
In quel momento, a dire il vero, Angelina Upman non pareva particolarmente agitata. Disorientata, questo sì, e sofferente. Anche il padre della bambina - il pakistano arrivato da Londra - non aveva un bell’aspetto. Erano entrambi scossi, tesi. Ma chi non lo sarebbe stato, al loro posto?
Il professore aiutò Angelina ad accomodarsi, prima di sedersi a sua volta. Lo Bianco notò che le tremavano le mani, quando mise lo zucchero nel caffè. Notò anche che, nonostante avesse messo il piatto di biscotti davanti al professore, lui lo aveva spinto verso Angelina perché si servisse per prima. Notò inoltre che la signora chiamava il padre della bambina Hari e che lui trasaliva nel sentirsi chiamare così.
Ogni più piccolo particolare delle interazioni fra i due era importante per Lo Bianco: vent’anni di esperienza in polizia gli avevano insegnato che in tragedie di quel genere i familiari erano i primi sospettati.
Grazie a un misto del suo inglese stentato e dell’italiano appena passabile della madre della bambina, Lo Bianco li aggiornò nella misura che riteneva necessaria sullo stato di avanzamento delle indagini. Erano stati effettuati controlli in tutti gli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie e dei pullman. Le ricerche della piccola erano in corso sia a Lucca sia nelle città vicine, ma per il momento, unfortunately, non c’erano novità.
Aspettò che Angelina Upman traducesse al padre della bambina e, sia pur lentamente, gli riferisse i punti principali.
«Le cose sono… più complicate di un tempo» spiegò, quando lei ebbe finito di parlare. «Before EU, i confini erano tutta un’altra faccenda. Ma ora?» Fece un gesto di impotenza con la mano non tanto a significare uno scaricabarile, quanto per esprimere le difficoltà che la polizia si trovava ad affrontare in un simile frangente. «L’abolizione dei controlli alle frontiere va bene per i criminali. E i prezzi in euro per gli stranieri sono più facili da calcolare rispetto alla lira» disse con un sorriso, come per scusarsi. «Ma per tutto il resto, per noi della polizia, ricostruire gli spostamenti delle persone è molto più complicato. Se uno passa il confine in autostrada… Si possono fare dei controlli, ma ci vuole molto tempo.»
«And the ports?» Fu il padre della bambina a chiederlo. La madre tradusse, benché questa volta non ce ne fosse bisogno.
«Sì, stiamo controllando anche i porti.» Evitò di precisare quello che chiunque avesse minime nozioni di geografia sapeva benissimo: quanti porti e approdi c’erano in una penisola lunga e stretta con migliaia di chilometri di coste? Era impossibile scoprire se qualcuno aveva fatto uscire la bambina dall’Italia via mare. «Ma c’è una concreta possibilità che Hadiyyah sia ancora in Italia» disse. «Forse è ancora qui, nei dintorni di Lucca. È questo che dovete pensare, vi prego.»
La signora aveva gli occhi lucidi, ma sbatté le palpebre e ricacciò indietro le lacrime. «Di solito quanti giorni ci vogliono, ispettore, prima che troviate… qualcosa?» La parola che non osava neppure pronunciare era «cadavere». Nessuno osava accennare all’eventualità che la bambina fosse già morta.
Lo Bianco le spiegò meglio che potè quanto era complessa e variegata la zona di Lucca. Oltre alle colline intorno alla città, poco lontano c’erano le Alpi Apuane, e centinaia di paesi e paesini, ville, fattorie, casolari, luoghi isolati, anfratti, chiese, conventi, monasteri e grotte. La bambina poteva essere letteralmente ovunque, disse. Finché non ci fosse stato un avvistamento, una soffiata, finché qualcuno non si fosse ricordato di aver visto qualcosa di strano, potevano solo aspettare.
A questo punto Angelina Upman si mise a piangere. Senza drammi, ma le lacrime cominciarono a colarle sulle guance. Non fece nulla per fermarle o per asciugarle. Il professore avvicinò la sedia alla sua e le mise una mano su un braccio.
Per dare loro una piccola speranza cui aggrapparsi, Lo Bianco parlò di Carlo Casparia. Il tossicodipendente era già stato fermato e interrogato una volta e lo avrebbero convocato di nuovo in questura per cercare di cavare qualche informazione dal suo cervello devastato. Avevano preso in considerazione l’ipotesi che avesse organizzato lui il sequestro, ma… Non c’erano state richieste di riscatto, vero? Aspettò una risposta.
«No, nessuna richiesta di riscatto» confermò Angelina Upman con un filo di voce.
…Dunque bisognava presumere che Carlo Casparia non c’entrasse. Era vero che poteva aver preso la bambina per darla a qualcuno in cambio di una somma di denaro, ma per portare a termine una transazione del genere occorrevano una capacità di pianificazione e dissimulazione che lui non possedeva. Come il suonatore di fisarmonica cui la loro figlia aveva dato dei soldi, anche Carlo era molto conosciuto in città. Se la bambina si fosse allontanata con lui, qualcuno lo avrebbe sicuramente notato.
Mentre Lo Bianco si prodigava in queste spiegazioni, arrivò Lorenzo Mura. Posò per terra la sacca, prese una sedia e la accostò al tavolino. Notò che il professore giunto da Londra era seduto molto vicino ad Angelina e guardò la mano che le teneva sul braccio. Taymullah Azhar tolse la mano, ma non spostò la sedia. Mura disse: «Ciao, cara» ad Angelina e le diede un bacio sulla testa.
Lo Bianco era infastidito dal fatto che la partita di calcio cui Mura aveva partecipato o assistito come allenatore o come spettatore avesse avuto la precedenza su quell’incontro e continuò il discorso senza badare a lui. Se voleva essere aggiornato, Lorenzo Mura poteva rivolgersi ad altri. «Quindi, capite che è poco plausibile che sia stato Carlo. Cerchiamo qualcuno per cui rapire una bambina fosse più fattibile, almeno nelle intenzioni. Abbiamo preso in considerazione alcuni pedofili noti o presunti.»
«E quindi?» chiese Lorenzo a bruciapelo, con il tono tipico di chi fa parte di una famiglia influente e altolocata e crede di avere la polizia ai suoi piedi. Forse un tempo era così, quando i Mura erano davvero ricchissimi. Lo Bianco non gradì, ma lo poteva capire. Ciononostante, non intendeva lasciarsi intimidire.
Ignorò la domanda di Lorenzo Mura e disse ai genitori della bambina: «Combinazione, mia figlia Bianca conosce Hadiyyah. L’ho saputo soltanto dopo che mi ha detto di avere visto i manifesti sparsi per la città. Vanno tutte e due nella stessa scuola, la Dante Alighieri, e pare che si siano parlate spesso da quando vostra figlia è stata messa in classe con lei. Bianca mi ha detto una cosa che mi ha fatto pensare che forse non si tratta di un sequestro di persona.»
Padre e madre non dissero nulla. Mura aggrottò la fronte. Tutti e tre pensavano chiaramente la stessa cosa, e cioè che, se secondo la polizia non si trattava di un sequestro di persona, non restavano che due alternative: la fuga o l’omicidio.
«Sua figlia ha parlato molto di lei a Bianca» continuò l’ispettore, rivolgendosi al professore. Aspettò con pazienza che Angelina avesse finito di tradurre, e proseguì: «Le ha raccontato che lei le aveva scritto via e-mail che sarebbe venuto a trovarla a Natale e poi a Pasqua».
Il grido soffocato che sfuggì al professore costrinse Lo Bianco a fermarsi. Angelina si coprì la bocca con la mano e Mura guardò prima la sua donna e poi il padre della bambina strizzando gli occhi perplesso. Il professore mormorò: «Io non ho mai… E-mail?» La situazione si fece improvvisamente molto più complicata.
Lo Bianco disse: «Cosa? Lei non ha mai scritto e-mail a Hadiyyah?»
Il professore, sconvolto, rispose: «I did not know… where they were». E spiegò con l’aiuto di Angelina che, quando quest’ultima se n’era andata, lui non aveva idea di dove fossero finite madre e figlia e che il computer portatile della bambina era rimasto a Londra, per cui non aveva neppure pensato di poterle scrivere. Parlava a fatica, quasi balbettando, e Lo Bianco era sicuro che dicesse la verità. «Angelina…» sussurrò il professore, guardandola. «Angelina…» Sembrava non riuscisse a dire altro.
«Sono stata costretta, Hari.» Con un filo di voce, lei gli spiegò che si era trovata costretta a fingere che il padre scrivesse alla bambina. Se Hadiyyah non avesse più avuto sue notizie, avrebbe iniziato a fare delle domande, si sarebbe agitata. «Lei ti adora… non avevo altra scelta.»
Lo Bianco, appoggiato allo schienale, la studiava. Capiva abbastanza l’inglese da afferrare il senso di quello che stava dicendo. Osservò il professore, e anche Lorenzo Mura. Era evidente che quest’ultimo era all’oscuro di tutto, ma agli occhi di Lo Bianco si stava formando un quadro assai inquietante. «Lei non ha scritto nessuna e-mail, quindi» ripeté per avere conferma. «I messaggi che Hadiyyah ha ricevuto… Li ha scritti lei, signora?»
Angelina scosse la testa e la chinò, tanto che i capelli le nascosero quasi del tutto il viso. «Li scriveva mia sorella. Io le dicevo che cosa scrivere.»
«Bathsheba?» esclamò il professore. «È stata Bathsheba a scrivere le e-mail, Angelina?» Fece presente che la sorella e i genitori di Angelina, quando li aveva interpellati, avevano sempre sostenuto di non sapere dove fossero lei e la bambina, e strinse i pugni per la rabbia all’idea che Bathsheba si fosse spacciata per lui, usando un indirizzo di posta elettronica inglese in modo che la bambina non si insospettisse e facendo a nome suo promesse che ovviamente non potevano essere mantenute.
«Mi dispiace tanto, Hari, I am sorry.» Angelina ormai piangeva a calde lacrime e, fra i singhiozzi, confessò che sua sorella e i suoi genitori detestavano il pakistano con cui si era messa e che Bathsheba le aveva dato una mano a fuggire e nascondersi. Raccontò che si erano tenute sempre in contatto e spiegò come si erano svolte le cose dal novembre precedente fino a quel momento, escluso naturalmente il rapimento di Hadiyyah.
Finita questa confessione, con la testa fra le mani, Angelina ripeté: «Mi dispiace tanto».
Il professore la guardò a lungo cercando dentro di sé la forza di reagire in un modo che per Lo Bianco, se si fosse trovato nella stessa posizione, sarebbe stato assolutamente inconcepibile. Al termine di un lungo silenzio, infatti, Taymullah Azhar disse:
«Ormai è fatta, Angelina». Con una dignità straordinaria, le disse che non la capiva, e non capiva il motivo di tanto odio nei suoi confronti, ma che a quel punto l’unica cosa che contava era ritrovare Hadiyyah sana e salva.
«Ma io non ti odio!» replicò lei fra le lacrime. «Non ti odio! Sei tu che non mi capisci! Non mi hai mai capito e io non sono mai riuscita a…»
Il professore la fermò mettendole di nuovo la mano sul braccio e ripeté che l’unica cosa che contava, ormai, al di là delle incomprensioni, era ritrovare la figlia. «Dobbiamo pensare solo a Hadiyyah. Angelina, ascoltami. Solo a Hadiyyah.»
Un movimento improvviso di Lorenzo Mura indusse Lo Bianco a voltarsi brevemente dalla sua parte. Rispetto al color vino dell’angioma che gli deturpava il viso sembrava pallido, però aveva il collo paonazzo e la mandibola contratta. Si sporse in avanti ma, forse sentendosi osservato dal poliziotto, tornò velocemente nella posizione di prima. Lo Bianco se ne accorse e pensò che valeva la pena di indagare anche su di lui.
Disse ai due genitori: «Vi farà piacere sapere che si è mobilitata anche la polizia britannica. Oggi arriva un detective di Scotland Yard».
«Barbara Havers?» chiese il professore, in tono così speranzoso che a Lo Bianco dispiacque deluderlo.
«Un uomo» rispose. «Si chiama Thomas Lynley.»
Il professore toccò la spalla della sua ex compagna e le disse che conosceva Thomas Lynley e che sicuramente grazie a lui avrebbero ritrovato Hadiyyah. «Questa è una gran bella notizia» concluse soddisfatto.
Lo Bianco non era altrettanto ottimista e ritenne opportuno precisare che il compito dell’ispettore inglese consisteva semplicemente nel tenerli aggiornati sullo svolgimento delle indagini. Ma Lorenzo Mura si alzò senza lasciargli il tempo di finire.
