L'estate era già sul finire, quando Edgardo, cedendo alle preghiere della figlia e di Linton, permise, a malincuore, che essi si rivedessero, e Caterina e io partimmo alla volta di Wuthering Heights. Era una giornata soffocante, priva di sole, ma con un cielo troppo chiuso e nebbioso perchè ci fosse minaccia di pioggia; e il nostro punto di ritrovo era stato stabilito alla pietra miliare, presso il crocicchio. Quando arrivammo là, un pastorello inviatoci come messaggero comunicò in un linguaggio tutto suo che... «Il signor Linton si trovava da questa parte delle Heights e ci sarebbe stato molto obbligato se ci fossimo spinti un poco più avanti.»

            «Allora il signor Linton ha dimenticato la prima ingiunzione di suo zio,» osservai io. «Il padrone ci ha ordinato di tenerci sul territorio di Grange, ed eccocene già fuori.»

            «Ebbene, non appena l'avremo raggiunto, faremo voltare il muso ai nostri cavalli,» rispose la mia compagna, «e la nostra escursione sarà così in direzione di Grange.»

            Ma, raggiunto Linton, e non mancava ormai più di un miglio alla sua abitazione, lo trovammo senza cavallo; così fummo costrette a scender di sella e lasciar le nostre bestie al pascolo. Linton giaceva sull'erica in attesa che noi ci accostassimo, e non si alzò in piedi finchè non fummo a pochi passi da lui. Indi si mosse a fatica, ed era così pallido, che io esclamai:

            «Ma, signor Heathcliff, stamattina non siete in grado di godervi una passeggiata! Davvero si direbbe che stiate piuttosto male!»

            Caterina lo guardò con dolore e sorpresa: l'esclamazione di gioia si mutò sulle sue labbra in una d'allarme; e le felicitazioni per il loro incontro lungamente protratto, in una domanda ansiosa: «Stai peggio?»

            «No, meglio... meglio!» disse lui senza respiro, tremante, le tratteneva la mano, come se fosse bisognoso di quell'appoggio, mentre i grandi occhi azzurri vagavano timidamente su di lei; il lividore delle guance trasformava l'espressione languida che quelle pupille avevano posseduto in una disperazione selvaggia.

            «Ma sei stato peggio,» persistette sua cugina; «peggio dell'ultima volta che ti ho visto; sei dimagrito, e...»

            «Sono stanco,» interruppe frettolosamente. «Fa troppo caldo per camminare, riposiamoci qui. E, spesso, la mattina, mi sento male... il papà dice che cresco troppo rapidamente...» Poco soddisfatta, Cathy sedette, e quello le si sdraiò a lato.

            «Questo e un po' simile al tuo paradiso,» disse lei, sforzandosi a essere allegra. «Ti ricordi dei due giorni che intendevamo passare in questo angolo, intrattenendoci nel modo più piacevole? Questo è simile al tuo paradiso, ma ci sono delle nubi: sono però così soffici e dolci, che rendono il paesaggio più bello che con il pieno sole. La prossima settimana, se potrai, cavalcheremo giù al Parco di Grange e proveremo il mio paradiso.»

            Linton sembrava non ricordare di che cosa ella stesse parlando; e aveva evidentemente una grande difficoltà a sostenere qualsiasi genere di conversazione. La sua mancanza d'interesse per gli argomenti intorno ai quali ella lo intratteneva e un'eguale incapacità di intrattenerla comunque erano così manifeste che Caterina non potè celare la propria delusione. Un mutamento indefinito era avvenuto in tutta la persona e nei modi del ragazzo. Il malumore che avrebbe potuto essere trasformato in affetto aveva degenerato in apatia; adesso in lui c'era meno del temperamento capriccioso di un bambino che s'inquieta e infastidisce gli altri apposta per esser consolato, e più della nervosità incurabile di un vero malato, che respinge ogni consolazione, pronto a considerare come un insulto la buona volontà, l'allegria del prossimo. Caterina s'accorse che il dover stare in nostra compagnia, nonchè essergli di piacere, gli era quasi di tormento, e non si fece scrupolo di proporre di lasciarlo in pace, di togliere il disturbo. Inaspettatamente, tale proposta risvegliò Linton dal suo torpore, gettandolo in uno stato di strana agitazione. Rivolta un'occhiata timorosa verso le Heights, pregò Cathy di rimanere almeno un'altra mezz'ora.

            «Ma, penso,» disse Cathy, «che staresti meglio a casa che seduto qui, e oggi vedo che con le mie fiabe, le mie canzoni e le mie chiacchiere non so divertirti, ti sei fatto più saggio di me in questi sei mesi e ora i miei passatempi ti divertono poco, se sapessi di divertirti, mi fermerei volentieri.»

            «Rimani per riposarti,» rispose egli. «E, Caterina, non pensare, e nemmeno dire che io sto molto male; sono questo tempo opprimente, questo caldo che mi intontiscono; e prima che tu venissi ho camminato troppo. Di' allo zio che la mia salute è discretamente buona, glielo dirai?»

            «Gli dirò che tu dici questo, Linton. Io però non potrei affermarlo,» osservò la mia padroncina, meravigliata dalla sua insistenza nell'asserire quanto evidentemente non corrispondeva a verità.

            «E torna giovedì prossimo,» continuò egli, fuggendo il suo sguardo sorpreso. «E fai tutti i miei ringraziamenti allo zio per averti permesso di venire... i miei migliori ringraziamenti, Caterina. E... e, se tu incontrassi mio padre, e ti chiedesse di me, non lasciargli supporre che sono stato tanto silenzioso e stupido, e non assumere una aria così abbattuta come ora... si arrabbierebbe.»

            «A me non importa nulla che si arrabbi,» esclamò Caterina, immaginando di essere lei l'oggetto della probabile ira di Heathcliff.

            «Ma importa a me,» disse il cugino, trasalendo. «Non provocarlo contro di me, Caterina, perchè è molto severo.»

            «È severo con voi, signorino Heathcliff?» gli domandai. «Si è stancato di essere indulgente, e il suo odio da passivo si è fatto attivo?»

            Linton mi guardò, ma non rispose; e, dopo esser rimasta per altri dieci minuti presso a lui, durante i quali il ragazzo lasciò ricadere il capo sul petto, e non pronunciò più parola, reprimendo soltanto qualche gemito di sfinimento e dolore, Cathy si distrasse, andando alla ricerca dei mirtilli, e condividendo poi con me il prodotto delle sue fatiche; a Linton non ne offrì poichè persuasa che un simile interessamento avrebbe potuto essere solo cagione di noia e di stanchezza.

            «Sarà una mezz'ora, Elena?» mi bisbigliò alla fine. «Non vedo perchè dovremmo rimanere. Lui dorme, e il papà ci vorrà di ritorno.»

            «Ebbene, non dobbiamo lasciarlo qui addormentato,» risposi. «Aspetta finchè si svegli, sii paziente. Eri così ansiosa di partire, ma il tuo desiderio di vedere il povero Linton è presto sfumato.»

            «Perchè ha voluto vedermi?» replicò Caterina. «Lo preferivo nel pessimo degli umori di prima che ora, in questo suo singolare nuovo modo. Si direbbe che questo incontro gli sia stato imposto e che lui lo subisca per timore che il padre l'abbia a sgridare. Ma io non verrò affatto per il piacere del signor Heathcliff, qualsiasi ragione lui abbia per ordinare a Linton di sottoporsi a una simile tortura. E, sebbene goda nel vedere che sta meglio, sono addolorata di trovarlo molto meno gentile e molto meno affettuoso con me.»

            «Pensi dunque che stia meglio?» dissi.

            «Sì;» rispose; «perchè tu non sai come era solito lagnarsi dei suoi mali prima, non sta discretamente bene, come mi pregò di dire al papà, ma è molto probabile che stia meglio.»

            «Su questo non la penso allo stesso modo, signorina Cathy,» le feci osservare; «a mio giudizio direi che sta molto peggio.»

            A questo punto Linton si riscosse dal sonno, con improvviso terrore, e chiese se qualcuno l'avesse chiamato per nome.

            «No,» disse Caterina; «a meno che tu non abbia sognato. Non so immaginarmi come tu possa dormire fuori di casa, la mattina.»

            «Ho creduto di sentire mio padre,» disse con voce rotta, lanciando un'occhiata all'aspro masso, sopra noi. «Siete certe che nessuno ha parlato?»

            «Certissime,» rispose sua cugina. «Soltanto Elena e io discorrevamo riguardo alla tua salute. Sei veramente più forte, Linton, di quel che eri quando ci separammo in inverno? Se lo sei, sono sicura che una sola cosa non è più forte... il tuo affetto per me; parla, lo sei?»

            Le lacrime sgorgarono dagli occhi di Linton, mentre le rispondeva: «Sì, sì, lo sono!» E, ancora sotto la malia di quella voce immaginaria, guardò in alto e in basso per vedere da chi provenisse. Cathy si alzò.

            «Per oggi dobbiamo separarci,» disse. «E non posso nascondere che sono stata dolorosamente delusa dal nostro incontro, ma non ne farò parola con nessuno se non con te: non che io abbia paura del signor Heathcliff.»

            «Silenzio!» mormorò Linton; «per amor del cielo silenzio! Viene.» E s'aggrappò al braccio di Caterina cercando di trattenerla; ma a quell'annuncio lei si liberò in fretta, e chiamò con un fischio Minny che l'ubbidì come un cane.

            «Sarò qui giovedì prossimo,» gridò, saltando in sella. «Addio. Presto, Elena!»

            E così lo lasciammo, quasi incosciente della nostra partenza, tanto era preoccupato nel pensiero della venuta di suo padre. Prima che arrivassimo a casa, il malcontento di Caterina s'attenuò in un sentimento incerto fra pietà e dolore, non scevro di dubbi tormentosi sulle vere condizioni fisiche e familiari di Linton, dubbi da me condivisi, sebbene la consigliassi a non parlarne molto, ad aspettare che una seconda visita ci consentisse migliore possibilità di giudizio. Il mio padrone desiderò il racconto delle nostre vicende. Cathy gli portò i ringraziamenti del nipote, accennando delicatamente al resto; e io pure fornii poca luce ai suoi interrogativi, non sapendo che cosa fosse bene tener celato, e che cosa rivelare.

           

 

XXVII    (torna all'indice)

           

 

           

            Passarono sette giorni; e ognuno lasciò la sua traccia nell'aggravarsi del male di Edgardo Linton. Avremmo ben voluto ingannare Caterina, ma la sua stessa mente così pronta rifiutava di farsi ingannare; indovinava in segreto, e ponderava sulla terribile probabilità, gradatamente mutatasi in certezza. Ella non ebbe il coraggio di accennare alla sua gita quando giunse il giovedì; ne feci io menzione per lei e ottenni il permesso di costringerla a uscire di casa perchè la biblioteca, ove suo padre ogni giorno passava qualche ora, - il breve tempo che egli poteva star alzato, - e la camera sua erano diventate per lei l'intero mondo. Ogni istante che non la trovava china sul suo guanciale o seduta presso il padre era da lei rimpianto. Il volto le si faceva scarno per le veglie e il dolore, e il mio padrone di buon grado la mandò incontro a quello che si augurava potesse esser per lei un lieto cambiamento di scena e compagnia; traendo conforto dalla speranza che lei non sarebbe rimasta del tutto sola dopo la sua morte.

            Da alcune osservazioni da lui fatte casualmente, compresi che s'illudeva che suo nipote, somigliandogli nella persona, gli sarebbe somigliato anche nello spirito, poichè le lettere di Linton non lasciavano scorgere i difetti di quel carattere. E io, per comprensibile debolezza, mi trattenni dall'emendare tale errore; chiedendo a me stessa, a che cosa avrebbe giovato turbare quegli ultimi suoi giorni con rivelazioni che non sarebbe stato in grado di mettere a profitto. Differimmo la nostra escursione al pomeriggio; un dorato pomeriggio di agosto, ogni respiro d'aria era così pieno di vita da suggerire l'illusione che chiunque lo respirasse dovesse sentirsi rivivere fosse stato pure morente. Il volto di Caterina era lo specchio del paesaggio; ombra e sole si alternavano rapidamente; ma le ombre vi si posavano più a lungo e il sole era più labile; il suo povero piccolo cuore si rimproverava persino quel momentaneo oblìo delle sue pene.

            Scorgemmo Linton che ci attendeva al medesimo posto che si era scelto la prima volta. La mia padroncina smontò da cavallo, e mi disse che, dato che lei era decisa a fermarsi pochissimo tempo, mi sarebbe convenuto rimanere addirittura a cavallo e tenerle il pony ma io non acconsentii, non volendo arrischiare di perdere di vista un sol minuto la ragazza che mi era stata affidata così salimmo insieme quel tratto di collina ricoperto di erica. Il giovane Heathcliff questa volta ci ricevette con maggior animazione, non dovuta però a sollievo, nè a gioia; sembrava piuttosto dovuta a timore.

            «È tardi!» disse, parlando con fatica. «Tuo padre non è molto ammalato? Credevo non saresti venuta.»

            «Perchè non essere più sincero?» gridò Caterina ricacciando in gola il suo saluto. «Perchè non dirmi subito che non mi vuoi? È strano, Linton, che tu mi abbia fatta venire fin qua, una seconda volta, quasi apposta, per addolorarci tutt'e due e per nessun'altra ragione!»

            Linton sussultò, volgendole un'occhiata supplichevole e vergognosa a un tempo; ma la cugina mal sopportava una condotta così enigmatica.

            «Mio padre è molto ammalato,» disse, «e per qual motivo sono stata rubata al suo capezzale? Perchè non hai mandato qualcuno a sciogliermi dalla promessa che ti avevo fatta quando tu stesso non desideravi che io la mantenessi? Coraggio! Desidero una spiegazione, il gioco e gli scherzi sono completamente banditi dalla mia mente; e non posso far più buon viso alle tue falsità!»

            «Le mie falsità!» mormorò egli. «In che consistono? Per amor del cielo, Caterina, non essere così adirata! Disprezzami quanto vuoi; sono solo un miserabile codardo; non mi potrai disprezzare mai abbastanza, ma sono troppo debole per la tua collera. Per lo sdegno che hai, odia mio padre, ma non me.»

            «Sciocchezze!» gridò Caterina, con passione. «Sciocco ragazzo che non sei altro! guardatelo, trema come se stessi veramente per batterlo! Non occorre che tu parli di sdegno, Linton: l'avrai da chiunque e in buona misura. Vattene. Ritornerò a casa: è una follia strapparti dal focolare e pretendere... che cosa pretendiamo noi? Lascia andare il mio vestito! Se ti compassionassi perchè piangi e per l'aria spaventata che hai, tu disprezzeresti tale pietà. Elena digli quanto riprovevole sia la sua condotta. Alzati, e non degradarti come un rettile abietto... non devi

            Con il volto bagnato di pianto e un'espressione d'angoscia, Linton si era lasciato cadere, affranto, a terra; sembrava avesse il convulso per un insostenibile assalto di terrore.

            «Oh!» singhiozzò. «Non lo posso sopportare! Caterina, Caterina, sono anche un traditore, e non oso dirti!... Ma, se mi abbandoni, loro mi uccideranno! Cara Caterina, la mia vita è nelle tue mani; e tu mi hai pur detto che mi amavi, se fosse vero, non te ne verrebbe un male. Non te ne andrai, allora? mia gentile, dolce, buona Caterina! E forse acconsentirai... così mi lascerò morire vicino a te!»

            La mia padroncina, testimone dell'intensità della sua angoscia, si chinò per tirarlo su. Il primo sentimento di indulgente tenerezza vinse la sua collera, e l'emozione e l'allarme subitamente crebbero in lei.

            «Acconsentire a che cosa?» gli domandò. «A rimanere? Spiegami queste tue strane parole, e mi fermerò. Tu sei in contraddizione con quanto dici, e mi esasperi! Sii calmo, e franco, e confessa subito tutto quello che ti pesa sul cuore. Non mi faresti del male, vero, Linton? E non lasceresti che nessun nemico avesse a farmene, se potessi impedirlo? Voglio credere che tu sia vile per te stesso, ma non un vile traditore della tua migliore amica»

            «Ma mio padre mi ha minacciato,» disse il ragazzo affannosamente, congiungendo le mani scarne, «e lo temo... lo temo! Non ho il coraggio di dire!»

            «Oh, bene!» disse Caterina, in tono di sdegnosa compassione, «tienti il tuo segreto; io non sono vile. Salva te stesso, io non ho paura!»

            La sua magnanimità lo gettò in lacrime; pianse disperatamente, baciando le mani che lo reggevano, tuttavia non trovava il coraggio sufficiente per parlare. Stavo almanaccando in che cosa potesse mai consistere quel mistero, ed ero ferma nel proposito d'impedire che Caterina dovesse soffrir lei per portar vantaggio a Linton o ad altri, quando sentii un fruscio tra l'erica, alzai gli occhi, e vidi il signor Heathcliff che scendeva dalle Heights e ci era già quasi sopra. Senza gettare uno sguardo ai miei compagni, sebbene gli fossero abbastanza vicini perchè lui non si perdesse un singhiozzo di Linton, mi salutò con quel tono cordiale che assumeva solo con me, ma della cui sincerità non potevo far a meno di dubitare:

            «È già un miracolo vedervi così vicina alla mia casa Nelly. Come state a Grange? Sentiamo. Corre voce,» soggiunse in un tono più basso, «che Edgardo Linton sia sul letto di morte; ne hanno forse esagerata la malattia?»

            «No; il mio padrone è morente,» risposi, «è purtroppo vero. Sarà una cosa molto triste per tutti noi ma una benedizione per lui.»

            «Quanto pensate durerà ancora?»

            «Non lo so.»

            «Perchè,» proseguì, guardando i due ragazzi, immobili adesso sotto i suoi occhi, - Linton sembrava non aver il coraggio di muoversi o di alzare il capo e Caterina per causa del cugino ne era ugualmente impedita -, «perchè quel ragazzo laggiù sembra deciso a lasciarmi, e io ringrazierei suo zio se facesse presto, e se ne andasse prima di lui. Olà! ha piagnucolato un pezzo, il marmocchio? Gli ho pur insegnato io come si fa a frignare! Con la signorina Linton è generalmente allegro?»

            «Allegro? no... ha dimostrato la più grande angoscia,» risposi. «Vedendolo, si direbbe che, invece di esser in giro per le colline con la sua amata, dovrebbe essere a letto e nelle mani di un medico.»

            «Lo sarà fra un giorno o due,» mormorò Heathcliff, «ma, prima, alzati, Linton! Alzati!» gridò. «Non strisciare per terra; su, all'istante!»

            Linton era ripiombato a terra in un altro parossismo di paura impotente, causata, credo, da un'occhiata di suo padre; non c'era altro che potesse produrgli simile accasciamento. Fece diversi tentativi per ubbidire, ma le sue poche forze erano per il momento annientate, ricadde con un gemito. Il signor Heathcliff gli si avvicinò e lo sollevò tanto da appoggiarlo a un bordo erboso.

            «Là,» disse con malfrenata ferocia, «sto per perder la pazienza; e se non ti fai forte, vile, vile... maledetto! alzati subito!»

            «Sì, papà,» disse affannosamente, «ma lasciami solo, o verrò meno. Ho fatto quel che volevi, sono certo. Caterina ti dirà che... che sono stato allegro. Oh! stammi vicina, Caterina, dammi la mano.»

            «Prendi la mia,» disse suo padre, «tienti in piedi. Ecco... ora ti darà il braccio: così, guarda lei! Vi immaginerete che io sia il diavolo in persona, signorina Linton, per incutere tanto spavento. Volete esser così gentile d'incamminarvi verso casa con lui? Trema, se lo tocco io.»

            «Linton, caro!» bisbigliò Caterina. «Io non posso venire a Wuthering Heights, il papà me lo ha proibito. Ma lui non ti farà del male, perchè hai tanta paura?»

            «Non potrò mai più rientrare in quella casa,» rispose. «Non dovrò rientrarci senza di te!»

            «Fermatevi!» gridò suo padre. «Rispetteremo gli scrupoli filiali di Caterina. Nelly, conducetelo voi, e io senza indugio seguirò il vostro consiglio riguardo al medico.»

            «Farete bene,» risposi. «Ma io devo rimanere presso la mia padroncina: curare vostro figlio non è affar mio.»

            «Siete molto dura,» disse Heathcliff, «lo so; ma mi obbligherete a pizzicare e a far gridare il marmocchio, prima che vi muova a compassione. Vieni, allora, mio eroe. Sei disposto a tornare accompagnato da me?»

            Gli si avvicinò ancora una volta, e fece l'atto di afferrare quella fragile creatura, ma Linton, ritraendosi, s'aggrappò alla cugina, e la implorò d'accompagnarlo con insistenza tanto disperata da non ammettere rifiuto. Per quanto disapprovassi, non potevo impedirle di andare e in verità, come avrebbe potuto rifiutarsi? Non riuscivamo a scoprire che cosa mai lo riempisse di un simile terrore; era là, impotente, nella sua stretta, e l'accrescere anche minimamente quella confusione, avrebbe potuto istupidirlo irrimediabilmente. Arrivammo alla porta: Caterina entrò e io rimasi ad aspettarla finchè non avesse condotto l'invalido a una sedia; pensavo che sarebbe tornata subito fuori, ma il signor Heathcliff, spingendomi avanti, esclamò:

            «La mia casa non è colpita dalla peste, Nelly, e oggi mi sento in vena d'essere ospitale; siediti, e permettimi di chiuder la porta!»

            La chiuse e girò pure il chiavistello. Io trasalii.

