Heathcliff con uno spintone lo fece cadere in ginocchio in mezzo al sangue, e gli gettò un asciugamano; ma Giuseppe invece di mettersi a pulire, congiunte le mani cominciò una preghiera che, per le sue strane frasi, mi fece ridere. Nulla ormai mi faceva orrore; ero eccitata come certi criminali ai piedi del patibolo.

            «Oh, mi dimenticavo di te!» disse il tiranno. «Tu devi pulire! Giù, in ginocchio! Ah, hai tramato contro di me con lui! vipera! Là, quello è lavoro per te.»

            Mi scosse fino a farmi battere i denti, e mi scagliò accanto a Giuseppe che continuò a pregare impavido e fervente, poi si alzò e giurò che sarebbe andato immediatamente a Grange. Il signor Linton era un magistrato, e, gli fossero morte cinquanta mogli, avrebbe fatto un'inchiesta. Era così deciso che Heathcliff dovette obbligarmi a raccontare l'accaduto, e, standomi addosso, pieno di odio, incalzandomi con le domande mi costrinse ad esporre i fatti. Tuttavia ci volle non poca fatica a persuadere il vecchio che Heathcliff non era l'aggressore; tanto più che le mie risposte erano strappate a forza. Ad ogni modo Earnshaw lo convinse presto che era ancor vivo; Giuseppe fu pronto a somministrargli una buona dose di acquavite, e con questa cura il suo padrone poco dopo riacquistò i movimenti e la coscienza. Heathcliff capì che il suo avversario ignorava come fosse stato trattato mentre era svenuto; disse che siccome era ubriaco fradicio non voleva dar peso alla sua scellerata condotta, e gli consigliò di coricarsi. Con mia gioia, dopo aver dato il suo saggio consiglio, ci lasciò, e Hindley si sdraiò accanto al caminetto. Io mi rifugiai in camera, meravigliandomi d'essermela cavata così facilmente.

            Stamani quando sono scesa una mezz'ora prima di mezzogiorno, Hindley stava seduto vicino al fuoco, mortalmente sconvolto; il suo cattivo genio, quasi altrettanto emaciato e spettrale, era appoggiato al camino. Nè l'uno nè l'altro sembravano disposti a mangiare, e dopo aver aspettato tanto che in tavola tutto era diventato freddo, cominciai a mangiare da sola. Nulla m'impediva di mangiare di buon appetito, e provavo un certo senso di soddisfazione e di superiorità, quando ad intervalli gettavo un'occhiata ai miei silenziosi compagni e sentivo il conforto d'avere una coscienza tranquilla. Dopo mangiato mi avvicinai al fuoco, libertà insolita, passando audacemente dietro la sedia di Hindley e mettendomi in ginocchio in un angolo accanto a lui.

            Heathcliff non mi seguì nemmeno con lo sguardo, ed io cominciai a fissarlo in faccia con calma, come se fosse una statua di pietra. La fronte, una volta così virile, ora pareva diabolica, ed oscurata da una densa nube; gli occhi da basilisco erano quasi spenti per la continua veglia e forse per il pianto, poichè aveva le ciglia bagnate; le labbra, prive del loro crudele sogghigno e chiuse in un'espressione di indicibile tristezza. Di fronte a tanto dolore, se si fosse trattato di un altro, mi sarei nascosta il volto tra le mani. Nel suo caso era soddisfatta; e, per quanto ignobile possa sembrare l'insultare un nemico vinto, non seppi rinunciare all'occasione di ferirlo. Soltanto nel momento della sua debolezza potevo avere il piacere di ricambiare offesa con offesa.

            «Vergogna, vergogna, signora!» l'interruppi io. «Sembra che non abbiate mai aperta una Bibbia in vita vostra. Poichè, se Iddio affligge i vostri nemici, questo vi dovrebbe bastare. È una viltà e una presunzione il voler aggiunger la vostra funzione alla Sua!»

            «In generale hai ragione, Elena,» proseguii, «ma qual tormento inflitto a Heathcliff m'appagherebbe se io non vi avessi posto mano? Preferirei che soffrisse meno purchè ne fossi io la causa e lui lo sapesse. Oh, gli devo tanta sofferenza! Soltanto ad una condizione potrei perdonargli. Questa: occhio per occhio, dente per dente; ricambiare ogni spasimo di agonia con un altro spasimo: ridurlo a mio livello. È stato lui il primo a farmi male, dunque deve essere il primo ad implorare perdono; allora - oh, allora, Elena, potrei dar prova di generosità. Ma è assolutamente impossibile che io venga mai vendicata, perciò non posso perdonargli...»

            Hindley chiese dell'acqua, gliene porsi un bicchiere gli domandai come stesse.

            «Non tanto male quanto vorrei!» rispose. «Ma senza parlare della ferita al braccio, ogni centimetro del corpo mi duole come se avessi combattuto con una legione di folletti.»

            «Già, non c'è da meravigliarsene,» commentai subito. «Caterina diceva sempre che stava come uno scudo tra voi e qualunque pericolo vi sovrastasse; voleva dire che certe persone non vi avrebbero fatto del male nel timor di offender lei. È un bene che i morti non sorgano realmente dalle loro tombe altrimenti la scorsa notte Caterina avrebbe dovuto assistere ad una scena ripugnante. Non siete contuso e ferito al petto e alle spalle?»

            «Non lo so!» rispose, «ma che volete dire? Ha avuto il coraggio di colpirmi mentre giacevo inerte?»

            «Vi ha pestato sotto i piedi, preso a calci e sbattuto parecchie volte sul pavimento,» mormorai. «E la bocca gli tremava dalla voglia di farvi a pezzi, perche è uomo soltanto per metà; nemmeno metà, il resto è demonio.»

            Hindley alzò anche lui gli occhi al volto del nostro comune nemico; questi assorto nella sua angoscia sembrava insensibile a qualunque cosa intorno; e tanto più restava in quell'atteggiamento, più chiare trasparivano dai lineamenti le sue malvagie riflessioni.

            «Oh, se Iddio mi desse almeno la forza di strozzarlo nella mia ultima agonia, andrei all'inferno con gioia,» rantolò quel pazzo, contorcendosi per rialzarsi, e ricadendo disperato, convinto di essere impari alla lotta.

            «È già anche troppo che abbia ucciso uno di voi!» dissi a voce alta. «A Grange tutti sanno che vostra sorella sarebbe viva se non fosse per il signor Heathcliff. Dopotutto è preferibile essere odiati da lui che amati. Quando ricordo come eravamo felici, come era felice Caterina prima della sua venuta, maledico quel giorno.»

            Molto probabilmente la verità delle mie parole colpì Heathcliff più della mia audacia. Vidi ridestarsi la sua attenzione; le lacrime gli scesero dagli occhi giù nella cenere, mentre sospirava dolorosamente. Lo guardai fisso e risi sprezzante. Le rabbuiate finestre dell'inferno sfolgorarono per un attimo verso di me; ma il demonio che soleva affacciarsi ad esse era così spento e così sommerso dalle lacrime che non ebbi paura di lanciare un'altra risata di scherno.

            «Alzati, e togliti dai miei occhi!» disse Heathcliff.

            Pensai che tali fossero le parole da lui pronunciate benchè la sua voce fosse quasi inintelligibile.

            «Scusa, ma...» risposi, «io pure volevo bene a Caterina; e suo fratello chiede aiuto e per amor suo non glielo negherò. Ora che è morta, la rivedo in Hindley: Hindley avrebbe esattamente i suoi occhi se tu non avessi fatto di tutto per farglieli uscire dalle orbite, e ha...»

            «Alzati, miserabile idiota, se non vuoi che ti strozzi fino a farti esalare l'ultimo respiro!» gridò, facendo una mossa che m'obbligò a farne una pure io.

            «Ma allora,» proseguii, tenendomi pronta a fuggire; «se la povera Caterina avesse avuto fiducia in te e avesse assunto il titolo ridicolo, spregevole, degradante di signora Heathcliff, si sarebbe presto trovata in una condizione simile. Lei non avrebbe sopportato tranquillamente la tua abominevole condotta! il suo odio e il suo disgusto avrebbero trovato una voce.»

            Lo schienale della panca e la persona di Hindley stavano tra me e lui: così, invece di cercare di raggiungermi, afferrò un coltello dal tavolo e me lo lanciò contro il capo. Mi colpì sotto all'orecchio, interrompendo la frase che stavo pronunciando; lasciai cadere quel coltello, feci un salto verso la porta, e ne scagliai un altro, che spero lo avrà colpito un po' più profondamente del primo. Vidi ancora per un attimo Heathcliff buttarsi avanti furiosamente, e Hindley avventarglisi contro, arrestarlo, e, avvinghiati, tutt'e due rotolare presso il focolare. Fuggendo per la cucina, gridai a Giuseppe di accorrere in soccorso del padrone, urtai Hareton che era sulla soglia, intento a trastullarsi con dei cuccioli appena nati, e, benedetta come un'anima sfuggita al purgatorio, corsi, balzai, volai giù per la scala; indi, abbandonati i sentieri, mi lanciai direttamente attraverso la landa, lasciandomi rotolare per le scarpate, sguazzando nelle marcite, precipitandomi infine verso Grange, faro di salvezza. E, piuttosto di rimanere ancora anche una sola notte sotto il tetto di Wuthering, preferirei mille volte essere condannata a dimorar, in eterno nelle regioni infernali.

            Isabella tacque, prese un sorso di tè; si levò in piedi e, preso il cappello e il grande scialle che le avevo portato, non prestando ascolto alle mie preghiere di rimanere un altro poco, baciati i ritratti di Edgardo e di Caterina, e scoccato un bacio anche a me, scese alla carrozza, accompagnata da Fanny che, credendo di aver recuperato la sua padrona, abbaiava festosamente. Partì e non fece mai più ritorno da queste parti; ma, quando le cose si furono un po' più assestate tra lei e il mio padrone, si stabilì tra loro una corrispondenza regolare. Credo che la sua nuova dimora fosse a sud, nei pressi di Londra, e fu là che ebbe un figlio qualche mese dopo la fuga. Fu battezzato col nome di Linton, e, fin dal principio, si seppe che era un essere sofferente e capriccioso.

            Il signor Heathcliff, incontratami un giorno nel villaggio, mi chiese ove vivesse Isabella. Non volli dirglielo. Disse che non gli premeva affatto saperlo, ma che badasse bene a non tornare dal fratello: l'avrebbe piuttosto costretta a star con lui, per impedirglielo. Benchè non avesse da me nessuna informazione, riuscì a scoprire per mezzo di qualche altro servo sia il luogo di residenza sia l'esistenza del fanciullo. Tuttavia non la molestò mai: cosa per la quale Isabella poteva ringraziare l'avversione ch'egli aveva per lei. Quando mi vedeva, mi chiedeva del figlio, e, saputone il nome, si mise a ridere sinistramente e mi disse: «Vogliono dunque che odii lui pure!»

            «Credo, anzi, che vorrebbero che non ne sapeste nulla,» replicai.