«Andiamo» disse brusco ad Angelina, spostando la sedia dal tavolo. Salutò Lo Bianco con un cenno del capo e non degnò di uno sguardo Taymullah Azhar.
Lucca
Lynley trovò la strada da Pisa a Lucca senza la minima difficoltà grazie a Charlie Denton che gli aveva scaricato da Internet itinerario, mappe e foto della città con i parcheggi dentro e fuori le mura indicati da grandi P rosse. Gli aveva addirittura segnato sulla cartina la posizione della questura e l’anfiteatro romano dove si trovava la pensione che gli aveva prenotato. Era la stessa in cui alloggiava Taymullah Azhar, e Lynley l’aveva scelta pensando che così sarebbe stato più facile parlare con il professore.
Era stato in Italia molte volte durante l’infanzia, l’adolescenza e la vita adulta ma, chissà perché, non era mai stato a Lucca. Rimase sorpreso perciò dalla vista delle mura, perfettamente conservate, erette per proteggere il centro medievale della città dai saccheggiatori e dalle occasionali inondazioni provocate dalle piene del fiume Serchio. Lucca assomigliava alle numerose città e paesi toscani che Lynley aveva visitato in passato, con le sue strette strade acciottolate, le piazze, le chiese e le tante fontane zampillanti, ma si distingueva per tre aspetti: il gran numero di chiese e chiesette, le torri e, soprattutto, la cinta muraria.
Dovette fare il giro due volte prima di trovare il parcheggio che secondo Charlie era il più vicino all’anfiteatro e quindi ebbe modo di vedere bene i viali sopra le mura, con alberi, statue, baluardi, prati e gente che passeggiava, correva, andava sui pattini o in bicicletta e spingeva passeggini. Vide avanzare a passo di lumaca tra la gente un’auto della polizia, e un’altra ferma sopra una delle porte che davano accesso al centro.
Anche lui per entrare in città dovette attraversare una porta, quella di Santa Maria. Parcheggiò e proseguì a piedi per la vicina piazza dell’Anfiteatro. Dovette percorrere circa metà della circonferenza esterna prima di trovare una delle gallerie che sbucavano nella piazza e, quando si affacciò dall’altra parte, si fermò abbagliato dal sole che si rifletteva sulle facciate bianche e gialle e sulle pietre del lastricato. Vide negozi di souvenir, bar, case private e pensioni. La sua si chiamava Pensione Giardino, anche se forse il giardino consisteva unicamente nel vasto assortimento di cactus e piante grasse disposte in vasi di terracotta davanti all’ingresso.
In pochi minuti fece conoscenza con la proprietaria, una giovane donna incinta che si presentò dicendo trafelata che si chiamava Cristina Grazia Vallera; gli porse la chiave della sua stanza, gli indicò la piccola sala della prima colazione e lo informò degli orari a cui veniva servito il breakfast. Detto questo, lo lasciò solo e sparì in tutta fretta nel retro, da dove venivano il pianto di un bambino piccolo e un invitante profumo di pane appena sfornato.
Lynley non ebbe difficoltà a trovare la stanza. Salì le scale, vide che c’erano solo quattro camere e che la sua, la numero tre, dava sul davanti dell’edificio. Faceva caldo e, appena entrato, tirò su la tapparella e aprì la finestra. Guardò la piazza sottostante. Al centro c’erano un gruppo di studenti disposti in cerchio con un blocco da disegno in mano e un insegnante che controllava gli schizzi a cui stavano lavorando. Mentre li osservava, Lynley scorse Taymullah Azhar: stava uscendo dalla galleria, diretto verso la pensione.
Era il ritratto dello sconforto e della desolazione, sentimenti di cui Lynley conosceva per esperienza ogni sfumatura. Continuò a guardarlo, arretrando di un passo dalla finestra per non essere visto, finché Azhar non entrò.
Lynley si tolse la giacca e posò la valigia sul letto. Un attimo dopo sentì dei passi nel corridoio, andò alla porta e la aprì. Azhar era davanti alla porta accanto alla sua. Istintivamente si voltò e Lynley rimase colpito dal contegno che manifestava, nonostante la disperazione.
«Ispettore Lynley! L’ispettore Lo Bianco ci aveva avvisato che sarebbe venuto a Lucca» disse stringendogli la mano. «Le sono davvero grato. So che ha molti impegni.»
«Barbara sarebbe venuta volentieri al posto mio» replicò Lynley. «Ma il sovrintendente non ne ha voluto sapere.»
«Deve stare molto attenta, in questa cosa.» Azhar indicò con una mano lo spazio intorno a loro, ma Lynley capì che con «questa cosa» intendeva la scomparsa di Hadiyyah e non la pensione, e che a dover stare attenta era Barbara e non il supervisore Ardery.
«Sì» concordò.
«Vorrei che non corresse tutti questi rischi. Mi sento responsabile… Con quello che potrebbe succederle… dovesse mai perdere il posto in polizia… Preferirei che non…» balbettò il professore, sinceramente preoccupato.
«Non se ne faccia un cruccio» lo rassicurò Lynley. «La conosco da parecchio tempo e so che fa sempre di testa sua, nelle cose a cui tiene. Se devo essere sincero, mi dispiace che si comporti così. È una ragazza generosa, ma a volte è poco oculata, poco diplomatica, e quando prende a cuore qualcosa dimentica la prudenza.»
«Me ne sono accorto anch’io.»
Lynley spiegò ad Azhar in che veste era stato mandato a Lucca e che ruolo avrebbe avuto nelle indagini. Era a tutti gli effetti un outsider e sarebbe riuscito a dare una mano ai colleghi della polizia italiana solo nella misura in cui questi e il pubblico ministero avessero deciso di coinvolgerlo. L’inchiesta era diretta dal magistrato, spiegò ad Azhar. In Italia funzionava così.
«Io sono qui soltanto per fare da tramite.» Poi raccontò ad Azhar per quale motivo la Metropolitan Police aveva deciso di mandare a Lucca un ufficiale di collegamento: per via del Source e delle informazioni che si sospettava Barbara avesse passato al tabloid. «Questo, come può immaginare, l’ha messa in cattiva luce agli occhi del sovrintendente Ardery. Naturalmente non è possibile dimostrare che sia stata davvero lei ma, devo dire, spero tanto che la mia presenza qui serva a trattenere Barbara dal cacciarsi in altri pasticci,»
Azhar ascoltò e rimase un attimo in silenzio. «Spero…» Non concluse la frase, però, e disse invece: «Anche i giornali di qui stanno seguendo la vicenda. Io faccio il possibile per tenere viva l’attenzione. Perché con i giornali scandalistici…» Si strinse nelle spalle, sconsolato.
«Capisco» disse Lynley. Indubbiamente mettere sotto pressione la polizia, con qualsiasi mezzo, significava ottenere maggiori risultati.
Azhar gli raccontò che aveva distribuito volantini nelle città e nei paesi vicini. Piuttosto che rimanere chiuso nella pensione in angosciosa attesa di notizie che non arrivavano, usciva tutti i giorni e andava ad affiggere manifesti in un raggio sempre più ampio intorno a Lucca. Andò a prenderli in camera e ne mostrò uno a Lynley. Consisteva in una bella foto di Hadiyyah, con il nome, il cognome e la parola scomparsa in italiano, tedesco, inglese e francese e un numero di telefono che Lynley immaginò fosse della polizia.
Lo colpì l’espressione ingenua della bambina, che sembrava più piccola della sua età. Nel mondo di oggi i bambini crescevano troppo in fretta e a nove anni Hadiyyah sarebbe potuta assomigliare a una star di Bollywood. Invece nella foto aveva la divisa della scuola, le trecce legate con un fiocco, due occhi scuri e vivaci e un sorriso sbarazzino. Azhar confermò che era minuta per la sua età. Questo significava che poteva facilmente essere scambiata per una bambina ancora più piccola di quello che era. Una preda ideale per un pedofilo, pensò Lynley, cupo.
«Distribuire le foto qui in città non è stato difficile» disse Azhar quando Lynley gli restituì il volantino. «Adesso che mi sto allontanando da Lucca, però, è più faticoso: sui monti ci sono tanti paesini.»
Andò a prendere una carta stradale sul comò della sua stanza e gli spiegò che stava per partire per il suo giro quotidiano. Se l’ispettore aveva tempo, gli avrebbe mostrato l’area che aveva battuto a tappeto fino ad allora. Lynley annuì e scesero insieme. Nella piazza, di fronte alla pensione, c’era un bar con alcuni tavolini all’ombra. Si sedettero e ordinarono una Coca-Cola. Poi Azhar aprì la cartina.
Lynley vide che aveva circolettato i nomi dei paesi dove era già stato e, pur conoscendo la Toscana, lasciò che Azhar gli illustrasse le difficoltà che si incontravano anche solo per spostarsi da un paese all’altro nella zona collinare. Rendendosi conto che per Azhar parlare di quello che stava facendo era un modo per placare l’ansia che lo rodeva, Lynley annuì e si mise a studiare la mappa con lui, notando che il professore era stato molto diligente nelle ricerche della figlia.
Tuttavia dopo un po’ Taymullah Azhar esaurì gli argomenti e arrivò a dire quello che forse stava cercando di evitare: «È passata una settimana, ispettore». Vedendo che Lynley si limitava ad annuire, continuò: «Che cosa pensa? Mi dica la verità, la prego. Capisco la sua riluttanza, ma preferisco sapere».
Lynley ebbe la compiacenza di fingere che fosse davvero così e distolse un attimo lo sguardo. Nella piazza gli studenti erano ancora impegnati nella loro esercitazione di disegno dal vero e le tipiche persiane verdi italiane erano quasi tutte chiuse per proteggere le case dal sole. Da una finestra si sentiva abbaiare un cane, da un’altra provenivano le note di un pianoforte. Lynley pensò a come rispondere al professore e alla fine decise di dirgli la verità nuda e cruda.
«Hadiyyah non è una bambina di pochi mesi» cominciò sottovoce. «Quando viene rapito un bambino piccolo - dalla carrozzina o dal passeggino - e non c’è nessuna richiesta di riscatto, di solito significa che chi l’ha preso non ha intenzione di fargli del male, ma di tenerlo o di venderlo. Una sorta di ‘adozione illegale’ diciamo. Oppure di darlo a una coppia che desidera disperatamente un figlio. Ma rapire una bambina di nove anni, come Hadiyyah… fa pensare a qualcos’altro.»
Azhar non fece domande. Torcendosi le mani, posate sulla cartina, mormorò: «Non c’è nessuna traccia di… Non è stato trovato nessun…»
Nessun cadavere, voleva dire. «E questo è un buon segno.» Lynley si astenne dall’aggiungere che far sparire un cadavere fra le colline toscane o sulle Alpi Apuane era facilissimo e disse invece: «Possiamo dedurne che la bambina sta bene. Probabilmente è spaventata, ma sta bene. Se l’intenzione è consegnare Hadiyyah a terzi, inizialmente verrà tenuta nascosta per un po’».
«Perché?»
Lynley bevve un sorso, versò ancora un po’ di Coca-Cola dalla lattina nel bicchiere, dove tre cubetti di ghiaccio facevano del loro meglio per mantenerla fresca. «È poco probabile che una bambina di nove anni dimentichi i genitori, le pare? Quindi bisogna tenerla nascosta per un po’, finché non diventa docile, non si abitua alla prigionia e si rassegna. È in un paese straniero, immagino che non parli benissimo la lingua. Dopo un certo periodo, per sopravvivere, imparerà a vedere nei suoi sequestratori dei salvatori e a contare su di loro. Ma questo va a nostro vantaggio, perché il tempo gioca a favore nostro e non loro.»
«Ma se non è stata rapita per darla a un’altra famiglia che la vuole adottare, per cosa pensa che…» cominciò Azhar.
Lynley lo interruppe prontamente per risparmiargli le ipotesi più inquietanti. «È abbastanza giovane da poter essere indottanata o addestrata a certi compiti, ma più che chiederci in cosa consistano questi compiti, ci interessa che per far ciò debbano tenerla in salute e al sicuro.» Non accennò neppure agli scenari terrificanti che questa ipotesi poteva comportare. Non disse che Hadiyyah aveva l’età ideale per essere tenuta prigioniera da un pedofilo in una cantina, in una stanza segreta insonorizzata, in un sotterraneo, in un casolare abbandonato sui monti. Per riuscire a portarla via da un mercato affollato in pieno giorno, chi l’aveva presa doveva aver preparato con cura il rapimento. E con altrettanta cura doveva aver preparato il «dopo». Non aveva lasciato nulla al caso. Quindi, anche se il tempo giocava a loro favore, le circostanze non erano affatto favorevoli.