            «Prenderete il tè prima di ritornarvene a casa,» soggiunse. «Sono solo. Hareton è andato al pascolo col bestiame, e Zillah e Giuseppe sono assenti in libertà; e benchè io sia abituato a esser solo, preferisco avere una compagnia interessante quando mi se ne offre l'occasione. Signorina Linton, sedetevi presso di lui. Vi do quello che ho, il dono non val quasi la pena d'esser accettato: ma non ho altro da offrirvi: Linton, intendo dire. Con che stupore mi guarda! È strano qual sentimento selvaggio io provi per tutto quel che sembra aver paura di me! Fossi nato dove le leggi sono meno rigorose e i gusti meno raffinati, mi concederei una lenta disseccazione di questi due come un divertimento serale!»

            Tirò un lungo sospiro, diede un pugno sulla tavola e bestemmiò tra sè: «Per l'inferno! Li odio!»

            «Non ho paura di voi,» esclamò Caterina, non avendo sentito l'ultima parte di quel discorso. Fece qualche passo verso di lui, con gli occhi neri scintillanti di passione e di decisione. «Datemi quella chiave: la voglio» disse. «Non prenderò cibo nè bevanda qui, dovessi morire d'inedia.»

            Heathcliff teneva la chiave nella mano che appoggiava sulla tavola. Alzò gli occhi, assalito da una specie di stupore per tanta temerarietà, o forse ricordando la voce, lo sguardo della madre di lei.

            La fanciulla afferrò la chiave, e riuscì quasi a strappargliela dalle dita che si erano allentate, ma quell'atto richiamò l'uomo alla realtà, e la chiave fu subito ricuperata.

            «Ebbene, Caterina Linton,» disse, «allontanatevi o vi butto a terra, cosa che farà impazzire la signora Dean.»

            Noncurante di questo avvertimento, ella gli riafferrò la mano chiusa. «Noi andremo via,» ripetè, provandosi con tutta la forza a vincere quei muscoli di ferro: e, visto che le unghie non lasciavano impronte, vi applicò i denti con una certa violenza. Heathcliff mi lanciò un'occhiata che mi trattenne dall'intervenire, e Caterina era così intenta alle dita di lui che non s'accorse dell'espressione di quel volto. A un tratto Heathcliff aprì le dita e cedette l'oggetto disputato; ma Caterina non se ne era ancora del tutto impadronita che lui l'agguantò con la mano rimastagli libera, la costrinse a inginocchiarsi, e la schiaffeggiò brutalmente.

            A tale violenza diabolica mi precipitai su di lui furiosamente: «Ah furfante!» cominciai a gridare. «Ah villano!» Un colpo al petto mi fece tacere: io sono grassa e un nonnulla mi fa mancare il respiro, e un po' per questo, un po' per la rabbia, retrocedetti barcollando presa da vertigini, e mi sentii sul punto di soffocare. La scena accadde in due minuti: Caterina libera che fu, si portò le mani alle tempie e sembrava non essere sicura di aver ancora la testa attaccata alle spalle. Tremava come una foglia, poverina, e si appoggiò alla tavola completamente istupidita.

            «So come si puniscono i bambini, vedete,» disse quel furfante burberamente, chinandosi a impossessarsi di nuovo della chiave, che era caduta in terra. «Andate da Linton ora, come vi ho detto; e piangete pure finchè vi aggrada. Domani sarò vostro padre - il solo padre che avrete tra pochi giorni - e ne avrete fin troppo. Potete sopportar molto, non siete una deboluccia; fate che scorga ancora nei vostri occhi un temperamento diabolico come poco fa, e ogni giorno ne buscherete una buona dose!»

            Cathy corse da me invece che da Linton s'inginocchiò e posò la sua guancia infocata sul mio grembo, piangendo forte. Il cugino si era rincantucciato in un angolo della panca, quieto come un topo, congratulandosi in cuor suo, m'immagino, che la correzione fosse caduta su di un altro invece che su di lui. Il signor Heathcliff, vedendoci tutti avviliti, si alzò, e in un batter d'occhio preparò il tè lui stesso; e, versatane una tazza, me la porse.

            «Fatti passare il tuo cattivo umore,» disse, «e aiuta la tua bambinaccia e il mio disonore. Non è avvelenato, benchè preparato da me. Esco in cerca dei vostri cavalli.»

            Primo nostro pensiero, non appena lui partì, fu di trovare un'uscita da qualche parte. Trovammo l'uscio di cucina, ma era chiuso dal di fuori: guardammo le finestre, erano troppo strette persino per la personcina di Cathy.

            «Signor Linton,» gridai, vedendo che eravamo letteralmente imprigionate, «sapete che cosa sta facendo il vostro diabolico padre, e dovete dirlo, altrimenti vi schiaffeggerò come lui ha fatto con vostra cugina.»

            «Sì, Linton, tu devi dirlo,» disse Caterina, «è per amor tuo che sono venuta, e sarebbe nera ingratitudine la tua se ti rifiutassi.»

            «Datemi del tè, ho sete, e poi ve lo dirò,» rispose. «Signora Dean, allontanatevi, non mi va che mi stiate addosso. Caterina, lasci cadere le lacrime nella mia tazza! Non voglio bere quella. Dammene un'altra.»

            Caterina gliene offrì un'altra, e s'asciugò il volto. La compostezza di quel piccolo miserabile, ora che non temeva più per sè, mi disgustava. L'angoscia che lui aveva mostrato fuori nella landa, era subito scemata, non appena aveva posto il piede a Wuthering Heights, così immaginai che fosse stato minacciato da qualche terribile vendetta, se, coll'inganno, non fosse riuscito a trattenerci, e, compiuta la cosa, non avesse altri timori immediati.

            «Il papà vuole che ci sposiamo,» disse, dopo aver sorbito un po' della bevanda. «E lui sa che tuo padre non ci permetterebbe che ci sposassimo ora; e teme che io muoia, se aspettiamo; così dovremo sposarci domattina, e così dovrai rimaner qui tutta la notte; e, se fai quel che vuole lui, tornerai a casa, l'indomani, e mi porterai con te.»

            «Portarvi con lei, miserabile creatura?» esclamai. «Voi sposarvi? Ma quell'uomo è pazzo, o ci crede tutti quanti stupidi. E voi potete pensare che questa bella giovane signorina, questa fanciulla sana, vigorosa, voglia unirsi a un infelice quale siete voi? Vi lusingate forse che qualcuno se la sentirebbe di sposarvi? Avete bisogno d'esser frustato, per averci indotte a venire fin qua, coi vostri falsi piagnistei, e... non fate lo scemo ora! Ho una gran voglia di picchiarvi sodo per il vostro vile inganno, e la vostra stupida presunzione.»

            Gli detti una scrollatina, ma questo gli causò la tosse, e lui ricorse subito ai suoi soliti lamenti e alle sue solite lacrime, Caterina mi rimproverò.

            «Rimanere tutta la notte? No,» disse guardando attentamente in giro. «Elena, daremo fuoco a quella porta, ma io voglio uscire.»

            E avrebbe immediatamente posta in esecuzione la sua minaccia, ma Linton, subito in allarme per la propria persona, la cinse con le sue deboli braccia, e singhiozzava:

            «Non mi vuoi? non vuoi salvarmi? non vuoi permettermi di venire a Grange? Oh! Caterina cara! dopo tutto, non devi andartene e abbandonarmi. Tu devi ubbidire a mio padre, devi

            «Io devo ubbidire al mio d'un padre,» rispose, «e sollevarlo da questa crudele ansia. L'intera notte! Che cosa penserebbe? Chissà in quale ansia sarà! Voglio trovare una via per uscire, abbatterò o incendierò la porta. Sta' tranquillo! tu non sei in pericolo! ma se tu me lo impedisci... Linton, io amo mio padre più di te!»

            Il terrore mortale che il ragazzo aveva per la collera di Heathcliff, gli ridette tutta la sua vile eloquenza. Caterina era disperata: ma persisteva a dire che doveva andare a casa, e a sua volta si provò a supplicarlo, e a persuaderlo a frenare la sua ansia egoistica. Mentre eravamo così occupati, ecco rientrare il nostro carceriere.

            «Le vostre bestie se ne sono andate al galoppo,» disse, «e... bene, Linton di nuovo a piagnucolare? Che cosa ti ha fatto? Là, là, finiscila, e va' a letto. Tra un mese o due, ragazzo mio, sarai capace di ripagare a usura la sua tirannia d'ora. Soffri per puro amore, vero? per null'altro al mondo: e lei ti avrà! E ora, a letto! Stasera Zillah non ci sarà; devi svestirti da te. Silenzio! non far versi! Una volta in camera tua, non ti verrò vicino, non temere. Per caso, te la sei cavata abbastanza bene. Al resto penserò io.»

             Pronunciò, queste parole tenendo la porta aperta perchè suo figlio passasse; e questi uscì proprio come un can barbone che s'aspetti una pedata. L'uscio fu di nuovo chiuso a chiave, e Heathcliff s'avvicinò al focolare dove la mia padroncina ed io ci tenevamo in silenzio. Caterina alzò gli occhi, e istintivamente portò la mano alla guancia, la vicinanza di Heathcliff risvegliando in lei una penosa sensazione. Chiunque altro sarebbe stato toccato da quel gesto puerile, ma lui con viso arcigno le disse:

            «Ah! non avete paura di me? Ostentate coraggio, ma si direbbe che abbiate maledettamente paura!»

            «Ora ho paura,» rispose, «perchè, se rimango, il papà sarà in pena; e come potrei reggere a tal pensiero quando lui... quando lui... signor Heathcliff, lasciatemi andar a casa! Vi prometto di sposare Linton, il papà è contento che lo sposi; e io lo amo. Perchè vorreste forzarmi a far quello che io stessa desidero di fare?»

            «Ci si provi a forzarti!» gridai io. «C'è una legge in questo paese, grazie a Dio l'abbiamo, benchè non sia che un paese fuori dal mondo. Sporgerei denuncia se si trattasse di un mio figlio; e non c'è possibilità di assoluzione.»

            «Silenzio!» gridò quel brigante. «Al diavolo con il tuo chiasso. Non sei tu che devi parlare. Signorina Linton, godrò moltissimo nel pensare che vostro padre sia infelice: non dormirò dalla soddisfazione. Non avreste potuto suggerire un mezzo più sicuro per fissare la vostra residenza sotto il mio tetto per le prossime ventiquattr'ore, che informandomi che ne sarebbe derivata tale conseguenza. In quanto alla vostra promessa di sposare Linton, avrò cura che la manteniate; poichè non abbandonerete questo luogo finchè non sarà stata adempiuta.»

            «Mandate Elena, allora , a far sapere al papà che sono salva!» esclamò Caterina piangendo amaramente. «Oh! sposatemi ora. Povero papà! crederà che ci siamo smarrite. Che cosa faremo?»

            «Oh, no! Penserà che siate stanca di vegliarlo e che siate fuggita per divertirvi un poco,» rispose Heathcliff. «Non potete negare che siete entrata in casa mia di vostra propria volontà, noncurante del suo divieto. Ed è naturalissimo che desideriate divertirvi alla vostra età e che vi siate annoiata di curare un ammalato, sia pure questi vostro padre; i suoi giorni più felici ebbero fine quando i vostri cominciarono. Vi maledisse, osò dire, per esser venuta al mondo (anch'io vi maledii), e sarebbe più che giusto che anche al momento di uscirne, vi maledicesse. Mi unirei a lui. Io non vi amo! Come potrei amarvi? Struggetevi in pianto! D'ora in poi, ritengo, sarà questo il vostro unico sollievo, a meno che Linton sappia compensarvi con il suo affetto per altre perdite; e pare che il vostro provvido genitore lo immagini possibile. Le sue lettere di consiglio e di conforto mi hanno divertito immensamente; nella sua ultima raccomandava al mio gioiello di aver cura del suo, e di esser buono con voi quando sareste stata sua. Premuroso e buono, questo è paterno. Ma Linton richiede per sè medesimo tutte le attenzioni e le gentilezze. Linton può fare da piccolo tiranno molto bene; si assumerebbe di torturare non so qual numero di gatti purchè fossero loro tolti i denti, e avessero gli artigli limati. Vi assicuro che quando tornerete a casa sarete in grado di raccontare allo zio belle prove della bontà del nipote.»

            «Su questo avete ragione!» dissi. «Spiegate il carattere di vostro figlio; dimostratene la somiglianza con voi stesso, e allora, spero, la signorina Cathy ci penserà due volte prima di prendere il basilisco.»

            «Poco m'importa parlare ora delle sue amabili qualità,» egli rispose; «perchè Caterina non può che accettarlo o rimanere prigioniera, e tu con lei, finchè il tuo padrone non sarà morto. Vi posso trattenere qui nascoste tutt'e due. Se ne dubiti, incoraggiala a ritirare la parola data, e avrai un'opportunità per giudicare!»

            «Io non ritrarrò la mia parola,» disse Caterina, «e sono pronta a sposar Linton in quest'ora stessa, purchè dopo possa andare a Thrushcross Grange. Signor Heathcliff, voi siete un uomo crudele, ma non siete un demonio; e non vorrete, per pura malvagità distruggere irrevocabilmente tutta la mia felicità. Se il papà pensasse che l'ho abbandonato apposta, e se morisse prima del mio ritorno, potrei sopportare di vivere? Non piango più; ma m'inginocchio qui, ai vostri piedi, e non mi rialzerò, e non distorrò i miei occhi dal vostro viso, finchè non mi guarderete. No, guardatemi, vi prego! Non vedrete nulla che vi provochi! Non vi odio! Non ho rancore perchè mi avete battuta. Non avete mai amato nessuno in tutta la vostra vita, zio? mai? Ah! bisogna che mi guardiate una volta. Sono così infelice, non potrete fare a meno di esserne addolorato e di aver compassione di me»

            «Via quelle vostre dita da spirito folletto; e toglietevi di qua, o vi tiro un calcio!» gridò Heathcliff, respingendola brutalmente. «Preferirei essere stretto da un serpente. Per tutti i demoni come potete mai sognarvi di adularmi? Vi detesto

            Alzò le spalle, e si scosse tutto, proprio come se la sua persona si contraesse per l'avversione; e allontanò di colpo la sua sedia, mentre io, scattando in piedi, aprivo la bocca per riversargli addosso un torrente di ingiurie. Ma fui subito ammutolita alle mie prime parole dalla minaccia che sarei stata rinchiusa da sola in una stanza, se avessi osato pronunciare ancora una sillaba. Annottava: sentimmo un suono di voci al cancello del giardino. Heathcliff uscì immediatamente: lui era padrone di sè, noi no. Lo si sentì parlare per due o tre minuti, indi Heathcliff rientrò solo.

            «Credevo fosse vostro cugino Hareton,» dissi a Caterina, «vorrei che tornasse! Chissà che lui non prenda nostre difese.»

            «Erano tre domestici mandati da Grange in cerca di voi,» disse Heathcliff, avendomi udita senza che me ne fossi avveduta. «Avresti dovuto aprire un'inferriata e gridare; ma giurerei che quella pettegola è contenta che tu non l'abbia fatto. È contenta d'esser costretta a rimanere, ne sono certo.» Nell'apprendere l'occasione mancata, demmo entrambe libero sfogo al nostro dolore, e Heathcliff ci permise di continuare i nostri lamenti finchè non furono le nove. Allora ci ordinò di salire nella camera di Zillah, passando per la cucina, e io bisbigliai alla mia compagna di ubbidire; forse avremmo potuto trovare il modo di uscire attraverso la finestra di là, passare in un solaio, e poi fuori dall'abbaino. Ma la finestra era sprangata come quelle dabbasso, e l'uscita dal solaio era al sicuro dai nostri tentativi, poichè ci trovammo di nuovo rinchiuse a chiave. Nè l'una nè l'altra di noi si coricò: Caterina prese il suo posto presso l'inferriata e attese ansiosamente il mattino; un profondo sospiro fu la sola risposta che potessi ottenere ai miei frequenti supplici inviti a riposare. Sedetti su una sedia e giudicai severamente le mie trasgressioni al dovere, dalle quali eran derivate tante disgrazie ai miei padroni; tale pensiero mi balenò solo allora. So che, in realtà, non ero così colpevole; ma in quella triste notte la mia fantasia vedeva tutto sotto un aspetto terribile e arrivai a pensare che Heathcliff fosse addirittura meno colpevole di me.

            Alle sette egli venne e domandò se la signorina Linton si fosse alzata. Ella corse immediatamente alla porta e rispose di sì.

            «Qua allora,» disse, aprendole e tirandola fuori. Io mi alzai per seguirla, ma egli girò subito la chiave. Chiesi di essere lasciata libera.

            «Abbiate pazienza,» rispose, «tra poco vi manderò la colazione.»

            Picchiai contro la parete, scossi il saliscendi furiosamente; e Caterina chiese perchè dovessi ancora rimanere rinchiusa. Rispose che bisognava che mi assoggettassi a questo per un'altra ora e se ne andarono. Sopportai per due o tre ore, alla fine udii un passo: non era quello di Heathcliff.

            «Vi ho portato qualche cosa da mangiare,» disse una voce, «aprite la porta!»

            Ubbidii ansiosamente e vidi Hareton carico di vivande da bastarmi per l'intero giorno.

            «Prendete,» soggiunse, ponendomi il vassoio in mano.

            «Rimani un minuto,» cominciai a dire.

            «No,» gridò e s'allontanò noncurante di tutte le preghiere che gli avrei potuto rivolgere per trattenerlo.

            E là rimasi rinchiusa l'intero giorno, e tutta la notte seguente; e poi un'altra e un'altra ancora. Cinque notti e quattro giorni, complessivamente, senza mai vedere alcuno, a eccezione di Hareton una volta al mattino; ed era un modello di carceriere; arcigno e muto, insensibile a ogni mio tentativo di destare in lui un senso di giustizia o di pietà.

           

 

XXVIII    (torna all'indice)

           

 

           

            La mattina del quinto giorno, o meglio il pomeriggio, un passo differente s'approssimò, corto e più leggero e, questa volta, qualcuno entrò in camera. Era Zillah, avvolta nel suo scialle scarlatto, con una cuffietta di seta nera in capo, e al braccio, un paniere di vimini.

            «Eh, cara signora Dean!» ella esclamò. «Bene! Si parla di voi a Gimmerton. Vi pensavo affondate, voi e la vostra signorina nella marcita del Cavallo Nero, quando il padrone mi ha detto che vi avevano ritrovate e che vi aveva ricoverate qui! Ed eravate dunque in mezzo a un'isola? e per quanto tempo siete rimasta nel pantano? È il padrone che vi ha salvata, signora Dean? Ma non siete poi così magra, non avete sofferto tanto, non è vero?»

            «Il vostro padrone è un gran furfante!» risposi io. «Ma dovrà risponderne; non c'era bisogno d'inventare tali storie: ma ogni cosa verrà messa in chiaro!»

            «Che cosa intendete dire?» domandò Zillah. «Non è una sua invenzione; si racconta al villaggio che vi siete smarrita nel pantano... rientrando, sono andata da Earnshaw... "Eh, signor Hareton, cose strane sono accadute non appena vi ho lasciati. È ben triste per quella cara ragazza, e per la brava Nelly Dean!" Lui mi ha sbarrato gli occhi in viso. Ho pensato che non avesse sentito nulla, così gli ho raccontato le dicerie che correvano. Il padrone ha ascoltato, ha riso tra sè, e ha detto: "Se sono state nella marcita, ora ne sono fuori, Zillah; Nelly Dean, in questo istante, è ospite in camera vostra. Quando salite, potete dirle che se ne vada, eccovi la chiave. L'acqua dello stagno le è andata alla testa, e lei avrebbe voluto correre a casa di volo; ma io le ho impedito di muoversi finchè non fosse ritornata in sè. Ditele che torni subito a Grange, se se la sente, col mio messaggio che la sua padroncina vi ritornerà a tempo per presenziare ai funerali del padre."»

            «Il signor Edgardo non è morto!» esclamai senza fiato. «Oh! Zillah, Zillah!»

            «No, no, sedetevi mia buona signora,» rispose, «non state ancora bene, evidentemente. Il vostro padrone non è morto; il dottor Kenneth crede che potrà durare un altro giorno; l'ho saputo da lui avendolo incontrato per via.»

            Invece di sedermi, afferrai cuffia e mantello, e corsi da basso, ora che la via era libera. Nel passare per la «casa» mi guardai attorno in cerca di qualcuno che potesse darmi notizie di Caterina. La stanza era piena di sole, e la porta era spalancata; ma sembrava non esserci nessuno. Mentre ero incerta se andarmene o rimanere a cercare la mia padroncina, un leggero colpo di tosse attrasse la mia attenzione verso il focolare. Linton stava sulla panca, tutto solo; succhiava una cannuccia di zucchero candito, e seguiva i miei movimenti con uno sguardo apatico. «Dov'è la signorina Caterina?» gli domandai severamente per spaventarlo, poichè l'avevo trovato solo, pensavo di riuscire a cavargli qualche informazione. Continuò a succhiare come un idiota. «È partita?»

            «No,» rispose, «è di sopra; non deve andar via; non glielo permettiamo.»

            «Tu, piccolo idiota, non vuoi lasciarla andar via,» esclamai. «Indicami subito la sua stanza, o ti costringerò io a cantare!»

            «Il papà sì vi farebbe cantare se tentaste di andar da lei,» rispose. «Dice che non devo essere indulgente con Caterina; è mia moglie ed è vergognoso che lei desideri di lasciarmi. Dice che mi odia e che desidera che io muoia per poter avere tutto il mio denaro, ma non l'avrà: e non andrà a casa sua! mai! pianga e stia male finchè vuole!»

            Ritornò alla sua prima occupazione, socchiudendo le ciglia come se intendesse addormentarsi.