            «Ma lo avrò quando vorrò. Possono contarci su questo.»

            Fortunatamente, la madre morì prima che un simile evento si verificasse; vale a dire tredici anni all'incirca dalla morte di Caterina; Linton, allora, aveva dodici anni o poco più.

            Il giorno successivo all'inattesa visita di Isabella, non ebbi modo di parlarne al mio padrone: egli evitava di conversare, e non era realmente in condizione di spirito da potere intrattenersi su nulla. Quando finalmente riuscii a farmi dare ascolto, vidi che gli faceva piacere sapere che la sorella aveva abbandonato il marito: lui lo aborriva e con una tale forza che la mitezza del suo carattere non l'avrebbe mai lasciato supporre.

            Tanto profonda e patita era quella sua avversione che rinunciava a recarsi ovunque potesse esservi la possibilità di vedere o di sentir parlare di Heathcliff. Il dolore, e una simile linea di condotta fecero di lui un perfetto eremita: non volle più saperne di essere magistrato, non frequentò più nemmeno la chiesa, e in qualsiasi occasione si teneva lontano dal villaggio, vivendo in tal modo in segregazione assoluta nei confini del suo parco e delle sue terre. Unico diversivo: qualche solitaria passeggiata nella landa, e le visite alla tomba della moglie, per lo più la sera o il mattino, per tempo, prima che altri uscissero in giro. Ma era troppo buono per essere del tutto infelice a lungo. Egli non pregava perchè lo spirito di Caterina lo perseguitasse. Il tempo gli recò la rassegnazione e una malinconia più dolce della gioia comune. Ricordava la moglie con ardente e tenero amore nell'aspirazione pienamente fiduciosa a un mondo migliore in cui non dubitava che lei se ne fosse andata.

            E aveva pure consolazioni e affetti tra i familiari. Per qualche giorno, come già dissi, sembrò incurante del piccolo successore di chi se n'era dipartito; quella freddezza si dileguò presto come la neve in aprile, e, prima che quella cosuccia potesse balbettare una parola e trotterellare un primo passo, teneva uno scettro da despota nel suo cuore. Le fu posto il nome di Caterina, ma lui non la chiamò mai con il nome intero, come non aveva mai chiamato Caterina con un diminutivo, probabilmente perchè lo faceva Heathcliff. La piccola fu sempre Cathy per lui voleva dire distinguerla e anche legarla alla madre; l'amava perchè era sua figlia, e l'amava ancora di più perchè era figlia di lei.

            Lo paragonavo a Hindley Earnshaw, e non riuscivo a spiegarmi come la condotta dell'uno e dell'altro in circostanze uguali fosse così opposta. Erano stati ambedue mariti affettuosi, ambedue attaccati ai figli, e non capiva perchè non avessero presa la stessa via, nel bene e nel male. Ma, ragionavo tra me, Hindley, apparentemente il più intelligente dei due, si era dimostrato il peggiore il più debole. Quando la sua nave era naufragata, aveva abbandonato il suo posto e la ciurma invece di tentar di salvarla, e il suo smarrimento non lasciava speranza alla nave sfortunata. Linton, al contrario, aveva dimostrato il vero coraggio di un'anima fedele e leale; aveva avuto fiducia in Dio e Iddio lo aveva consolato. Uno aveva sperato, l'altro disperato; si erano scelti il proprio destino, e avevano dovuto subirlo. Ma voi, signor Lockwood, non desiderate certo udire la mia morale; saprete giudicare meglio di me o almeno ne sarete convinto, il che fa lo stesso. La fine di Hindley fu quella prevedibile: dopo circa sei mesi, seguì la sorella. Qui a Grange, non arrivarono notizie della sua fine; quel che so me lo dissero quando andai laggiù per i preparativi dei funerali.

            Fu Kenneth a informare il mio padrone.

            «Ebbene, Nelly,» mi disse, arrivando a cavallo in cortile, una mattina, troppo per tempo per non allarmarmi con l'improvviso presentimento di cattive notizie. «Ora toccherà a noi piangere un morto. Chi credete ci abbia lasciati?»

            «Chi?» domandai con ansia.

            «Indovinate!» rispose, smontando da cavallo, e agganciando la briglia presso la porta. «E preparate il fazzoletto, sono sicuro che ne avrete bisogno!»

            «Non il signor Heathcliff, no di certo!» esclamai.

            «Che!? avreste delle lacrime per lui?» disse il medico. «No, Heathcliff è un ragazzo duro: oggi ha un aspetto fiorente. L'ho appena veduto. Da quando ha perso la moglie si è rimesso rapidamente!»

            «Chi, dunque, signor Kenneth?» chiesi ancora impaziente.

            «Hindley Earnshaw! il vostro vecchio amico Hindley,» rispose, «il mio cattivo compagno, benchè da parecchio tempo fosse troppo disperato per me. Ecco! Ho detto che avreste pianto! Ma consolatevi. È morto coerente al suo carattere: ubriaco come un lord. Povero ragazzo! Dispiace anche a me! Non si può far a meno di sentire la mancanza di un vecchio amico anche se era capace dei peggiori scherzi, e ha giocato qualche brutto tiro anche a me. Non aveva ancora ventisette anni, pare; la vostra età; chi avrebbe mai pensato che siete nati lo stesso anno?»

            Confesso che il colpo fu per me più grave di quello provato alla morte della signora Linton: antichi ricordi erano rimasti sempre nel mio cuore. Sedetti sotto il portico e piansi come se si fosse trattato di uno stretto parente e pregai il signor Kenneth di farsi annunziare al padrone da un altro servo. Continuavo a chiedermi: «Avrà avuto un buon trattamento?» Per quanto facessi, questa idea mi perseguitava; ed era così insistente che decisi di chiedere il permesso di andare a Wuthering Heights, per prestargli le ultime cure. Il signor Linton si oppose, ma io gli parlai della tremenda solitudine di Hindley, dissi che il mio ex padrone e fratello di latte aveva diritto alle mie cure quanto lui. Gli ricordai anche che Hareton era suo nipote per parte di moglie, e che in mancanza di parenti più prossimi, spettava a lui fargli da tutore; inoltre era suo dovere informarsi su come venisse suddivisa la proprietà, e badare agli interessi di suo cognato. In quel momento il signor Linton non era in grado di occuparsi di faccende simili; mi ordinò di parlarne al suo avvocato e infine acconsentì a farmi andare. Il suo avvocato era stato anche avvocato di Hindley: mi recai quindi al villaggio e lo pregai di accompagnarmi. Scosse il capo negativamente, e mi consigliò di non immischiarmi negli affari di Heathcliff, affermando che se si fosse saputa la verità, Hareton sarebbe risultato solo uno straccione.

            «Suo padre ha lasciato dei debiti,» disse; «l'intera proprietà è confiscata, e la sola possibilità che rimanga all'erede naturale è saper destare qualche simpatia nel cuore del suo creditore per indurlo a trattarlo con generosità.»

            Alle Heights dissi di essere andata per vedere che le cose fossero fatte a modo, e Giuseppe che sembrava abbastanza afflitto, fu contento della mia presenza. Al signor Heathcliff non parve affatto necessaria, tuttavia disse che potevo rimanere, e che pensassi io a dare disposizioni per il funerale, se proprio volevo.

            «Bisognerebbe seppellire il corpo di quello stolto al crocicchio senza cerimonie di nessun genere,» disse. «Ieri nel pomeriggio l'ho lasciato solo dieci minuti: ha chiuso a catenaccio le due porte di casa per impedirmi di entrare, e ha passato la notte ad ubriacarsi a morte! siamo entrati a forza stamani, sentendolo ansimare come un cavallo; stava là disteso, non si sarebbe svegliato a farlo a pezzi nè a perforargli il cranio. Ho mandato a chiamare Kenneth, ma, quando è arrivato, la bestia era già una carogna: era morto, freddo, rigido; così, ne converrai, sarebbe stato inutile darsi da fare per lui.»

            Il vecchio servo confermò questa dichiarazione, ma brontolò: «Sarebbe stato meglio che fosse andato lui a chiamare il medico! Avrei avuto più cura di lui del padrone; quando l'ho lasciato non era morto, neanche per sogno!»

            Insistetti perchè il funerale fosse decoroso. Il signor Heathcliff mi disse di fare pure a modo mio, ma di ricordarmi che il denaro lo tirava fuori lui. Mantenne un contegno freddo, indifferente, che non esprimeva gioia, nè dolore; tutt'al più soddisfazione, come per un'opera difficile ben riuscita.

            Una volta, per dire la verità, notai nel suo aspetto una specie di esultanza: fu quando la bara passò la soglia. Ebbe l'ipocrisia di intervenire in veste di congiunto. Poco prima di seguire il funerale, mise Hareton a sedere su un tavolo e gli mormorò, con intenzione: «Ora, caro ragazzo, sei mio. Vedremo se un albero non crescerà storto come un altro con lo stesso vento che lo piega!» Il bambino fu contento di queste parole, si trastullò con le basette di Heathcliff e gli accarezzò il viso; ma io che ne avevo indovinato il significato, dissi duramente: «Quel ragazzo, signore, deve tornare con me a Thrushcross Grange. Nulla al mondo è meno vostro di lui.»

            «L'ha detto Linton?» chiese.

            «Certamente, e mi ha ordinato di prenderlo,» risposi.

            «Bene, non staremo a discutere ora,» rispose quel furfante «ma ho voglia di provare ad allevare un ragazzo; quindi di' al tuo padrone che, se tenta di toglierlo di qua, dovrò prendermi il mio. Non che io sia in tal caso disposto a cedere Hareton senza discussioni ma quel che è certo è che reclamerò l'altro. Ricordati di dirglielo.»

            Questo avvertimento bastò a legarci le mani. Al mio ritorno riferii l'ingiunzione ad Edgardo Linton che, poco interessato già da principio, non accennò più a voler intervenire. Non credo che, se anche avesse voluto sarebbe riuscito a qualche cosa.

            L'ospite era ora il padrone di Wuthering Heights: provò all'avvocato, che a sua volta convinse Linton, che Hindley aveva ipotecato ogni palmo di terra che possedeva in cambio di denaro per alimentare la sua mania del gioco; e che lui, Heathcliff: era il proprietario. Così Hareton che dovrebbe essere il primo signore dei dintorni è ridotto a dipendere dall'acerrimo nemico di suo padre e vive in casa propria come un servo, privo persino del vantaggio dello stipendio, del tutto incapace di farsi giustizia da sè per mancanza d'amici e perchè ignaro del male che gli è stato fatto.