Restava però una speranza, che veniva da Hadiyyah stessa. Non tutti si comportano secondo quanto previsto dalla psicologia: Hadiyyah poteva far parte della categoria di coloro che si comportano in maniera imprevedibile. Occorreva stabilirlo.
«Secondo lei, Hadiyyah potrebbe ribellarsi?» chiese Lynley.
«In che senso, scusi?»
«Molti bambini sono intraprendenti e pieni di risorse. È possibile che Hadiyyah scateni un putiferio al momento opportuno? Che cerchi di attirare l’attenzione in qualche modo?»
«E come?»
«Comportandosi in modo diverso da come le viene detto. Tentando la fuga, per esempio. Appiccando un incendio, tagliando le gomme a una macchina. Dimostrandosi tutto fuorché docile.» Dimostrandosi adulta anche se ha solo nove anni, aggiunse Lynley tra sé.
Azhar rifletté a lungo prima di rispondere. Si udirono rintocchi di campane, prima di una chiesa, poi di altre, che riecheggiarono nelle strade strette della città. Uno stormo di piccioni sorvolò la piazza in formazione compatta.
Azhar si schiarì la gola e rispose: «Temo che non farebbe mai nessuna di queste cose. È una bambina molto educata. Ho sempre cercato di insegnarle a stare al suo posto, che Dio mi perdoni».
Lynley annuì. Purtroppo il mondo era fatto così e spesso alle bambine, in qualsiasi cultura, veniva inculcato dai genitori e dalla società che dovevano essere ubbidienti e servizievoli. Solo ai maschi si insegnava a usare il cervello e la forza fisica.
«L’ispettore Lo Bianco sembra convinto che…» cominciò Azhar, esitante. «Anche se è passata una settimana… che… che ci sia speranza…»
«Lo penso anch’io» disse Lynley. Quel che non disse fu che, dato il silenzio dei rapitori e la totale mancanza di indizi, la speranza cui si aggrappavano stava diventando sempre più tenue.
Victoria
Londra
Barbara Havers rimandò il più possibile. Anzi, cercò proprio di trattenersi, ma nel primo pomeriggio non resistette e chiamò l’ispettore Lynley al cellulare per farsi dire qualcosa.
Sapeva che era arrabbiato con lei. Chiunque altro le avrebbe baciato i piedi per aver brigato al punto da farlo mandare in Italia in veste di ufficiale di collegamento. Ma Lynley aveva altro per la testa che andare in trasferta in Italia a spese della Met. Preferiva assistere a incontri di roller derby e cercare di convincere Daidre Trahair a… a fare quello che desiderava da lei.
Appena Lynley le rispose con un laconico «Barbara», si affrettò a dire: «Lo so che è incavolato, ispettore. Mi dispiace da morire. So che ha dei progetti, delle cose per la testa, e io le ho messo i bastoni fra le ruote, lo capisco».
«Ah, quindi riconosce le sue colpe…» ribatté lui.
«Non ho fatto niente di male. Non potevo stare lì con le mani in mano, conoscendo Hadiyyah. Lei, sua madre, suo padre… Non pensa?»
«Le interessa davvero cosa penso?»
«Mi dispiace. Ma le cose aspettano… Lei aspetterà, no?»
Seguì un silenzio. Poi con quel suo insopportabile tono aristocratico, Lynley chiese: «Quali cose? Lei chi?»
Barbara si rese conto di aver intavolato un discorso assolutamente fuori luogo e si affrettò a far retromarcia. «Lasci perdere. Non volevo essere indiscreta. Non so neanche perché ne ho parlato… ma sono rosa dalla preoccupazione e capisco che è meglio che lei sia lì e io qui e se solo sapessi come…»
«Barbara.»
«Sì? Cosa? Cioè, lo so che sto parlando a vanvera, ma è perché so che è incavolato e ne ha motivo perché ho fatto casino, ma solo perché…»
«Barbara.» Lynley aspettò che si zittisse, poi disse: «Non ho novità da riferirle. Appena ci sarà qualcosa, le telefonerò».
«Ma lui…? Loro sono…?»
«Non ho visto Angelina Upman. Ho parlato con Azhar. Sta bene, per quanto possibile date le circostanze.»
«E adesso? Con chi parlerà? Dove andrà? La polizia italiana si dà da fare? Le lasciano…?»
«Vuol sapere se mi lasciano fare il mio lavoro?» la interruppe, piccato. «Per quel poco che mi compete, sì. Ma, mi creda, non potrò fare molto. Voleva dirmi altro?»
«No, non mi pare» rispose Barbara.
«Allora ci risentiamo» le disse Lynley. E chiuse la comunicazione, lasciandole il dubbio se intendesse mantenere quella promessa o no.
Barbara infilò il cellulare nella borsa. Aveva chiamato dalla mensa della Met, dove per vincere l’ansia aveva dovuto mangiarsi un muffin grande come la rocca di Gibilterra. L’aveva trangugiato come un cane che non vuole farsi vedere dal resto del branco e ci aveva bevuto dietro un caffè tiepido. Quando si era accorta che muffin e caffè non avevano avuto alcun effetto calmante - avrebbe dovuto provare con la musica, è vero - aveva ceduto telefonando in Italia. Ma neppure Lynley le aveva dato soddisfazione. Non le restava che mangiare un secondo muffin o trovare qualcos’altro per placare l’ansia.
Dwayne Doughty non si era più fatto sentire. Cercò di farsene una ragione pensando che l’aveva assoldato da meno di ventiquattr’ore, ma un’insistente vocina nella sua testa le ricordava che non poteva volerci tanto tempo per accertare se Taymullah Azhar era effettivamente a Berlino quando la figlia era sparita a Lucca. A lei sarebbero bastate un’ora o due per ricostruire i movimenti del professore e trovare le conferme dei suoi spostamenti. E l’avrebbe fatto, usando i potenti mezzi della Met, se solo avesse potuto. Però, con Isabelle Ardery che la guardava a vista e l’ispettore Stewart che di sicuro riferiva quotidianamente al sovrintendente quanto spirito di collaborazione dimostrava, doveva stare molto attenta. Se voleva fare qualcosa, doveva agire fuori dall’orario di lavoro e senza attingere alle risorse della Met.
Per fortuna il suo cellulare non faceva parte delle risorse della Met e nessuno poteva rimproverarla se lo usava durante una pausa. Né mentre era nel bagno per espletare una funzione fisiologica.
E così dalla mensa andò alla toilette. Controllò con cura che non ci fosse nessuno e compose il numero di Mitchell Corsico.
«Ottimo lavoro» gli disse quando lui rispose frettolosamente «Corsico» per dimostrare che era un uomo molto occupato.
«Chi parla?» chiese poi.
«Postman’s Park» rispose Barbara. «Il Watts Memorial. Ero vestita di fucsia e tu avevi uno stetson. Stai per partire per l’Italia?»
«Magari.»
«Cosa? Non è uno scoop abbastanza grosso per voi?»
«Non è morta, se non erro.»
«Cazzo! Siete veramente dei bastardi…»
«Risparmiati gli insulti. Non sono io a decidere. Che cosa credevi? Che avessi tutto questo potere? Quindi, a meno che tu non abbia altre notizie da darmi… A parte il lato Ilford della faccenda, che i piani alti sembrano gradire e meditano di mettere in prima pagina…»
Barbara si sentì raggelare. «Ilford? Cosa c’entra Ilford, Mitch?»
«C’entra eccome. Stiamo parlando degli altri risvolti della faccenda. Del tuo coinvolgimento nei fatti, di cui hai subdolamente evitato di parlarmi.»
«Ma cosa dici? Quale coinvolgimento?»
«Quello nella rissa con i genitori del professor Azhar. Devo dire, cara, che la presenza di una ‘seconda famiglia abbandonata a Ilford’ rende la storia molto più intrigante.»
Barbara rimase impietrita. L’unica cosa che riuscì a dire fu: «Non puoi fare una cosa simile. C’è di mezzo una bambina in pericolo di vita. Devi…»
«Capisco il tuo punto di vista, Barbara» la interruppe Corsico. «Ma a me interessano lo scoop, il diritto di cronaca, la tiratura. Quindi se il rapimento di una bella bambina fa vendere - su questo non ho niente da obiettare - il rapimento di una bella bambina il cui padre ha una seconda famiglia segreta disposta a parlare…»
«Non è una famiglia segreta. E non sono disposti a parlare.»
«Prova a dirlo al figlio maschio. Sayyid.»
Barbara cercò di escogitare qualcosa per impedirgli di sottoporre Azhar all’umiliazione di vedere esposte al pubblico ludibrio le sue tormentate vicissitudini personali. Non osava immaginare come sarebbero state presentate dal tabloid, se Mitchell Corsico fosse riuscito a intervistare Sayyid. Era inaccettabile, sia per Azhar sia per Hadiyyah. Bisognava che l’attenzione dei media rimanesse concentrata sulla bambina, sul rapimento, sulle ricerche, sugli italiani e su quello che stava succedendo in Toscana.
Disse: «D’accordo. Capisco. Ma c’è una cosa che forse ti interessa sapere sulla nostra visione della faccenda. La visione della Met, intendo».
«E sarebbe?»
«L’ispettore Lynley.» Le rincresceva moltissimo fare il suo nome, ma non vedeva altre vie d’uscita. «L’ispettore Lynley è andato in Italia. Come ufficiale di collegamento.»
Corsico, dall’altra parte, taceva. A Barbara pareva quasi di sentire gli ingranaggi del suo cervello che si mettevano in moto. Cercava di ottenere un’intervista con Lynley da quando la moglie, incinta, era stata assassinata sui gradini davanti a casa. Di ritorno dalla spesa, stava cercando le chiavi per aprire la porta quando era stata avvicinata da un ragazzo armato di pistola che le aveva sparato senza alcun motivo, mandandola in coma. E il marito si era trovato a dover decidere se staccare la spina. Visto che Corsico voleva uno scoop serio, quello scoop era Lynley. Lo sapevano entrambi.
Barbara disse: «Il nostro ufficio stampa rilascerà un comunicato, ma puoi dare la notizia in anticipo, se credi. Immagino tu sappia che cosa significa. Lynley farà da tramite con i genitori, ma dovrà parlare anche con la stampa e rispondere alle domande dei giornalisti. Cioè anche a te. Insomma, un’intervista. Un’intervista con la I maiuscola, Mitch».
«Capisco dove vuoi andare a parare, Barbara, e sarò sincero: Lynley è un nome che tira. Ma il pesce che voglio prendere all’amo io…»
«Il vero scoop è Lynley.» Barbara, spazientita e allarmata, si rese conto di aver alzato la voce. «Fa’ il nome di Lynley ai tuoi superiori e vedrai che ti mettono sul primo aereo per l’Italia.» Ed era in Italia che lei aveva bisogno che andasse per seguire la vicenda, riferire particolari alla redazione a Londra e suscitare nell’opinione pubblica britannica un estremo interesse per la scomparsa di una bella bambina inglese.
«Lo farò» promise Corsico. «Contaci. Ma procediamo con ordine, e pensiamo prima ai giovani.»
«È quello che sto cercando di…»
«Non intendevo Hadiyyah» la interruppe Corsico. «Mi riferivo all’altro figlio, Sayyid.»
«Mitch, non…»
«Grazie della soffiata su Lynley, però.» E chiuse la telefonata.
Victoria
Londra
Barbara imprecò e si diresse verso la porta. Doveva impedire a Corsico di parlare con la famiglia di Azhar a Ilford e non le venivano in mente molti modi per farlo. Era abbastanza probabile che Nafeeza non aprisse bocca, ma suo figlio Sayyid era una mina vagante.
Spalancò la porta, immersa nelle sue riflessioni, e per poco non andò a sbattere contro Winston Nkata. Il collega di colore non stava passando di lì per caso e con un cenno del capo le indicò il bagno delle donne. Poi, caso mai lei non avesse capito che voleva che tornasse dentro, la prese per un braccio ed entrò anche lui, trascinandola con sé.
«Ehi, ti sei perso?» gli chiese Barbara. «Il bagno degli uomini è più avanti, Winnie.»
Nkata non apprezzò la battuta. Barbara lo capì da come abbandonò la pronuncia tipica degli africani arrivati in Inghilterra passando per i Caraibi. Le rispose sottovoce, con un pesante accento di South Brixton: «Sei fuori di testa? Ringrazia che Stewart ha mandato me a seguirti. Se avesse mandato un altro, domani mattina saresti già a dirigere il traffico».