            «Signor Heathcliff!» ripresi, «hai dimenticato tutte le gentilezze che Caterina ha avuto per te lo scorso inverno, quando assicuravi di amarla, e lei ti portava libri e ti cantava canzoni, e per vederti sfidò, più di una volta, il vento e la neve? Pianse, dovendo mancare una sera, perchè avresti provato una delusione; allora eri convinto che lei fosse cento volte troppo buona per voi, e ora credi alle bugie che dice tuo padre, benchè tu sappia che vi odia tutt'e due. E fai lega con lui contro di lei. Questa è gratitudine, vero?»

            Le labbra di Linton si piegarono agli angoli; tolse di bocca la cannuccia di zucchero.

            «È venuta a Wuthering Heights perchè ti odiava?» continuai io. «Pensa un po'! In quanto al tuo denaro non sa nemmeno che un giorno ne avrai. Dici che sta male, e pure la lasci sola, lassù in questa casa non sua! Tu che hai provato che cosa significhi essere così abbandonati. Ti compassionavi per le tue sofferenze, di cui lei pure aveva pietà, e ora tu non ne hai per le sue? Vedi, signor Heathcliff, io, una donna in età, e null'altro che una domestica, piango, mentre tu, dopo aver tanto vantato il tuo affetto, e avendo ragione di adorarla quasi, piangi su te stesso e te ne stai lì inerte. Oh! sei un ragazzo senza cuore, un egoista.»

            «Non posso rimanere con lei,» rispose seccato; «il suo pianto è insopportabile. E non vuol smettere, benchè le dica che chiamerò mio padre. L'ho chiamato una volta, e lui l'ha minacciata di strozzarla se non si quietava; ma lei ha ricominciato, appena lui ha lasciato la stanza, e tutta la notte non ha fatto che gemere e dolersi, benchè gridassi dal dispetto di non poter dormire.»

            «Il signor Heathcliff è fuori?» gli domandai, vedendo che quel miserabile non provava compassione alcuna per la tortura morale di sua cugina.

            «È in corte,» rispose, «sta parlando col dottor Kenneth il quale dice che lo zio è morente, ed è vero, finalmente. Sono contento perchè diventerò io il padrone di Grange. Caterina ne ha sempre parlato come della propria casa. Non è sua! è mia; il papà dice che ogni cosa che lei possiede è mia. Tutti i suoi bei libri sono miei; me li ha offerti e mi ha offerto anche i suoi graziosi uccellini, e il suo pony Minny se fossi riuscito ad avere la chiave della nostra stanza, e l'avessi lasciata libera; ma le ho detto che non aveva nulla da offrirmi, essendo tutto, tutto mio. Allora ha pianto e si è tolta dal collo un medaglione, e mi ha detto che me l'avrebbe dato; questo medaglione racchiudeva due miniature montate in oro; quella di sua madre e quella dello zio quand'erano giovani. È successo ieri: io le ho detto che anche quelle erano mie, e ho fatto per impossessarmene. Quella dispettosa si è opposta; respingendomi con violenza. Io ho gridato forte, questo la spaventa, ha sentito arrivare il papà, ha rotto in due il medaglione, e mi ha dato il ritratto di sua madre, cercando di nasconder l'altro, ma il papà ha voluto sapere l'accaduto, e io gli ho spiegato le cose. Ha preso per sè il ritratto che avevo io, e le ha ordinato di cedermi il suo, lei ha rifiutato, e lui l'ha buttata in terra, glielo ha strappato dalla catenella, e lo ha calpestato.»

            «E tu eri contento nel vederla percuotere?» gli chiesi, desiderando farlo parlare.

            «Ho chiuso gli occhi,» rispose. «Chiudo gli occhi quando vedo mio padre battere un cane, un cavallo, lo fa così brutalmente. Pure ne sono stato contento dapprima; meritava d'esser punita, per lo spintone che mi aveva dato. Ma, quando il papà ha lasciato la stanza, Cathy mi ha fatto avvicinare alla finestra, e mi ha mostrato la guancia lacerata internamente, contro i denti, e la bocca che le si riempiva di sangue; poi ha raccolto i frammenti della miniatura ed è andata a sedersi con la faccia verso la parete, e da allora non mi ha più parlato, e io a volte, penso, che non possa parlare dal dolore. Non voglio crederlo, ma mi fa male quel suo pianto continuo, ed è così pallida e disperata che ne ho paura.»

            «E tu potresti aver la chiave, qualora lo desiderassi?»

            «Sì, quando sono di sopra,» rispose, «ma ora non posso salire.»

            «In quale stanza si trova?» domandai.

            «Oh,» gridò. «A voi non dico certo dove è! È il nostro segreto. Nessuno, nemmeno Hareton e nemmeno Zillah devono saperlo. Ecco tutto! mi avete stancato andatevene, andatevene!» E, appoggiato il viso contro il braccio, chiuse nuovamente gli occhi.

            Pensai che fosse meglio venirmene via senza vedere il signor Heathcliff, e portare da Grange un soccorso per la mia padroncina. Intensa fu la meraviglia e la gioia dei miei compagni quando mi videro tornare, quando sentirono che la loro padroncina era salva, alcuni di loro stavano già per correre e gridare la notizia alla porta del signor Edgardo: ma volli esser io a dargli questa nuova. Come lo trovai cambiato, in quei pochi giorni! Era l'immagine della tristezza e della rassegnazione, dell'attesa della morte. Benchè avesse già trentanove anni, lo si sarebbe detto più giovane di almeno dieci anni. Pensava a Caterina perchè ne mormorò il nome. Gli toccai la mano e parlai.

            «Caterina sta per arrivare, caro padrone!» bisbigliai. «È viva e sta bene: e sarà qui, spero, stanotte.»

            Tremai nell'osservare l'effetto che tale notizia produsse su di lui; si alzò a sedere, guardò ansiosamente attorno per la camera e poi ricadde in deliquio. Non appena rinvenne, gli raccontai la nostra visita forzata e la nostra prigionia alle Heights. Dissi che Heathcliff mi aveva costretta a entrare, il che non era del tutto vero. Dissi il meno possibile contro Linton, e non descrissi la condotta brutale del padre, non volendo far traboccare il calice già colmo di tanta amarezza.

            Egli intuiva che una delle mire di Heathcliff era di assicurare al figlio, o meglio a se stesso, la sua sostanza, ma non capiva perchè non avesse atteso fino alla sua morte, non supponendo che lui e Linton sarebbero morti insieme. Tuttavia capì che era bene mutare le proprie ultime volontà: invece di lasciare il patrimonio a disposizione di Caterina, decise di affidarlo nelle mani di un legale; lasciando la figlia usufruttuaria, e i figli, eredi, qualora ne avesse avuti. Con tale provvedimento i suoi averi non potevano cadere nelle mani di Heathcliff, in caso di morte di Linton.

            Ricevuti i suoi ordini, mandai un uomo in cerca del notaio, e quattro altri ben armati, a reclamare la mia padroncina al suo carceriere. Gli uni e gli altri ritardarono molto. Il servo partito solo ritornò per primo. Riferì che il notaio, signor Green, aveva nel villaggio un impegno che non poteva rimandare; si sarebbe però recato a Thrushcross Grange prima del mattino. Anche i quattro uomini ritornarono soli. Riferirono che Caterina era ammalata; troppo ammalata per lasciare il letto, ed Heathcliff non aveva permesso loro di vederla. Sgridai quegli stupidi per aver dato retta a una storia simile, che non avrei riferito al mio padrone. Avevo deciso di organizzare una spedizione in piena regola per prendere d'assalto le Heights, all'alba, a meno che la prigioniera ci fosse stata ceduta con le buone. «Suo padre deve vederla,» giurai più volte, «dovesse quel demonio rimanere ucciso sulla propria soglia se vuole impedirlo.»

            Fortunatamente mi furon risparmiati e il viaggio e il disturbo. Alle tre del mattino ero scesa a prendere dell'acqua; e, mentre passavo dal salone con la caraffa tra le mani, sentii un colpo secco alla porta dell'entrata principale, che mi fece trasalire. «Oh, sarà Green,» dissi per rassicurarmi, «non altri che Green», e passai oltre coll'intenzione di mandare qualcuno ad aprire; ma il colpo fu ripetuto, non forte, ma insistente. Posai la brocca sulla balaustra e mi affrettai ad aprire. La luna di agosto splendeva chiara al di fuori. Non era il notaio. La mia dolce padroncina mi saltò al collo, singhiozzando:

            «Elena! Elena! il papà è vivo?»

            «Sì,» gridai, «sì, mio angelo, è vivo. Sia ringraziato Dio, sei ancora salva qui con noi!»

            Senza respiro come era, voleva correre di sopra, alla camera del signor Linton; ma l'obbligai a sedersi, e le feci bere dell'acqua, le lavai il viso pallido, e con il mio grembiule glielo sfregai, ravvivandone un poco il colorito. Allora dissi che sarei andata ad avvertire il padre del suo arrivo, e la implorai di dire che sarebbe stata felice col giovane Heathcliff. Trasalii, ma, comprendendo subito perchè la consigliassi a non dire la verità, mi assicurò che non si sarebbe lamentata.

            Non ebbi il coraggio di assistere al loro incontro. Rimasi un buon quarto d'ora in attesa presso la porta di quella camera, senza osare di varcarne la soglia. Tutto passò quietamente: la disperazione di Caterina fu silenziosa come la gioia del padre. Lei lo sosteneva, apparentemente calma, e lui la contemplava con occhi che sembravano dilatarsi nell'estasi.

            Morì così, signor Lockwood, morì celestialmente.

            Baciatala in volto, mormorò:

            «Vado a lei; e tu, cara bambina, verrai a noi!» e non si mosse nè parlo più; ma mantenne quello sguardo raggiante ed estasiato finchè il polso non gli si arrestò impercettibilmente, e l'anima sua non si dipartì. Nessuno avrebbe potuto notare l'istante preciso della sua morte, avvenuta così dolcemente.

            Caterina rimase là, seduta, con gli occhi aridi, fino al levar del sole: forse aveva versate tutte le sue lacrime, o forse il suo dolore era troppo grave perchè potesse sciogliersi in pianto: venne mezzogiorno e lei sarebbe ancora rimasta in profondo raccoglimento presso quel letto di morte se non avessi insistito perchè si concedesse un po' di riposo. Fu un bene che fossi riuscita a toglierla di là perchè all'ora del pranzo comparve il notaio di ritorno da Wuthering Heights dove si era recato per avere istruzioni. Si era venduto ad Heathcliff; questa fu la causa del suo ritardo alla chiamata del mio padrone. Fortunatamente, dopo l'arrivo della figlia nessun pensiero gli turbò la mente.

            Il signor Green si prese l'incarico di dare ordini a tutti e di disporre di ogni cosa. Licenziò i domestici, fatta eccezione per me, e avrebbe spinto la sua autorità al punto d'insistere perchè Edgardo Linton non fosse seppellito presso la tomba di sua moglie, ma nella cappella con la propria famiglia. Vi era, tuttavia, il testamento a impedirlo, e le mie alte proteste contro qualsiasi infrazione. I funerali furono fatti in fretta; Caterina, ora signora Linton Heathcliff, ebbe il permesso di rimanere a Grange finchè vi si trovò la salma del padre.

            Mi raccontò che la sua angoscia aveva alla fine spinto Linton a incorrere nel rischio di liberarla. Aveva sentito gli uomini da me mandati disputare alla porta, e aveva afferrato il senso della risposta di Heathcliff. Questo la aveva sprofondata nella disperazione. Linton che era stato trasportato nel salottino subito dopo che io l'avevo lasciato, ne era rimasto tanto terrorizzato che si era deciso a cercare la chiave prima che il padre risalisse. Aveva avuto l'astuzia di aprire e di avvicinare l'uscio senza chiuderlo a chiave e all'ora di coricarsi aveva chiesto di poter dormire con Hareton e per una volta la sua supplica era stata esaudita. Caterina era fuggita all'alba. Non aveva osato uscire dalle porte nel timore che i cani dessero l'allarme; era entrata nelle camere vuote e ne aveva esaminato le finestre; e, fortunatamente, entrata in quella di sua madre, era riuscita facilmente a passare per l'impannata, e con l'aiuto del vicino abete aveva toccato terra. Il complice, nonostante la timidezza e circospezione del suo aiuto, ebbe a patire per la parte avuta nella fuga.

           

 

XXIX    (torna all'indice)

           

 

           

            La sera dopo i funerali, la mia padroncina e io ce ne stavamo nella biblioteca; ora meditando dolorosamente - una di noi disperatamente - sulla grave perdita, e ora arrischiando congetture riguardo al cupo avvenire. Si era appena convenuto fra noi che il meno peggio che potesse capitare a Caterina sarebbe stato il permesso di risiedere a Grange insieme a Linton; almeno finchè questi fosse stato in vita, io avrei anche potuto conservare il posto di governante. Sembrava una soluzione fin troppo favorevole per fondarvi delle speranze: eppure io speravo, e cominciai a consolarmi nella prospettiva di avere ancora la mia casa e il mio impiego, e, sopra tutto, la mia amata padroncina; quando d'improvviso, un domestico, uno tra quelli licenziati e che si trovava ancora lì, si precipitò in casa.

            «Quel demonio di un Heathcliff,» disse, «arriva dalla corte: debbo chiudergli la porta in faccia?»

            Fossimo state tanto pazze da dare un simile ordine, non ne avremmo avuto il tempo. Heathcliff, senza picchiare alla porta, senza annunciarsi, fece da padrone, e si valse del suo privilegio per entrare direttamente, senza dire una parola. La voce del servitore lo diresse alla biblioteca: entrò, e, fattogli cenno di uscire, chiuse la porta.

            Era la stessa stanza in cui era stato introdotto, quale ospite, diciotto anni prima: attraverso la finestra splendeva la medesima luna, e il medesimo paesaggio autunnale si stendeva fuori. Non avevamo ancora acceso un lume, ma pure nella stanza ci si vedeva, si distinguevano i quadri appesi alle pareti: il meraviglioso ritratto della signora Linton, e quello grazioso del marito. Heathcliff si avanzò verso il focolare. Il tempo aveva di poco mutato anche la sua figura. Era lo stesso uomo; il viso bruno piuttosto più scuro e più composto, la corporatura di poco più massiccia, nessun'altra diversità. Caterina, quando lo vide, si alzò per fuggire.

            «Fermatevi,» disse trattenendola per il braccio. «Non più fughe! Dove vorreste andare? Sono venuto a prendervi per ricondurvi a casa, e, spero, sarete una figlia sottomessa, e non inciterete mio figlio ad altre disubbidienze. Quando ho scoperto quale parte abbia avuto nella cosa, mi sono trovato perplesso, non sapendo come punirlo; è un tale esserino, una stretta lo annienterebbe, ma vedrete voi stessa dal suo aspetto che ha ricevuto la sua parte! L'ho trasportato giù una sera, l'altro ieri, e non ho fatto che metterlo a sedere e non l'ho toccato più da allora! Ho mandato Hareton fuori dalla stanza, che è rimasta a noi due soli. Dopo due ore ho chiamato Giuseppe perchè lo riportasse di sopra, e da quel momento la mia presenza agisce sui suoi nervi come un fantasma, e credo mi veda spesso, benchè non gli sia vicino. Hareton dice che la notte si sveglia e grida per ore e ore, e vi chiama a proteggerlo contro di me, e, vi piaccia o non vi piaccia il vostro prezioso compagno, dovete venire; è cosa vostra ora; e io ve ne cedo ogni proprietà.»

            «Perchè non lasciate rimanere qui Caterina,» pregai, «e non le mandate il signor Linton? Poichè li odiate tutt'e due, non sentireste la loro mancanza, non possono essere che un tormento quotidiano per il vostro cuore snaturato.»

            «Sono in cerca di un affittuario per Grange,» rispose, «e certamente desidero avere i miei figli intorno a me. Inoltre, questa ragazza mi deve i suoi servigi per il pane che mangia. Non ho intenzione di allevarla nel lusso e nell'ozio, quando Linton se ne sarà andato. Fate presto a prepararvi, e non obbligatemi a forzarvi.»

            «Verrò» disse Caterina. «Linton è tutto quello che mi resta in questo mondo, e, benchè abbiate fatto quanto vi era possibile per rendermelo odioso e rendermi odiosa a lui, non potete far sì che ci odiamo. E vi sfido a fargli del male quando gli sono vicina, e vi sfido a spaventarmi!»

            «Siete un campione d'audacia,» rispose Heathcliff, «ma non mi piacete abbastanza perchè io voglia far del male a lui; avrete voi tutto il beneficio del tormento fino alla fine. Non sono io che ve lo rendo odioso, è il suo animo così dolce, e la vostra fuga e quello che ne è seguito l'hanno reso amaro come fiele. Non aspettatevi ringraziamenti per la vostra nobile devozione. L'ho sentito fornire a Zillah una piacevole descrizione di quello che farebbe se fosse forte come lo sono io: l'intenzione c'è, e la sua stessa debolezza acuirà il suo cervello per trovare quanto possa sostituire la forza.»

            «So che è di indole cattiva,» disse Caterina, «non per nulla è vostro figlio. Ma sono contenta di averne una migliore io, per perdonarli, e so che mi ama, e per tale ragione lo amo anch'io. Signor Heathcliff, voi non avete nessuno che vi ami, e, per quanto infelici ci rendiate, avremo ancora la vendetta di pensare che la vostra crudeltà deriva dalla vostra miseria più grande. Voi siete infelice, vero? Solo come il diavolo, e invidioso quanto lui? nessuno vi ama! nessuno piangerà quando morrete! Non vorrei essere voi.»

            Caterina parlava in tono di triste trionfo; sembrava decisa a partecipare dello spirito della sua futura famiglia e a trarre piacere dal dolore dei suoi nemici.

            «Andatevene, strega, e prendetevi le vostre cose! Se rimanete lì un altro istante,» disse suo suocero, «ve ne pentirete.»

            Cathy si ritirò sdegnosamente. Mentre era assente, cominciai a pregare il signor Heathcliff per ottenere il posto di Zillah alle Heights, offrendo di cederle il mio; ma lui non volle saperne per alcuna ragione. Mi ordinò di tacere, e poi, per la prima volta, guardò attorno nella stanza e s'avvide dei ritratti. Osservato quello della signora Linton, disse:

            «Lo voglio a casa mia. Non perchè mi piaccia ma...» Si volse d'un tratto verso il fuoco, e proseguì con quello che per mancanza di una parola migliore devo chiamare un sorriso. «Vi dirò quel che ho fatto ieri! Ho indotto il sacrestano che stava scavando la fossa di Linton a rimuovere la terra dal coperchio della sua bara l'ho sollevato. Quando ho rivisto il suo volto ancora intatto, ho pensato per un momento di rimaner là: il sacrestano ha durato fatica per farmi allontanare; mi ha detto che se l'aria l'avesse sfiorato si sarebbe alterato; così ho ricoperto subito la bara, lasciandone però un lato aperto non dalla parte di Linton, sia maledetto! Come vorrei che la sua bara fosse saldata con il piombo! Ho corrotto il sacrestano e ho ottenuto che la tolga di là collocandovi la mia, che vorrò costruita aperta dal lato verso la bara di Caterina!»

            «Avete fatto malissimo, signor Heathcliff!» esclamai; «non avete sentito vergogna nel disturbare i morti?»

            «Non ho disturbato nessuno, Nelly,» rispose, «e ho dato a me un po' di sollievo. Sarò molto più tranquillo ora; e voi avrete maggiore probabilità di tenermi sottoterra, quando ci sarò posto. Disturbare lei? No! lei mi ha disturbato giorno e notte per diciotto anni, incessantemente, senza rimorso, fino a ieri notte; e ieri notte sono stato tranquillo. Ho sognato che dormivo il mio ultimo sonno vicino a quella addormentata, con il cuore immobile e la mia guancia gelata presso la sua.»

            «E, se si fosse dissolta in terra, o peggio, che cosa avreste sognato allora?»