           

 

XVIII    (torna all'indice)

           

 

           

            «I dodici anni che seguirono questo triste periodo,» riprese a dire la signora Dean, «furono i più felici della mia vita; i soli dispiaceri erano i lievi malanni da cui la nostra piccola signora, come tutti gli altri bambini, ricchi o poveri, veniva colpita. Ma, dopo i primi sei mesi, crebbe come un larice: prima che l'erica fosse fiorita una seconda volta sulle ceneri della signora Linton, aveva imparato a camminare e a modo suo anche a parlare. Era la cosuccia più attraente che potesse illuminare una casa desolata. Il volto una vera bellezza, coi bellissimi occhi scuri degli Earnshaw ma il colorito roseo, i lineamenti fini, i capelli biondi e ricciuti dei Linton. Di animo molto vivace, ma non turbolento, e addolcito da un cuore sensibile, molto espansivo e affettuoso. Quella sua capacità di grande attaccamento ricordava la madre, cui però non somigliava; sapeva essere dolce e umile come una colomba, aveva una voce gentile e l'espressione pensosa; i suoi capricci non erano mai bizze, il suo amore non era mai orgoglioso: era profondo e sincero. Bisogna però riconoscere che i difetti superavano le sue buone qualità. Una tendenza ad essere insolente, per dirne una, e quella volontà prepotente, propria dei bambini viziati, siano essi di carattere buono o cattivo. Se un domestico la contrariava, era pronta: «Lo dico a papà!» E, se il papà la rimproverava anche soltanto con uno sguardo, pareva che le spezzasse il cuore. Non credo che le abbia mai rivolto una parola severa. Si occupava lui stesso della sua educazione; e ne fece uno svago. Per fortuna, la curiosità e un'intelligenza pronta facevano di lei un'ottima allieva; imparava rapidamente e avidamente e faceva onore al suo maestro. Fino ai tredici anni non oltrepassò mai i confini del parco da sola. Il signor Linton la portava con sè un miglio o poco più fuori, ma non l'affidava a nessuno. Gimmerton era per la bambina un nome astratto, e la chiesetta il solo fabbricato che avesse mai visto e dove fosse mai entrata oltre la propria casa. Wuthering Heights e il signor Heathcliff non esistevano per lei; viveva in completa solitudine, e, in apparenza, perfettamente contenta. Qualche volta, guardando la campagna dalla finestra della camera da gioco, mi chiedeva:

            «Elena, tra quanto tempo potrò salire sulla cima di quelle colline? Che cosa c'è al di là? Il mare?»

            «No, signorina Cathy,» rispondevo io, «ci sono altre colline, proprio come queste.»

            «E che aspetto hanno quelle rocce dorate a guardarle da sotto?» mi chiese una volta.

            Lo strapiombo della Rupe di Penistone la attirava in modo particolare, specialmente quando era illuminato dal sole al tramonto, e tutto il paesaggio intorno era in ombra. Io le spiegavo che erano soltanto una massa di nude rocce, con così poca terra nelle fenditure da non lasciar crescere neppure l'albero più stento.

            «E perchè restano luminose per tanto tempo quando qui è già sera?» chiese ancora.

            «Perchè sono più in alto,» le risposi. «Tu non potresti salirci, sono troppo alte e scoscese. In inverno gelano molto prima che da noi, e in piena estate ho trovato della neve sotto quella grotta nera, a nord.»

            «Tu ci sei stata?» gridò felice. «Allora ci potrò andare anch'io quando sarò una donna. Papà c'è stato, Elena?»

            «Papà ti direbbe che non val la pena di visitarle,» mi affrettai a rispondere. «La landa nella quale tu passeggi con lui, è molto più bella, e il parco di Thrushcross è il più bel posto del mondo.»

            «Ma il parco lo conosco, mentre non conosco quelle cime,» mormorò tra sè. «E io mi divertirei tanto a guardare giù dalla cima più alta. Una volta o l'altra ci andrò con il mio pony Minny.»

            Una delle cameriere le parlò per caso della «Grotta delle Fate» e acuì il suo desiderio di realizzare quel progetto; perseguitò il signor Linton fin che lui non le promise che, non appena fosse stata grande, l'avrebbe accontentata. Ma la signorina Caterina misurava la propria età a mesi e: «Ora sono abbastanza grande per andare alle Rupi di Penistone?» era la domanda che aveva costantemente sulle labbra. La strada che vi conduceva, serpeggiava accanto a Wuthering Heights. Edgardo non se la sentiva di passarci, così la risposta che Caterina riceveva altrettanto costantemente era: «Non ancora, amore, non ancora.»

            Vi ho detto che la signora Heathcliff visse circa dodici anni dopo aver lasciato il marito. Nella sua famiglia erano di costituzione delicata. Tanto lei che Edgardo non avevano la salute della gente di queste parti. Non so quale fu la sua ultima malattia; penso siano ambedue morti dello stesso male, una specie di febbre, lenta dapprima, ma inguaribile, che verso la fine consuma la vita rapidamente. Dopo quattro mesi di malattia la signora Heathcliff scrisse al fratello che vedeva vicina la fine e lo pregò, se poteva, di andare da lei, perchè aveva molti interessi da sistemare, voleva dargli un ultimo addio, e affidare suo figlio nelle sue mani sicure. Sperava che il piccolo Linton potesse restare con lui, come aveva ottenuto di tenerselo lei; immaginava che il padre non volesse certo assumersi il peso della sua educazione e del suo mantenimento. Il mio padrone non esitò un momento a soddisfare quel desiderio, e nonostante la sua ripugnanza a lasciare la casa corse a questo appello, raccomandandomi Caterina durante la sua assenza, ordinando più volte di non farla passeggiare fuori del parco nemmeno sotto mia sorveglianza; che potesse per caso andar fuori non accompagnata non gli venne neppure in mente.

            Rimase assente tre settimane. Per il primo ed il secondo giorno la mia ,«pupilla» se ne stette seduta in un angolo della biblioteca, troppo triste sia per leggere sia per giocare; così tranquilla mi dava poco da fare; ma poi fu presa da un'inquieta e fastidiosa malinconia; io non potevo distrarla in nessun modo, data la mia età e le mie molte faccende, e cercai di farla divertire da sè. La mandavo a far gite nei dintorni, a piedi, o sul pony, e al ritorno stavo a sentire pazientemente il racconto delle sue avventure vere o immaginarie.

            L'estate era nel suo pieno trionfo, e Caterina si divertiva tanto a queste passeggiate solitarie, che spesso stava fuori dall'ora di colazione fino all'ora del tè e passava le serate a raccontare le sue storie fantastiche. Non avevo nessuna paura che potesse oltrepassare i confini, perchè i cancelli erano sempre chiusi e pensavo che molto probabilmente non si sarebbe azzardata fuori sola nemmeno se fossero stati spalancati. Sfortunatamente la mia fiducia era mal riposta. Una mattina alle otto Caterina annunciò che quel giorno sarebbe stata un mercante arabo che attraversava il deserto con la sua carovana; quindi dovevo darle provviste abbondanti per sè e per le sue bestie: un cavallo e tre cammelli, impersonati da un grosso mastino e da un paio di pointers. Misi in un cesto appeso a un lato della sella una discreta quantità di leccornie; Cathy con un salto fu in groppa, più felice di una fata. Un cappello a larga tesa e un velo leggero la proteggevano dal sole di luglio; s'allontanò al trotto, con una allegra risata, prendendomi in giro perchè le consigliavo con prudenza di non galoppare e di tornare presto. Quella cattivella non si fece viva neppure all'ora del tè. Uno dei viaggiatori, il mastino, che era un vecchio cane amante delle proprie comodità, tornò; ma nè Cathy, nè il pony e neppure i due pointers si vedevano comparire da nessuna parte: spedii a cercarli per questo e quel sentiero, e alla fine andai io stessa a rintracciarla. Un contadino stava lavorando ad una siepe intorno alla piantagione al confine dei poderi. Gli chiesi se avesse visto la nostra padroncina.

            «Stamani,» rispose. «Ha voluto che le tagliassi un frustino di nocciuolo; appena l'ha avuto, ha fatto saltare la siepe al suo cavallino di Galloway ed è scomparsa al galoppo.»

            Potete immaginare quel che provai a questa notizia. Mi balenò subito l'idea che fosse andata alla Rupe di Penistone. «Che cosa le succederà?» ripetevo tra me e me, mentre, attraversata la siepe dal foro che l'uomo stava riparando, mi avviavo alla strada maestra. Andavo di corsa come in una gara, per vincere una scommessa, miglio dopo miglio, finchè ad una svolta non mi trovai di fronte alle «Cime»; ma non vidi Caterina vicino nè lontano. Le Rupi sorgono a circa un miglio dalla casa del signor Heathcliff, lontano quattro miglia da Grange; cominciai a temere che venisse notte prima di arrivarci.

            «E se nell'arrampicarsi lassù fosse scivolata? e se fosse morta? o se si fosse fratturata le ossa?» pensavo, e la mia attesa era veramente penosa. Che sollievo provai da principio, mentre passavo in fretta dalla fattoria, vedendo Carlino, uno dei pointers, il più feroce, sdraiato sotto una finestra, col muso gonfio ed un orecchio sanguinante! Aprii il cancelletto, corsi alla porta e bussai disperatamente. Mi aprì una donna che conoscevo e che una volta viveva a Gimmerton. Dalla morte di Hindley Earnshaw era a servizio in quella casa.

            «Ah!» mi disse. «Siete venuta a cercare la vostra piccola signora! non abbiate timore. È qui sana e salva: ma sono ben contenta che siate voi e non il padrone.»

            «Allora non è in casa!» dissi quasi senza fiato per la corsa e lo spavento.

            «No, no,» rispose. «Il padrone e Giuseppe sono fuori tutti e due, e credo che torneranno solo tra un'ora o più. Entrate a riposarvi un poco.»

            Entrai e subito vidi la mia pecorella smarrita seduta presso il fuoco su una seggiolina a dondolo che era stata di sua madre quand'era bambina. Aveva appeso il cappello al muro e sembrava a suo agio; rideva, discorreva di buonissimo umore con Hareton, fattosi ormai un ragazzone di diciott'anni, che stava lì a guardarla con non poca curiosità e meraviglia, senza capire una delle osservazioni e delle domande che quella chiacchierina non smetteva di fargli con straordinaria rapidità.

            «Benissimo, signorina!» esclamai, celando la gioia sotto un aspetto adirato. «Questa sarà l'ultima gita che farete fino al ritorno di papà. Non mi fiderò più nemmeno a lasciarvi varcare la soglia, cattivella che siete!»

            «Oh, Elena!» gridò la ragazza allegramente, saltando in piedi e correndomi incontro. «Avrò una bella storia da raccontarti stasera. E così mi hai scoperta! Sei mai venuta qui prima d'ora, in vita tua?»

            «Mettetevi quel cappello, e a casa subito!» dissi io. «Sono terribilmente scontenta di voi, signorina Cathy! Avete fatto molto male! È inutile piagnucolare non mi compensa certo della pena che mi son data; battere tutta la campagna per cercarvi. E pensare che il signor Linton mi aveva ordinato di non lasciarvi uscire di casa! e voi siete scappata così! Questo dimostra che siete un'ipocrita e nessuno si fiderà mai più di voi.»

            «Che cosa ho fatto?» fece singhiozzando umiliata. «Papà non mi ha dato nessun ordine: non mi sgriderà! Non si arrabbia mai come te, Elena!»