Barbara decise che la strategia migliore era fingere di non capire. «Perché? Win, non ti capisco.»
«Rischi il posto» replicò Nkata. «Se scoprono che passi informazioni al Source, ti degradano. O ti licenziano direttamente. Ce l’hai nel culo. Capisci, adesso? Guarda che c’è gente che non vede l’ora che succeda, Barb.»
Barbara decise di fare l’offesa. «Mi stai dando della spia?» ribatté sottovoce. «Davvero pensi che io passi informazioni al Source? Non è vero. Io non passo informazioni né a loro né a nessun altro.»
«Ah, sì? Ma se gli hai appena fatto una soffiata su Lynley! Ti ho sentito, Barb. Vuoi farmi credere che hai fatto il nome di Lynley a uno che non è il giornalista che ha scritto l’articolo su Hadiyyah? Mi prendi per il culo? Eri al telefono con Corsico, Barb, e basta guardare il tuo registro delle chiamate per dimostrarlo. O il tuo conto in banca.»
«Cosa?» Adesso sì che era offesa sul serio. «Pensi che lo faccia per soldi?»
«Non so perché lo fai e non me ne frega niente. Dammi retta, non gliene frega niente a nessuno del perché lo fai.»
«Senti, Winnie. Lo sai anche tu che bisogna tenere vivo l’interesse per la vicenda, altrimenti il Source non manderà mai un giornalista in Italia. E un giornalista inglese in Italia ci serve per tenere sotto pressione la Met, in modo che faccia rimanere Lynley laggiù finché la faccenda non sarà risolta. Di più: un giornalista inglese in Italia farà sì che i giornali italiani tengano a loro volta sotto pressione la polizia italiana. È così che funziona. Per ottenere risultati, bisogna che siano sotto pressione. Lo sai anche tu.»
«Io so soltanto che nessuno prenderà le tue parti, Barb» replicò Winston Nkata. Era più calmo e aveva di nuovo la pronuncia musicale di sua madre. «Se si viene a sapere, non ti difenderà nessuno. Sappi che ti ritroverai da sola.»
«Ti ringrazio molto, Winston. Fa sempre piacere sapere su chi si può contare.»
«Nessuno che abbia il potere di intervenire» precisò Winston.
Si riferiva a Lynley, ovviamente, perché Lynley era l’unico che avrebbe rischiato di esporsi per difendere la decisione di Barbara di coinvolgere il Source. E l’avrebbe fatto non tanto perché le voleva bene, ma perché non aveva bisogno di lavorare per mantenersi e quindi poteva anche far arrabbiare i suoi superiori.
«L’hai capito, adesso…» continuò, leggendo in faccia a Barbara che stava cominciando a comprendere la gravità della situazione. «Hai affrontato la cosa per il verso sbagliato, Barb. Questo Corsico è uno che butterebbe sua madre sotto un autobus, pur di fare uno scoop. Senza remore.»
«Non importa» ribatté Barbara. «Corsico lo gestisco io.» Cercò di aggirare Winston per raggiungere la porta, ma lui non ebbe difficoltà a sbarrarle il passo, essendo molto più alto e grosso di lei.
«Non è possibile ‘gestire’ un tabloid, Barb. Se ancora non lo sai, lo imparerai presto.»
Ilford
Londra
Le mosse a disposizione di Barbara in quella specie di partita a scacchi che era la «gestione» di Mitchell Corsico non erano molte, ma nel caso specifico, ovvero il proposito del giornalista di intervistare Sayyid, l’opzione era una sola: telefonare ad Azhar. La connessione, dalle colline toscane, non era buona e così parlarono poco. Azhar le disse quel che lei già sapeva, ovvero che Lynley era arrivato e che si erano parlati prima che lui partisse per l’ennesimo giro nei paesi a nord di Lucca a distribuire volantini con la foto di Hadiyyah.
«La scuola di Sayyid?» chiese Azhar, stupito. «Perché ti serve sapere che scuola frequenta, Barbara?»
Sia pur a malincuore, fu costretta a spiegargli che il Source aveva intenzione di parlare con il ragazzo per uno di quegli articoli sul «lato umano» della cronaca che tanto piacevano ai suoi lettori.
Azhar le disse subito il nome della scuola. «Per il bene del ragazzo, mi raccomando…» Il tono era ansioso. «Sappiamo cosa scriverà di lui quel tabloid, Barbara.»
Barbara lo sapeva bene, essendo lei stessa una lettrice di quel giornalaccio, che era una specie di droga di cui da anni non poteva fare a meno. Ringraziò Azhar e gli promise di tenerlo informato sugli sviluppi.
La parte più difficile dell’impresa era uscire dall’ufficio. Aspettare sino alla fine del turno era troppo rischioso: conoscendo Corsico, avrebbe sicuramente abbordato il ragazzo prima di quell’ora, offrendogli la possibilità di sfogare finalmente tutto il suo rancore verso il padre. Barbara doveva muoversi in fretta, trovare una scusa decente e andarsene dal Victoria Block. Decise di usare sua madre.
Andò da Stewart, che stava scrivendo sulla lavagna l’elenco delle cose da fare quel giorno. Non guardò neppure quali compiti spettavano a lei, perché conosceva Stewart e sapeva già che, con la più totale indifferenza alle sue competenze e al suo grado di preparazione, l’avrebbe tenuta in ufficio a trascrivere rapporti per farla impazzire.
«Signore» disse, benché le ci volesse un notevole sforzo per rivolgersi a lui in tono rispettoso. «Mi hanno appena chiamato da Greenford.» Cercò di sembrare molto in ansia. Non le riuscì difficile, visto che lo era davvero. Solo sua madre non c’entrava nulla.
Stewart continuò a guardare la lavagna, concentrato a scrivere in maniera leggibile. «Ah, sì?» replicò in un tono da cui traspariva tutta l’antipatia che provava per Barbara Havers. A lei venne voglia di strappargli le orecchie a morsi.
«Mia madre è caduta. È al pronto soccorso, signore. Purtroppo…»
«Dove, di preciso?»
«Nella casa di riposo in cui…»
«Intendevo il pronto soccorso, sergente. In quale ospedale? Dove l’hanno portata?»
Barbara sapeva come funzionava quel gioco: se lei avesse nominato un ospedale, Stewart avrebbe telefonato al relativo pronto soccorso per verificare. Rispose: «Non lo so, signore. Pensavo di telefonare per strada».
«Telefonare a chi?»
«Alla badante di mia madre. Mi ha telefonato subito dopo aver chiamato l’ambulanza. Non sapeva ancora dove l’avrebbero portata.»
Stewart soppesò le sue parole, probabilmente per calcolarne il potenziale di mendacità, poi la guardò e disse: «Me lo faccia sapere. Il dipartimento vorrà sicuramente mandarle un mazzo di fiori».
«Appena lo scopro, glielo dico» promise Barbara. Prese la borsa e si congedò, evitando di guardare Winston Nkata. Anche Winston tenne abbassato lo sguardo. Sapeva benissimo qual era il potenziale di mendacità della scusa di Barbara, ma per fortuna non disse nulla. Era un amico.
Ilford distava parecchio, ma Barbara riuscì ad arrivarci prima della fine delle lezioni. Trovò la scuola e fece un rapido giro per assicurarsi che Mitchell Corsico non fosse nascosto in un cassonetto, pronto a saltar fuori appena la vedeva. In giro però non c’era nessuno, a parte una vecchia decrepita che spingeva un carrello rubato in qualche supermercato lungo il marciapiede, e Barbara entrò nella scuola di corsa. Grazie al tesserino della Metropolitan Police, fu ammessa senza indugi nell’ufficio della preside che, stando alla targhetta esposta sulla scrivania, si chiamava Ida Croak.
Barbara le disse la verità. Stava per arrivare un giornalista intenzionato a intervistare uno degli alunni a proposito del padre, che aveva abbandonato la famiglia per mettersi con un’altra donna. Specificò che l’alunno era Sayyid e aggiunse: «Come può immaginare, questo signore vuole scrivere un articolo diffamatorio. Lo spaccerà per un caso umano, ma il vero scopo è trascinare tutti nel fango. Vorrei impedirglielo, per il bene di Sayyid, di sua madre e di tutta la sua famiglia».
La preside parve giustamente preoccupata ma anche - bisognava ammetterlo - piuttosto confusa dall’arrivo precipitoso di Barbara nel suo ufficio e le fece l’inevitabile unica domanda ragionevole date le circostanze: «Perché la Metropolitan Police si interessa di questa cosa?»
Aveva messo il dito nella piaga. Certo, la Met non vedeva di buon occhio il Source, ma mandare poliziotti a impedire che i giornalisti intervistassero la gente non rientrava certo fra le sue competenze. «È un favore personale che mi sento di fare alla famiglia» spiegò Barbara. «Se lei potesse gentilmente telefonare alla mamma di Sayyid e chiederle se vuole che io accompagni a casa il ragazzo, senza che incontri il giornalista…»
«Il giornalista è già qui?» esclamò la preside, come se davanti alla scuola ci fosse la morte con la falce sguainata.
«No, ma arriverà. Non l’ho visto, entrando, ma immagino che si presenterà entro breve. Sa che io voglio impedirgli di intervistare il ragazzo.»
La preside Croak non era una sprovveduta. «Devo fare un paio di telefonate» disse, e invitò Barbara ad accomodarsi fuori.
Barbara sapeva che nel paio di telefonate poteva essere compresa una chiamata alla Met per verificare che il suo tesserino fosse valido e che lei non fosse un’impostora intenzionata a rapire Sayyid per chissà quali motivi. Pregò in cuor suo che non fosse così: se il centralino avesse passato alla preside John Stewart o, peggio ancora, il sovrintendente Ardery… Aspettò, con i nervi a fior di pelle, e dopo un po’ la signora Croak si affacciò sulla porta e le fece cenno di rientrare.
«Sta per arrivare la madre» le annunciò. «Non guida, quindi verrà con il nonno di Sayyid. Lo accompagneranno subito a casa.»
Su Barbara si addensò una nuvoletta con la scritta «Oh, no!» come quelle dei personaggi dei fumetti. La sua intenzione originaria era mettere in guardia Sayyid contro i giornalisti in cerca di scoop, ma adesso il pericolo era un altro: alla luce del precedente incontro avuto con lui, era pronta a scommettere che il padre di Azhar si sarebbe lasciato intervistare molto volentieri, ben felice di trascinare il figlio degenere nel fango da Londra a Lahore e ritorno. Doveva assolutamente cercare di farlo ragionare, impresa assai temeraria, vista la rissosità di cui si era dimostrato capace.
«Le dispiace se li aspetto?» disse. «Vorrei scambiare due parole con loro.»
Certo, rispose la preside. Che aspettasse pure, ma non lì nel suo ufficio, se non le dispiaceva. Sa com’è, sergente. La preside aveva altri impegni, e poi intendeva parlare a quattr’occhi con la madre di Sayyid, appena fosse arrivava.
Barbara disse che non le dispiaceva affatto. Voleva intercettare Nafeeza e spiegarle a chiare lettere che intenzioni aveva Mitchell Corsico, nel caso la preside non fosse stata abbastanza esplicita. Nafeeza doveva capire che, per quanto uno potesse avere voglia di rendere pubbliche le proprie rimostranze, il
Source non era lo strumento adatto. «Mai fidarsi dei giornalisti» intendeva dirle.
Si mise ad aspettare davanti alla scuola, in modo da intercettare al volo Nafeeza e il padre di Azhar. E anche Mitch Corsico.
Per fortuna arrivò per prima Nafeeza, tutta affannata, insieme al suocero. Entrambi videro Barbara nello stesso momento e Nafeeza disse, con grande dignità: «Grazie, sergente. Ci ha fatto un grande favore». Il padre di Azhar la salutò con un cenno.
«Non lasciate avvicinare nessuno a Sayyid» raccomandò Barbara mentre andavano verso il portone. «Le sue parole verrebbero travisate. Cercate di spiegarglielo.»
«Sì, certo. Abbiamo capito.»
Entrarono. Subito dopo arrivò Corsico.
Barbara lo vide appostarsi furtivo dall’altra parte della strada, vicino a un’edicola. La notò subito, la salutò toccandosi il ridicolo stetson e incrociò le braccia sul petto, sotto la macchina fotografica digitale che teneva appesa al collo, con l’espressione di chi ha subito uno scacco al re. Barbara però sapeva che non doveva cantar vittoria.
Distolse lo sguardo. Voleva soltanto che Sayyid, sua madre e suo nonno arrivassero alla macchina. E intendeva spiegare al ragazzo quali rischi avrebbe corso se avesse parlato male del padre con i giornalisti. Bisognava fargli capire che non si trattava di un’opportunità, ma di un pericolo. Gli avvertimenti della madre e del nonno potevano essere troppo blandi.