            «Di dissolvermi con lei, e di essere ancor più felice,» rispose. «Supponete che tema una sorte simile? Mi aspettavo una simile trastormazione nel rialzare il coperchio: ma preferisco che non abbia inizio finchè non vi possa prender parte anch'io. Per di più, prima di avere una impressione definita del suo aspetto senza passione, quello strano sentimento non mi avrebbe mai abbandonato. Cominciò in un modo speciale. Sapete come fossi disperato quando morì; e sempre, da un'alba all'altra, la pregavo di tornarmi in spirito! Credo fermamente negli spiriti: ho la convinzione che lo possano, che realmente esistano qui tra noi! Il giorno che fu seppellita venne una bufera di neve. Quella sera andai al cimitero. Soffiava un vento freddo come d'inverno; tutto all'intorno era solitario. Non temetti che quello scemo di un marito sarebbe venuto a vagare per quella solitudine a un'ora tanto tarda; e a nessun altro poteva interessare di venire là. Essendo solo, e cosciente che appena due braccia di terra costituivano l'unica barriera tra noi, dissi a me stesso: "Voglio stringerla ancora una volta! Se è fredda, penserò che è questo vento di tramontana che l'agghiaccia, e se è immobile, è il sonno." Andai a prendere una vanga nello stanzino degli arnesi, e cominciai a scavare con tutta la mia forza; sfregai la bara, mi posi al lavoro con le mani; il legno cominciò a scricchiolare intorno alle viti; ero sul punto di raggiungere il mio scopo, quando mi sembrò di udire un sospiro da qualcuno, chinato presso l'orlo della fossa. "Se soltanto riesco a toglier questo," mormorai, "vorrei che gettassero palate di terra sopra tutt'e due!" e mi aggrappai ancor più disperatamente. Vi fu un altro sospiro, accosto al mio orecchio. Mi parve di sentire un soffio caldo unirsi al vento carico di nevischio. Sapevo che nessuno mi era vicino; ma per certo, come quando nell'oscurità si avverte l'approssimarsi di un corpo reale, benchè non si riesca a distinguerlo, così sentii che Caterina era là; non sotto a me, ma sulla terra. Un subitaneo senso di sollievo fluì dal mio cuore alle mie membra. Abbandonai la mia fatica angosciosa, e mi volsi di subito consolato, indicibilmente consolato. Me la sentii vicina, e rimase con me finchè non ebbi ricoperta la fossa, allora venne con me a casa. Ridete se volete; ma ero sicuro che la avrei riveduta a casa. Ero sicuro che fosse con me e non potevo far a meno di parlarle. Giunto alle Heights corsi ansioso alla porta. Era chiusa, e ricordo che quel maledetto Earnshaw e mia moglie mi impedirono di entrare. Ricordo di essermi fermato e di averlo tramortito con un calcio, e di esser corso poi su in camera nostra. Mi guardai intorno impazientemente, me la sentivo vicina, potevo quasi vederla, eppure non la vedevo. Per l'angoscia della mia brama, per il fervore delle mie suppliche di vederla almeno una volta, avrei dovuto sudar sangue. Non mi apparve mai. Si mostrò con me, come spesso si era mostrata durante la vita, un demonio. E da allora, con maggiore o minore frequenza, fui in preda a quell'intollerabile, infernale tortura, i miei nervi erano così tesi che se non fossero stati simili a corde d'acciaio, da lungo tempo si sarebbero infranti come quelli di Linton. Quando ero in casa con Hareton, mi pareva che, uscendo, l'avrei incontrata. E così, rientrando dopo esser stato fuori per la landa: quando mi assentavo da casa, m'affrettavo a ritornare. Doveva essere in qualche parte alle Heights, ne ero certo! E quando dormivo in camera sua, ne ero ricacciato fuori. Non potevo riposare là; perchè nell'istante in cui chiudevo gli occhi lei era o fuori dalla finestra, o faceva scorrere i pannelli, o entrava nella stanza, o anche posava la sua amata testolina sullo stesso guanciale come soleva fare quando era ragazza, e io dovevo aprire gli occhi per vederla. E così li schiudevo e chiudevo cento volte in una notte, e restavo sempre deluso. Mi torturava! Molte volte mi sono lamentato ad alta voce, al punto che quel vecchio furfante di Giuseppe credeva che nella mia coscienza albergasse un demonio. Da quando l'ho veduta, ne ho avuto sollievo... un poco di sollievo. Era uno strano modo di uccidere, il suo! non a gradi, ma a frazioni minime, allettarmi con la parvenza d'una speranza per diciotto anni di seguito!»

            Il signor Heathcliff tacque e s'asciugò la fronte; i capelli madidi di sudore vi si appiccicavano; i suoi occhi eran fissi sui rossi carboni del fuoco, le ciglia non corrugate, ma rialzate verso le tempie, diminuivano l'espressione truce del suo viso, ma gli davano uno speciale turbamento e una penosa apparenza di tensione mentale verso un unico oggetto. Si era rivolto a me quasi inconsciamente; e io mantenni il silenzio. Mi faceva male sentirlo parlare! Dopo poco, ripensò nuovamente al ritratto, lo staccò dalla parete e l'appoggiò al divano per contemplarlo in miglior luce, e, mentre era così occupato, entrò Caterina, ad annunciare che era pronta; mancava solo di far sellare il pony.

            «Ce lo manderete domani,» Heathcliff disse a me, indi, rivoltosi a Cathy, soggiunse: «potete benissimo far senza il vostro pony; è una bella sera e a Wuthering Heights non avrete bisogno di cavalli; per i viaggi che farete, vi basteranno le gambe. Andiamo!»

            «Addio, Elena!» mormorò la mia cara padroncina. E, mentre mi baciavano, le sue labbra erano gelide. «Vieni a trovarmi, Elena; non dimenticartene!»

            «Guardatevene bene!» disse il suo nuovo padre. «Quando avrò bisogno di parlarvi verrò io qui. Non voglio saperne della vostra ingerenza in casa mia!»

            Fece cenno a Caterina di precederlo; e lei ubbidì, volgendo indietro uno sguardo che mi spezzò il cuore. Dalla finestra li vidi scendere e camminare attraverso il giardino. Heathcliff tenne il braccio di Caterina sotto al suo, anche se evidentemente da principio lei cercasse di liberarlo; e con lunghi passi affrettati si diresse con lei nel viale ove scomparvero dietro gli alberi, e non potei più scorgerli.

           

 

XXX    (torna all'indice)

           

 

           

            Ho fatto una sola visita alle Heights, ma non ho più rivisto Caterina da quando ha lasciato Grange; Giuseppe quando, arrivata lassù, ho chiesto notizie di Caterina non mi ha lasciato neppure varcare la soglia. Ha detto che la signora Linton era «prosperosa», e che il padrone non era in casa. Zillah mi ha riferito qualcosa sulla vita che conducono, altrimenti non saprei quasi chi sia morto e chi sia vivo. Da come mi ha parlato Zillah ho indovinato che non ha simpatia per Caterina e che la giudica superba. La mia padroncina da principio si era rivolta a lei per essere aiutata, ma il signor Heathcliff ha subito ingiunto a Zillah di badare alle proprie faccende e di lasciare che la nuora se la cavasse da sola; e Zillah, donna di mente limitata e di animo egoista, ha acconsentito di buonissima voglia. Caterina non ha saputo trattenersi dal dimostrarle il suo puerile dispetto per tale trascuratezza; l'ha ricambiata con altrettanto sdegno, e così ha presto considerato Zillah come una sua nemica, come se le avesse fatto un gran torto. Circa sei settimane or sono, poco prima del vostro arrivo, ho fatto appunto una lunga chiacchierata con Zillah, un giorno che ci siamo incontrate sulla collina; questo è quanto ho saputo da lei.

            «Arrivata alle Heights,» ha detto Zillah «la signora Linton, corse subito di sopra, senza nemmeno augurare la buona sera a Giuseppe, nè a me; si chiuse nella camera di Linton, e vi rimase fino al mattino...»

            Poi quando il padrone ed Earnshaw erano a colazione, venne giù nella «casa» e, tutta tremante, domandò se si potesse mandare per il medico: suo cugino stava molto male.

            «Lo sappiamo!» le rispose Heathcliff, «ma la sua vita non vale un centesimo, e io non voglio spendere nulla per lui.»

            «Ma non so in che modo aiutarlo,» replicò Cathy, «e, se nessuno mi aiuta, morirà.»

            «Andatevene fuori di qui,» gridò il padrone, «e che non senta più una parola riguardo a lui! Nessuno si cura di sapere quel che succederà di lui; se voi, invece, tenete alla sua vita, fategli da infermiera, o rinchiudetelo a chiave, e abbandonatelo.»

            Allora cominciò a insistere perchè l'aiutassi io, ma io le dissi che avevo già avuto la mia parte con quel noioso, che ciascuno di noi aveva le proprie incombenze, e che il suo compito era di servire Linton, avendomi il signor Heathcliff ordinato di lasciar a lei tale mansione.

            Non saprei dire come se la cavassero tra di loro. Immagino che lui fosse molto angustiato dal male e che si lagnasse giorno e notte lasciandole ben poco tempo per riposare, e questo appariva dal suo volto pallido e dagli occhi stanchi. A volte arrivava in cucina tutta spaventata, e si guardava intorno, come per impetrare aiuto, ma io non volevo disubbidire al padrone, non oserei mai disubbidirlo, signora Dean, e, benchè pensassi che fosse male non chiamare Kenneth, non davo consigli nè facevo rimostranze, non essendo questo affar mio, e ricusai sempre d'intromettermi. Più di una volta, dopo essermi coricata, mi capitò di riaprire la mia porta, e di vederla seduta in cima alla scala tutta in lacrime; allora richiudevo in fretta, nel timore di sentirmi commuovere e di dover intervenire. Certamente in quel momento mi faceva compassione, ma non volevo perdere il mio posto, potete ben pensare.

            Alla fine una notte Caterina entrò direttamente in camera mia, e mi tramortì dallo spavento dicendomi:

            «Dite al signor Heathcliff che suo figlio è morente, questa volta ne sono sicura. Alzatevi subito, e diteglielo.»

            Pronunciate queste parole, scomparve di nuovo. Rimasi un quarto d'ora in ascolto, tremavo. Nulla si moveva: la casa era quieta.

            «Si è sbagliata,» dissi tra me. «Sarà stata una crisi. Non occorre che disturbi gli altri», e cominciai a sonnecchiare. Ma il mio riposo fu turbato una seconda volta da una brusca scampanellata, avevamo un solo campanello, ed era stato messo appositamente per Linton; il padrone mi chiamò per sapere che cosa fosse accaduto, e perchè dicessi loro (a Linton e a Caterina) che non voleva udire quello scampanellio un'altra volta.

            Gli comunicai quanto avevo appena appreso da Caterina. Bestemmiò tra sè, e dopo pochi minuti uscì con una candela accesa, e si diresse in camera loro. Lo seguii. La signora Heathcliff era seduta presso il capezzale, le mani congiunte in grembo. Il suocero s'avvicinò, accostò il lume al volto di Linton, lo guardò, lo tocccò; poi si girò verso di lei.

            «Ora... Caterina,» disse, «come vi sentite?»

            Ella rimase muta.

            «Caterina, come vi sentite?» ripetè.

            «Lui è in salvo, e io sono libera,» rispose quella. «Dovrei sentirmi bene... ma,» continuò con una amarezza che non poteva celare, «mi avete lasciata così a lungo sola a lottare con la morte, che ora non sento e non vedo altro che la morte! Mi sento simile alla morte!»

            E ne aveva anche il sembiante! Le diedi un po' di vino. Hareton e Giuseppe che erano stati risvegliati dal suono del campanello e dal rumore di passi, e che ci avevano sentito parlare, entrarono; Giuseppe sembrava sollevato, credo, per la morte del ragazzo; Hareton un poco turbato, benchè fosse più intento a guardare Caterina che a pensare a Linton. Ma il padrone gli ordinò di andarsene di nuovo a letto; il suo aiuto non occorreva. Dopo di che fece trasportare il corpo di Linton nella propria camera, mi disse di ritornare nella mia, e la signora Heathcliff rimase sola.

            La mattina lui mi mandò a dirle che doveva scendere per la colazione; si era spogliata e sembrava addormentata, disse di sentirsi male, cosa che non mi meravigliò punto. Ne informai il signor Heathcliff, il quale rispose:

            «Bene, lasciatela riposare fin dopo il funerale; ogni tanto salirete, portandole quel che le può occorrere, e, non appena vedrete che sta meglio, mi avvertirete.»

            Cathy, secondo quanto mi raccontò Zillah, rimase in camera sua una quindicina di giorni; Zillah andava a vederla due volte al giorno, e sarebbe stata più cordiale con lei, se ogni tentativo di maggiore gentilezza non fosse stato orgogliosamente e immediatamente respinto.

            Heathcliff salì una volta, per mostrarle il testamento di Linton. Aveva lasciato a suo padre l'intero patrimonio e quel che una volta apparteneva a lei; il povero disgraziato era stato indotto con le minacce o le carezze a firmare quell'atto durante la settimana in cui la ragazza era stata assente per la morte del padre. In quanto alle terre, essendo Linton minorenne, non aveva potuto disporne. Tuttavia, il signor Heathcliff le aveva reclamate per diritto legale, suppongo; ad ogni modo, Caterina, destituita di ogni mezzo e senza amici, non può toccar nulla di quanto è in possesso del signor Heathcliff.

            «Nessuno,» ha detto Zillah, «s'è mai avvicinato alla sua porta, eccettuata quella volta; e nessuno ha chiesto mai di lei. La prima occasione nella quale lei scese fu un pomeriggio di domenica. Quando le avevo portato il pranzo, aveva detto piangendo che non poteva più sopportare di rimanersene al freddo; le dissi allora che il padrone si recava a Thrushcross Grange, e che Earnshaw e io non dovevamo impedirle di scendere; così, non appena sentì il cavallo di Heathcliff trottare via, scese fra noi vestita a lutto, si era tirata i ricci d'oro dietro alle orecchie modestamente come una quacchera, non essendo riuscita a pettinarli con cura...»

            Giuseppe e io generalmente la domenica andiamo alla cappella; la chiesa, ora, è senza pastore, e chiamano cappella il posto dei Metodisti o dei Battisti (non so dire quale sia), a Gimmerton.

            Giuseppe vi si era recato, ma io pensai fosse bene rimanere a casa. I giovani vanno sempre sorvegliati da una persona matura; e Hareton, con tutta la sua timidezza, non è un modello di buona condotta. Gli feci sapere che la cugina sarebbe probabilmente scesa con noi, e che era abituata a vedere la domenica rispettata, così lui avrebbe fatto bene a non avere tra le mani i suoi fucili o altri arnesi. Arrossì alla notizia e si diede un'occhiata alle mani e agli abiti. In un attimo l'untume e le cartucce scomparvero. M'accorsi che intendeva occuparsi di Caterina; e indovinai, dai suoi modi, che desiderava esser presentabile; così, ridendo, come non oso mai ridere quando c'è il padrone, gli offrii di aiutarlo, se lo desiderava, e mi feci gioco della sua confusione. Diventò torvo, e cominciò a bestemmiare.

            «Ora, signora Dean,» Zillah ha ripreso a dire, notando che non l'approvavo, «voi pensate che la vostra padroncina è troppo fine per Hareton, e forse avete ragione: ma confesso che amerei moltissimo farle abbassare un po' la cresta. E a che cosa le possono servire ora tutta la sua raffinatezza e tutto il suo sapere? È povera quanto voi e me: forse più povera, scommetto che voi mettete da parte qualcosa e io faccio quel poco che posso nel medesimo intento...»

            Hareton acconsentì a che Zillah l'aiutasse; ed ella riuscì a renderlo di buon umore, adulandolo un poco; così, quando giunse Caterina, dimenticando in parte le antiche offese, lui cercò di renderlesi gradito. Questo è i1 resoconto di Zillah.

            «La signora entrò,» mi ha detto, «fredda come un ghiacciaio, e altera come una principessa. Mi alzai e le offrii il mio posto in una poltrona. No, a questa mia garbatezza arricciò il naso. Anche Earnshaw si alzò, e le disse di sedersi sulla panca vicino al fuoco, era sicuro che morisse di freddo...»

            «Sono morta di freddo per un mese e più,» rispose lei soffermandosi sulle parole con quanto sdegno poteva.

            E si prese una sedia e la collocò lontana da tutt'e due. Rimase seduta finchè non si fu un poco riscaldata, poi cominciò a guardarsi in giro, e scoprì sulla credenza molti libri, si alzò immediatamente e tese le braccia per arrivare a prenderli, ma erano troppo in alto. Suo cugino, dopo esser rimasto per un poco a guardare quei tentativi, alla fine si fece coraggio, e l'aiutò;  ella teneva rialzata la gonnella, ed egli vi mise il primo libro che gli capitò tra le mani.

            Era un gran passo avanti per il ragazzo. Lei non lo ringraziò; e pure egli fu felice che avesse accettato il suo aiuto, e osò tenersi dietro a lei mentre esaminava quei libri, e perfino chinarsi e additarle quello che aveva colpito la sua fantasia in certe vecchie incisioni, non era neppure offeso dalla poca grazia con cui lei allontanava la pagina dal suo dito; si accontentava di ritirarsi un poco più indietro, e di guardar la cugina invece del libro. Ella continuò a leggere, o a cercare qualcosa da leggere. L'attenzione di Hareton, grado a grado si concentrò tutta nell'esame dei folti e morbidi ricci della fanciulla, non poteva vederle il volto, come lei non poteva veder lui.

            E, forse, non del tutto cosciente di quel che faceva, ma attratto come un bimbo verso il lume, alla fine, da guardare passò al toccare; stese la mano e accarezzò un ricciolo delicatamente come se fosse stato un uccellino. Fu come se le avesse piantato un coltello nel collo, ella si girò di scatto, e lo sorprese.

            «Via, all'istante! Come osate toccarmi? Perchè siete rimasto lì?» gridò in un tono disgustato. «Non posso sopportarvi! Se mi venite vicino, ritornerò di sopra.»

            Il signor Hareton si ritrasse del tutto inebetito; sedette sulla panca molto quietamente, ed ella continuò a sfogliare i suoi volumi per un'altra mezz'ora; infine Earnshaw venne dov'ero io e mi bisbigliò:

            «Vorreste domandarle di leggere a voce alta, Zillah? Sono stanco di non far nulla; e vorrei... amerei sentirla! Non dite che sono io che lo chiedo, ma chiedeteglielo per voi stessa.»

            «Il signor Hareton desidererebbe che ci leggeste a voce alta, signora,» dissi subito. «Ne avrebbe molto piacere, ve ne sarebbe molto grato.»

            Ella s'accigliò, e alzati gli occhi, rispose:

            «Il signor Hareton, e tutti quanti voi, abbiate la bontà di comprendere che io ricuso da voi qualsiasi profferta di gentilezza. Quando avrei data la mia vita per una sola buona parola, e anche per vedere qualcuno di voi, voi tutti vi teneste lontani. Ma non voglio lagnarmi! Sono stata cacciata quaggiù dal freddo, non per divertirvi o per godere della vostra compagnia.»

            «Che cosa avrei potuto fare?» cominciò Earnshaw. «Di che sono colpevole io?»

            «Oh! voi siete un'eccezione,» rispose la signora Heathcliff. «Non ho mai sentito la mancanza di un personaggio quale siete voi.»

            «Ma io più di una volta ho pregato,» disse lui accendendosi, davanti alla sua arroganza, «ho pregato il signor Heathcliff di lasciarmi vegliare per voi.»

            «Tacete! Andrò fuori di casa, o non importa dove, piuttosto di avere nel mio orecchio la vostra voce così sgradevole!» disse la mia padrona.

            Hareton brontolò che per lui poteva andarsene all'inferno, e, staccato il fucile, riprese senz'altro le sue occupazioni domenicali. Ora parlava abbastanza liberamente, e, dopo un momento, Cathy trovò necessario isolarsi; ma faceva molto freddo, e, a onta del suo orgoglio, fu costretta sempre più ad accettare la nostra compagnia. Nondimeno le feci ben capire che non avrei sopportato altri segni di disprezzo; da allora io non sono meno rigida di lei, e nessuno di noi l'ama, o comunque la trova simpatica; del resto se lo merita, perchè lasciate che qualcuno le dica la minima parola e lei si rivolterà senza il minimo rispetto. Risponde al padrone stesso e lo provoca a batterla; e più è offesa, più si fa velenosa.

            Sulle prime, all'udire il racconto di Zillah, decisi di abbandonare il mio posto, di acquistare una casetta e di prendere con me Caterina; ma il signor Heathcliff si opporrebbe sicuramente a questo, allo stesso modo che non concederebbe mai ad Hareton una posizione indipendente, e per ora non vedo alcun rimedio, se non che lei si risposi, ma questo piano è per me irrealizzabile.

            Così terminò la storia della signora Dean. Nonostante la profezia del dottore, sto riacquistando rapidamente le forze; e, benchè si sia soltanto alla prima metà di gennaio, mi propongo di uscir fuori a cavallo fra qualche giorno e di cavalcare alla volta di Wuthering Heights per informare il mio padrone che passerò i prossimi sei mesi a Londra, e perchè si cerchi un altro affittuario, qualora lo desideri, dopo l'ottobre. Non passerei qui un altro inverno a nessun costo.

           

 

XXXI    (torna all'indice)

           

 

           

            Ieri è stata una giornata radiosa, calma e rigida. Mi recai alle Heights come mi ero proposto; la mia governante mi supplicò di portare un biglietto alla sua padroncina, e io non rifiutai dato che la brava donna non pareva trovare strana la sua domanda. La porta principale era aperta, ma il cancello era gelosamente chiuso come all'ultima mia visita. Picchiai, e chiamai Earnshaw che stava tra le aiuole; venne, tolse la catena, e io entrai. È un bel giovanotto che fa piacere vedere. Questa volta l'osservai più attentamente, ma, se lui se ne accorge, fa di tutto per rendersi apparentemente sgradevole.

            Gli domandai se il signor Heathcliff fosse in casa. Rispose che non c'era ma vi sarebbe stato per l'ora del desinare. Erano le undici, e io gli comunicai la mia intenzione di aspettarlo in casa; subito buttò a terra i suoi arnesi, e m'accompagnò come avrebbe fatto un cane da guardia e non come chi fungesse da padrone.

            Entrammo insieme; Caterina era occupata a preparare degli ortaggi per il prossimo pranzo; sembrava più contegnosa e meno vivace della prima volta che l'avevo vista. Non alzò quasi gli occhi, quasi non si avvedesse di me, incurante, come la prima volta, di ogni forma di cortesia; non rispose neppure con un minimo segno al mio inchino e al mio buon giorno.

            «Non mi sembra poi così affabile, come la signora Dean vorrebbe farmi credere,» pensai. «È una bellezza, questo sì, ma non un angelo.»

            Earnshaw le ordinò arrogantemente di trasferirsi con la sua roba in cucina. «Portacela tu,» disse, allontanandola da sè non appena ebbe finito di prepararla e si diresse a uno sgabello presso la finestra, ove cominciò a intagliare figure di uccelli e di altre bestie nelle bucce di rapa che le erano restate in grembo. Con il pretesto di vedere il giardino mi avvicinai a lei, e le lasciai tosto cadere in grembo, molto abilmente, almeno così credetti, la letterina della signora Dean, senza quindi farmi scorgere da Hareton; ma Caterina chiese ad alta voce: «Che cos'è questo?» e lo respinse.