            «Andiamo, dunque! Venite!» ripetei. «vi annoderò io il nastro. Su, non facciamo storie! Oh! Vergogna! a tredici anni essere ancora una marmocchia simile!»

            Cathy aveva infatti gettato in terra il cappello, e si rincantucciava per terra, vicino al camino, per non farsi prendere.

            «Via!» disse la domestica. «Non siate severa con una ragazzina così bella! Siamo stati noi a trattenerla: lei voleva continuare per la sua strada, temendo che vi sareste preoccupata. Hareton s'è offerto di riaccompagnarla, e anche a me sembrava meglio: la strada attraverso le colline è molto cattiva, scoscesa.»

            Durante la discussione, Hareton era rimasto con le mani in tasca, troppo goffo e impacciato per parlare, benchè fosse evidente che il mio intervento non gli faceva nessun piacere.

            «Quanto devo aspettare?» ripresi a dire, senza curarmi dell'intromissione della domestica. «Tra dieci minuti sarà buio. Dov'è il vostro pony, signorina Cathy? E dov'è Fenice? Se non vi spicciate, me ne vado. Fate pure come volete!»

            «Il pony è in cortile,» rispose la ragazza, «e Fenice è rinchiusa là dentro. È stata morsicata, ed anche Carlino. Vi avrei raccontato tutto, ma siete arrabbiata, e non vi dico nulla.»

            Raccolsi il cappello, e mi avvicinai per metterglielo, ma Cathy vedendo che quelli di casa prendevano le sue difese si mise a saltellare per la stanza: mentre cercavo di acchiapparla correva come un topo sopra sotto e dietro i mobili, rendendo così molto ridicolo il mio inseguimento. Hareton e la donna ridevano e lei rideva con loro diventando sempre più impertinente, finchè al colmo dell'irritazione non gridai:

            «Cara signorina Cathy, se sapeste di chi è questa casa, sareste ben felice di uscirne.»

            «È di vostro padre, non è vero?» disse la ragazza rivolgendosi ad Hareton.

            «No,» rispose lui, abbassando gli occhi e arrossendo timidamente.

            Non riusciva a sostenere lo sguardo fermo degli occhi di lei tanto simili ai suoi.

            «Di chi, allora? del vostro padrone?» gli domandò. Lui arrossì ancora di più, ma per un sentimento diverso; mormorò una bestemmia, e le voltò le spalle.

            «Chi è il suo padrone?» replicò insistente e noiosa la ragazza, rivolgendosi a me. «Prima parlava della "nostra casa", "la nostra gente". Credevo fosse il figlio del proprietario. E non ha mai detto "signorina", avrebbe dovuto dirlo. Se è un domestico, lo doveva dire no?»

            A queste parole puerili, Hareton si oscurò come una nuvola di temporale. In silenzio diedi una scrollatina alla mia interlocutrice e alla fine riuscii a prepararla per la partenza.

            «Va' a prendermi il cavallo, ora,» disse la bimba rivolgendosi al suo ignoto parente come a un garzone di scuderia di Grange. «Puoi venire con me. Voglio vedere il punto della palude dove appare lo spirito folletto, e sentirmi raccontare delle fate... le fairishes, come le chiami tu: ma spicciati! Che cosa aspetti? Portami il cavallo, ti dico.»

            «Ti vedrò dannata prima di farti da servo!» grugnì il ragazzo.

            «Mi vedrai che cosa?» domandò Caterina sorpresa.

            «Dannata! strega insolente!» rispose.

            «Ecco, signorina Cathy! vedete in che bella compagnia vi siete messa,» interloquii. «Belle parole da dire a una signorina! Per favore non cominciate a litigare con lui! Venite, cerchiamoci Minny, e andiamocene.»

            «Ma, Elena,» gridò lei, guardandomi con gli occhi sbarrati, pieni di stupore, «come osa parlarmi così? Non deve fare quello che gli ordino? Dirò io a papà quel che hai detto, maleducato, e vedrai!»

            Hareton sembrò non sentire tale minaccia lacrime d'indignazione riempirono gli occhi di Cathy. «Portatemi voi il mio pony,» esclamò volgendosi alla donna, «e slegate subito i miei cani.»

            «Piano, signorina,» rispose quella, «non avete nulla da perdere a essere cortese. Anche se il signor Hareton non è il figlio del padrone, è vostro cugino; e, quanto a me, non sono pagata per servirvi.»

            «Lui mio cugino!» gridò Cathy con una risata di scherno.

            «Sì, proprio,»

            «Oh, Elena, non permetterle di dire cose simili,» proseguì Cathy molto turbata. «Il papà è andato a prendere mio cugino a Londra: mio cugino è figlio di un signore. Mio...» si fermò e scoppiò a piangere, sconvolta all'idea di una parentela con quel gaglioffo

            «Silenzio, silenzio!» le bisbigliai. «Ognuno di noi può avere molti cugini, e di ogni sorta, senza per questo averne un danno; ma non c'è bisogno di frequentarli, se sono antipatici e cattivi.»

            «Ma lui non è... non è mio cugino, Elena!» riprese a dire, trovando nuova fonte di dolore nelle sue riflessioni e buttandosi infine nelle mie braccia come per sottrarsi a quell'idea.

            Io ero adirata con tutte e due, la ragazzina e la domestica, per le loro rispettive rivelazioni; ero sicura che quella avrebbe informato Heathcliff dell'imminente arrivo di Linton annunciato da Cathy, ed ero ugualmente certa che il primo pensiero di Caterina al ritorno del padre, sarebbe stato quello di chiedere una spiegazione a proposito di quel suo rozzo parente. Hareton, rimessosi dall'ira per esser stato preso per un servo, parve commosso da quel dolore; portò il pony alla porta per propiziarsi la ragazza, liberò dal canile un grazioso piccolo terrier, le fece segno di non pianger più perchè non aveva avuto cattive intenzioni e glielo pose tra le mani. Lei lo guardò con paura ed orrore, e scoppiò di nuovo in lacrime.

            Tanta antipatia per quel poveraccio mi fece sorridere: era un giovane atletico, ben fatto, dai lineamenti regolari, robusto, e sano, ma vestito di abiti adatti alle sue occupazioni quotidiane, ovvero il lavoro alla fattoria e le corse nella landa dietro ai conigli e alla selvaggina. Eppure mi parve di scoprire dai suoi tratti una mente con qualità migliori di quelle di suo padre. Cose buone, certo soffocate in un viluppo di erbe cattive, la cui esuberanza superava di gran lunga la loro crescita negletta; ma evidentemente un terreno fertile, che in circostanze diverse e favorevoli avrebbe potuto dare un raccolto rigoglioso. Il signor Heathcliff, credo, non l'aveva trattato male fisicamente; il ragazzo era troppo aggresslvo e coraggioso per permetterglielo. Non aveva nulla di quella timida suscettibilità che avrebbe stimolato la crudeltà in una mente come quella di Heathcliff. Pareva che, invece, Heathcliff si fosse sforzato di farne un bruto: nessuno gli aveva insegnato a leggere e a scrivere, nè lo aveva rimproverato per qualsiasi cattiva abitudine, purchè non desse noia al suo tutore; nessuno lo aveva mai indirizzato verso la virtù o preservato dal vizio. A quanto capii, Giuseppe contribuiva molto al suo abbrutimento con la propria parzialità, frutto di una mente limitata che lo spingeva ad adularlo e a viziarlo come un bambino, perchè era il capo dell'antica famiglia. E come una volta quand'erano bambini accusava Caterina Earnshaw ed Heathcliff di far perdere la pazienza al padrone e di costringerlo a dimenticare nel bere la loro cattiveria, così ora addossava l'intero peso delle colpe di Hareton sulle spalle dell'usurpatore dei suoi beni. Se il ragazzo bestemmiava e si comportava in modo deplorevole, non provava neanche a correggerlo. Evidentemente, vederlo arrivare all'estremo limite del male, era una soddisfazione per Giuseppe: ammetteva che il ragazzo era rovinato e che la sua anima era abbandonata alla perdizione; ma sosteneva che era tutta colpa di Heathcliff. Il sangue di Hareton sarebbe ricaduto sulle sue mani, e questo pensiero lo consolava momentaneamente. Giuseppe gli aveva istillato l'orgoglio del nome, e della sua schiatta; se avesse osato avrebbe fomentato l'odio tra lui e l'attuale proprietario delle Heights; ma il suo terrore per quest'ultimo giungeva alla superstizione, così limitava i suoi risentimenti a insinuazioni borbottate insieme con sue particolari minacce.

            Non pretendo di saper tutto sulla vita di Wuthering Heights in quel periodo; parlo soltanto per sentito dire; ho visto poco coi miei occhi. I contadini dicevano che il signor Heathcliff era avaro, un padrone duro e crudele verso i suoi dipendenti; ma la casa governata da mani femminili aveva riacquistato il suo aspetto confortevole, e non vi si svolgevano più le scene provocate da frequenti gozzoviglie abituali al tempo di Hindley. Il padrone era troppo sinistro per cercar la compagnia di altri, buoni o cattivi; e lo è tuttora.

            Questo ad ogni modo, non fa progredire la mia storia. La signorina Cathy rifiutò il piccolo terrier come dono di pace, e chiamò i propri cani, Carlino e Fenice. Arrivarono zoppicanti, con la testa penzoloni; e così rattristati, tutti quanti, ci avviammo verso casa. Non riuscii a far dire alla mia piccola signora come avesse passata la giornata; mi disse solo che la metà del suo pellegrinaggio erano state le Rupi di Penistone, come avevo immaginato: era arrivata senza difficoltà al cancello della fattoria, quando Hareton era sbucato fuori per caso accompagnato da alcuni segugi, che avevano attaccato i suoi. C'era stata una battaglia feroce prima che i padroni riuscissero a separarli: questo era servito da presentazione. Caterina aveva detto ad Hareton chi fosse, e dove andasse; gli aveva chiesto di indicarle la via, e infine l'aveva pregato di accompagnarla. Lui le aveva svelato i misteri della Grotta delle Fate, e di venti altri luoghi strani. Siccome era arrabbiata con me, non mi descrisse le cose interessanti che aveva visto. Riuscii comunque a capire che la sua guida le era stata simpatica fino a che non l'aveva offeso, trattandolo come un servo; e la governante di Heathcliff non aveva offeso lei, dicendole che il ragazzo era suo cugino. Inoltre era umiliata dal linguaggio di lui; essere insultata così volgarmente da un estraneo, lei che a Grange era sempre per tutti «amore» e «cara» e «regina» e «angelo»! Non si rassegnava, e mi ci volle non poca fatica a farle promettere che non avrebbe parlato di litigio al padre. Le spiegai come egli fosse mal disposto verso l'intera famiglia alle Heights, e che dolore avrebbe provato nel sapere che era stata lassù; ma insistetti ancor più sul fatto che, se gli avesse rivelato la mia negligenza nell'eseguire i suoi ordini, si sarebbe tanto adirato da obbligarmi ad andarmene; e Cathy non poteva sopportare tale prospettiva; mi diede la sua parola che non avrebbe parlato, e per amor mio la mantenne. Dopo tutto era una dolce ragazzina.