Passarono dieci minuti prima che il portone della scuola si riaprisse. Barbara, che era sul marciapiede, vicino a una pianta di agrifoglio dall’aria sconsolata, si mosse per andare incontro ai tre. Con la coda dell’occhio vide che Corsico si accingeva ad attraversare la strada.
Disse: «Nafeeza, il giornalista è quello là, quello vestito da cowboy. Ha la macchina fotografica. Sayyid, mi raccomando, non dargli retta. Vuole…»
«Ma è lei!» esclamò il ragazzo sprezzante. Poi si rivolse alla madre: «Non mi avevi detto che era ‘sta troia… Non mi avevi detto che era ‘sta troia a…»
«Sayyid!» urlò la madre. «Lei non è la donna di tuo padre!»
«Sei stupida! Siete stupidi tutti e due!»
A quel punto il nonno lo prese per un braccio e gli disse qualcosa in urdu, cominciando a spingerlo verso una vecchia Golf malandata.
«Io parlo con chi mi pare!» si ribellò Sayyid. «Stammi lontano, brutta troia!» disse a Barbara. «Lasciaci in pace! Torna a letto con mio padre!»
Nafeeza gli diede un ceffone talmente forte che gli girò la testa dall’altra parte. Ma il ragazzo non mollò. «Parlo con chi mi pare! Dico solo la verità! Tutti devono sapere la verità su di lei e su di lui, e su quello che fanno quando sono da soli, perché io lo so com’è lui, e anche lei…»
Il nonno gli diede un ceffone e cominciò a sbraitare in urdu. Anche Nafeeza si mise a gridare e afferrò il suocero per le braccia, ma lui se la scrollò di dosso e diede un altro schiaffo al nipote. Il sangue, dal naso, gli schizzò sulla camicia bianca.
«Basta! Calmatevi!» esclamò Barbara, precipitandosi a cercare di liberare il ragazzo dalle grinfie del nonno.
E intanto pensava: Che casino! Quel che pensava Corsico, invece, Barbara lo avrebbe letto molto presto sulla prima pagina del Source.
Lucca
Dopo aver salutato Taymullah Azhar alla Pensione Giardino, Lynley andò in questura. Si trovava fuori le mura, vicino a porta San Pietro, ed era comodamente raggiungibile a piedi da qualsiasi punto del centro storico. Era un palazzo color pesca, imponente ma sobrio, non lontano dalla stazione ferroviaria, con un notevole andirivieni di agenti di polizia e funzionari. Lynley suscitò qualche occhiata incuriosita, ma non ebbe difficoltà a farsi accompagnare nell’ufficio dell’ispettore capo Salvatore Lo Bianco.
Venne così a sapere che questi era stato informato del suo arrivo e del suo ruolo nelle indagini. Era chiaro che la sua presenza non gli garbava. Lo accolse con un sorriso stentato da cui si capiva benissimo che pativa l’ingerenza di un rappresentante di Scotland Yard nel suo territorio, ma era troppo educato per manifestare apertamente la propria contrarietà.
Era piuttosto basso di statura: Lynley lo superava di almeno un palmo. Aveva capelli brizzolati molto radi ed era di carnagione scura, con le guance butterate dalle cicatrici dell’acne giovanile, ma pareva in ottima forma fisica, elegante e con le mani curatissime.
«Piacere di conoscerla» esordì. Lynley intuì che in realtà conoscerlo non gli faceva affatto piacere, e pensò che non poteva biasimarlo. «Parla italiano, vero?»
Lynley rispose di sì, precisando però che sarebbero riusciti a intendersi soltanto se il suo interlocutore non avesse parlato alla velocità di un telecronista di una corsa di cavalli. Lo Bianco sorrise della battuta e lo invitò con un cenno a sedersi.
Gli propose di prendere un caffè - Macchiato? Americano? - e quando Lynley declinò gli offrì un tè. In fondo era risaputo che gli inglesi bevono tè dalla mattina alla sera, no? Lynley sorrise e disse che stava bene così. Gli spiegò che aveva incontrato Taymullah Azhar alla pensione dove entrambi alloggiavano, ma non aveva ancora avuto occasione di parlare con la madre della bambina scomparsa. Sperava che l’ispettore capo potesse procurargli un abboccamento.
Lo Bianco annuì, osservandolo attentamente. A Lynley non era sfuggito che, dopo averlo fatto accomodare, Lo Bianco era rimasto in piedi. La cosa non lo turbava: giocava fuori casa, e lo sapevano entrambi.
«Questo suo incarico» disse Lo Bianco, in piedi davanti a uno schedario. «Fare da mediatore con la famiglia… A noi e - non glielo nascondo - soprattutto al procuratore, ha dato l’impressione che la polizia inglese pensi che qui in Italia non lavoriamo bene. Come polizia, intendo.»
Lynley si affrettò a rassicurarlo sul fatto che la sua presenza era dovuta più che altro a motivi politico-diplomatici. I tabloid inglesi avevano cominciato a parlare della scomparsa della bambina e uno in particolare - una testata piuttosto scorretta, sottolineò, sperando che Lo Bianco capisse la situazione - stava accusando la Met di prendere sottogamba il caso. Ai giornali di quel tipo, più che le norme che regolavano i rapporti tra forze di polizia di Stati diversi in simili circostanze, interessava intorbidare le acque e fare scalpore. Lynley era stato mandato in Italia per fugare ogni dubbio sull’impegno delle autorità britanniche e non aveva nessuna intenzione di intralciare Lo Bianco nel suo lavoro. Se poteva essere d’aiuto, naturalmente, sarebbe stato ben lieto di collaborare alle indagini, ma l’ispettore capo poteva stare tranquillo: la sua presenza a Lucca era dovuta unicamente al desiderio di assistere la famiglia della bambina.
«Combinazione, conosco personalmente il padre» disse infine. Ma non aggiunse che per una sua collega Taymullah Azhar era molto più di una semplice conoscenza.
Lo Bianco lo ascoltò, continuando a osservarlo con attenzione e annuendo, apparentemente rasserenato. Disse con l’aria di chi la sa lunga «Ah, i vostri tabloid!» come se in Italia il problema dei giornali scandalistici non esistesse, ma poi subito aggiunse: «Purtroppo anche qui…» Andò alla scrivania e tirò fuori da una valigetta un giornale che si chiamava Prima Voce. Lynley vide che il titolo in prima pagina recitava: Dov’è finita la bambina? C’era anche una foto di un uomo in ginocchio in una delle strade di Lucca, con la testa china e un cartello che diceva HO FAME. Per un attimo, Lynley pensò che si trattasse di una strana usanza italiana, una forma di punizione simile alla gogna. Il mendicante, invece, era l’unico sospetto individuato per il momento dalla polizia. Si chiamava Carlo Casparia, era tossicodipendente e aveva visto Hadiyyah la mattina della scomparsa. Era stato portato in questura e interrogato due volte, la seconda su esplicita richiesta del procuratore della Repubblica. Costui, di nome Piero Fanucci, era convinto che Carlo fosse coinvolto nel sequestro di Hadiyyah.
«Perché?»
«Inizialmente, per il semplice fatto che è tossicodipendente e quindi ha bisogno di soldi per procurarsi la droga. Adesso però, da quando la bambina è scomparsa, nessuno l’ha più visto chiedere l’elemosina al mercato.» Lo Bianco alzò lo sguardo con stoica rassegnazione dipinta sul volto. «E questo, secondo il procuratore, vuol dire che è colpevole.»
«Anche secondo lei?»
Lo Bianco sorrise, apparentemente soddisfatto che il collega detective avesse intuito la sua posizione. «Secondo me, Casparia non ha voglia di essere interrogato di nuovo e non bazzica più il mercato per non farsi trovare dalla polizia. Ma per Fanucci e per l’opinione pubblica è importante che le indagini progrediscano. E interrogare Casparia può sembrare un progresso. Lo vedrà con i suoi occhi.»
Il significato di quest’ultima affermazione si chiarì quando Lo Bianco propose a Lynley di incontrare il procuratore. Fanucci stava in piazza Napoleone, «noi però la chiamiamo piazza Grande» precisò. Non era lontano, ma sarebbero andati in macchina. «È uno dei pochi privilegi della polizia» spiegò. Il centro storico era chiuso al traffico e solo pochi erano autorizzati ad accedervi in auto. La maggior parte della gente si spostava a piedi, in bicicletta o con piccoli, silenziosissimi autobus.
Arrivati in piazza Grande, entrarono in un enorme palazzo che, come la maggior parte degli edifici storici in Italia, era stato ristrutturato e adibito a un uso molto diverso da quello originario. Salirono uno scalone e furono immediatamente accolti nell’ufficio di Piero Fanucci da una segretaria che disse: «Di nuovo qui, Salvatore?» Lynley dedusse che non era la prima volta che Lo Bianco faceva visita al procuratore quel giorno.
Piero Fanucci era il responsabile delle indagini sulla scomparsa di Hadiyyah e, secondo la prassi italiana, era anche colui che avrebbe sostenuto la pubblica accusa in un eventuale processo. Quando Lo Bianco e Lynley entrarono, non alzò neppure la testa dalle carte che stava leggendo. Lynley colse al volo il significato di quell’atteggiamento. Vedendo che Lo Bianco gli lanciava un’occhiata, sollevò quasi impercettibilmente una spalla come a dire che non si aspettava di essere accolto a braccia aperte.
«È qui con me l’inviato di Scotland Yard, Thomas Lynley» disse Lo Bianco.
Fanucci emise uno sbuffo mezzo di naso e mezzo di gola, spostò alcuni fogli, appose due firme, premette un pulsante sul telefono e chiamò sgarbatamente la segretaria. Un attimo dopo la donna entrò, prese la pila di cartelline che lui le porse e gliene consegnò delle altre. Fanucci cominciò subito a leggerle.
Lo Bianco si stizzì e disse: «Ora basta, Piero. Ho da fare, sai?»
Piero Fanucci alzò finalmente la testa. Era chiaro che il fatto che l’ispettore capo avesse degli impegni non era al centro dei suoi pensieri. «Anch’io, Ciccio» replicò. Lynley vide che Lo Bianco stringeva i denti, irritato di essere stato chiamato con quel ridicolo soprannome davanti a estranei, o forse seccato per la mancanza di collaborazione del procuratore. Poi Fanucci alzò lo sguardo su Lynley, che lo trovò di una bruttezza incommensurabile, e gli si rivolse in italiano, senza fare il minimo sforzo per essere capito. Aveva un forte accento meridionale e Lynley capì il succo del discorso più che altro dal tono. Esprimeva una profonda indignazione, vera o strumentale.
«Così la polizia inglese pensa che ci voglia qualcuno a fare da mediatore con i familiari della bambina. È assurdo. La famiglia è costantemente informata e abbiamo un indiziato. Ancora un paio di interrogatori e ci dirà dove si trova la bambina.»
Lynley spiegò, come aveva fatto con Lo Bianco: «Si tratta più che altro di una questione di immagine, per le pressioni che i media inglesi esercitano sulla polizia. In Inghilterra i rapporti tra polizia e giornalisti sono tesi, dottor Fanucci. In passato sono stati commessi errori giudiziari: ci sono state condanne molto discusse, sentenze annullate perché basate su indagini condotte malamente, funzionari di polizia che vendevano informazioni alla stampa… Spesso, quando i tabloid aprono il fuoco, le alte sfere prendono provvedimenti. Ed è successo anche questa volta, temo».
Fanucci giunse le mani e appoggiò il mento sulla punta delle dita. Lynley notò il dito in più. Sarebbe stato difficile ignorarlo, vista la posizione in cui il procuratore - di sicuro deliberatamente - aveva messo le mani. «Da noi non succede» dichiarò. «Da noi non sono i giornalisti a determinare le nostre mosse.»
«Siete fortunati» replicò Lynley serissimo. «Magari fosse così anche nel mio Paese!»
Fanucci lo scrutò dalla testa ai piedi, esaminando ogni particolare, dal taglio dei vestiti a quello dei capelli, alla piccola cicatrice sul labbro superiore. «Spero non vorrà interferire nel nostro operato» gli disse. «In Italia lavoriamo in modo diverso. Il pubblico ministero partecipa alle indagini fin dall’inizio. Non aspetta che la polizia gli porti i risultati dell’inchiesta su un piatto d’argento.»