            «Una lettera d'una vostra vecchia conoscente, la governante a Grange,» risposi, seccato che lei avesse smascherato la mia gentilezza e temendo che qualcuno potesse credere che si trattasse di un mio scritto. Dopo questa mia spiegazione, lei l'avrebbe ripresa molto volentieri, ma Hareton fu più lesto, si impadronì della lettera e se la ficcò in una tasca del panciotto, dicendo che il signor Heathcliff doveva vederla per primo. Allora Caterina si girò dall'altra parte, portandosi il fazzoletto agli occhi, e il cugino, dopo aver lottato un poco per soffocare i propri sentimenti più teneri, le gettò la lettera ai piedi, nel modo più sgarbato possibile. Caterina la raccattò, e la lesse ansiosamente; poi mi fece qualche domanda intorno agli abitanti della sua casa di una volta; e, guardando verso le colline, mormorò, quasi parlando con se stessa:

            «Quanto desidererei scendere a Grange a cavallo di Minny! o salire lassù!... Oh! sono stanca... Hareton, come mi annoio!» E reclinò la sua graziosa testolina sul davanzale, con uno sbadiglio o un sospiro mezzo represso; assunse un aspetto di distratta tristezza, senza più badare a noi.

            «Signora Heathcliff,» dissi, dopo esser rimasto per un po' in silenzio, «non sapete, dunque, che sono un vostro conoscente così intimo da trovar strano che non abbiate una parola da rivolgermi? La mia governante non fa che parlarmi di voi e lodarvi, e chissà come sarebbe profonda la sua delusione se tornassi senza vostre notizie, e non potessi dirle altro che avete ricevuta la lettera ma che non mi avete parlato!»

            Sembrò meravigliata a questo mio discorso, e mi domandò:

            «Andate a genio a Elena?»

            «Sì, molto,» le risposi, con qualche esitazione.

            «Dovete dirle,» proseguì, «che risponderei alla sua lettera, ma che non ho quanto occorre per scrivere; nemmeno un libro da cui poter strappare una pagina bianca.»

            «Nessun libro!» esclamai. «Come fate a vivere qui senza un libro? scusate la mia domanda. Benchè io abbia a mia disposizione una grande biblioteca, m'annoio molto a Grange; se mi privaste dei libri, sarei ridotto alla disperazione.»

            «Leggevo sempre quando li avevo,» disse Caterina; «ma il signor Heathcliff non legge mai; così si mise in testa di distruggerli tutti. Da settimane non ne vedo più uno. Soltanto una volta ho frugato tra i libri di teologia di Giuseppe, con suo grandissimo dispetto; e una volta, Hareton, ne ho scoperto un mucchio nascosto in camera tua; ce n'erano di latini e di greci e alcuni di racconti e di poesie: tutti vecchi amici. Me li ero portati qui, e tu Hareton li hai raccolti come una gazza raccoglie cucchiai d'argento, per il semplice istinto di rubare! A te non servivano affatto, eppure li avevi nascosti per la malvagità di non permettere che altri ne godano, non potendo goderne tu. È stata forse la tua invidia a indurre il signor Heathcliff a derubarmi dei miei tesori? Ma molti di essi li ho scritti nella mia mente, e stampati in cuore, e di questi tu non potrai privarmi!»

            Earnshaw si fece rosso scarlatto, quando la cugina gli rinfacciò d'essersi fatto una biblioteca per proprio uso, e mormorò un indignato diniego alle sue accuse.

            «Il signor Hareton desidera accrescere le sue cognizioni,» dissi, venendogli in aiuto. «Lui non è invidioso bensì emulo dei vostri talenti letterari. In pochi anni si farà una cultura.»

            «E nel frattempo vuole che sprofondi io nell'ignoranza,» rispose Caterina. «Sì, lo sento bene, mentre prova a compitare e a leggere da sè e fa tanti graziosi sbagli! Vorrei sentirti ripetere la ballata Chévy Case come la dicevi ieri: era divertentissimo. Ti ho sentito, e anche sfogliare il dizionario per dritto e per rovescio onde cercarvi le parole difficili, e poi bestemmiare perchè non riuscivi a leggerne la spiegazione.»

            Il ragazzo pensò certo che fosse molto ingiusto venir deriso per la propria ignoranza, ma poi sorrise, tentando di scacciare quel pensiero in verità da me condiviso; e ricordando l'aneddoto della signora Dean dei primi tentativi di Hareton di diradare un poco l'oscurità nella quale era stato allevato, dissi:

            «Ma, signora Heathcliff, ognuno di noi ebbe un principio, e ognuno incespicò e tentennò sulla soglia, se i nostri maestri invece di venirci in aiuto, ci avessero disprezzati, noi ci troveremmo ancora a incespicare e a tentennare.»

            «Oh!» rispose, «non desidero affatto limitare la sua istruzione; tuttavia non ha diritto di appropriarsi di quel che è mio, e rendermelo ridicolo con i suoi rozzi sbagli, e la sua cattiva pronuncia! Quei libri, sia di prosa sia di poesia, mi sono sacri per altri ricordi, e io soffro a sentirmeli sciupare e profanare dalla sua bocca! Per di più, ha anche scelto i miei brani preferiti, quelli che più amo recitare, proprio per farmi dispetto.»

            Per un istante il petto di Hareton si sollevò, mentre lui restava in silenzio: lottava contro un grave senso di mortificazione e di collera, che non era facile impresa reprimere. Mi alzai, per toglierlo d'imbarazzo, e mi allontanai verso la soglia, rimanendo a osservare quel che sarebbe accaduto. Hareton seguì il mio esempio, anzi lasciò la stanza, ma tornò subito, portando tra le mani una mezza dozzina di volumi che gettò in grembo a Caterina, esclamando:

            «Prendeteveli! Ora non voglio più sentirne parlare, e nemmeno leggerli o pensarci!»

            «Ora non li voglio,» rispose Caterina. «Mi ricorderebbero sempre te, e li odierei!»

            Ella ne aprì uno che evidentemente era stato sfogliato diverse volte, e ne lesse una parte con il tono impacciato di un principiante; poi rise e lo buttò lontano da sè. «E ascolta,» proseguì in modo provocatorio, cominciando a ripetere il verso di una vecchia ballata con lo stesso tono.

            Ma Hareton punto sul vivo, non si sentì di sopportare altro. Sentii, e non disapprovai del tutto, uno schiaffetto risuonare su quella sua bocca insolente. La piccola sciagurata aveva fatto di tutto per ferire l'animo rozzo ma sensibile del cugino, e una punizione di quel genere era il solo mezzo in potere di lui per aggiustare i conti, e infliggere la medesima pena a chi l'aveva offeso per primo. Dopo di lui raccolse i libri e li lanciò nel fuoco. Il suo volto tradiva l'angoscia di veder sacrificati al rancore verso Caterina i libri a lui cari. Mentre bruciavano, pensavo tra me che lui doveva ricordare quale piacere gli avessero già procurato e il trionfo, un piacere ancor più grande, che si era ripromesso, e immaginai anche quale incitamento ai suoi studi tenuti celati, dovevano aver costituito quei libri per lui. Prima che Caterina attraversasse la sua strada lui era contento del suo lavoro quotidiano e dei rustici godimenti materiali. La vergogna davanti al disprezzo di lei, e la speranza di riceverne un'approvazione erano stati i primi incentivi a più alte conquiste; e i suoi sforzi per elevarsi invece di vincere quel disprezzo e ottenere quell'approvazione avevano sortito proprio un risultato contrario.

            «Sì, quello è tutto il bene che un bruto come te può ricavarne!» gridò Caterina, premendo il labbro già martoriato, e guardando il fuoco con occhi pieni d'indignazione.

            «Fareste meglio a tacere ora,» rispose Hareton con fierezza.

            E la sua agitazione non gli permise di aggiungere altro; si diresse in fretta verso l'uscita, dove io mi scostai per lasciarlo passare. Ma, prima che fosse uscito, il signor Heathcliff, giungendo dal viale, lo incontrò, lo afferrò per una spalla, e gli chiese:

            «Che c'è di nuovo ragazzo mio?»

            «Nulla, nulla,» disse, e fuggì per poter soffrire di dolore e di rabbia in solitudine.

            Heathcliff lo seguì con lo sguardo e sospirò.

            «Sarebbe strano se io mi contraddicessi,» mormorò, non sapendo che stavo dietro a lui. «Ma, quando sul suo viso cerco di scorgere il padre, ci trovo invece lei ogni giorno di più. Per il demonio come può assomigliarle tanto? Mi è quasi insopportabile vederlo.»

            Abbassò lo sguardo a terra, ed entrò in casa. Vi era un'espressione inquieta e ansiosa sul suo sembiante come non l'avevo mai notata prima, e sembrava piuttosto dimagrito. La nuora, appena lo scorse dalla finestra, si affrettò a fuggire in cucina, così io rimasi solo.

            «Sono contento di vedervi di nuovo fuori di casa, signor Lockwood,» disse in risposta al mio saluto; «per motivi egoistici, in parte. Non credo che potrei tanto facilmente trovare qualcuno che supplisca a voi in questa solitudine. Mi sono domandato più di una volta che cosa mai vi abbia portato qui.»

            «Un capriccio ozioso, temo, signore,» fu la mia risposta, «o se non altro un capriccio ozioso sta per farmi prendere il volo. La prossima settimana mi recherò a Londra, e vi devo avvertire che non ho intenzione di tenere Thrushcross Grange per oltre i dodici mesi convenuti nel contratto d'affitto. Credo non ci abiterò più lungo.»

            «Oh, davvero, siete già stanco d'essere al bando dal mondo?» disse. «Ma se siete venuto qui per mancare ai patti convenuti, il vostro viaggio è inutile; io non transigo mai nell'esigere quel che mi si deve da chiunque.»

            «Non sono affatto venuto per ottenere una cosa simile,» esclamai, oltremodo irritato. «Se lo desiderate posso regolare il conto adesso», e levai di tasca il portafoglio.

            «No, no,» rispose freddamente; «vi lascerete dietro abbastanza per coprire il vostro debito nel caso che non tornaste, non ho tanta premura. Sedetevi e rimanete a pranzo con noi, un ospite che si è sicuri non rinnoverà la sua visita può generalmente essere ben accolto. Caterina, apparecchia, dove sei?»

            Caterina riapparve portando un vassoio con le posate.

            «Puoi pranzare con Giuseppe,» le mormorò Heathcliff a parte, «e restatene in cucina finchè lui non se ne sarà andato.»

            Ella ubbidì, forse non costituivo una tentazione tale da indurla a trasgredire. Vivendo in mezzo a gente rozza e misantropa, non può probabilmente apprezzare una classe di persone superiori, quando le vien fatto d'incontrarne.

            Con il signor Heathcliff, arcigno e fosco da una parte, e Hareton assolutamente muto dall'altra, feci un pasto alquanto malinconico, e presi presto commiato. Avrei voluto prendere l'uscita posteriore per avere un'ultima rapida visione di Caterina e per importunare il vecchio Giuseppe; ma Hareton ricevette ordini di condurmi il mio cavallo, e il padrone venne in persona ad accompagnarmi alla porta, così il mio desiderio rimase insoddisfatto.

            «Come diventa triste la vita lassù in quella casa!» fu la mia riflessione mentre cavalcavo per la strada.

            Se la signora Linton Heathcliff e io fossimo stati presi d'amore l'uno per l'altro come desiderava la sua nutrice, e fossimo emigrati insieme in città, sarebbe stata una esperienza più romantica d'una favola per lei!

           

 

XXXII    (torna all'indice)

           

 

           

            1802. - In settembre fui invitato a caccia da un amico nelle sue terre situate verso il nord, e strada facendo mi trovai, senza saperlo, a quindici miglia da Gimmerton. Lo stalliere di un'osteria sulla strada maestra, stava abbeverando con un secchio d'acqua i miei cavalli, quando passò di là un carro di avena appena segata, e quello disse:

            «Quel carro viene da Gimmerton! Sono sempre in ritardo di tre settimane con la loro mietitura.»

            «Gimmerton!» esclamai, ricordando vagamente il tempo in cui ci avevo abitato. «Ah! Conosco il luogo. Quanto dista da qui?»

            «Saranno quattordici miglia attraverso le colline, è una brutta strada,» rispose.

            Fui subitamente assalito dal desiderio di rivedere Thrushcross Grange. Non era ancora mezzogiorno, e pensai che tanto valeva che passassi la notte sotto il mio vecchio tetto piuttosto che in una osteria. Inoltre potevo, senza inconvenienti, dedicare un giorno ad accomodare le cose con il mio padrone di casa e risparmiare in tal modo la noia di dover nuovamente ritornare in quei paraggi. Dopo essermi riposato un poco, mandai il mio servitore a informarsi della strada che conduceva al villaggio, e, affaticando molto le nostre bestie, riuscimmo a superare quella distanza all'incirca in tre ore.

            Lasciato il servitore, procedetti solo giù per la valle. La chiesa grigia appariva ancor più grigia, e il solitario cimitero ancor più solitario. Scorsi una pecora selvatica brucare l'erba bassa sulle tombe.

            Il tempo era dolce, faceva caldo, troppo caldo per viaggiare; ma il caldo non m'impedi di godere l'incantevole paesaggio: fossimo stati più verso l'agosto, ci avrei passato volentieri ancora un mese, in quella solitudine. In inverno nulla di più brutto, in estate nulla di più bello di quelle strette valli chiuse tra le colline, di quegli scoscesi promontori fioriti d'erica.

            Arrivai a Grange prima del tramonto, e picchiai alla porta; ma la servitù doveva essersi ritirata all'interno, così giudicai da una sottile colonna di fumo azzurro che s'innalzava a volute dal camino della cucina, e non fui sentito. Cavalcai nel cortile. Sotto il portico, una ragazza di nove o dieci anni stava seduta a far la calza, e una vecchia fumava la pipa in silenzio, sdraiata sui gradini.

            «È in casa la signora Dean?» domandai alla brava donna.

            «La signora Dean? No!» rispose, «non abita qui, è su alle Heights.»

            «Allora, siete voi la governante?» chiesi di nuovo.

            «Eh, teniamo noi la casa,» rispose.

            «Ebbene, io sono il signor Lockwood, il padrone. Ci sono camere pronte, per passarci la notte?»

            «Il padrone?» gridò meravigliata. «Chi mai poteva pensare che sareste venuto? Avreste dovuto avvertirci. Non ce n'è neppure una; sono tutte umide e in disordine: ecco così è!»

            Buttò via la pipa, e entrò rumorosamente in casa, seguita dalla ragazza, e io pure entrai; e vidi subito che quanto aveva detto era proprio vero. Per di più, la mia apparizione, non desiderata, aveva talmente scombussolato quella brava donna che fui costretto a pregarla soltanto di calmarsi. Sarei uscito a fare una passeggiata e nel frattempo, le dissi, avrebbe potuto prepararmi un angolo nel salotto ove cenare, e una camera ove dormire. Non occorreva spazzare nè spolverare, soltanto un buon fuoco e lenzuola asciutte, tutto qui quello che desideravo. Sembrava disposta a fare del suo meglio, benchè buttasse la scopetta del focolare sulla grata, invece dell'attizzatoio, e usasse a sproposito parecchi altri arnesi domestici, ma io uscii, confidando nella sua energia per aver un posto ove riposare al mio ritorno.

            Wuthering Heights era la meta dell'escursione che mi proponevo. Un secondo pensiero mi fece ritornare sui miei passi, non appena ebbi lasciato il cortile.

            «Tutti bene su alle Heights?» domandai alla brava donna.

            «Sì, per quel che ne sappiamo noi,» rispose, fuggendo via con un recipiente di carboni accesi.

            Avrei voluto chiedere per qual motivo la signora Dean avesse disertato Grange, ma era impossibile farle perdere altro tempo in quel momento critico, così mi girai e uscii, procedendo proprio con tutto mio agio; alle spalle avevo la luce del sole che tramontava e davanti la mite gloria della luna che sorgeva; l'una si affievoliva e l'altra irradiava, mentre, abbandonato il parco, salivo il sentiero roccioso verso la casa del signor Heathcliff. Prima che fossi giunto in vista di questa, del giorno restò solo una luce d'ambra senza raggi a occidente, ma con quella splendida luna potevo scorgere ogni ciottolo, e ogni filo d'erba sul sentiero. Non dovetti arrampicarmi sul cancello, nè picchiare, cedette alla mia mano. Questo è un progresso, pensai, e ne notai subito un altro: una fragranza di garofani e di violacciocche si diffondeva per l'aria in mezzo agli alberi da frutto dell'orto. Le impannate e le porte stavano aperte, tuttavia, come capita spesso nelle regioni in cui il carbone abbonda, un bel fuoco vivido illuminava il camino; il piacere che dà all'occhio rende sopportabile il calore eccessivo. Ma la «casa» di Wuthering Heights è così vasta che chi vi abita ha sufficiente spazio per mettersi al riparo dal riverbero; e appunto per questo coloro che vi si trovavano erano seduti non lontano da una delle finestre. Potevo vederli e anche sentirli parlare prima di entrare, mi posi quindi a guardare e ad ascoltare, spinto da un senso complesso di curiosità e d'invidia che crebbe più indugiavo.

            «Con-tra-rio!» disse una voce dolce come una campanella d'argento. «Questa è la terza volta, imbecille! Non te la ripeto più. Ricordatene o ti tiro per i capelli!»

            «Contrario, ecco!» rispose un'altra voce, in un accento più basso ma raddolcito. «E ora baciami per aver fatto tanta attenzione.»

            «No, rileggi prima tutto correttamente, senza un solo sbaglio.»

            Chi aveva parlato con voce virile cominciò a leggere: era un giovanotto vestito civilmente, e seduto a una tavola, con un libro davanti. Il suo bel volto raggiava di piacere e gli occhi vagavano impazientemente dalla pagina alla bianca manina che posava sulla sua spalla, la mano che gli veniva applicata di tanto in tanto abbastanza sonoramente sulla guancia per richiamarlo al dovere ogni volta che lui rivelava sintomi di disattenzione. Caterina gli stava dietro; i suoi chiari riccioli d'oro si mescolavano a tratti alle brune ciocche di lui quando si chinava a sorvegliare i suoi studi; e il viso di lei, era una fortuna che lui non potesse vederlo, altrimenti non sarebbe mai stato così serio. Io, sì, lo vedevo, e mi morsi il labbro per il dispetto di aver trascurato l'occasione di fare qualcosa di meglio che non rimirarne stupefatto la incantevole bellezza.

            La lettura si compì non senza altri sbagli; ma l'allievo reclamò una ricompensa e si ebbe almeno cinque baci, che ricambiò generosamente. Indi s'avvicinarono alla porta, e dalla loro conversazione compresi che stavano per uscire a fare una passeggiata per le colline. Immaginai che, se avessi fatto la mia sfortunata apparizione in quel momento, Hareton m'avrebbe condannato alla più profonda bolgia nelle regioni infernali, se non con la bocca almeno in cuor suo. Così, sentendomi vilissimo peccatore, me la svignai per cercar rifugio in cucina. Da quella parte, pure l'entrata era libera, e sulla porta sedeva la mia vecchia amica Nelly Dean, intenta a cucire e a cantare una delle sue canzoni preferite; spesso interrotta da aspre parole di sprezzo e intolleranza provenienti dall'interno e pronunciate in toni tutt'altro che musicali.

            «Preferirei cento volte sentirli bestemmiare mattina e sera che dover ascoltar voi!» disse l'abitatore della cucina, in risposta a un discorso da me non afferrato di Nelly. «È una vergogna che io non possa aprire il Libro sacro, senza che voi cominciate i vostri gloria a Satana e tutte le altre vostre terribili imprecazioni! Oh! voi non siete buona e quell'altra neppure; quel povero ragazzo si perderà tra voi due. Poveraccio!» riattaccò con un lamento; «è stregato; ne sono sicuro! Oh, Signore, giudicateli voi perchè non c'è legge nè giustizia tra quanti ci governano!»

            «Per fortuna, altrimenti finiremmo al rogo, suppongo,» replicò la signora Dean. «Ma sta' zitto, vecchio, e leggi la tua Bibbia come un cristiano, e non badare a me. Questo è lo Sposalizio della Fata Annina, un'aria dolce, familiare, va bene per ballare.»

            La signora Dean stava per riattaccare, quando mi feci avanti, mi riconobbe subito, e balzò in piedi, gridando:

            «Come, mio Dio, signor Lockwood! Come avete fatto a ritornare così d'improvviso? A Grange è tutto chiuso. Dovevate darcene avviso!»

            «Ho trovato da accomodarmi,» risposi. «Ripartirò domani. E come mai, signora Dean, siete venuta quassù? Spiegatemi tutto.»

            «Zillah si licenziò, e il signor Heathcliff subito dopo la vostra partenza per Londra, volle che mi trasferissi fino al vostro ritorno. Ma, entrate, vi prego! Siete venuto a piedi questa sera da Gimmerton?»

            «Da Grange,» risposi, «e, mentre mi stanno preparando una camera ove passare la notte, desidero accomodare i miei affari con il vostro padrone; credo che non mi si presenterebbe un'altra occasione tanto presto.»

            «Quali affari, signore?» disse Nelly, conducendomi in casa. «È uscito ora e non ritornerà per un po'!»

            «Riguardo all'affitto,» risposi.

            «Oh! allora dovrete rivolgervi alla signora Heathcliff,» mi disse; «o meglio ancora a me. Non ha ancora imparato a trattare i propri interessi, e io agisco in suo nome, non c'è nessun altro.»

            La guardai stupito. «Ah!» proseguì, «si vede che non avete saputo nulla della morte del signor Heathcliff.»

            «Il signor Heathcliff è morto?» eslamai, al colmo dello stupore. «Quando?»