           

 

XIX    (torna all'indice)

           

 

           

            Una lettera listata di nero annunciò il giorno del ritorno del mio padrone. Isabella era morta: lui mi scriveva di provvedere al lutto della figlia, di preparare una camera ed altre cose necessarie per ospitare il suo giovane nipote. Caterina era fuori di sè dalla gioia all'idea di riabbracciare suo padre e indugiava a immaginare le innumerevoli ottime qualita del suo vero cugino. Venne la sera del sospirato arrivo. Già da molto presto quella mattina, si era data un gran da fare a impartire ordini suoi particolari, e poi, vestita a nuovo, di nero - povera piccola! la morte di sua zia non le aveva certo dato un gran dolore - mi obbligò, con fastidiosa insistenza, ad andar loro incontro attraverso i poderi.

            «Linton è di sei mesi minore di me,» mi diceva tra una chiacchiera e l'altra, mentre passeggiavamo su e giù per i verdi pendii di musco all'ombra degli alberi. «Come sarà piacevole averlo per compagno di gioco! La zia Isabella ha mandato a papà una bella ciocca dei capelli di Linton, erano più chiari dei miei, più biondi del lino, e altrettanto sottili. Li conservo in un astuccio di cristallo, ed ho spesso pensato quanto mi avrebbe fatto piacere vedere mio cugino. Oh! sono felice... e papà! il mio caro caro papà! Vieni, Elena, corriamo! vieni, dunque, corri!»

            Corse avanti, tornò, e di nuovo corse parecchie volte prima che io arrivassi al cancello; allora si sedette sulla ripa erbosa lungo il sentiero e cercò invano di aspettare pazientemente: non riusciva a star ferma un minuto.

            «Quanto tempo ci mettono!» esclamò. «Ah, vedo polvere sulla strada... vengono? No! Quando arriveranno? Non potremmo fare un po' di strada... un mezzo miglio, Elena, soltanto un mezzo miglio? Dimmi di sì, fino a quel gruppo di betulle alla svolta.»

            Rifiutai recisamente. Alla fine la sua ansia ebbe termine; la carrozza da viaggio apparve. La signorina Cathy, vedendo il viso di suo padre affacciato al finestrino, cominciò a gridare e a tendergli le braccia. Lui scese dalla carrozza, forse non meno ansioso di lei, e solo dopo un intervallo abbastanza prolungato si ricordarono anche degli altri. Mentre si abbracciavano diedi un'occhiata nella carrozza per vedere Linton. Stava in un angolo addormentato, avvolto in un pesante mantello foderato di pelliccia, come se fosse inverno.

             Un ragazzo effeminato, delicato, pallido, che poteva essere scambiato per un fratello minore del mio padrone, tanto gli assomigliava: ma nel suo volto un'inquietudine da malato che Edgardo Linton non aveva mai avuto. Il signor Linton vide che guardavo e, strettami la mano, mi consigliò di chiuder lo sportello e di lasciar il ragazzo tranquillo perchè il viaggio lo aveva affaticato. Cathy avrebbe voluto dargli un'occhiata, ma il papà la chiamò e così s'avviarono insieme attraverso il parco, mentre io correvo avanti ad avvertire i domestici.

            «Ora, bambina mia cara» disse il signor Linton alla figlia, mentre arrivavano ai piedi della scalinata principale, «debbo dirti che tuo cugino non è forte e allegro come te, e devi ricordare che ha appena perso sua madre; quindi, non aspettarti che possa subito giocare e correre qua e là con te. E non tormentarlo troppo con le tue chiacchiere; per questa sera almeno lascialo in pace, va bene?,»

            «Sì, sì, papà,» rispose Caterina; «ma voglio tanto vederlo, e lui non ha guardato fuori nemmeno una volta.»

            La carrozza si fermò, il ragazzo addormentato si svegliò; lo zio lo prese in braccio, lo sollevò e lo posò a terra.

            «Ecco la tua cugina Cathy, Linton,» gli disse unendo le loro piccole mani. «Ti vuol già bene, e bada di non addolorarla mettendoti a piangere stasera. Cerca di essere lieto; il viaggio è finito, e ora non hai altro da fare che riposarti e divertirti come vuoi.»

            «Allora permettimi di andare a letto,» rispose il ragazzo, sfuggendo al saluto di Caterina e portandosi le mani agli occhi per asciugarsi qualche lacrima che spuntava.

            «Vieni, vieni, da bravo,» gli mormorai, conducendolo in casa. «Farai piangere anche lei, guarda com'è addolorata per te!»

            Non so se fosse veramente dolore per lui, ma Cathy aveva il volto triste come il suo, e tornò: presso il padre. Tutti e tre entrarono in casa e salirono in biblioteca, ove il tè era pronto. Io tolsi il cappello e il soprabito al ragazzo, e lo feci sedere su una sedia accanto alla tavola; ma appena seduto ricominciò a piangere. Il mio padrone gli domandò che cosa avesse.

            «Non posso star seduto su una sedia, singhiozzò il ragazzo.»

            «Mettiti sul divano, allora, ed Elena ti porterà il tè,» gli rispose lo zio pazientemente.

            Capii che durante il viaggio il mio padrone doveva esser stato messo a dura prova dal ragazzo capriccioso, e malaticcio che gli era stato affidato. Linton si trascinò con lentezza, e si sdraiò sul divano; Caterina portò un panchettino e la sua tazza di tè vicino a lui. Da principio sedette in silenzio, ma non poteva durare; aveva deciso di fare del cuginetto il suo favorito, e voleva lo fosse per davvero; cominciò ad accarezzargli i ricci e a baciarlo sulle guance e a offrirgli del tè sul suo piattino come a un bambino. Questo gli fece piacere, lui si sentì un poco meglio; s'asciugò gli occhi e si animò di un debole sorriso.

             «Oh, andranno benissimo,» mi disse il padrone dopo averli osservati un momento. «Benissimo, sì, se potremo tenerlo qui, Elena. La compagnia di una ragazzina della sua età gli darà una nuova allegria, e desiderando esser forte lo diventerà.»

            «Ah! se lo potremo tenere!» riflettei tra me, e m'assalì il doloroso presentimento che ci fossero poche speranze. E poi, pensai, come avrebbe potuto una creatura così debole vivere a Wuthering Heights? Tra suo padre e Hareton come compagni e maestri! I nostri dubbi furono quasi subito risolti, molto prima del previsto. Avevo accompagnato i ragazzi disopra, appena finito il tè, e, dopo d'esser rimasta accanto a Linton fin che non si era addormentato - non mi aveva permesso di lasciarlo prima -, ero ridiscesa nel salone a preparare un lume per il signor Edgardo, quando una domestica, uscendo dalla cucina, venne a dirmi che c'era alla porta il servitore del signor Heathcliff che voleva parlare col padrone.

            «Gli chiederò io prima che cosa vuole,» dissi con molta trepidazione. «Un'ora molto poco adatta per disturbare la gente, e proprio quando è appena tornata da un lungo viaggio. Non credo che il padrone possa riceverlo.» Ma Giuseppe, entrato in cucina mentre pronunciavo queste parole, comparve subito sulla soglia. Portava gli abiti della domenica, e il suo viso era più ipocrita e arcigno che mai; tenendo in una mano il cappello, nell'altra il bastone, cominciò a pulirsi le scarpe sullo zerbino.

            «Buona sera, Giuseppe,» dissi freddamente. «Qual affare vi conduce qui questa sera?»

            «È al signor Linton che devo parlare,» rispose, facendomi sdegnosamente cenno di tacere.

            «Il signor Linton sta andando a letto,» proseguii, «e, a meno che abbiate qualche cosa di particolare da dire, sono certa che non vorrà ascoltarvi ora. Fareste meglio a sedervi là in cucina e affidare il vostro messaggio a me.»

            «Qual è la sua camera?» ribattè costui, dando una rapida occhiata alla fila di porte chiuse.

            Capii che non era disposto ad accettare la mia mediazione, così molto di malavoglia salii in biblioteca e annunciai quel visitatore importuno, consigliando di rimandarlo al giorno dopo. Il signor Linton non ebbe tempo di rispondermi perchè Giuseppe, salito dietro di me, entrò nella stanza, si piantò a un capo della tavola coi pugni stretti sul pomo del bastone, e cominciò a dire con voce concitata come se prevedesse opposizione:

            «Heathcliff mi ha mandato a prendere suo figlio, e non devo tornare senza di lui.»

            Edgardo Linton rimase un minuto in silenzio; una espressione di grande dolore gli abbuiò il viso: il ragazzo gli faceva pena, e, ricordando le speranze e i timori, gli ansiosi desideri e le raccomandazioni di Isabella perchè avesse cura di suo figlio, soffrì amaramente alla prospettiva di doverlo cedere, e cercò in cuor suo come evitarlo. Nessun piano gli si presentò alla mente: la sola manifestazione di qualsiasi desiderio di tenerlo presso di sè avrebbe reso il pretendente ancor più perentorio: doveva cederglielo. Comunque non voleva svegliarlo.

            «Dite al signor Heathcliff» rispose con calma, «che suo figlio verrà a Wuthering Heights domani. È a letto è troppo stanco, ora. Potete anche dirgli che la madre di Linton ha espresso il desiderio che rimanga sotto la mia tutela; e che la sua salute è assai fragile.»

            «No!» disse Giuseppe, picchiando il suo bastone in terra ed assumendo un'aria prepotente. «No-o! Non serve a nulla. A Heathcliff non importa nulla della madre e nemmeno di voi; ma vuole il suo ragazzo; ed io devo condurglielo; è chiaro?»

            «Stasera, no» rispose Linton in modo risoluto. «Scendete subito e ripetete al vostro padrone quanto vi ho detto. Elena, accompagnatelo giù. Andatevene...»

            E, spinto il vecchio per un braccio, lo cacciò dalla stanza e chiuse la porta. «Benissimo!» gridò Giuseppe avviandosi lentamente.

            «Domani verrà Heathcliff in persona e provate a cacciare lui fuori, se avete coraggio!»

           

 

XX    (torna all'indice)

           

 

           

            Per evitare questo pericolo il signor Linton m'incaricò di condurre il ragazzo a casa sua la mattina seguente a cavallo, sul pony di Caterina, e aggiunse:

            «Siccome non potremo più avere alcuna influenza nè buona nè cattiva sul suo destino, non dite a mia figlia dove è andato; d'ora innanzi non potrà più stare con lui, ed è meglio ch'ella ignori la sua vicinanza, non voglio che diventi irrequieta e desideri andare alle Heights. Ditele soltanto che il padre lo ha mandato improvvisamente a prendere e che è stato costretto a lasciarci.»