Lynley non fece commenti e si limitò ad assicurare a Fanucci che sapeva qual era la prassi in Italia e, se necessario, l’avrebbe spiegato ai familiari della bambina scomparsa i quali, inevitabilmente, erano abituati a un sistema giudiziario diverso.
«Bene.» Fanucci agitò la mano destra come per congedarli, con un gesto che metteva in ulteriore evidenza il sesto dito. Ma prima di lasciarli andare chiese a Lo Bianco: «Ci sono novità sulla faccenda degli alberghi, Ciccio?»
«Per ora nessuna» rispose l’ispettore capo.
«Vedi di scoprire qualcosa entro stasera» ordinò Fanucci.
«Certamente» rispose Lo Bianco pacato, ma di nuovo a denti stretti. Non fece altri commenti finché non furono fuori del palazzo, nella piazza enorme con grandi alberi su due lati e un gruppo di bambini urlanti che correvano verso una giostra dando calci a un pallone.
Lynley disse: «Uomo interessante, il pubblico ministero».
Lo Bianco sbuffò. «È fatto così.»
«Posso chiederle che cosa voleva sapere sugli alberghi?»
Lo Bianco gli lanciò un’occhiata di traverso, ma poi gli spiegò che uno sconosciuto aveva chiesto informazioni sulla bambina e sulla madre in alcuni alberghi della zona.
«Prima o dopo la scomparsa della bambina?»
«Prima.» Lo Bianco gli disse che era successo un mese e mezzo, due mesi addietro. Dopo la sparizione di Hadiyyah, quando la sua foto era stata pubblicata sui giornali e affissa sui muri di Lucca, due alberghi avevano telefonato per riferire di un uomo che era andato a cercare lei e la madre. Dicevano che aveva le loro foto e lo avevano descritto in maniera piuttosto simile. Lo ricordavano bene e avevano dato a Lo Bianco particolari sufficienti a identificarlo.
«A due mesi di distanza?» chiese Lynley. «E come facevano a ricordarselo?»
«Perché è uno che non si dimentica facilmente.»
«Lei lo conosce? Gli albergatori sapevano chi era?»
«Non lo conoscevano di nome, non sapevano come si chiamava, ma è un tipo inconfondibile. Si chiama Michelangelo Di Massimo e viene da Pisa.»
«E perché è venuto da Pisa a cercare Hadiyyah e sua madre?» chiese Lynley, più a se stesso che a Lo Bianco.
«La domanda più interessante è questa, vero?» replicò Lo Bianco. «Sto cercando una risposta. E quando l’avrò trovata, sarà bene andare a fare quattro chiacchiere con lui. Per il momento, so dov’è.» Lo Bianco lanciò un’occhiata al collega londinese e una al palazzo alle loro spalle, poi fece un mezzo sorriso.
Lynley trovò rivelatori quel sorriso e le due occhiate che l’avevano preceduto e gli chiese: «Al dottor Fanucci non lo ha detto, vero? Perché?»
«Perché il procuratore l’avrebbe fatto portare qui in questura e l’avrebbe interrogato per sei o sette ore, per un giorno, due, o anche tre o quattro. L’avrebbe minacciato, l’avrebbe tenuto senza mangiare, senza bere e senza dormire e poi gli avrebbe chiesto ‘per piacere’ di ‘immaginare’ come avrebbe proceduto se avesse voluto rapire la bambina. E alla fine lo avrebbe incriminato in base alle sue risposte su questo sequestro ‘immaginario’.»
«Incriminato per quale reato?» chiese Lynley.
«E chi lo sa?» rispose Lo Bianco. «Avrebbe trovato un pretesto qualsiasi, pur di dire qualcosa ai giornalisti e far vedere che le indagini vanno avanti. Nonostante quello che ha detto a lei, spesso fa così.» Mentre andava verso la macchina, si voltò a chiedere: «Le interessa vedere questo Michelangelo Di Massimo, detective Lynley?»
«Certo.»
Pisa
Lynley non immaginava che per vedere Michelangelo Di Massimo bisognasse andare fino a Pisa e, quando notò che Lo Bianco imboccava l’autostrada, si chiese che motivo avesse per fare tanti chilometri.
Lo Bianco lo portò in un campo di calcio nella periferia nord di Pisa, dove era in corso un allenamento e almeno una trentina di ragazzi cercava di mandare in porta il pallone.
Lo Bianco fermò la macchina della polizia sul ciglio della strada e scese, imitato da Lynley, ma invece di andare verso il campo, si appoggiò all’auto e tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. Ne offrì una a Lynley, che rifiutò. Poi ne prese una per sé e, con lo sguardo fisso sui giocatori in campo, la accese. Rimase a osservare l’allenamento senza dire una parola. Era chiaro che si aspettava una reazione da Lynley, qualcosa che dimostrasse che l’investigatore d’oltremanica aveva superato un esame che non c’entrava niente con le regole del calcio.
Lynley guardò attentamente il campo e i giocatori, individuando subito un personaggio che sembrava avere un ruolo piuttosto importante nel gruppo.
Era un uomo che difficilmente poteva passare inosservato, perché aveva i capelli ossigenati, di una sfumatura tra il giallo e l’arancione in netto contrasto con la carnagione scura e la peluria nera che spuntava su tutto il corpo: petto, schiena, braccia e gambe. Si radeva il viso, ma sicuramente all’ora di pranzo gli si vedeva già l’ombra della barba. Tutto questo rendeva a dir poco improbabile il colore dei capelli, ma spiegava perché nei vari hotel e pensioni si fossero ricordati che era andato a chiedere notizie di Hadiyyah e della madre.
Lynley disse: «Ah, ho capito. È Michelangelo Di Massimo, vero?»
«È lui» confermò Lo Bianco. Detto questo, gli fece cenno di salire in macchina e ripartirono per Lucca.
Lynley si chiese di nuovo perché Lo Bianco si fosse preso la briga di portarlo fino a Pisa, quando sarebbe sicuramente bastata una breve ricerca su uno dei computer della questura per trovare una foto. Il fatto che Lo Bianco avesse scelto di non ricorrere a Internet suggeriva che volesse fargli vedere Di Massimo in carne e ossa e per un motivo che non poteva essere soltanto lo straordinario contrasto tra il colore dei capelli e quello dei peli.
Cominciò a capire quando, invece di tornare direttamente in questura, Lo Bianco imboccò il viale di circonvallazione fuori le mura e quindi una strada che si allontanava dal centro e che li portò al parco fluviale. Si trattava di un’area verde molto lunga ma piuttosto stretta, sulla riva del Serchio, dove la gente andava a passeggiare, a correre o in bicicletta. A circa cinquecento metri dall’ingresso c’era uno spiazzo sterrato dove potevano parcheggiare non più di tre macchine, con due tavoli da picnic all’ombra di grandi lecci. Poco più avanti c’erano una piccolissima pista per skateboard e un prato circondato da pioppi, di forma grossomodo triangolare. In questo Campetto alcuni bambini sui dieci anni avevano allestito alla meno peggio due porte e giocavano a pallone.
Lo Bianco fermò la macchina sullo sterrato e guardò il campo da calcio improvvisato. Oltre ai bambini, c’era un uomo in tuta, con un fischietto appeso al collo. Dopo alcuni istanti soffiò nel fischietto fermando il gioco. Poi, assegnato un fallo, fischiò la ripresa.
Invece di rimanere a guardare, questa volta Lo Bianco suonò il clacson due volte, prima di scendere dall’auto. L’uomo con il fischietto guardò verso di loro, poi disse qualcosa ai ragazzi e corse verso Lo Bianco.
Anche lui sarebbe passato difficilmente inosservato, pensò Lynley. Non per via dei capelli, ma di un angioma color vino sulla faccia. Non era enorme - andava dall’orecchio fino alla guancia, grande all’inarca come il pugno di un bambino - ma era piuttosto vistoso e rovinava un volto che altrimenti sarebbe stato di una bellezza straordinaria.
«Salve» disse, rivolto a Lo Bianco. «Cos’è successo?» chiese poi, ansioso. Ma era naturale che fosse in ansia, perché se la polizia si presentava all’improvviso durante un allenamento qualcosa doveva pur essere accaduto.
Lo Bianco, però, scosse la testa. Poi fece le presentazioni. Lynley scoprì così che l’uomo era Lorenzo Mura, il nuovo compagno di Angelina Upman.
Lo Bianco si premurò di informare Mura che Lynley parlava piuttosto bene l’italiano, il che poteva anche essere un modo indiretto per dirgli di misurare le parole. Quando gli spiegò che cosa era venuto a fare, risultò evidente che avevano già parlato di lui, perché Lo Bianco specificò: «L’ufficiale di collegamento che aspettavamo». E poi: «Vorrà parlare con la signora Upman il prima possibile».
Mura non parve entusiasta né della prospettiva che Lynley incontrasse Angelina né del fatto che fosse lì in qualità di ufficiale di collegamento tra i genitori della bambina - e quindi anche Taymullah Azhar - e la polizia. Annuì brevemente e rimase in attesa, ma siccome nessuno aggiunse altro, si rivolse a Lynley in inglese: «She has not been well». Dopo aver precisato che Angelina era stata poco bene e continuava a non stare bene, gli chiese di trattarla con un occhio di riguardo perché: «This man causes her grief and upset».
Lynley lì per lì pensò che l’uomo che faceva soffrire Angelina fosse Lo Bianco, magari perché con le sue indagini provocava nuove ansie a una donna già provata dal rapimento della figlia, e gli lanciò un’occhiata. Poi però capì che il discorso si riferiva non all’ispettore ma a Taymullah Azhar, perché Mura continuò dicendo: «It was not my wish he come to Italy. He is of the past». Avrebbe preferito che l’ex di Angelina non venisse in Italia.
Lynley gli fece notare che Azhar doveva essere preoccupatissimo per la figlia.
«Mah» borbottò Lorenzo Mura, senza specificare se i suoi dubbi riguardavano l’ambascia di Azhar per la figlia o il fatto che fosse veramente figlia sua.
Poi Mura si voltò a guardare i ragazzini che lo aspettavano nel campo e disse: «Ora devo andare».
«Vada» rispose Lo Bianco e rimase a guardare Mura che tornava di corsa dai suoi allievi.
Gridò loro di lanciargli un pallone e lo portò verso la porta dribblando abilmente i difensori. Nessuno riuscì a fermarlo né il portiere seppe parare il tiro in rete. Era chiaro che in fatto di calcio Mura sapeva quello che faceva.
A quel punto Lynley aveva chiaro il motivo per cui Lo Bianco lo aveva portato fino a Pisa a vedere Michelangelo Di Massimo e disse all’ispettore: «Ora capisco».
«È interessante, non le pare?» replicò Lo Bianco. «Il nostro Lorenzo gioca in una squadra di Lucca e allena i ragazzini. La cosa mi affascina.» Infilò una mano sotto la giacca e tirò di nuovo fuori le sigarette. «C’è una connection, ispettore» disse mentre offriva educatamente da fumare a Lynley. «E io la voglio scoprire, oh yes.»
Fattoria di Santa Zita
Campagna di Lucca
Lo Bianco non si aspettava di andare d’accordo con il collega londinese. Sapeva che la polizia britannica nutriva ben poca stima nei confronti di quella italiana, e non ingiustificatamente. Prima di tutto, non riusciva a tenere sotto controllo la camorra e la mafia; poi c’era stato l’increscioso caso del Mostro di Firenze, che aveva imperversato per oltre vent’anni uccidendo giovani coppie. Ma il fondo era stato toccato con il pasticciaccio relativo all’omicidio di una studentessa inglese a Perugia. E quindi l’ispettore capo Lo Bianco, appena aveva saputo che stava per arrivare un ispettore di Scotland Yard, molto probabilmente incaricato di monitorare le indagini, aveva immaginato di trovarsi sotto esame, costantemente osservato e giudicato. Invece, o Thomas Lynley non lo giudicava - cosa altamente improbabile - o era molto bravo a nascondere quel che pensava di lui. E Lo Bianco doveva ammettere, sia pur a malincuore, che questo gli piaceva. Gli piaceva anche che l’inglese facesse domande intelligenti, sapesse ascoltare con grande attenzione e fosse molto rapido nel collegare fatti e informazioni. Queste tre caratteristiche bastavano quasi a fargli perdonare il fatto di essere molto più alto di lui e di avere un look casual da cui si intuivano grande disponibilità di denaro e notevole autostima.
Dopo la breve sosta al campo di calcio lungo il Serchio, Lo Bianco si allontanò ulteriormente dalla città dirigendosi verso le alture a nord del parco fluviale. Non ci volle molto a raggiungere l’antica casa di campagna della famiglia Mura. In quel periodo dell’anno le colline toscane erano verdissime, gli alberi avevano appena messo le foglie e nei prati c’erano molti fiori selvatici.