            «Tre mesi fa, ma sedetevi, e datemi il cappello, ed io vi racconterò tutto. Aspettate, non avete mangiato nulla, vero?»

            «Non desidero nulla, ho ordinato la cena a casa; sedete pure voi. Non avrei mai pensato che sarebbe morto così presto! Lasciatemi sentire come è successo. Dite: non li aspettate di ritorno presto, quei due?»

            «Ogni volta devo sgridarli per le loro passeggiate serali troppo lunghe, ma non mi danno ascolto. Mandate giù almeno un sorso della nostra vecchia birra; vi farà bene; sembrate stanco.»

            Corse subito a prenderne senza darmi il tempo di rifiutare; sentii Giuseppe gridare:

            «Non è uno scandalo da far piangere che alla vostra età abbiate dei pretendenti? E poi che dobbiate prendere dalla cantina del padrone quei boccali?! Mi vergogno di esser costretto a guardare senza poter far nulla!»

            Nelly non si fermò a replicare, ma riapparve un minuto dopo, portando un boccale d'argento colmo fino all'orlo, e io, da buon conoscitore, ne lodai il contenuto. Dopo di che mi narrò il seguito della storia di Heathcliff. Fece una fine strana, così si espresse lei.

            «Fui chiamata a Wuthering Heights quindici giorni all'incirca dopo la vostra partenza, e io, per amore di Caterina, ubbidii con gioia...»

            Il mio primo incontro con lei mi addolorò e sorprese, tanto era mutata dall'ultima nostra separazione. Il signor Heathcliff non spiegò le ragioni per cui aveva cambiato opinione riguardo alla mia venuta qui; mi disse soltanto che aveva bisogno di me, e che era stanco di vedersi davanti Caterina; dovevo prendermi il salottino, e tenere Caterina con me. Era abbastanza per lui l'essere obbligato a vederla una volta o due il giorno. Cathy sembrò contenta di questo cambiamento, e poco alla volta, riuscii, di nascosto, a riunire buon numero di libri e altri oggetti che avevano formato il suo diletto a Grange, e mi lusingai che avremmo potuto passarcela abbastanza piacevolmente. L'illusione non durò a lungo: Caterina, contenta da principio, dopo un poco si fece inquieta e irascibile. Prima di tutto le era proibito di uscire dal giardino, e l'essere così confinata in un piccolo recinto, proprio all'avanzare della primavera, la rendeva triste; secondariamente, nell'occuparmi della casa, ero costretta a lasciarla spesso sola, e lei si lagnava della propria solitudine, preferiva litigare in cucina con Giuseppe che sedersene tranquilla dove non c'era nessuno. Io non facevo caso alle sue scaramucce, ma Hareton spesso era pure obbligato a rifugiarsi in cucina, quando il padrone voleva esser solo nella «casa», e, sebbene da principio Cathy o se ne andava al suo entrare, o m'aiutava nelle faccende, ed evitava di osservarlo e di rivolgergli la parola, e, sebbene lui fosse torvo e silenzioso quanto è possibile esserlo, dopo qualche tempo mutarono condotta, lei non seppe più lasciarlo in pace: gli parlava, ne commentava la stupidità e l'ozio, esprimendo la sua meraviglia che lui potesse sopportare di vivere in quel modo, tutta una sera seduto a fissare il fuoco e a dormicchiare.

            «È proprio come un cane, vero, Elena?» osservò una volta, «o un cavallo da tiro! Fa il suo lavoro, mangia il suo cibo e dorme eternamente! Che mente vuota e triste deve avere! Non fai mai sogni, Hareton? E, se ne fai, che cosa sogni? Ma già, non puoi parlarmi!»

            E allora lo guardava, ma lui non apriva bocca e nemmeno la guardava.

            «Forse sta sognando ora,» proseguì. «Ha sussultato come fa Juno. Chiediglielo, Elena.»

            «Il signor Hareton chiederà al padrone di mandarti di sopra, se non sai comportarti!» le dissi.

            Egli non aveva soltanto sussultato, ma aveva stretto il pugno, come tentato di adoperarlo.

            «Ora so perchè Hareton non parla mai quando ci sono io in cucina,» esclamò in un'altra occasione. «Teme che io rida di lui. Che cosa ne pensi, Elena? Una volta aveva cominciato a imparare a leggere da solo, e perchè io risi, bruciò i libri e non volle più saperne: non è stato un imbecille?»

            «Non sei stata una perfida tu?» dissi io. «Rispondi un po' a questo.»

            «Forse sì,» continuò, «ma non m'aspettavo che lui fosse così sciocco. Hareton, ora, se ti dessi un libro, lo prenderesti? Ne voglio far la prova.»

            Gliene mise uno, che aveva finito di leggere, tra le mani; ma lui lo buttò lontano e mormorò che, se lei non smetteva, le avrebbe torto il collo.

            «Bene, lo metterò qui,» disse Cathy, «nel tiretto della tavola, me ne vado a letto.»

            Poi mi disse piano di osservare se mai lo prendesse, e se ne andò via. Ma lui non si avvicinò neppure alla tavola, e il mattino dopo lo dissi a Caterina, che rimase delusa. M'avvidi che era spiacente per quel suo ostinato rancore e per quella sua indolenza: la coscienza la rimproverava per averlo distolto dal suo tentativo di migliorare; era proprio stata lei la causa di quella rovina. Ma con bontà ora lavorava per rimediare all'offesa; mentre accudivo a certe faccende, che mi permettevano di rimanere sul posto, e alle quali non avrei potuto attendere in salotto, lei portava con sè qualche volume divertente e mi leggeva a voce alta. Quando Hareton era presente, generalmente lei smetteva in un punto interessante, e lasciava in giro il libro aperto: fece questo parecchie volte; ma lui era ostinato quanto un mulo e, invece di abboccare a quell'esca, nelle giornate piovose si dava a fumare con Giuseppe; sedevano tutt'e due come automi, da un lato e dall'altro del fuoco, il più vecchio fortunatamente troppo sordo per sentire le sciocche cattiverie di Cathy, come le avrebbe chiamate, e il più giovane, facendo disperati sforzi per sembrare indifferente. Nelle sere di bel tempo Hareton usciva a caccia, e Caterina sbadigliava e sospirava, e mi tormentava perchè le parlassi; e l'istante in cui aprivo bocca correva via in corte o in giardino; e, come un'ultima risorsa, piangeva e diceva d'essere stanca di vivere: la sua vita era inutile.

            Il signor Heathcliff diventava sempre e sempre più avverso alla compagnia, e aveva allontanato perfino Earnshaw dalla sua stanza. Costui, per un incidente capitatogli ai primi di marzo, divenne per vari giorni ospite abituale della cucina. Gli era scoppiato il fucile mentre era fuori solo sulle colline: una scheggia gli aveva ferito il braccio: aveva perso molto sangue prima di poter arrivare a casa. Di conseguenza era costretto a starsene tranquillo presso il focolare finchè non si fosse rimesso. Caterina era contenta di averlo là o, per lo meno, sembrò avere la propria camera sempre più in uggia, e mi obbligava a trovar sempre qualcosa da fare dabbasso, in modo di poter scendere con me.

            Il lunedì dopo Pasqua, Giuseppe andò alla fiera di Gimmerton con alcuni capi di bestiame, e, nel pomeriggio, io ero occupata ad accomodare della biancheria in cucina. Earnshaw se ne stava imbronciato, come d'abitudine, in un angolo del focolare, e la mia padroncina ingannava l'ozio disegnando figure sui vetri delle finestre, variando ogni tanto quel suo divertimento con inizi subito repressi di canzoni o con frasi bisbigliate e con leste occhiate di noia e d'impazienza verso il cugino, il quale fumava costantemente, guardando nella grata del fuoco. Alla mia protesta, che non potevo far nulla perchè lei mi parava la luce, andò a sedersi al focolare. Feci poca attenzione ai suoi movimenti, ma poco dopo la sentii dire:

            «Ho scoperto, Hareton, che ho bisogno... che sono contenta... che amerei che tu ora fossi mio cugino per davvero, che non ti mostrassi sempre così adirato e rozzo con me.»

            Hareton non le diede risposta.

            «Hareton, Hareton, Hareton! mi senti?» continuò.

            «Togliti di qua,» ruggì egli con asprezza poco convinta.

            «Dammi quella pipa,» disse lei, avanzando cautamente una mano e togliendogli la pipa di bocca.

            Prima che lui facesse un tentativo per riprenderla, la pipa era rotta e dentro il fuoco. Hareton bestemmiò, e ne prese un'altra.

            «Fermati!» ella gridò, «prima devi ascoltarmi, e io non posso parlarti se mi soffi quelle nuvole in faccia.»

            «Vuoi andartene al diavolo!» esclamò lui ferocemente, «e lasciarmi in pace!»

            «No,» persistette lei. «Non voglio, non so che fare per costringerti a parlare con me: tu sei deciso a non voler capire. Quando dico che sei uno stupido, non intendo nulla di simile. Non vuol dire che ti disprezzo. Via, devi ascoltarmi, Hareton. Sei mio cugino e devi considerarmi tale.»

            «Non voglio aver nulla a che fare con te e il tuo vile orgoglio e i tuoi maledetti scherzi,» rispose Hareton. «Andrò all'inferno, anima e corpo, prima che mi curi ancora di te. Vattene fuori dal cancello, ora, all'istante.»

            Caterina si corrucciò e si ritrasse presso la finestra, mordendosi il labbro e cercando, con il canterellare una canzone insolita, di celare la crescente voglia di mettersi a singhiozzare.

            «Dovreste essere amico di vostra cugina, signor Hareton,» dissi, «poichè è pentita della sua insolenza. L'averla per compagna farebbe di voi un altro uomo.»

            «Per compagna!» gridò; «se mi odia e non mi crede nemmeno degno di pulirle le scarpe! Ah, no! Neanche se tu mi facessi re, non accetterei le tue buone grazie per non essere deriso.»

            «Non sono io che ti odio, ma tu che odi me!» disse Cathy, piangendo. «Tu mi odi quanto e più del signor Heathcliff.»

            «Sei una maledetta bugiarda,» riprese Earnshaw. «Perchè allora ne ho sfidato cento volte la collera prendendo le tue difese? e questo quando tu mi deridevi, e mi disprezzavi, e... continua a tormentarmi e io entrerò in quella stanza, e dirò che tu mi hai perseguitato al punto da costringermi a lasciare la cucina!»

            «Non sapevo che tu avessi prese le mie difese,» rispose Cathy asciugandosi gli occhi; «e io ero infelice e amara con tutti, ma ora ti ringrazio, e ti prego di perdonarmi, che cos'altro posso fare?»

            Ritornò al focolare e con franchezza gli tese la mano Egli si fece cupo e minaccioso come una nuvola temporalesca, e tenne i pugni risolutamente serrati, e lo sguardo fisso a terra. Caterina dovette intuire che una perversa ostinazione, e non una reale antipatia gli suggeriva una condotta così cocciuta, perchè, dopo un istante d'esitazione, si chinò e gli impresse sulla guancia un buon bacio. Quella birichina credeva che io non l'avessi vista, e, scostatasi, tornò al suo posto presso la finestra con molta gravità. Scossi il capo in segno di rimprovero, e allora ella arrossì e bisbigliò:

            «Ebbene, Elena, che cosa avrei dovuto fare allora? Non voleva darmi la mano, e non voleva guardarmi; dovevo pur dimostrargli in qualche modo che mi piace e che desidero essergli amica.»

            Non posso dire se il bacio persuadesse Hareton; per alcuni momenti si studiò a non mostrare il viso, e, quando infine lo rialzò, confessò tutto il suo imbarazzo, non sapeva evidentemente da qual parte volgere gli occhi.

            Caterina trovò modo di occuparsi nell'avvolgere con ogni cura un bel libro in carta bianca, e, quando l'ebbe legato con un nastro, e l'ebbe indirizzato al signor «Hareton Earnshaw», desiderò che le facessi da ambasciatrice, e che consegnassi il regalo al suo destinatario.

            «E ditegli che, se lo accetterà, gli insegnerò a leggerlo come va letto» disse, «e, se rifiuta, andrò di sopra e non lo tormenterò più.»

            Lo portai, e ripetei il messaggio, sotto gli occhi ansiosi della mittente. Hareton non voleva aprir la mano, così glielo posai sui ginocchi. Nondimeno non lo respinse. Tornai alle mie faccende. Caterina si tenne con il capo e le braccia appoggiate sulla tavola, finchè non sentì il lieve frusciare della carta che veniva tolta; allora si levò, e andò a sedersi quietamente presso suo cugino. Egli sussultò, e il volto gli si irradiò; come per incanto, tutta la sua ostentata ruvidità e la sua ostinata asprezza l'avevano abbandonato. Dapprima non seppe farsi coraggio nemmeno per rispondere con una sillaba allo sguardo indagatore di Caterina e alla preghiera che lei gli mormorava.

            «Di' che mi perdoni, Hareton, dillo! Puoi farmi così felice con una sola parola.»

            Egli pronunciò qualcosa sommessamente.

            «E sarai mio amico?» domandò Caterina.

            «No, ti vergogneresti di me in ogni giorno della tua vita,» rispose lui, «e non potrei sopportarlo.»

            «E allora non vuoi essere mio amico?» disse lei, con un dolce sorriso, e gli si accostò.

            Non afferrai distintamente altre parole, ma, guardandomi ancora intorno, scorsi due volti raggianti chini sopra la pagina del complice libro, così non ebbi dubbio che il trattato di pace fosse stato ratificato da tutt'e due le parti, e i nemici fossero da quel momento alleati fedeli. Il libro che stavano studiando conteneva preziose incisioni, e queste e l'essere così vicini, offrirono un incanto sufficiente per tenerli là seduti, quieti, finchè Giuseppe non tornò a casa. Il pover'uomo rimase come pietrificato alla vista di Caterina seduta con Hareton Earnshaw sulla medesima panca, e appoggiata con una mano alla spalla di lui; e, istupidito che il suo prediletto sopportasse una tale vicinanza, non si permise neppure un'osservazione, quella sera. La sua emozione era rivelata solamente dai profondi sospiri che emetteva, mentre apriva la Bibbia solennemente sulla tavola, e la ricopriva di logori biglietti di banca che estraeva dal portafoglio, il prodotto dei suoi affari della giornata. Alla fine chiamò Hareton.

            «Porta questi al padrone, ragazzo,» disse, «e fermati da lui. Io vado in camera mia. Questo posto non è più adatto per noi, dobbiamo cercarcene un altro.»

            «Vieni, Caterina,» dissi; «noi pure dobbiamo andarcene. Ho finito di stirare, sei pronta?»

            «Non sono ancora le otto!» rispose lei, alzandosi di malavoglia. «Hareton, lascerò questo libro sopra il camino, e ne porterò qualche altro domani.»

            «Qualsiasi libro lascerete qui lo porterò nella "casa",» disse Giuseppe, «e sarà molto se li troverete ancora; così fate come vi pare e piace.»

            Cathy lo minacciò di rivalersi sulla sua libreria, e, sorridendo a Hareton nel passargli davanti, salì cantando, con il cuore più leggero, oserei dire, di quel che mai l'ebbe sotto questo tetto, fatta eccezione, forse, durante le sue prime visite a Linton.

            L'intimità così iniziata crebbe rapidamente; benchè senza continuità. Earnshaw non poteva essere raddolcito da un semplice desiderio, e la mia padroncina non era un'anima remissiva e neppure un modello di pazienza; ma le loro menti tendendo ad un medesimo punto, - l'una amorosa e desiderosa di stima, l'altra amante e desiderosa di essere stimata, - finirono per raggiungerlo.

            Vedete dunque, signor Lockwood, che era abbastanza facile guadagnarsi il cuore della signora Heathcliff. Ma ora sono contenta che non ne abbiate fatto la prova. Il coronamento di tutti i miei desideri sarà l'unione di quei due. Non invidierò nessuno il giorno del loro matrimonio e non ci sarà donna più felice di me in tutta l'Inghilterra.

           

 

XXXIII    (torna all'indice)

           

 

           

            Questo accadeva, come ho già detto, il lunedì di Pasqua. L'indomani Earnshaw non era ancora in grado di poter attendere alle sue solite occupazioni, e continuava ad aggirarsi nella casa; mi avvidi subito che sarebbe stato impossibile tenere presso di me la mia Cathy, come avevo fatto fino allora. Ella era scesa prima di me, e si era recata in giardino ove aveva scorto il cugino intento a un lavoro poco faticoso; e, quando uscii per dir loro di rientrare per la colazione, vidi che lei l'aveva persuaso a togliere da un largo tratto di terreno dei cespugli di ribes e di uva spina. Stavano animatamente parlando di trasportarvi alcune piante da Grange.

            Fui terrificata a quella devastazione compiuta in una breve mezz'ora; gli alberetti di ribes nero erano la pupilla dell'occhio di Giuseppe, e Cathy aveva proprio stabilito di mettere al loro posto un'aiola di fiori.

            «Ahimè! Non appena lo scoprirà, lo riferirà al padrone,» esclamai, «e quale scusa avrete per esservi presi tali libertà in giardino? Chissà che scenata avremo per questo, vedrete se non sarà vero! Signor Hareton, mi meraviglio che tu non abbia avuto un po' più di testa opponendoti ai comandi di questa sciocchina!»

            «Avevo dimenticato che erano di Giuseppe,» rispose Earnshaw, sconcertato; «ma gli dirò che sono stato io.»

            Era nostra consuetudine prendere i pasti con il signor Heathcliff. Io presiedevo alla tavola, così la mia presenza era indispensabile. Caterina sedeva di solito al mio fianco, ma quel giorno si pose più vicina a Hareton: e io m'avvidi subito che non avrebbe avuto maggior discrezione nella sua amicizia di quella che ne aveva avuto nella sua ostilità.

            «Ora bada di non parlalre troppo con tuo cugino, e nemmeno di occuparti troppo di lui,» furono gli ammonimenti che le bisbigliai nell'entrare nella stanza, «questo infastidirebbe senza dubbio il signor Heathcliff che se la prenderebbe con tutt'e due.»

            «Me ne guarderò,» rispose.

            Il minuto dopo si era accostata a lui, e stava piantandogli delle primule nel suo piatto di zuppa d'avena.

            Egli non osava rivolgerle la parola, quasi non osava guardarla, nondimeno ella continuava a stuzzicarlo, finchè due volte fu sul punto di scoppiare a ridere. Mi accigliai, ed ella guardò il padrone; ma la mente di costui era intenta ad altro che ai suoi commensali, come rivelava l'espressione del suo volto, e Cathy per un istante si fece seria, scrutandolo con profonda gravità. Dopo si girò, e ricominciò i suoi giochi, finchè Hareton non si lasciò sfuggire un risolino subito contenuto. Il signor Heathcliff sussultò, il suo sguardo esaminò rapidamente i nostri volti. Caterina lo sostenne con il suo solito sguardo irrequieto e sfrontato che lui detestava.

            «È bene che tu non mi sia a portata di mano,» esclamò lui. «Che demonio ti morde perchè tu abbia a sfidarmi continuamente con quegli occhi infernali? Abbassali! e non rammentarmi più la tua esistenza. Credevo di averti guarita dalla voglia di ridere!»

            «Sono stato io a ridere,» balbettò Hareton.

            «Che cosa dici?» gli domandò il padrone.

            Hareton fissò lo sguardo sul piatto che aveva davanti, e non ripetè la sua confessione. Il signor Heathcliff lo fissò per un momento, e poi continuò in silenzio la colazione e le sue interrotte meditazioni. Avevamo quasi finito, e i due giovani si erano prudentemente scostati l'uno dall'altro, così che non prevedevo nessun altro guaio durante quel pasto, quando Giuseppe comparve sulla porta, e le sue labbra tremanti e i suoi occhi furiosi rivelarono che aveva scoperto l'oltraggio fatto ai suoi poveri arbusti. Doveva aver visto Cathy e il cugino in quei pressi, prima di fare la sua scoperta, le sue mascelle movendosi come quelle di una mucca che sta ruminando resero pressochè incomprensibili le sue parole:

            «Bisogna che abbia il mio salario e che me ne vada! Avevo contato di rimanere dove ho servito per sessant'anni, e avevo pensato di portare in solaio i miei libri e tutte le mie altre piccole cose, e lasciar loro tutta la cucina, per amor della quiete. Sarebbe stato duro cedere il mio angolo presso il focolare, ma pensavo di poterlo fare! Ma, no, lei mi ha preso anche il mio giardino, e, per l'anima mia, non posso sopportarlo! Voi potrete piegarvi al giogo, sì, sarà così, io non ci sono abituato, e un vecchio non si abitua facilmente a nuovi pesi. Preferisco, allora, guadagnarmi il mio pezzo di pane e la mia cena spaccando pietre sulla strada!»

            «Basta, basta, idiota!» lo interruppe Heathcliff. «Taglia corto! Qual è la tua querela? Non voglio intromettermi in nessuna questione tra te e Nelly. Potrebbe buttarti in una fossa di carbone per quel che me ne importa!»

            «Non si tratta di Nelly,» rispose Giuseppe. «Non mi muoverei per Nelly, sgarbata e cattiva come è ora. Grazie a Dio, lei non può rubare l'anima di nessuno. Non è mai stata così bella, da farsi fare la corte da chicchessia, no, è quell'orrida strega laggiù! Con quei suoi occhi impudenti e i suoi modi lascivi ha incantato il nostro ragazzo al punto di... Oh! mi fa scoppiare il cuore! Hareton, dimenticando tutto quello che ho fatto per lui, ha strappato un'intera fila dei miei più bei ribes, in giardino!» E diede in lamenti puerili per quelle amare offese e per l'ingratitudine di Earnshaw che lui vedeva ormai in pericolo.