            Linton si seccò molto di doversi alzare dal letto alle cinque del mattino, e si stupì di doversi preparare per un altro viaggio; ma io cercai di rendergli la notizia meno dura dicendogli che andava a passare un po' di tempo da suo padre, il signor Heathcliff, che desiderava molto vederlo e non voleva rinviare questo piacere finchè non si fosse rimesso dal suo recente viaggio.

            «Mio padre!» gridò, stranamente perplesso. «La mamma non mi hai detto che avessi un padre. Dove abita? Preferirei rimanere con mio zio.»

            «Abita a poca distanza da Grange,» risposi, «al di là di quelle colline: non così lontano che tu non possa fare una passeggiata fin qui quando sarai più robusto. E dovresti esser contento di andare a casa tua e di conoscerlo. Dovresti pure cercare di amarlo, come amavi tua madre, e allora ti amerà anche lui.»

            «Ma perchè non ho mai sentito parlare di lui?» chiese Linton. «Perchè non vivevano insieme, la mamma e lui, come fanno gli altri?»

            «Aveva degli affari che lo trattenevano al nord,» risposi, «e tua madre doveva vivere al sud, per la sua salute.»

            «E perchè la mamma non mi ha mai parlato di lui?» insistette il ragazzo. «Parlava spesso dello zio, ed io ho imparato da tempo a volergli bene. Come posso voler bene al papà? Non lo conosco.»

            «Oh, tutti i bambini amano i loro genitori,» dissi io. «Forse tua madre pensava che, se te lo avesse nominato spesso, avresti voluto andare da lui. Facciamo presto: una cavalcata mattutina, in una bella mattina come questa, è molto preferibile a un'altr'ora di sonno.»

            «E lei,» domandò «la ragazzina che ho visto ieri verrà con noi?»

            «Non ora,» gli risposi.

            «E lo zio?»

            «No, ti accompagnerò io.»

            Linton ricadde sul guanciale riflettendo.

            «Non voglio andare senza lo zio,» gridò alla fine. «Che ne so io di dove mi porti?»

            Gli spiegai quanto losse cattivo a non desiderare di vedere suo padre; ma con tutto questo si oppose ostinatamente ad esser vestito, e dovetti ricorrere al mio padrone perchè m'aiutasse con le buone a farlo alzare. Finalmente il poverino si arrese alle nostre ingannevoli promesse: e cioè che la sua assenza sarebbe stata breve, che il signor Edgardo e Cathy sarebbero andati a trovarlo, e ad altre ancora, tutte egualmente false, e inventate e ripetutegli continuamente da me lungo il cammino. L'aria pura, profumata di erica, lo splendido sole e il leggero galoppo di Minny, dopo un poco lo distrassero dal suo abbattimento. Cominciò a far domande intorno alla nuova casa e ai suoi abitanti con maggiore interesse e vivacità.

            «Wuthering Heights è un posto bello quanto Thrushcross Grange?» domandò, voltandosi a dare un'ultima occhiata giù nella valle, da dove salivano leggeri vapori che formavano una soffice nube ai limiti dell'azzurro.

            «Non è così affondata tra gli alberi,» risposi, «e non è neppure così grande, ma si può vedere meravigliosamente la campagna tutto intorno, e l'aria è più sana per te, più fresca e asciutta. Forse dapprima l'edificio ti sembrerà vecchio e nero, benchè sia una casa civile: la migliore del villaggio dopo Grange. E potrai fare delle passeggiate deliziose sulle colline. Hareton Earnshaw - l'altro cugino della signorina Cathy, quindi in un certo senso anche il tuo - ti mostrerà tutti i posti più incantevoli e, nella stagione buona, potrai portarti un libro e studiare su un prato verde; ogni tanto tuo zio farà qualche passeggiata con te: passeggia spesso sulle colline.»

            «E come è mio padre?» chiese. «È giovane e bello come lo zio?»

            «È giovane quanto lui,» dissi io, «ma ha i capelli e gli occhi neri e un'espressione più severa: nel complesso, è tutto più alto e più grosso di lui. Da principio non ti sembrerà così buono e gentile, perchè, forse, non sono queste le sue maniere; però sta' attento, sii franco e cordiale con lui e, naturalmente, ti amerà più di qualunque zio, perchè sei suo figlio.»

            «Capelli e occhi neri!» riflettè Linton. «Non riesco a immaginarmelo. Allora io non gli assomiglio, vero ?»

            «Non molto,» gli risposi; nemmeno un po', pensavo, osservando con dispiacere la sua pelle bianca, la struttura esile, i grandi occhi languidi, gli occhi di sua madre che non avevano però nessun segno dello spirito brillante di lei, tranne quando una capricciosa irritazione li accendeva per un momento.

            «Strano che non ci venisse mai a trovare!» mormorò. «Non mi ha mai visto? Oppure dovevo essere molto piccolo. Non mi ricordo niente di lui.»

            «Ma Linton,» diss'io, «trecento miglia sono una gran distanza; e a una persona adulta dieci anni sembrano un periodo molto più breve di quanto sembrino a te. È probabile che il signor Heathcliff rimandasse la sua venuta da un'estate all'altra, ma che non abbia mai trovato un'occasione propizia; ed ora è troppo tardi. Non turbarlo con domande in proposito; s'inquieterebbe senza nessun vantaggio.»

            Il ragazzo rimase immerso nei suoi pensieri per il resto della passeggiata, finchè arrivammo davanti al cancello del giardino della fattoria. Allora lo guardai, come per leggere le impressioni del suo viso: esaminò con solenne intensità, la facciata della casa con le sue sculture, i fregi e le finestre dalle basse arcate, e i cespugli intristiti di uva spina, e gli abeti dal tronco storto; poi scosse il capo: evidentemente disapprovava del tutto l'esterno della sua nuova dimora; ma ebbe il buon senso di rimandare le sue lamentele; poteva essere meglio l'interno. Prima che smontasse da cavallo andai ad aprir la porta: erano le sei e mezzo: la famiglia aveva appena finito di far colazione; il servitore stava sparecchiando la tavola. Giuseppe, accanto alla sedia del padrone, raccontava la storia di un cavallo zoppo; ed Hareton si preparava a uscire per tagliare il fieno.

            «Olà, Nelly!,» disse il signor Heathcliff quando mi vide. «Temevo di dover venire io a prendere quel che mi appartiene. L'avete portato con voi, non è vero? Vediamo che cosa possiamo cavarne.»

            Si alzò e si diresse alla porta. Hareton e Giuseppe gli tennero dietro, con la bocca spalancata dalla curiosità. Il povero Linton lanciò un'occhiata spaventata a quelle tre facce.

            «È certo che...» disse Giuseppe, dopo una seria ispezione, «è stato scambiato... è una ragazzina.»

            Heathcliff, dopo aver fissato gli occhi in volto a suo figlio fino a renderlo tremante di confusione, scoppiò in una risata sprezzante.

            «Dio, che bellezza! che cosa magnifica! incantevole!» esclamò. «Non l'hanno nutrito altro che di lumache e di latte inacidito, eh, Nelly? Oh! maledetta l'anima mia! ma è peggio di quel che m'aspettassi, e il demonio sa che non mi facevo delle illusioni!»

            Feci cenno al ragazzo tremante e smarrito di scendere e di entrare. Non capì del tutto il significato del discorso di suo padre, e neppure comprese se fosse diretto a lui; anzi, non era ancora certo che quello straniero truce e beffardo fosse suo padre. Ma s'attacco a me con trepidazione sempre crescente, e quando il signor Heathcliff, presa una sedia gli diede l'ordine di «vien qua», nascose il volto sulla mia spalla e pianse.

            «Ta ta!...» fece Heathcliff, stendendo una mano e tirandolo ruvidamente tra le sue ginocchia, poi prendendolo per il mento, e tenendogli la testa alta. «Non facciamo storie! Non ti vogliamo far del male, Linton... ti chiami così no? Sei in tutto e per tutto figlio di tua madre! Dov'è la mia parte in te, pulcino lagnoso?»

            Tolse il berretto al ragazzo, gli tirò indietro i fitti riccioli biondi, gli toccò le braccia esili e le piccole mani; durante questo esame Linton smise di piangere e alzò i grandi occhi azzurri per osservarlo.

            «Mi conosci?» gli chiese Heathcliff dopo essersi assicurato della fragilità e debolezza di tutte le membra.

            «No,» disse Linton con uno sguardo di folle timore.

            «Avrai sentito parlare di me, spero.»

            «No,» rispose egli ancora.

            «No! Che vergogna che tua madre non abbia mai suscitato il tuo rispetto per me! Sei mio figlio, ecco, te lo dico io; e tua madre è stata cattiva a non dirti nulla di me. Ora sta' qui, non ti tocco e non arrossire! Comunque è già qualche cosa vedere che non hai il sangue bianco. Sii un buon ragazzo e vedrai quel che io farò per te. Nelly, se siete stanca potete sedervi, altrimenti tornatevene a casa. Immagino che ripeterete a Grange sillaba per sillaba quel che avrete sentito e veduto qui, ma fin che gli state d'attorno questo marmocchio non si darà pace.»

            «Bene,» risposi io, «spero, signor Heathcliff, che sarete buono col ragazzo, o non vi sarà dato averlo a lungo: è tutto quanto possedete di vostro nel mondo intero, e che mai conoscerete... ricordatevene!»

            «Sarò molto buono con lui, non abbiate paura,» disse ridendo. «Ma nessun altro lo deve essere: sono geloso del suo affetto; e, per cominciare con le buone, Giuseppe, porta al ragazzo un po' di colazione. Hareton, idiota, va'a lavorare. Sì, Nelly,» soggiunse, quando furono usciti, «mio figlio è l'erede designato della vostra proprietà e non vorrei che morisse fin che non sarò sicuro di esserne il successore. Inoltre, egli è mio, ed io voglio avere il trionfo di vedere il mio discendente padrone dei loro beni; mio figlio prenderà i loro figli per coltivare le terre del padre come salariati. Questa è la sola considerazione che possa farmi sopportare il marmocchio: lo disprezzo per quel che è e lo odio per i ricordi che ravviva in me. Ma questo pensiero è sufficiente: è al sicuro con me e sarò premuroso con lui come il vostro padrone con sua figlia. Ho una stanza su che gli ho fatto arredare in stile superbo. Mi sono pure procurato un istitutore che venga tre volte alla settimana, da venti miglia di distanza per insegnargli quel che vorrà imparare. Ho dato ordine ad Hareton di ubbidirgli; insomma ho studiato bene tutto per conservare in lui la superiorità e la signorilità di un gentiluomo al disopra dei suoi compagni. Mi dispiace, tuttavia, ch'egli ne valga così poco la pena: se mai ho desiderato qualcosa al mondo era di trovare in lui un motivo di orgoglio; quest'essere miserabile, smorto di paura, che non fa che piagnucolare mi ha amaramente deluso.»