La strada saliva, tortuosa, ora in ombra ora al sole. Percorsi una decina di chilometri, arrivarono allo sterrato che portava alla fattoria di Santa Zita, indicata da un cartello su cui, oltre al nome, figuravano i simboli dei suoi prodotti: grappoli d’uva, rametti di ulivo, un bue e un asinelio, che facevano pensare più a un presepe che a un allevamento di animali.
Lo Bianco si voltò un attimo a guardare Lynley mentre dirigeva l’auto verso i vari edifici della fattoria, di cui si intravedevano fra gli alberi i tetti di tegole rosse. Notò che l’inglese studiava attentamente il paesaggio.
«I Mura sono un’antica famiglia lucchese. Commerciavano la seta, erano ricchissimi e questa tenuta in collina era la loro casa di villeggiatura. È di proprietà della famiglia da… almeno trecento anni, credo. Al fratello maggiore di Lorenzo non interessava. Fa lo psichiatra e vive a Milano e per lui era un peso e basta. C’è anche una sorella che vive a Lucca, in centro, e neppure a lei interessava. Così è toccato a Lorenzo decidere se tenerla, venderla, o sfruttarla in qualche modo…» Lo Bianco indicò i terreni e le cascine cui si stavano avvicinando. «Vedrà. Immagino che anche nel suo Paese ci siano posti come questo…»
Passarono accanto a un granaio che Lorenzo aveva trasformato in cantina con annessa sala di degustazione. Era lì che imbottigliava l’ottimo sangiovese per cui la fattoria era rinomata. Più avanti c’era una casa colonica dove erano in corso lavori di ristrutturazione per trasformare l’edificio in un agriturismo. Proseguendo, trovarono una siepe enorme e incolta in cui si apriva un vecchio cancello arrugginito. Lo superarono e la strada cominciò a salire verso la villa. Anch’essa era in fase di ristrutturazione: aveva impalcature su tutti i lati.
Lo Bianco lasciò a Lynley il tempo di ammirare l’edificio principale, fermandosi con il motore acceso sul vialetto di ghiaia. La villa era imponente e bellissima, soprattutto se uno non si soffermava a guardare troppo attentamente i punti in cui mostrava i segni del tempo. Sul davanti c’erano due rampe di scale perfettamente simmetriche che portavano a una loggia in cui erano disposte a casaccio varie sedie e poltrone da esterni, quasi venissero spostate spesso a seconda di dove batteva il sole. Proprio al centro della loggia c’era il portone, decorato con scene sbiadite di caccia al cinghiale e fiancheggiato da antiche statue che simboleggiavano le stagioni. L’Inverno, purtroppo, non aveva più la testa e restava solo metà del cesto di fiori della Primavera. La villa era di tre piani, oltre alla grande cantina, e aveva tutte le persiane chiuse.
Dopo averla osservata per un po’, l’ispettore Lynley fece un cenno affermativo, guardò Salvatore Lo Bianco e disse: «È vero, anche in Inghilterra abbiamo posti come questo: vecchie case signorili di proprietà di antiche famiglie, che sono un privilegio e nello stesso tempo un peso. Capisco che il signor Mura abbia voluto tenerla».
Lo Bianco non fece commenti. Sapeva che in Inghilterra c’erano molte dimore sfarzose, ma dubitava che Lynley capisse davvero l’amore degli italiani per le case dei loro avi.
Ripartì e, seguendo il viale di ghiaia che girava intorno al prato, andò a fermarsi davanti alle scale. Tra le due rampe cresceva un glicine così rigoglioso da nascondere quasi completamente un altro portone, più piccolo, che dava accesso al piano terra. Appena furono scesi dall’auto, il portoncino si aprì e Angelina Upman uscì dall’ala della villa che Lo Bianco sapeva ospitare la cucina e le stanze usate abitualmente dalla famiglia. Angelina sembrava molto più stanca e sofferente di quando l’aveva vista al caffè. Lorenzo non aveva esagerato. Era magrissima, aveva gli occhi pesti e lo sguardo spento.
Nel vedere il poliziotto inglese si commosse e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Thank you, thank you for coming, Inspector Lynley» disse. Poi spiegò a Lo Bianco, in italiano, che con l’ispettore di Scotland Yard avrebbe parlato inglese perché le costava meno fatica. «Lei capisce, vero?» chiese.
«Certo» rispose Lo Bianco. Il suo inglese, come Angelina già sapeva, era tutt’altro che perfetto ma, se avessero parlato lentamente, sarebbe riuscito a seguire il discorso.
«Grazie» gli disse lei, poi li invitò a entrare in casa: «Please, come inside».
Dentro c’era poca luce e l’atmosfera era cupa. Lo Bianco trovò strano che Angelina avesse deciso di riceverli lì: la loggia o il soggiorno del primo piano sarebbero stati assai più gradevoli. Evidentemente Angelina preferiva la penombra, dove naturalmente sarebbe stato molto più difficile decifrare la sua espressione.
Un altro particolare interessante, concluse Lo Bianco. Decisamente nella storia dell’inglesina rapita i particolari interessanti abbondavano.
Angelina li fece accomodare nella grande cucina della villa, che era un misto di epoche diverse. Era dotata di moderni elettrodomestici, ma anche di vestigia del passato quali un’enorme stufa a legna, un grande camino e un lavandino di marmo dove si sarebbe potuto comodamente fare il bagno a due pastori tedeschi. Al centro della stanza c’era un vecchio tavolo su cui erano posati una pila di giornali e riviste, piatti e stoviglie varie e alcuni strofinacci sbiaditi. Lynley e Lo Bianco si sedettero e Angelina portò in tavola una bottiglia del vino prodotto nella fattoria e un vassoio di formaggi, frutta, affettati e pane appena sfornato. Versò ai due uomini un bicchiere di vino e per sé uno di acqua.
Quando si sedette, prese uno degli strofinacci e, stringendolo come se fosse un talismano, ripeté quel che aveva già detto a Lynley sulla porta: «Thank you so much for coming, Inspector».
«Sono qui più che altro per merito di Barbara» disse Lynley. «Francamente, forse questa volta ha esagerato un po’, ma è molto affezionata a Hadiyyah.»
Angelina strinse le labbra. «Ho fatto una cosa terribile, lo so. Ma non riesco a credere che la… la scomparsa di Hadiyyah sia la punizione che mi merito. Perché se fosse così…»
Lo Bianco emise un suono gutturale che sembrava essere una conferma del fatto che aveva capito il concetto, ovvero che c’è sempre un rapporto tra i castighi che uno riceve su questa terra e le sofferenze che ha inflitto al prossimo.
Lynley, che lo trovava un approccio totalmente inutile alla situazione, le disse: «Cerchi di non pensarci in questi termini. È normale - la capisco, mi creda - ma non serve a niente». Sorrise e aggiunse: «Per dirla con re Lear, ‘È così che si diventa pazzi’. E diventare pazzi, o perdere la lucidità, se preferisce, in questo momento non serve a nessuno».
«È già passata una settimana» replicò Angelina. «Che cosa significa, secondo lei, che in questa settimana non abbiamo avuto la minima notizia, il minimo segnale? Non è stato chiesto nessun riscatto, eppure la famiglia di Lorenzo pagherebbe. Non ho dubbi: sarebbero pronti a sborsare qualsiasi cifra. So anche che in Italia i sequestri di persona sono frequenti. Succede in tutto il mondo, a dir la verità. Non è così? Ho provato a informarmi, a capire quanti bambini vengono sequestrati ogni anno in Italia. Vede…» Frugò nella pila di giornali e riviste e tirò fuori un foglio che aveva stampato da Internet. «Ho cercato dappertutto per capire quanto tempo passa di solito prima che… prima che dicano ai genitori…» La voce le si ruppe in gola. Angelina cominciò a piangere silenziosamente.
Lynley guardò Lo Bianco. Per esperienza sapevano entrambi che chi si trovava nella posizione di Angelina era pronto ad appigliarsi a qualsiasi cosa, ma che ormai i sequestri a scopo di estorsione, soprattutto quando si trattava di bambini, erano molto meno frequenti di quelli in cui il minore veniva venduto, avviato alla prostituzione, torturato e ucciso per sadico divertimento da maniaci perversi. Lo Bianco accarezzò la base del bicchiere con un gesto ozioso, ma il suo sguardo incrociò gli occhi di Linley: in qualche modo bisognava lenire tutta quell’angoscia.
«Le statistiche hanno il loro peso» replicò Lynley, cauto. «Ma la cosa più importante, adesso, è ricostruire quello che è successo il giorno in cui Hadiyyah è scomparsa: dove vi trovavate lei, il signor Mura e la bambina, chi c’era intorno a Hadiyyah, chi potrebbe aver visto qualcosa ma non si è ancora fatto avanti perché non si rende conto che potrebbe essere utile…»
«Abbiamo fatto le solite cose» mormorò Angelina, disperata.
«E questo è un particolare importante per la polizia» la rassicurò Lynley. «Il fatto che siate persone abitudinarie significa che qualcuno potrebbe essersene accorto e aver pianificato con anticipo come e dove rapirla. Significa che, forse, non siamo di fronte a un reato occasionale ma a un gesto premeditato, organizzato nei minimi dettagli. Spiegherebbe come mai nessuno si è accorto di niente: il rapitore di Hadiyyah potrebbe essersi organizzato in modo da portare via la bambina senza farsi notare.»
Angelina si premette lo strofinaccio sugli occhi, annuì e disse: «Certo. Capisco». Poi raccontò brevemente quello che avevano fatto il giorno in cui Hadiyyah era sparita. Lei era andata alla sua solita lezione di yoga, mentre Lorenzo e la bambina si erano incamminati verso il mercato. Hadiyyah era corsa avanti, come faceva sempre, attratta dalle bancarelle. Ogni volta poi andava ad ascoltare il suonatore di fisarmonica, e lì si ritrovavano tutti e tre per andare a pranzo a casa della sorella di Lorenzo. Facevano sempre così, il giorno del mercato. Chi li conosceva - o chi li avesse osservati cercando il momento giusto per agire - sapeva che il loro itinerario era quello.
Lynley annuì. Erano tutte cose che Lo Bianco gli aveva già riferito, ma era evidente che parlare faceva bene ad Angelina, le dava un senso di speranza. Lo Bianco, seduto dall’altra parte del tavolo, ascoltava pazientemente e, quando Angelina ebbe finito di parlare, disse a Lynley: «Col suo permesso…» Poi si sporse in avanti e rivolse alla madre di Hadiyyah alcune domande.
«Non avevo ancora avuto l’occasione di chiederglielo, signora. Come si comportava Hadiyyah col signor Mura? Così tanto tempo lontana dal suo papà. Andava d’accordo col suo nuovo compagno?»
Angelina rispose che Hadiyyah con Lorenzo si trovava bene. «Le piace Lorenzo» ribadì.
«Ne è sicura?» chiese Lo Bianco.
«Certo che lo sono» rispose Angelina. «Per essere certa che… È uno dei motivi per cui…» Lanciò un’occhiata a Lynley, poi guardò di nuovo Lo Bianco. «È uno dei motivi per cui mia sorella scriveva le e-mail. Pensavo che se Hadiyyah avesse avuto notizie di Hari, se avesse pensato che eravamo in Italia solo temporaneamente… Poi, con il tempo, vedendo che suo padre non veniva mai…»
«E-mail?» chiese Lynley.
Lo Bianco gli spiegò, in italiano, che la sorella di Angelina aveva scritto a Hadiyyah delle e-mail fingendo che fossero di Azhar. Le prometteva di andarla a trovare in Italia, cosa che evidentemente poi non era avvenuta.
«Sua sorella è riuscita ad accedere all’account di posta elettronica del professor Azhar?» chiese Lynley.
«Ha creato un nuovo account a suo nome, col dominio dell’università, grazie all’aiuto di un suo amico dello University College» confessò Angelina. «Io le suggerivo che cosa scrivere e lei lo scriveva.» Guardò Lo Bianco. «Quindi Hadiyyah non aveva motivo di avercela con Lorenzo, non temeva che prendesse il posto di suo padre. E del resto io non volevo che si rendesse conto che la sua vita era cambiata per sempre.»
«Yes, but… Tra sua figlia e il signor Mura poteva esserci dell’attrito.» Siccome Angelina con capiva, Lynley intervenne suggerendo la parola friction.
«Non c’era friction» dichiarò Angelina. «Non c’è friction.»
«E al signor Mura piace Hadiyyah?»