            «Ma è ubriaco quest'imbecille?» domandò Heathcliff. «Hareton, è te che accusa?»

            «Ho strappato due o tre cespugli,» disse il giovane, «ma li pianterò di nuovo.»

            «E perchè li hai strappati?» disse il padrone.

            Caterina saggiamente intervenne.

            «Volevamo piantare dei fiori,» gridò. «Sono io la sola persona da biasimare, perchè sono stata io a dirgli di farlo.»

            «E chi ha dato a te il permesso di toccare un sol fuscello qui intorno?» le domandò il suocero molto sorpreso. «E chi ha ordinato a te di ascoltar lei?» aggiunse, voltosi ad Hareton.

            Quest'ultimo rimase senza parole, sua cugina rispose:

            «Non dovreste inveire per poche braccia di terra che desidero ornare, quando mi avete prese tutte le mie!»

            «Le vostre terre, insolente! Non ne avete mai possedute!» disse Heathcliff.

            «E i miei denari,» continuò lei, ricambiando quello sguardo irato, mentre mordeva un pezzetto di crosta di pane avanzatole dalla colazione.

            «Silenzio!» esclamò lui. «Finisci, e poi vattene!»

            «E le terre di Hareton e i suoi denari!» proseguì quell'imprudente. «Hareton e io siamo amici, ora, e gli dirò tutto sul vostro conto.»

            Il padrone restò interdetto per un istante; si fece pallido, e si alzò, tenendole gli occhi fissi in viso con una espressione di odio mortale.

            «Se voi mi percuoterete, Hareton percuoterà voi,» ella disse indomita, «così sarà meglio che non vi alziate.»

            «Se Hareton non ti mette fuori dalla porta, lo manderò all'inferno!» vociò Heathcliff. «Maledetta strega! oseresti sobillarmelo contro? Vattene di qua! Mi sentite? Buttatela in cucina. Ellen Dean, l'uccido se me la lasci comparire davanti un'altra volta.»

            Hareton cercò, parlandole sotto voce, di convincere Caterina a uscire.

            «Trascinala via!» gridò selvaggiamente Heathcliff.

            «Ti fermi a parlarle?» E avanzò per eseguire lui stesso il suo comando.

            «Lui non ti ubbidirà più, perfido uomo che non sei altro, mai più,» disse Caterina, «e presto ti odierà come ti odio io.»

            «Ssst! Ssst!» mormorò il ragazzo in tono di rimprovero. «Non voglio sentirti parlare così di lui. Smetti.»

            «Ma tu gli permetterai di percuotermi?» gridò lei.

            «Vieni allora,» le bisbigliò gravemente Earnshaw.

            Era troppo tardi, Heathcliff l'aveva agguantata.

            «Ora tu te ne vai!» disse a Earnshaw. «Maledetta strega! Questa volta mi ha provocato in un momento che non potevo sopportarlo, e la farò pentire una volta per sempre!»

            Aveva una mano nei capelli di lei; Hareton tentò di liberare quei riccioli, supplicando Heathcliff di non farle del male, almeno per quella volta. Gli occhi neri di Heathcliff sfolgorarono, sembrava pronto a fare a pezzi Caterina, e io mi dibattevo nel dubbio se arrischiarmi o no a correrle in aiuto, quando a un tratto Heathcliff rallentò la stretta, afferrando invece Caterina per un braccio, e guardandola intensamente in volto. Poi le coprì gli occhi con una mano, rimase un momento raccolto come per padroneggiarsi, e, volgendosi di nuovo a Caterina, disse con una calma forzata: «Devi imparare a non provocarmi, o una volta o l'altra ti ucciderò davvero! Va' con la signora Dean, e rimani con lei, e riserva la tua insolenza alle sole sue orecchie. In quanto a Hareton Earnshaw, se lo colgo a prestarti ascolto, lo mando a cercarsi il pane altrove! Il tuo amore farà di lui un senza tetto e un mendicante! Nelly, tirala via, e lasciatemi tutti quanti! Lasciatemi!»

            Condussi fuori la padroncina. Era troppo contenta di averla scampata, per ribellarsi; l'altro la seguì, e il signor Heathcliff rimase solo nella stanza fino all'ora di cena. Avevo suggerito a Caterina di cenare di sopra, ma, non appena Heathcliff notò il suo posto vuoto, mi mandò a chiamarla. Non parlò con nessuno di noi, mangiò pochissimo, e subito dopo uscì, avvertendoci che non sarebbe rientrato fino a tardi.

            Durante la sua assenza i due nuovi amici si stabilirono nella «casa», e io sentii Hareton ammonire severamente la cugina che voleva rivelargli la condotta del suocero verso il padre di lui. Le disse che non poteva sopportare che si dicesse una sola parola contro Heathcliff; fosse pur stato un demonio non gli importava; lui l'avrebbe difeso; e preferiva che lei rimproverasse lui, come soleva fare, ma, per carità, non inveisse contro Heathcliff. Caterina stava per adirarsi, ma Hareton trovò modo di frenarle la lingua, domandandole se lei avrebbe tollerato che lui sparlasse di suo padre. Allora Cathy comprese che Earnshaw teneva alla riputazione del padrone come alla propria, e che gli era unito da legami tanto saldi che nessun argomento avrebbe potuto rompere, catene foggiate dall'abitudine, che sarebbe stato crudele volere infrangere. Mostrò, dunque, molto buon cuore, evitando da quel momento qualsiasi lagnanza o manifestazione di antipatia nei riguardi di Heathcliff, e confessò a me il suo rammarico per aver cercato di metter male tra lui e Hareton, e credo davvero che non pronunciò più sillaba davanti a quest'ultimo contro il suo oppressore.

            Passato questo lieve contrasto, tornarono nuovamente amici, tutti dediti alle loro molteplici occupazioni di allievo e maestra. Terminato il mio lavoro, mi sedevo tra loro, e, osservandoli, mi sentivo così tranquillizzata e consolata che non m'avvedevo del passare del tempo. Sapete che in un certo qual modo li consideravo come miei figli: l'una era stata il mio orgoglio per molti anni, e ora ero sicura che l'altro sarebbe stato fonte di uguale soddisfazione. La sua indole onesta, sensibile, affettuosa e intelligente allontanò rapidamente l'ignoranza e la degradazione in cui era stato allevato, e le lodi sincere di Caterina agivano come stimolo alla sua intraprendenza. La mente, ravvivata, illuminava ormai i tratti del suo volto, aggiungendo brio e nobiltà al suo aspetto: non potevo quasi più riconoscere in lui lo stesso individuo che avevo visto il giorno che scoprii la mia padroncina a Wuthering Heights, dopo la sua spedizione alla Rupe di Penistone. Mentre loro studiavano, li guardavo compiaciuta. Con le tenebre il padrone tornò. Arrivò proprio d'improvviso, entrando dalla porta principale, e, prima che avessimo avuto il tempo di alzare la testa e di vederlo, egli ci vide tutt'e tre così come stavamo. Ebbene, questa è la mia impressione, non vi fu mai quadro più piacevole, più ingenuo a vedersi, e sarebbe stata un'orribile vergogna sgridarli. La luce rossa del fuoco splendeva sulle loro belle teste, rivelando i volti animati da un ansioso interesse infantile; perchè, quantunque Hareton avesse ventitrè anni e Cathy diciotto, ciascuno di loro aveva tanto di nuovo da comprendere e da imparare, che nè l'uno nè l'altro provavano e neppur manifestavano i calmi, posati sentimenti dell'età più matura.

            Alzarono insieme gli occhi che s'incrociarono con quelli di Heathcliff, forse non avete notato che i loro occhi sono esattamente uguali e sono quelli di Caterina Earnshaw. Sua figlia Cathy non ha altra somiglianza con lei, eccetto una certa spaziosità di fronte e un certo arco delle narici che la fanno sembrare piuttosto altera, anche se non lo è. Con Hareton la somiglianza è più marcata, e lo è sempre, allora era particolarmente impressionante, perchè lui vibrava in tutto il suo essere.

            Penso che questa somiglianza disarmò il signor Heathcliff; si diresse verso il focolare in grande agitazione; ma si calmò appena vide il ragazzo, o dovrei dire: si trasformò. Gli tolse il libro che aveva tra le mani, e diede un'occhiata alla pagina aperta, indi glielo rese senza alcuna osservazione, accontentandosi di far segno a Caterina di andarsene. Il suo compagno s'indugiò per un brevissimo tempo, e io pure stavo per allontanarmi, ma lui mi ordinò di fermarmi.

            «È una ben povera conclusione, non è vero?» osservò dopo aver meditato un poco sulla scena che aveva appena veduta; «una fine assurda di tutti i miei piani di vendetta. Mi fornisco di leva e piccone per demolire le due case e mi agguerrisco per poter esser capace di lavorare come un Ercole, e, quando ogni cosa è pronta, e in mio potere, trovo che la volontà di sollevare una sola tegola da uno qualsiasi dei due tetti è svanita! I miei vecchi nemici non mi hanno vinto, ora sarebbe il momento debito di rivendicarmi sui loro rappresentanti, sono in grado di farlo e nessuno sarebbe in grado di impedirmelo. Ma a qual fine? Non ci tengo a colpire; non posso prendermi il disturbo di alzare la mano! Questo può far supporre che io abbia faticato tutto questo tempo per dar poi spettacolo d'un bel gesto di magnanimità. Non è affatto il caso: ho perso la facoltà di godere della loro distruzione, e sono troppo indolente per distruggere inutilmente. Nelly, si avvicina uno strano mutamento: sto nella sua ombra, ora. Prendo così poco interesse alla mia vita quotidiana che quasi dimentico di mangiare e di bere. Quei due che poco fa hanno lasciato la stanza, sono i soli esseri che possiedano per me un aspetto reale, il mio proprio aspetto mi causa una pena che cresce fino all'angoscia. Di lei non voglio parlare, non desidero nemmeno pensarci, ma vorrei veramente non vederla più: la sua presenza rievoca soltanto folli sensazioni. Lui mi commuove in altro modo, eppure se potessi non vederlo più, senza sembrare demente, lo farei. Penseresti forse che sono avviato a diventarlo,» aggiunse, sforzandosi di sorridere, «se mi provassi a descriverti le mille forme di immagini e di pensieri del tempo passato che lui risveglia o personifica per me. Ma tu non parlerai di quel che ti dico, e la mia mente è così concentrata in se stessa che, alla fine, è una tentazione irresistibile poter riversarla tutta in un'altra. Poco fa Hareton sembrava la personificazione della mia giovinezza, non un essere umano. I sentimenti che mi s'agitavano nell'animo per lui erano così vari che non avrei saputo parlargli ragionevolmente. In primo luogo la sua impressionante somiglianza con Caterina lo associava terribilmente a lei. Contrariamente, tuttavia, a quel che puoi credere non è questa la cosa che ha il maggior potere d'incatenare la mia immaginazione, perchè che cosa nella mia mente non è associato a lei? e che cosa non me la ricorda? Non posso guardare questo pavimento senza vedere i suoi lineamenti raffigurati nelle pietre! In ogni nube, in ogni albero, riempiendo l'aria la notte, e balenando in ogni oggetto il giorno, io sono circondato dalla sua immagine! Nei volti più comuni di uomini e donne, nei miei stessi lineamenti, trovo una fugace somiglianza con lei. L'intero mondo è una spaventosa raccolta di rimembranze della sua esistenza e della sua perdita. Bene, l'aspetto di Hareton era lo spettro del mio amore immortale, dei miei selvaggi tentativi di mantenere il mio diritto; la mia degradazione, il mio orgoglio, la mia felicità e la mia angoscia... È pazzia ripeterti questi pensieri, ma ti faranno forse comprendere perchè, pur contrario a essere sempre solo, la sua compagnia non mi sia di sollievo, ma di aggravio al continuo tormento, e contribuisca in parte a rendermi indifferente alla relazione che si va stabilendo tra lui e la cugina. Non posso più far attenzione a loro, mai più.»

            «Ma che cosa intendete dire con un mutamento, signor Heathcliff?» soggiunsi, allarmata dai suoi modi, benchè, a mio giudizio non fosse in pericolo di perder i sensi, nè di morire. Era robusto, e sano e, in quanto alla sua mente, fin dall'infanzia aveva trovato diletto a soffermarsi su cose oscure, e a coltivare strane fantasie. Poteva avere avuto una monomania a proposito del suo idolo scomparso, ma su ogni altro punto il suo cervello era non meno sano del mio.

            «Non posso saperlo neppure io finchè non succederà,» disse, «ne ho solo una mezza idea per ora.»

            «Non vi sentite nessun sintomo di qualche malattia, vero?» gli domandai.

            «No, Nelly, nessuno,» rispose.

            «Non avete paura della morte, allora?» proseguii io. «Paura? No!» rispose. «Non ho paura, nè un presentimento, nè una speranza di morte. Perchè dovrei averne? Con la mia forte costituzione, e con il mio regime di vita temperato, e con le mie occupazioni non faticose, dovrei restare, e probabilmente resterò su questa terra finchè non avrò più un capello nero in capo. Eppure non posso continuare in questa condizione. Devo rammentare a me stesso di respirare, e quasi rammentare al mio cuore di battere! Ed è come voler forzare allo scatto una molla indurita; è per coercizione che faccio il minimo movimento non suggerito da un sol pensiero, ed è ugualmente per coercizione che osservo qualsiasi cosa o viva o morta, che non sia collegata con una sola idea universale. Ho un unico desiderio, e tutto il mio essere e tutte le mie facoltà bramano conseguirlo. Lo hanno bramato per così lungo tempo, e così fermamente, che sono convinto che dovrò raggiungerlo e presto perchè ha divorato la mia esistenza: sono assorbito dal presagio del suo divenire. La mia confessione non mi ha sollevato; ma potrà spiegare alcune fasi dell'umore in cui mi vedete, e che altrimenti sarebbero inspiegabili. O Dio! è una lunga lotta, vorrei fosse finita.»

            Cominciò a camminare per la stanza, borbottando tra sè cose terribili, finchè non fui pure io indotta a credere, come lui stesso diceva di Giuseppe, che la coscienza gli doveva rendere la vita un inferno. Mi domandai molto perplessa come sarebbe andata a finire. Benchè prima d'allora avesse rivelato solo raramente con gli sguardi lo stato della sua mente, non dubitavo che quello fosse il suo modo abituale; lui stesso me l'aveva confermato; ma nessuno l'avrebbe creduto, vedendolo. Neppure voi, signor Lockwood, quando lo avete visto la prima volta, e al tempo a cui mi riferisco egli era come allora, unicamente più amante della solitudine e forse ancor più laconico nei suoi rapporti con il prossimo.

           

 

XXXIV    (torna all'indice)

           

 

           

            Per alcuni giorni, dopo quella sera, il signor Heathcliff evitò di trovarsi con noi ai pasti tuttavia, non voleva decidersi a bandire formalmente dalla sua mensa Hareton e Cathy. Gli ripugnava di cedere totalmente ai propri risentimenti, e preferiva assentarsi lui stesso, gli sembrava potesse bastargli mangiare una sola volta in ventiquattro ore.

            Una notte, quando tutti quelli di casa erano già a letto, lo sentii scendere le scale e uscire dalla porta principale. Non lo sentii rientrare, il mattino seguente notai che era ancora fuori. Eravamo in aprile, il tempo era dolce e tiepido, l'erba verde come potevano renderla gli acquazzoni e il sole, e due meli nani vicino al muro esposto a mezzogiorno erano in piena fioritura. Dopo colazione Caterina insistette perchè portassi una sedia sotto gli abeti al limitare della casa, e mi sedessi lì col mio lavoro, e ottenne da Hareton, del tutto ristabilito dall'incidente capitatogli, che riordinasse e vangasse il suo piccolo giardino, ridotto a quell'angolo per le continue lamentele di Giuseppe. Mentre mi deliziavo a mio agio della fragranza primaverile che aleggiava tutt'intorno e del bell'azzurro delicato del cielo, la mia giovane signora che era corsa giù presso al cancello per procurarsi qualche pianticina di primule per bordare un'aiola, ritornando con un magro bottino, ci avvertì che Heathcliff era arrivato proprio in quell'istante. «E mi ha parlato,» aggiunse, «aveva un'espressione indefinibile.»

            «Che cosa ti ha detto?» chiese Hareton.

            «Mi ha detto di andarmene più in fretta che potevo, ma aveva un aspetto così diverso dal consueto che mi sono fermata un momento a guardarlo attonita.»

            «Che aspetto?»

            «Ma, quasi raggiante e allegro. No, quasi è nulla; molto, molto concitato, pazzo! felice!»

            «Vuol dire che andare in giro la notte lo diverte,» feci osservare, ostentando indifferenza, ma, per la verità, non meno sorpresa di Caterina e ansiosa di accertarmi delle sue parole, perchè vedere il padrone con un aspetto lieto non era uno spettacolo d'ogni giorno. Trovai una scusa qualsiasi per rientrare in casa. Heathcliff stava sulla soglia della porta, era pallido, e tremava, eppure innegabilmente i suoi occhi avevano uno strano luccichio pieno di gioia, che gli alterava l'espressione di tutto il volto.

            «Volete far colazione?» gli chiesi. «Dovete aver fame dopo esser stato in giro tutta la notte!» Volevo scoprire dove fosse stato, ma non osavo chiederglielo apertamente.

            «No, non ho fame,» rispose, volgendo il capo altrove, senza guardarmi, e in un tono piuttosto sprezzante come se indovinasse che cercavo di scoprire la causa della sua eccitazione.

            Rimasi perplessa, non sapendo se fosse opportuno rivolgergli un piccolo ammonimento.

            «Non mi pare una bella cosa gironzolare fuori di casa invece di starsene sotto alle coltri,» dissi infine, «ad ogni modo non è bene in questa stagione umida. Oserei dire che vi buscherete una buona infreddatura o una febbre, state già poco bene, a quanto pare!»

            «Non ho nulla che non sia più che sopportabile,» rispose, «e lo sopporterò con piacere purchè mi vogliate tutti lasciar solo, andate per i fatti vostri e non annoiatemi.»

            Ubbidii, e, nel passargli accanto, m'avvidi che aveva il respiro affrettato come quello di un gatto.

            «Sì!» fu la mia riflessione, «avremo una malattia. Non so immaginare che cosa possa essergli successo!»

            A mezzogiorno sedette a pranzo con noi, e non rifiutò un piatto colmo che gli porsi, come se intendesse rifarsi del digiuno precedente.

            «Non sono raffreddato e non ho febbre, Nelly,» disse, alludendo al mio discorso della mattina, «e sono pronto a fare onore al cibo che mi dai.»

            Prese il coltello e la forchetta e stava per cominciare a mangiare quando quell'apparente buona disposizione parve svanire a un tratto. Posò quanto teneva in mano sulla tavola, guardò con ansia verso la finestra, poi si levò, e uscì. Lo vedevamo passeggiare avanti e indietro in giardino, mentre terminavamo il nostro pasto; allora Hareton, temendo di essergli dispiaciuto in qualche modo, disse che sarebbe andato a chiedergli perchè non mangiasse.

            «Ebbene, viene?» chiese Caterina al cugino, quando costui fu di ritorno.

            «No,» rispose quello, «ma non è adirato, sembra davvero straordinariamente contento, gli ho fatto perdere la pazienza col chiedergli la medesima cosa due volte, allora mi ha ordinato di venirmene da te, meravigliandosi che potessi desiderare la compagnia di altri.»

            Posa quel piatto sulla grata per tenerlo al caldo, ed era trascorsa più di un'ora quando lui rientrò; non era affatto più calmo: la stessa strana espressione di gioia, strana davvero, sotto i neri cigli, lo stesso pallore, e i denti di tanto in tanto visibili in un fugace sorriso, e tutta la persona scossa da tremiti, non come per il freddo o per la debolezza, ma come vibra una corda troppo tesa, un forte fremito piuttosto che un tremito.

            «Gli chiederò io che cos'abbia,» pensai, «altrimenti nessuno si prenderà tale incarico.» E, rivoltami a lui, dissi: «Avete sentita qualche buona nuova, signor Heathcliff? Sembrate animato come non lo siete mai.»

            «Una buona nuova? da dove potrebbe giungermi una buona nuova?» disse. «Sono animato dalla fame, ma evidentemente, non posso mangiare.»

            «Il vostro pranzo è qui,» replicai, «perchè non lo volete?»

            «Non lo voglio ora,» mormorò, «aspetterò fino all'ora di cena. E, Nelly, una volta per sempre, fammi il favore di avvertire Hareton e l'altra che si tengano lontani da me. Non desidero essere importunato da nessuno, e questa stanza deve essere a mia esclusiva disposizione.»

            «C'è forse qualche nuova ragione per questo allontanamento?» gli chiesi. «Ditemi, signor Heathcliff, perchè avete modi così strani? Dove siete stato la scorsa notte? Non è per pura curiosità che vi faccio tale domanda, ma...»

            «E per che altro?» m'interruppe con una risata. «Non importa, ti risponderò. La scorsa notte sono stato sulla soglia dell'inferno. Oggi sono in vista del paradiso; ci tengo già gli occhi sopra, non più di tre spanne me ne separano! E ora è meglio che te ne vada! E, se rinuncerai a indagare, non sentirai nè saprai nulla che ti possa spaventare.»

            Avendo spazzato il focolare e sparecchiato la tavola, me ne andai ancor più perplessa di prima.