            Intanto Giuseppe tornò con una ciotola di latte e orzo e la mise davanti a Linton che, rimestato con disgusto quel rozzo cibo, dichiarò che non poteva mangiarlo.Vidi subito che il servitore condivideva il disprezzo del padrone per il ragazzo, anche se doveva dissimularlo, perchè Heathcliff intendeva chiaramente che i suoi dipendenti lo rispettassero.

            «Non puoi mangiarla?» ripetè guardandolo in faccia e abbassando la voce a un bisbiglio per paura d'esser udito dagli altri. «Ma il signor Hareton non ha mai mangiato altro da bambino, e quel ch'era abbastanza buono per lui deve essere altrettanto buono per te, mi pare!»

            «Non voglio mangiarla!» rispose Linton stizzosamente. «Portate via questa roba!»

            Giuseppe, indignato, prese la ciotola e la portò a noi.

            «Che cos'ha di cattivo questa roba?» domandò, cacciandola sotto il naso di Heathcliff.

            «Che cosa dovrebbe avere?» disse questi.

            «Che cosa?» rispose Giuseppe. «Quello schizzinoso dice che non può mangiarla. Ma immagino che sia giusto! Sua madre era proprio così, noi eravamo troppo sudici per seminare il grano per fare il pane a lei!»

            «Non nominatemi sua madre!» disse il padrone irato. «Dategli qualche cosa che possa mangiare, fatela finita. Che cosa prende di solito, Nelly?»

            Suggerii del latte bollito o del tè; e la governante ricevette l'ordine di prepararglielo.

            Ma sì, riflettei, l'egoismo di suo padre può contribuire al suo benessere; si è accorto che è di costituzione delicata e che bisogna trattarlo con indulgenza. Consolerò il signor Edgardo, informandolo dello stato d'animo di Heathcliff. Non avendo altra scusa per indugiare più a lungo, sgattaiolai via, mentre Linton era intento a respingere, molto timidamente, le cortesie di un festoso cane da pastore. Comunque era troppo attento per lasciarsi ingannare: e, mentre chiudevo la porta, udii un grido freneticamente ripetuto:

            «Non lasciatemi! Non voglio rimaner qui! Non voglio!»

            Indi il saliscendi fu alzato e ricadde; non gli permisero di uscire. Montai a cavallo di Minny, e la spinsi al trotto; e così finì la mia breve tutela.

           

 

XXI    (torna all'indice)

           

 

           

            Quel giorno il nostro compito con la piccola Cathy fu davvero penoso; si alzò tutta allegra, raggiante, ansiosa di raggiungere suo cugino, e alla notizia della sua partenza scoppiò in lacrime così appassionate e in tali lamenti che Edgardo stesso, per quietarla, dovette assicurarla che sarebbe tornato presto; soggiunse, tuttavia, «se potrò averlo»; e non c'erano speranze. Questa promessa la calmò poco, ma il tempo fu più efficace; e, benchè ad intervalli; chiedesse ancora a suo padre quando sarebbe tornato Linton, il giorno che lo rivide i lineamenti di lui le si erano cosi affievoliti nella memoria, che non lo riconobbe.

            Quando, recandomi a Gimmerton per commissioni, m'accadeva d'incontrare la governante di Wuthering Heights, le chiedevo come stesse il padroncino, perchè viveva quasi recluso quanto Caterina, e non lo si vedeva mai. Seppi da lei che era sempre di salute cagionevole e un ospite poco piacevole. Mi disse che il signor Heathcliff pareva provasse un'antipatia sempre più forte, quantunque si sforzasse di nasconderla; ma detestava persino il suono della sua voce, e non poteva proprio sopportare di star con lui nella stessa stanza per più di qualche minuto. Raramente parlavano tra loro. Linton studiava le lezioni e passava le sere in un salottino, oppure stava a letto tutto il giorno perchè spesso aveva la tosse, raffreddori: aveva dolori e malanni d'ogni sorta.

            «Non ho mai conosciuto una creatura tanto vile,» soggiunse la donna, «e tanto paurosa. Se per caso lascio la finestra un po' aperta la sera, comincia. Oh! è micidiale! un soffio d'aria notturna! E vuole il fuoco acceso sino a metà estate, e la pipa di Giuseppe è veleno; e deve avere sempre dolci e leccornie, e sempre, sempre del latte, senza badare se, in inverno, ce n'è poco. Sta seduto, avvolto nel suo mantello foderato di pelliccia, sulla sedia presso il fuoco, con un crostino e dell'acqua o qualche altra bevanda al caldo, per berla a sorsi; se Hareton sente compassione, gli si avvicina per farlo divertire - Hareton non ha un cattivo carattere, benchè sia rozzo - finiscono per separarsi, uno bestemmiando e l'altro piangendo. Credo che il padrone sarebbe ben contento che Earnshaw lo picchiasse ben bene, se non fosse suo figlio; e sono sicura che lo caccerebbe se avesse solo un'idea di tutte le cure che prodiga a se stesso. Ma non vuol rischiare di provare simile tentazione e non entra mai nel salottino, e se Linton si comporta così nella stanza dove è lui, lo manda di sopra immediatamente.»

            Da questo resoconto indovinai che un'assoluta mancanza di simpatia aveva reso il giovane Heathcliff egoista e poco simpatico, se non lo era già per natura; così ogni mio interesse per lui scemò quantunque provassi un senso di rammarico per il suo destino e il desiderio che fosse rimasto a noi. Il signor Edgardo mi spinse a cercare altre informazioni; pensava molto a lui, credo, e avrebbe corso anche qualche rischio pur di vederlo; e una volta mi disse di domandare alla governante se il ragazzo non scendesse mai al villaggio. Quella mi rispose che c'era stato solo due volte, a cavallo, per accompagnarvi suo padre, ed entrambe le volte si era lagnato, per tre o quattro giorni dopo, di esser sfinito dalla fatica. La governante, se ben ricordo, lasciò quella casa due anni dopo l'arrivo di Linton, e il suo posto fu preso da una che non conoscevo e che c'è ancora.

            Intanto il tempo trascorreva a Grange piacevolmente come prima, fin che la signorina Cathy compì sedici anni. Non si festeggiava mai il suo compleanno perchè era anche l'anniversario della morte della mia ultima padrona. Il signor Edgardo passava sempre quel giorno solo nella sua biblioteca; e verso sera andava a piedi fino al cimitero di Gimmerton, dove spesso rimaneva oltre la mezzanotte. Caterina era quindi abbandonata a se stessa e doveva sapersi divertire da sola. Quel 20 di marzo era una bellissima giornata primaverile, e la mia padroncina, non appena suo padre si fu ritirato, scese vestita per uscire e disse che voleva fare una passeggiata con me ai margini della landa; il signor Linton gliel'aveva permesso, purchè non andassimo lontano e tornassimo dopo un'ora al massimo.»

            «Quindi sbrigati, Elena!» gridò «So dove voglio andare: in un posto dove si è stabilita una colonia di uccelli selvatici; voglio vedere se hanno gia fatto il nido.»

            «Non può essere che su in alto, lontano,» risposi, «non fanno il nido sul confine.»

            «Non è lontano,» disse; «ci sono stata vicinissima con papà.»

            Presi la cuffia, e, senza pensarci più, mi incamminai. Caterina correva a salti davanti a me, tornava al mio fianco per poi di nuovo staccarsene come un giovane levriere; dapprima mi distrassi ascoltando il canto, ora lontano ora vicino, delle allodole, godendo il caldo dolce sole e guardando lei, la mia prediletta e la mia gioia con quei riccioli d'oro che le svolazzavano sulle spalle, guance vive, vellutate e pure, nella loro freschezza, come una rosa selvatica, e gli occhi raggianti di piacere senz'ombra di nubi. In quei giorni era una creatura felice, un angelo. Peccato che non potesse essere contenta!

            «Bene,» dissi, «dov'è la tua selvaggina, Cathy? Dovremmo essere arrivati. Il recinto del parco di Grange è molto lontano ora.»

            «Oh, un po' più avanti, soltanto un po', Elena,» rispondeva. «Sali quella collinetta, oltrepassa quella ripa e quando sarai giunta dall'altra parte, io avrò fatto alzare gli uccelli.»

            Ma erano tante le collinette e le dune da salire e scendere che, alla fine, cominciai ad esserne stanca, e le dissi che dovevamo fermarci e tornare. Gridai, poichè mi aveva oltrepassata di molto; e, sia che non udisse o che non se ne desse per intesa, continuava ad andare avanti e io ero costretta a seguirla. Infine scomparve in una conca, e prima che la rivedessi, era di due miglia più vicina a Wuthering Heights che alla propria casa.Vidi che due uomini l'avevano fermata; uno, ne ero certa, era il signor Heathcliff in persona.

            Cathy era stata colta sul punto di rubare o almeno di dar la caccia ai nidi dei francolini.

            Le «Cime» erano terreno di Heathcliff, ed egli stava rimproverando la cacciatrice di frodo.

            «Non ne ho nè pigliati nè trovati,» diceva lei con un gesto significativo delle mani per dar maggior forza alla sua dichiarazione, mentre m'affannavo per raggiungerli.

            «Non avevo nessuna intenzione di prenderne; ma papà m'aveva detto che ce n'erano un mucchio quassù, e volevo veder le uova.»

            Heathcliff mi diede un'occhiata con un sorriso cattivo, che rivelava la conoscenza della persona con cui aveva a che fare e quindi la sua malevolenza, e domandò chi fosse «papà.»

            «Il signor Linton di Thrushcross Grange,» rispose lei. «Lo sapevo che non mi conoscevate, altrimenti non avreste parlato in quel modo.»

            «Vorreste dire che vostro padre è altamente stimato e rispettato?» chiese lui ironicamente.

            «E chi siete voi?» domandò Caterina, guardando con curiosità il suo interlocutore. «Quest'uomo l'ho già veduto. È vostro figlio?»

            Ella indicava Hareton, che in due anni era cresciuto solo in robustezza e forza, ma sembrava ancora ugualmente rozzo e goffo.

            «Signorina Cathy,» l'interruppi io, «saranno ormai tre ore, invece di due, che siamo fuori. Dobbiamo tornare.»

            «No, questo non è mio figlio,» rispose Heathcliff, spingendomi da parte. «Ma io ne ho uno, e lo conoscete; e, benchè la vostra nutrice abbia fretta, credo stareste meglio se, l'una e l'altra, vi riposaste un poco. Volete girare questo monticello di erica ed entrare in casa mia? Arriverete a casa più presto dopo un po' di riposo, e da noi sarete la benvenuta.»

            Bisbigliai a Caterina che non doveva, per alcuna ragione, accettare la proposta; era assolutamente fuori di questione.

            «Perchè?» chiese a voce alta. «Sono stanca di correre e il terreno è umido: non posso sedermi qua. Andiamo, Elena. E poi dice che ho veduto suo figlio; si sbaglia, credo, ma immagino dove abita: alla fattoria che io visitai alla Rupe di Penistone, non è vero?»

            «Per l'appunto. Venite, Nelly, statevene zitta, sarà un divertimento nuovo per lei venire a trovarci. Hareton va' avanti con la ragazza. Voi verrete con me, Nelly.»