Angelina sbiancò. Lynley la vide riflettere sulla domanda di Lo Bianco, trarne le sue conclusioni e dire: «Lorenzo vuole molto bene a Hadiyyah. Non le farebbe mai del male, se è a questo che alludeva. Abbiamo deciso insieme di portarla a Lucca. Io volevo averla vicina, mi mancava da morire. Avevo lasciato Hari per venire a vivere qui con Lorenzo, ma non riuscivo a stare senza di lei. Così sono tornata con Hari per qualche mese e ho aspettato tanto, così come Lorenzo, solo per amore di Hadiyyah, solo per lei. Quindi lei non può insinuare che Lorenzo…»
Lo Bianco scuoteva la testa mentre Lynley rifletteva sul fatto che Angelina, a quanto pareva, aveva fondato la sua nuova vita in Italia su una quantità non indifferente di menzogne e raggiri. Questo gli ispirò una domanda riguardante il passato che poteva avere implicazioni anche sulla situazione presente.
«Quando ha conosciuto il signor Mura?» chiese. «Come lo ha conosciuto?»
Angelina rispose che lo aveva conosciuto a Londra. Era senza ombrello e, per ripararsi da un improvviso acquazzone, si era rifugiata in uno Starbucks.
Lo Bianco emise una specie di sbuffo. Lynley notò l’espressione disgustata del collega, ma intuì che si trattava di semplice disapprovazione nei confronti di Starbucks, indipendentemente dal fatto che Angelina avesse conosciuto lì il suo amante.
Intanto il racconto proseguì. Quel giorno il locale era pieno di gente entrata, probabilmente, per lo stesso motivo di Angelina. Lei aveva ordinato un cappuccino e lo stava bevendo in piedi vicino alla vetrina quando anche Lorenzo era entrato, bagnato fradicio, nel caffè. Avevano cominciato a parlare del tempo e Lorenzo le aveva raccontato che si trovava a Londra per soli tre giorni ma le continue piogge gli stavano rovinando il soggiorno. In Toscana in quella stagione c’era il sole, faceva caldo, gli alberi erano in fiore, aveva aggiunto. E a quel punto era arrivata la proposta: «Perché non viene a controllare di persona?»
Lei si era accorta che le aveva guardato le mani con aria da nulla per vedere se portava la fede. Tipico atteggiamento da single in cerca di una preda. E d’altra parte anche lei aveva fatto la stessa cosa. Nel corso della conversazione, non gli aveva nominato né Azhar, né Hadiyyah, né aveva fatto cenno… ad altre questioni. Quando poi la pioggia era cessata, lui le aveva dato un biglietto da visita dicendole di chiamarlo, casomai fosse andata in Toscana: le avrebbe fatto volentieri da guida. E qualche tempo dopo lei aveva raccolto l’invito. A furia di litigare con Hari, sera dopo sera, sottovoce, per non farsi sentire da Hadiyyah…
«Quali ‘altre questioni’?» chiese Lynley alla fine del racconto e, con la coda dell’occhio, vide che Lo Bianco approvava annuendo deciso.
«Come?» chiese Angelina confusa.
«Ha detto che, quando vi siete conosciuti, al signor Mura non ha parlato di Hadiyyah, di Azhar e di ‘altre questioni’. Quali?»
Era chiaro che Angelina non aveva voglia di rispondere, perché abbassò gli occhi e si mise a guardare le stampate sul tavolo, fingendo in maniera poco convincente di riflettere sulla domanda. Dopo un po’ Lynley disse: «Ogni dettaglio può essere importante, sa». I due uomini attesero in silenzio. Si udivano soltanto il gocciolio del rubinetto e il tictac di un orologio. Alla fine Angelina rispose.
«Non gli ho detto che avevo un amante» confessò.
Lo Bianco fece un sospiro che divenne quasi un fischio sommesso. Le donne, le donne, pareva voler dire. Cosa non fanno le donne…
«Un altro uomo, cioè?» chiese Lynley. «A parte Azhar?»
Angelina rispose di sì. Un istruttore della sua scuola di danza, coreografo e ballerino, con cui aveva una storia da anni. Quando era andata a convivere con Lorenzo, oltre ad Azhar aveva lasciato anche lui.
«Che si chiama…?» chiese Lynley.
«Vive a Londra, ispettore. Non è italiano. Non conosce l’Italia e non sa che io sono qui. Lo ho… Cioè… Avrei dovuto dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, invece me ne sono andata senza nemmeno salutarlo.»
«Ciò non toglie che lui possa aver cercato di scoprire dov’era finita» le fece notare Lynley. «Se siete stati insieme per anni…»
«Non era una storia seria» si affrettò a precisare Angelina. «Ci divertivamo, stavamo bene insieme, ma era solo una cosa così. Non abbiamo mai fatto progetti a lungo termine.»
«For you» intervenne Lo Bianco. «Ma forse per lui, invece…» Era vero. Forse per lui era qualcosa di più. «Era sposato?»
«Sì. Per questo non si aspettava che io entrassi nella sua vita e quando l’ho lasciato…»
«Non è così che funziona» la interruppe Lo Bianco. «Per certi uomini il matrimonio non significa niente.»
«Deve dirmi come si chiama» insistette Lynley. «L’ispettore Lo Bianco ha ragione. Può darsi che il suo ex amante non abbia assolutamente nulla a che fare con quello che è successo qui in Italia, ma dal momento che avete avuto una relazione bisogna che controlliamo, se non altro per escludere ogni possibile implicazione. Se è ancora a Londra, se ne occuperà Barbara. Va fatto subito.»
«Esteban Castro» rispose finalmente Angelina.
«È spagnolo?»
«No. Di Città del Messico. Sua moglie è inglese. Ballerina anche lei.»
«You were also…» Lo Bianco non trovava la parola, ma Lynley era quasi sicuro di aver capito che cosa voleva chiederle e intervenne, domandando ad Angelina se conosceva personalmente la moglie di Esteban Castro.
Angelina abbassò di nuovo lo sguardo. «Eravamo amiche.»
Prima che Lynley o Lo Bianco potessero fare commenti o altre domande, arrivò Lorenzo Mura. Entrò, come loro, dal portoncino e dal corridoio semibuio che conduceva alla cucina. Posò per terra una sacca sportiva e si avvicinò al tavolo. Diede un bacio ad Angelina e chiese, rivolto a tutti e tre: «Che cos’è successo?» Era chiaro che non gli era sfuggita la tensione nell’aria.
Nessuno dei due investigatori rispose. Lynley pensò che toccava ad Angelina decidere se dire o non dire al suo attuale compagno di che cosa stavano parlando. «Lorenzo sa di Esteban Castro» chiarì lei. «Non abbiamo segreti l’uno per l’altra.»
Lynley ne dubitava. Tutti hanno dei segreti e, nel caso specifico, stava cominciando a pensare che Angelina Upman fosse finita in quel baratro proprio a causa dei suoi segreti. «E Taymullah Azhar?» le chiese.
«Che cosa vuol sapere?» replicò Angelina.
«La vostra era una coppia aperta?» chiese Lynley. «Taymullah Azhar sapeva che lei aveva un altro?»
«Per piacere, non gli dica niente» si affrettò a dire Angelina.
Lorenzo, borbottando, scostò una sedia dal tavolo e si sedette. Si versò un bicchiere di vino e lo mandò giù tutto d’un fiato, senza sorseggiarlo né assaporarlo, poi si tagliò una fetta di pane e un pezzo di formaggio e chiese, aggressivo: «Perché cerchi di proteggerlo?»
«Perché gli ho rovinato la vita. Mi sembra più che sufficiente: non voglio che soffra ulteriormente.»
«Merda!» Lorenzo scosse la testa. «È assurdo che tu abbia tante attenzioni per quest’uomo.»
«Abbiamo una figlia insieme» ribatté Angelina. «Quando si ha un bambino insieme, i rapporti cambiano. È così.»
«Se lo dici tu» replicò Mura in tono più pacato. Ma non pareva molto convinto. E forse, pensò Lynley, non aveva tutti i torti. Se invece di abbandonare la prima moglie Azhar avesse regolarmente divorziato, forse le cose sarebbero state diverse per Angelina Upman. E probabilmente Lorenzo Mura se ne rendeva conto. A prescindere dalla situazione presente o futura, tra Angelina e il professore pakistano sarebbe sempre esistito un legame di cui lui doveva farsi una ragione.
Lucca Era più tardi del solito quando Salvatore Lo Bianco salì in cima alla torre. Sua madre aveva avuto un diverbio con una turista ignara del fatto che, quando la signora Lo Bianco entrava dal macellaio, aveva il diritto di passare avanti a tutti. L’affronto subito e il conseguente alterco erano stati sviscerati da più punti di vista, durante la cena.
«Sì, sì» aveva borbottato varie volte Lo Bianco, scuotendo la testa e mostrandosi opportunamente indignato, mentre la mamma gli faceva il resoconto delle disgrazie della giornata, ma appena finito di mangiare era salito sulla torre a godersi in santa pace il suo caffè corretto, la vista della città al tramonto e della gente che passeggiava tenendosi a braccetto e, soprattutto, la quiete che regnava lassù, lontano da tutto.
Il silenzio non durò a lungo, però. Fu interrotto dallo squillo del cellulare. Lo Bianco lo tirò fuori dalla tasca, guardò il display e imprecò. Se si trattava di andare di nuovo a Barga, si sarebbe rifiutato.
«Allora?» sbraitò il procuratore in risposta al «Pronto» di Lo Bianco. «Raccontami tutto, Ciccio.»
Lo Bianco sapeva che cosa intendeva Fanucci: voleva che gli raccontasse tutto quello che aveva fatto e si era detto con l’ispettore arrivato dall’Inghilterra. Gli riferì il minimo indispensabile per placarlo, aggiungendo il particolare dell’altro amante che la signora Upman aveva lasciato a Londra, Esteban Castro. Evidentemente le piacevano stranieri e calienti, commentò. Al che Fanucci decretò: «Che zoccola!»
I tempi sono cambiati, avrebbe voluto dirgli Lo Bianco. Se le donne hanno degli amanti, non significa necessariamente che siano scostumate. In realtà lo avrebbe detto solo per provocarlo, perché nemmeno lui credeva che fosse normale che una donna avesse più amanti contemporaneamente, sposata o meno che fosse. Il fatto che per Angelina forse si trattasse addirittura di un’abitudine era una novità interessante. E Lo Bianco era più che disposto a metterne al corrente Fanucci perché, se non altro, questo gli evitava di dover parlare di Michelangelo Di Massimo e dei suoi capelli ossigenati.
«E se questo Esteban Castro l’avesse seguita?» ipotizzò Fanucci. «Mettiamo che avesse scoperto che era a Lucca e volesse vendicarsi. Lei l’ha lasciato per un altro, lui non se ne fa una ragione e vuole farla soffrire quanto lei ha fatto soffrire lui. Mi segui?»
Era un’idea assurda, ma poco importava. Se non altro, Fanucci aveva smesso temporaneamente di prendersela con Casparia. «È possibile. In ogni caso sarà bene controllare» disse Lo Bianco e poi gli ricordò che però dovevano muoversi con cautela. L’ispettore inglese aveva promesso di telefonare a Londra per vedere di rintracciare il Mr. Castro. In questo, Lynley sarebbe stato molto utile.
Seguì un silenzio nel quale Fanucci rifletté su quella considerazione. Lo Bianco sentì che qualcuno gli parlava. Era una voce di donna. Non credeva fosse la moglie. La rassegnata domestica, piuttosto. «Vai, vai!» le disse Fanucci: era il suo modo per annunciarle che quella sera i suoi servigi fra le lenzuola non erano richiesti.
Poi, al telefono, il procuratore annunciò il motivo principale per cui aveva chiamato Lo Bianco: aveva preso accordi per un servizio speciale sulla vicenda che sarebbe stato trasmesso al telegiornale. Le riprese sarebbero state effettuate a casa di Mura e alla fine ci sarebbe stato un appello di entrambi i genitori della bambina scomparsa. Le vogliamo tanto bene e vogliamo riaverla viva. Per piacere, liberate nostra figlia.
Se la madre avesse pianto davanti alle telecamere, tanto meglio, disse: in casi del genere le lacrime erano utili, no?
Lo Bianco chiese quando sarebbe stato girato il servizio.
Dopodomani, rispose Fanucci. E a parlare a nome della polizia di Stato sarebbe andato lui, in qualità di pubblico ministero.
«Certo, certo» mormorò Lo Bianco, sorridendo fra sé per l’inguaribile narcisismo di Fanucci. Sicuramente era convinto che il suo passaggio in televisione avrebbe terrorizzato tutti i malfattori d’Italia.