            Quel pomeriggio Heathcliff non uscì mai di casa e fu lasciato indisturbato nella sua solitudine; finchè, arrivate le otto, pensai che fosse necessario portargli un lume e la cena, sebbene non richiesti. Lo trovai presso alla finestra aperta, ma non guardava fuori; il suo viso era rivolto verso l'oscurità interna. Il fuoco si era spento e ne rimaneva solo la cenere, la stanza era piena dell'aria umida e tiepida di una sera così nuvolosa, ma così tranquilla che non soltanto si percepiva il generico mormorare del ruscello laggiù, verso Gimmerton, ma anche in particolare il suo incresparsi e gorgogliare sopra i sassi e le grosse pietre a fior d'acqua. Mi lasciai sfuggire una esclamazione di malcontento nel vedere il focolare spento, e cominciai a chiudere le finestre una dopo l'altra finchè giunsi alla sua.

            «Devo chiudere anche questa?» domandai per scuoterlo, poichè non dava segno di muoversi.

            La luce gli illuminò il volto mentre parlavo. Oh, signor Lockwood, non potrò mai dire che terribile impressione provai a quella vista! Oh, quei profondi occhi neri! quel sorriso, quel pallore spettrale! Mi parve, non il signor Heathcliff, ma un fantasma! Nel mio terrore non m'accorsi che la candela si era ripiegata verso la parete e s'era spenta lasciandoci al buio.

            «Sì, chiudila,» rispose Heathcliff con il suo tono di voce familiare. «Ecco, questa è vera sbadataggine. Perchè tenevi la candela orizzontalmente? Portane un'altra, presto!»

            Mi precipitai fuori dalla stanza in uno stato di terrore insensato, e, trovato Giuseppe, gli dissi: «Il padrone desidera che gli portiate un lume e che gli riaccendiate il fuoco.» Proprio non mi sentivo il coraggio di rientrare io stessa in quel momento.

            Giuseppe prese qualche palata di brace, facendo un gran chiasso, indi si avviò nella stanza, ma ritornò immediatamene con il fuoco, e per di più col vassoio della cena rimasta intatta. Disse che il padrone si sarebbe coricato e che non voleva nulla fino all'indomani. Infatti, subito dopo lo sentimmo salire, ma poichè non si diresse verso la sua solita camera, bensì verso quella dal cassone di quercia, la cui finestra, come già dissi, è abbastanza grande per poterci passare attraverso, mi venne l'idea che avesse progettata un'altra escursione notturna di cui preferiva non si avesse il minimo sospetto.

            «È un mostro, un vampiro?» pensai tra me, ricordandomi di aver letto di simili spaventevoli demoni incarnati. Sedutami, mi posi a riflettere, e ripensai che io l'avevo curato nell'infanzia e visto crescere fino alla gioventù, seguendolo sempre passo a passo: quanto era assurdo da parte mia lasciarmi invadere da un simile senso di orrore! «Ma da dove era venuto quel tizzone nero raccolto da un galantuomo per il proprio esclusivo danno?» si chiedeva la mia superstizione, mentre a poco a poco m'addormentavo, perdendo così coscienza della realtà. E, quasi in sogno, cominciai ad affaticarmi il cervello con l'immaginare chi potessero essere mai stati i genitori di Heathcliff, e, riprendendo il filo della mia meditazione di quand'ero desta, riandai più volte con il pensiero la sua esistenza, con sinistre immagini, di morte e funerali; di questi, la sola cosa di cui riesca a rammentarmi e l'estrema ira che toccasse proprio a me l'incarico di dettare l'iscrizione per la tomba, e mi consultavo con il sagrestano; e, poichè il morto non aveva cognome e non se ne sapeva l'età, dovevamo accontentarci di una sola parola: «Heathcliff». E questo fu poi fatto in realtà. Se entrate nel cimitero, leggerete sulla sua tomba solo quel nome e la data della morte.

            L'alba mi risvegliò al senso pratico della vita. Mi alzai, e mi recai in giardino appena fu chiaro per accertarmi se vi fossero orme sotto la finestra di Heathcliff. Non ce n'erano. «È rimasto in casa,» pensai, «e oggi starà bene.» Preparai la colazione per tutti come era mia consuetudine, ma dissi a Hareton e a Caterina di fare colazione prima che il padrone scendesse perchè si era coricato tardi. Avendomi manifestato il desiderio di mangiare fuori, sotto gli alberi, apparecchiai loro una piccola tavola, felice di accontentarli. Quando rientrai, trovai che il signor Heathcliff era sceso. Stava conversando con Giuseppe di affari che riguardavano la fattoria, e dava ordini chiari e particolareggiati, ma parlava rapidamente, volgendo continuamente il capo da un lato e aveva la medesima espressione eccitata del giorno precedente, anzi molto più eccitata.

            Quando Giuseppe lasciò la stanza, il padrone sedette al suo posto preferito e io gli porsi una ciotola di latte. L'attirò a sè, indi, appoggiate le braccia sulla tavola, si pose a guardare verso la parete opposta, così mi parve, fissando particolarmente un punto, con occhi scintillanti e irrequieti e con tanto interesse e tanta ansia da trattenere il respiro per lunghi istanti.

            «Via!» esclamai, ponendogli un pezzo di pane quasi tra le mani. «Mangiate, dunque, prima che si raffreddi, la colazione è qui da quasi un'ora.»

            Sembrò non accorgersi della mia presenza, tuttavia sorrise. Avrei preferito vederlo digrignare i denti che sorridere a quel modo!

            «Signor Heathcliff! padrone!» gridai.

            «Per amor del cielo, non gridare così forte,» rispose egli. «Guardati intorno, e, dimmi, siamo soli?»

            «Sì,» fu la mia risposta, «siamo soli, non c'è alcun dubbio.»

            Nondimeno, involontariamente, l'ubbidii, come se non ne fossi del tutto sicura. Allontanò da sè con un sol gesto le cose che gli stavano davanti e servendosi di quello spazio libero si chinò per poter osservar meglio.

            Ora m'accorsi che non guardava verso la parete, perchè, osservandolo bene, mi sembrò che il suo sguardo fosse rivolto a qualcosa di più vicino. Qualsiasi cosa fosse, sembrava comunicargli al tempo stesso un estremo piacere e un'estrema pena, o almeno l'espressione angosciosa eppure rapita del suo volto lo faceva supporre. L'immagine della sua fantasia non restava immobile: i suoi occhi la seguivano con instancabile diligenza e, anche parlando con me, lui non li distoglieva mai. Invano gli rammentavo la sua prolungata astinenza dal cibo; se cedendo alle mie preghiere faceva l'atto di prendere qualcosa, se stendeva una mano per afferrare il pane, le dita gli si serravano prima di averlo raggiunto, e la mano rimaneva inerte sulla tavola, del tutto dimentica della sua meta.

            Mi sedetti, modello di pazienza, e feci del mio meglio per distogliere la mente da quanto così profondamente l'assorbiva, ma lui si adirò con me, e, alzatosi di scatto, mi chiese perchè non potesse mangiare con tutto suo comodo, e mi ordinò di non servirlo più da allora in poi; sarebbe bastato che deponessi il cibo sulla tavola e me ne andassi subito dopo. Pronunciate tali parole, uscì di casa, s'incamminò lentamente lungo un sentiero del giardino, varcò il cancello e scomparve.

            Le ore trascorsero piene d'ansia; giunse la sera, non mi coricai fino a tardi, tuttavia non mi fu possibile dormire. Heathcliff tornò dopo la mezzanotte, e, invece di andare in camera sua, si rinchiuse nella stanza di sotto. Mi posi in ascolto, mi voltai e rivoltai nel letto, e infine mi vestii e scesi. Era troppo penoso rimanere coricata a tormentarmi la mente con mille vani presentimenti.

            Distinguevo il passo irrequieto di Heathcliff che andava su e giù per la stanza, e spesso il silenzio era interrotto da un profondo sospiro simile a un lamento. Sentivo pure il nome di Caterina accompagnato da parole di affetto e di sofferenza, che parevano rivolte a una persona presente; sommesse e supplichevoli e come strappate dalla profondità dell'anima. Non avevo il coraggio di entrare in quella stessa stanza, ma, desiderando salvarlo da quell'allucinazione, mi diedi ad attizzare il fuoco e a pestare la brace. Questo lo richiamò in sè prima di quanto mi sarei aspettata. Aprì subito la porta e disse:

            «Nelly, vieni qui, è mattina? Vieni col tuo lume.»

            «Suonano le quattro,» risposi, «vi occorre un lume per salire? Avreste potuto accenderne uno a questo fuoco.»

            «No, non desidero salire,» disse. «Vieni ad accendermi il fuoco e sbriga pure tutte le altre faccende.»

            «Per portarvi il fuoco dovrò prima riattizzare la brace,» risposi, prendendo una sedia e il soffietto.

            Nel frattempo riattaccò a camminare in su e in giù in uno stato di eccitazione simile alla pazzia; sospiri profondi si succedevano così rapidi da non lasciargli intervallo per respirare.

            «Non appena farà giorno,» disse, «manderò a chiamare Green. Desidero avere da lui alcune informazioni su questioni legali finchè mi è ancor dato di volgere il pensiero a tali cose e posso agire con calma. Non ho ancora fatto il mio testamento e non ho ancora deciso come disporrò dei miei beni. Vorrei poterli cancellare dalla faccia della terra.»

            «Non parlerei così se fossi in voi, signor Heathcliff,» lo interruppi. «Aspettate a fare il vostro testamento, vi sarà risparmiato di dovervi pentire di molte e molte ingiustizie. Non avrei mai immaginato che poteste averei nervi così sottosopra, ma ora li avete in sommo grado, e, si può dire, quasi del tutto per colpa vostra. Il vostro modo di vivere di questi ultimi tre giorni avrebbe abbattuto un Titano. Prendete, vi prego, un poco di cibo e riposatevi. Non avete che da guardarvi in uno specchio per constatare quanto bisogno abbiate dell'una e dell'altra cosa. Avete le guance incavate e gli occhi iniettati di sangue come chi stesse per morire di fame o per divenire cieco per la grande mancanza di sonno.»

            «Non è colpa mia se non posso mangiare nè dormire,» rispose. «Ti assicuro che non è dovuto a un proposito prestabilito. Farò quello che vuoi non appena mi sarà possibile. Ma sarebbe come ingiungere a qualcuno di non dibattersi nell'acqua a una bracciata dalla riva! Prima dovrò raggiungerla, e poi riposerò. Ebbene, non importa che venga o non venga Green, ma, in quanto a pentirmi delle mie ingiustizie, non ho commesso ingiustizie di sorta, io, e non mi pento di nulla. Sono troppo felice, ma non lo sono ancora abbastanza. L'estasi dell'anima uccide il corpo, e non ne è paga.»

            «Felice, voi?» esclamai. «Strana felicità! Se voleste prestarmi ascolto senza adirarvi, vi potrei dare qualche consiglio capace di rendervi realmente felice.»

            «Quale consiglio?» chiese. «Dimmi.»

            «Sapete bene, signor Heathcliff,» dissi, «che dall'età di tredici anni avete vissuto una vita egoistica e niente affatto cristiana, ed è probabile che in tutto questo tempo non abbiate mai avuto una Bibbia tra le mani. Avrete dimenticato il contenuto del libro sacro e ora potrebbe non rimanervi il tempo di consultarlo. Che male sarebbe mandare a chiamare qualcuno, qualche ministro del culto, non importa chi, in grado di spiegarvi le cose e mostrarvi come abbiate errato, allontanandovi dai precetti, e come non possiate esser degno del cielo promessoci, a meno che prima di morire non intervenga un radicale cambiamento in voi?»

            «Non sono affatto adirato con te, Nelly, anzi ti sono obbligato, perchè mi hai rammentato che desidero essere seppellito a modo mio. Dovrò essere trasportato al cimitero di sera. Tu e Hareton potrete accompagnarmi, se vorrete, ma badate in particolar modo che il sagrestano segua le mie istruzioni riguardo alle due bare. Non occorre che venga un ministro del culto, nè che si dica nulla su di me. Ti ripeto che sono quasi giunto al mio cielo, e quello degli altri è del tutto privo di valore per me e non lo desidero per nulla.»

            «E, supponendo che persistiate nel vostro digiuno fino a morirne, se, sospettando la cosa, ricusassero di seppellirvi nel recinto della chiesa, che ne direste?» replicai, colpita da tanta irreligiosa indifferenza.

            «Non oseranno,» rispose. «Ma, se osassero tanto, mi dovrai far trasportare segretamente, e, se trascurerai di farlo, ti accorgerai tu stessa, praticamente, che i morti non si annientano mai.»

            Non appena sentì muoversi i familiari, si ritirò nel proprio rifugio, e io respirai più liberamente. Ma quel pomeriggio, mentre Giuseppe e Hareton erano al loro lavoro, venne di nuovo in cucina e con uno sguardo disperato mi ordinò di andare a sedere nella «casa»: voleva avere qualcuno presso di sè. Rifiutai, dicendogli chiaramente che il suo strano modo di discorrere, e il suo non meno strano modo di agire mi spaventavano, e non avevo la volontà, nè la forza di essergli compagna nella sua solitudine.

            «Bisogna proprio che tu mi creda un demonio,» disse con una lugubre risata. «O qualcosa di troppo orribile per vivere sotto un tetto civile.» Indi, rivoltosi a Caterina che si trovava presente e che al suo avvicinarsi si era rifugiata dietro di me, soggiunse un po' cinicamente: «Vuoi venire tu, mia cara? Non ti farò del male. Ma no, in verità, con te sono stato peggio del demonio. Ebbene, c'è pure qualcuno che non rifugge dalla mia compagnia! Per Dio! quanto è tenace! Oh, maledizione! È troppo, è troppo per un essere umano, è troppo anche per me!»

            Non insistette più per ottenere la compagnia di qualcuno. Al cader della sera si ritirò in camera sua. Durante l'intera notte, fin tardi nella mattinata, lo sentimmo lamentarsi e mormorare. Hareton era ansioso di recarsi da lui, ma io volli che andasse prima a chiamare il signor Kenneth, e che lo vedessero insieme.

            Al sopraggiungere di Kenneth, domandai il permesso di entrare, anzi cercai di aprire io stessa la porta. La trovai chiusa a chiave, e Heathcliff mi mandò all'inferno. Stava meglio e voleva esser lasciato solo. Così il medico se ne andò.

            La sera successiva fu molto umida, anzi piovve a dirotto tutta la notte fino all'alba, e, quando feci il mio solito giro d'ispezione intorno alla casa, notai che la finestra del padrone sbatteva semiaperta e la pioggia vi cadeva dentro. «Non può essere a letto,» pensai: «questo diluvio lo bagnerebbe fino al midollo. Deve essere alzato, o fuori di casa. Ma è inutile far supposizioni, andrò a vedere.»

            Essendo riuscita a entrare con un'altra chiave, visto che la stanza era vuota, mi precipitai verso la cassa di quercia, ne feci scorrere in fretta le tavole, e diedi un'occhiata nell'interno.

            Il signor Heathcliff era disteso là sul letto, giaceva supino, i suoi occhi fissavano i miei, con uno sguardo così penetrante e selvaggio che ne sussultai, e mi sembrò anche che sorridesse. Non potevo credere che fosse morto, ma il volto e la gola erano inzuppati di pioggia. Le coperte del letto erano grondanti, e lui restava perfettamente immobile. L'impannata, sbattendo avanti e indietro, aveva leso la mano che lui posava sul davanzale, ma dalla ferita non stillava sangue, e, quando lo sfiorai con le dita, non ebbi più dubbio alcuno: era morto e già rigido. Richiusa la finestra, rialzai i suoi lunghi capelli neri dalla fronte, e cercai di chiudergli gli occhi, per estinguere se fosse stato possibile quel terribile sguardo di esultanza, ancora così vivo; non volevo che lo vedessero altri. Non gli si chiudevano, sembravano deridere i miei sforzi, e le labbra dischiuse e i bianchissimi denti aguzzi pure! Assalita da un nuovo accesso di paura, chiamai forte Giuseppe. Costui salì, facendo un gran chiasso, ma rifiutò risolutamente di immischiarsi nella faccenda. «Il diavolo si è presa la sua anima,» gridò, «e può prendersi in più la sua carcassa, per quel che me ne importa. Eh, come sembra malvagio a vederlo sogghignare così alla morte!» E il vecchio peccatore sogghignò a sua volta. Temetti per un istante che stesse per mettersi a saltare d'allegria intorno al letto, ma, ricomponendosi immediatamente, si lasciò cadere sulle ginocchia, e, alzate le mani verso il cielo, rese grazie a Dio perchè il vero padrone e l'antico ramo erano tornati nei loro diritti.

            Rimasi istupidita dal terribile avvenimento, e involontariamente il mio pensiero riandò con una tristezza opprimente ai tempi lontani. Ma il solo che realmente soffrì molto fu il povero Hareton, colui che aveva subito il maggior danno. Vegliò presso il morto tutta la notte, e pianse vere lacrime di dolore. Gli stringeva una mano tra le sue, baciava quel volto selvaggio e sarcastico da cui si ritraevano tutti inorriditi, e lo rimpiangeva con lo strazio di un cuore generoso, anche se duro come acciaio temprato.

            Il signor Kenneth fu molto perplesso, quando dovette pronunciarsi sul male che aveva causato la morte del padrone. Io, nel timore di provocare noie o altro, celai il fatto che per quattro giorni non aveva inghiottito cibo, persuasa d'altra parte che non se ne fosse astenuto di proposito, e che fosse stata solo la conseguenza della sua strana malattia e non già la causa.

            Lo seppellimmo secondo i suoi desideri, con grande scandalo di tutto il vicinato. Hareton e io, il sagrestano e i sei uomini che portavano la bara componevamo tutto il seguito. I sei uomini, non appena l'ebbero calato nella fossa, se ne andarono, noi rimanemmo finchè non fu ricoperta del tutto. Hareton, con il volto inondato di lacrime, tagliò di sua mano verdi zolle per deporle sulla terra bruna; ora anche questa tomba appare ordinata e fresca quanto le altre e spero che chi dorme in essa goda di un sonno profondo quanto quello degli altri. Ma la gente della campagna, se l'interrogate, vi giurerà sulla Bibbia che lui cammina. C'è chi dice di averlo incontrato vicino alla chiesa, o nella landa e perfino in questa stessa casa. Discorsi oziosi, voi direte, e così pure penso io. Tuttavia, quel vecchio presso il fuoco della cucina afferma che ogni notte di pioggia, dal giorno della morte del padrone, affacciandosi alla finestra della sua stanza, li vede sempre in due, e un fatto strano mi è successo circa un mese fa. Andavo a Grange una sera, una sera buia che minacciava temporale, e, proprio alla svolta delle Heights, ho incontrato un ragazzino che conduceva una pecora e due agnelli: vedendolo piangere disperatamente, ho pensato che gli agnellini facessero i capricci e non volessero essere guidati.

            «Che cos'hai, ometto?» gli ho chiesto.

            «Laggiù sotto alla montagnola c'è Heathcliff con una donna,» ha balbettato il piccolo, «e io non ho il coraggio di passargli davanti.»

            Non ho visto nulla, ma non c'è stato verso di far proseguire il ragazzino, e neppure la pecora; così ho dovuto indicargli la strada più bassa. Probabilmente, il piccolo nell'attraversare la landa si era creato con la fantasia quei fantasmi, avendo sentito ripetere chissà quali fole dai genitori e dai compagni. Tuttavia, confesso che non amo trovarmi fuori sola nella notte, e non amo rimanere sola neppure in questa casa. È più forte di me: sarò contenta, quando la lasceranno e si stabiliranno definitivamente a Grange.

            «Si stabiliranno dunque a Grange?» chiesi io.

            «Sì,» rispose la signora Dean, «non appena si saranno sposati, e questo avverrà il primo dell'anno.»

            «E chi abiterà qui?» dissi.

            «Giuseppe resterà a guardia della casa, e forse un ragazzo gli terrà compagnia. Staranno nella cucina, il resto della casa rimarrà chiuso.»

            «A uso di quei fantasmi che desiderassero albergarvi,» feci io.

            «No, signor Lockwood,» rispose Nelly, scuotendo il capo, «i morti riposano in pace, ma non si deve parlar di loro con leggerezza.»

            In quel mentre il cancello si aperse: i due vagabondi erano di ritorno. «Quelli non hanno paura di nulla,» borbottai, osservandoli dalla finestra. «loro due insieme sfiderebbero Satana e tutte le sue legioni.»

            Al loro giungere sul selciato davanti alla porta, mentre si soffermavano a dare un ultimo sguardo alla luna, o più precisamente a guardarsi l'un l'altro sotto la sua luce, mi sentii di nuovo spinto a sfuggirli e, messo nella mano della signora Dean un ricordo, senza badare alle sue rimostranze e men che meno alla mia sgarbataggine, mi dileguai, passando dalla cucina mentre quei due aprivano la porta di casa. In tal modo avrei confermato Giuseppe nelle sue idee, circa una tresca della sua compagna di servizio, se, al dolce tintinnìo che una corona fece cadendo ai suoi piedi, lui non mi avesse subito riconosciuto per una persona rispettabile.

            La mia passeggiata verso casa fu prolungata da un giro che feci in direzione della chiesa. Arrivato sotto quelle mura, notai quanto avesse progredito la rovina in soli sette mesi. Parecchie finestre mostravano vani oscuri senza vetri, e dal tetto sporgevano qua e là pezzi di ardesia che le bufere d'autunno avrebbero finito di asportare.

            Cercai, e subito trovai le tre tombe sul pendio adiacente alla landa, quella nel mezzo grigia, e a metà sepolta nell'erica, quella di Edgardo Linton che sola pareva curata, avendo ai piedi erba e muschio, infine la tomba di Heathcliff ancora nuda.

            Indugiai là presso, sotto quel cielo benigno; guardai le falene svolazzare tra l'erica e le campanule, ascoltai il lieve sospiro del vento tra l'erba, e mi stupii che si potesse immaginare un sonno meno tranquillo per quanti dormivano in quella terra di pace.