            «No, Caterina, non deve andare in un posto come quello,» gridai, facendo sforzi per liberare il braccio che Heathcliff mi aveva afferrato; ma lei era già quasi arrivata sul lastricato dell'entrata, facendo il giro di quel monticello di gran corsa.

            Il compagno, che le era stato assegnato, non ebbe l'ardire di seguirla; prese per la strada maestra e scomparve.

            «Signor Heathcliff,» replicai, «questo è molto male, sapete di non mirare a nulla di buono. Vedrà Linton; al nostro ritorno racconterà tutto: e la colpa sarà mia.»

            «È mio desiderio che veda Linton,» rispose. «in questi ultimi giorni ha un aspetto migliore; non accade spesso che sia in condizioni da esser visto. E sarà facile persuaderla a tenere la visita segreta: che c'è di male in questo?»

            «Il male è che suo padre mi odierebbe se scoprisse che le ho permesso di entrare in casa vostra; e io sono convinta che avete un cattivo disegno nell'incoraggiarla a questo,» gli risposi.

            «Il mio disegno è il più onesto possibile. V'informerò dell'intero mio piano,» disse, «e, cioè, che i due cugini s'innamorino, e si sposino. Agisco generosamente con il vostro padrone; la vostra protetta non ha una fortuna in vista; mentre, assecondando i miei desideri, provvederò subito per lei quale erede in unione a Linton.»

            «Se Linton morisse,» risposi io, «e la vita sua è molto incerta, Caterina sarebbe l'erede.»

            «No, non lo sarebbe,» disse. «Non vi è clausola nel testamento che assicuri questo: i suoi beni passerebbero a me, ma, per impedire dispute, desidero la loro unione, e sono risoluto a fare in modo che si compia.»

            Heathcliff mi ordinò di tenermi quieta, e, precedendoci lungo il sentiero, s'affrettò ad aprire la porta. La mia padroncina lo osservò parecchie volte di sottecchi, come non sapesse bene che cosa dover pensare di lui; ma, quando infine ne incontrò lo sguardo, lui sorrise, raddolcì la voce nel rivolgerle la parola; e io fui abbastanza ingenua da immaginare che la memoria della madre di Cathy potesse distoglierlo dal desiderare di farle del male. Linton stava presso il focolare. Doveva aver passeggiato fuori nei campi, perchè aveva ancora il berretto in capo e chiedeva a gran voce a Giuseppe che gli portasse delle scarpe asciutte. Era molto alto per la sua età, mancando ancora parecchi mesi al suo sedicesimo compleanno. I lineamenti erano tuttora belli, e gli occhi e il colorito più vivaci di quel che ricordassi, quantunque la sua fosse una vivacità puramente momentanea, prestatagli dall'aria salubre e dal sole generoso.

            «Chi è questo qui?» domandò il signor Heathcliff, volgendosi a Caterina. «Sapete dirlo?»

            «Vostro figlio?» disse lei, dopo d'aver osservato prima l'uno e poi l'altro.

            «Sì, sì,» rispose egli. «Ma non l'avete mai visto prima d'ora? Pensate! Ah! avete ben poca memoria; Linton, non ricordi tua cugina, e come eri solito darci noia a tutti per il desiderio di vederla?»

            «Che, Linton?» gridò Cathy, illuminandosi di gioia e di sorpresa a quel nome. «È lui il piccolo Linton? È più alto di me? Sei tu, Linton?»

            Il ragazzo si fece avanti, e disse di esser proprio lui; ella lo baciò fervidamente, e stettero a guardarsi, meravigliati del cambiamento che il tempo aveva operato nell'aspetto di ognuno. Caterina aveva raggiunto la sua massima statura; era di figura florida e snella a un tempo, flessibile come un giunco, e raggiava da tutto il volto salute e vita. Lo sguardo e i movimenti di Linton erano molto languidi, e la sua figura estremamente esile, ma vi era una tal grazia nei suoi modi che i difetti ne risultavano mitigati, e non lo rendevano affatto sgradevole. Dopo numerose reciproche manifestazioni d'affetto sua cugina andò verso il signor Heathcliff, che indugiava presso la porta, dividendo la sua attenzione tra le persone che erano in casa e le cose che si trovavano di fuori; o, per meglio dire, pretendendo di osservare quest'ultime, ma in realtà spiando solamente le prime.

            «Allora voi siete mio zio!» ella gridò, accostandoglisi per salutarlo. «Avevo pensato che mi piacevate benchè dapprima vi mostraste così imbronciato. Perchè non venite mai in visita a Grange con Linton? Aver vissuto tutti questi anni così vicini e non esserci mai veduti è strano; per qual motivo avete fatto questo?»

            «Vi feci visita una o due volte di troppo prima che nasceste,» rispose egli. «Là, là! Via... maledetta! Se avete baci da gettar via dateli a Linton; per me sono sprecati!»

            «Cattiva Elena!» esclamò Caterina, volando a me per prodigare a me pure le sue esuberanti carezze. «Cattivissima Elena! aver voluto impedirmi di entrare! Ma d'ora in avanti farò questa passeggiata ogni mattina: me lo permettete, zio? e qualche volta porterò con me il mio papà. Non sarete contento di vederci?»

            «Senza dubbio!» rispose lo zio, con una smorfia a stento repressa, dovuta alla profonda avversione per tutt'e due gli ospiti. «Ma, aspettate,» continuò egli, volgendosi verso la ragazza. «Ora che ci penso, è meglio che ve lo dica. Il signor Linton ha di me una cattiva opinione; in un altro periodo della nostra vita abbiamo litigato con una ferocia non cristiana; e, se gli accennaste d'esser venuta qui, lui porrebbe di sicuro il veto assoluto alle vostre future visite. Bisogna, quindi, che non gli diciate nulla, se, d'ora in poi, vi starà a cuore vedere vostro cugino; venite dunque, se volete, ma non fatene parola.»

            «Perchè avete litigato?» chiese Caterina, alquanto sgomenta.

            «Credeva che fossi troppo povero per sposare sua sorella,» rispose Heathcliff, «e si addolorò quando riuscii nel mio intento; il suo orgoglio ne restò ferito, e non me lo perdonerà mai.»

            «Ha avuto torto!» disse la signorina. «Una volta o l'altra glielo dirò. Ma nè Linton nè io abbiamo avuto parte nel litigio. Allora non verrò quassù, verrà Linton a Grange.»

            «Sarebbe troppo lontano per me,» le mormorò il cugino. «Far quattro miglia a piedi sarebbe la mia morte. No, vieni qui tu, signorina Caterina, di tanto in tanto; se non ogni mattina una volta o due la settimana.»

            Il padre lanciò al figlio uno sguardo di amaro disprezzo.

            «Temo, Nelly, che la mia sarà una fatica sprecata,» borbottò egli con me. «La signorina Caterina, come la chiama quello sciocco, scoprirà quel che vale, e lo manderà al diavolo. Ebbene! se si fosse trattato di Hareton! Non sapete che venti volte al giorno desidererei fosse Hareton, nonostante la sua degradazione? Avrei amato il ragazzo, se fosse stato qualcun altro. Ma credo non ci sia pericolo che lei s'innamori di lui. Spronerò Hareton contro questo poltrone se non dimostra un po' di brio. Calcoliamo che arriverà difficilmente fino ai diciott'anni... Oh, maledetto imbecille! È tutto intento a cambiarsi le scarpe e non c'è caso che la guardi. Linton!»

            «Eccomi, papà,» rispose il ragazzo.

            «Non hai nulla da far vedere a tua cugina? nemmeno il nido di un coniglio o quello di una donnola? Prima di cambiarti le scarpe, portala in giardino e in scuderia, mostrale il tuo cavallo.»

            «Non preferiresti sederti qui?» domandò I.inton, rivolgendosi a Cathy, con un tono di voce che esprimeva tutta la sua riluttanza a muoversi ancora.

            «Non so,» rispose lei, scoccando un'occhiata di desiderio verso la porta, e ansiosa, evidentemente, di muoversi.

            Egli rimase seduto, e si fece più vicino al fuoco. Heathcliff si alzò, andò in cucina e di là in cortile, chiamando Hareton ad alta voce. Hareton rispose e, un momento dopo, i due rientrarono. Il ragazzo era andato a lavarsi, come rivelavano le sue guance arrossate e i suoi capelli bagnati.

            «Oh, voglio domandarlo a voi, zio,» gridò la signorina Cathy, ricordandosi dell'asserzione della governante. «Questo non è mio cugino, non è vero?»

            «Sì,» le rispose, «il nipote di vostra madre. Non vi piace?»

            Caterina ebbe una strana espressione.

            «Non è un bel ragazzo?»  insistè egli.

            La piccola screanzata, rizzandosi sulla punta dei piedi bisbigliò una frase all'orecchio di Heathcliff. Egli rise Hareton si rabbuiò; notai che era molto sensibile a ogni minimo affronto e aveva, evidentemente, un'oscura sensazione della propria inferiorità.

            Ma il suo padrone, o tutore, spianò quel cipiglio, esclamando:

            «Sarai il favorito in mezzo a noi, Hareton! Lei dice che sei un... Che cosa? Bene qualche cosa di molto lusinghiero. Ecco, va', conducila intorno alla fattoria. E comportati come un gentiluomo, bada! Non adoperare brutte parole, e non piantarle gli occhi in faccia, quando la signorina non ti guarda, o non voltar subito la faccia quando la signorina ti guarda; e, parlando, pronuncia le tue parole piano, e tieni le mani fuori di tasca. Fila, dunque, e bada a divertirla il più gentilmente che puoi.»

            Guardò la coppia passare sotto la finestra. Earnshaw teneva il viso completamente girato dall'altra parte, non guardava la compagna. Sembrava intento a osservare quel paesaggio familiare con un interesse che avrebbero potuto concepire solo un forestiero e un artista. Caterina lo guardava di sfuggita senza molta ammirazione. Si studiò a trovare da sè cose che la divertissero, mentre proseguiva, leggera e allegra per la sua strada, canterellando una facile aria, per supplire alla mancanza di conversazione.

            «Gli ho legata la lingua,» mi disse Heathcliff. «Non arrischierà una sola sillaba tutto il tempo! Nelly, ti ricordi di me alla sua età... anzi, quand'ero di qualche anno più giovane? Avevo l'aria così stupida, così "imbambolata" come la chiama Giuseppe?»

            «Peggio,» risposi, «perchè eravate ancor più selvaggio.»

            «Mi diverto con lui,» proseguì facendo le sue riflessioni ad alta voce. «Ha superate le mie aspettative. Se fosse nato scemo, non godrei nemmeno la metà; ma non è un deficiente, e io posso simpatizzare con ogni suo sentimento, avendolo provato io stesso. So, a esempio, che cosa soffra ora, esattamente; e non è, tuttavia, che il principio di quel che dovrà soffrire. E non saprà mai elevarsi moralmente nè intellettualmente. L'ho avuto in mio potere più presto di quanto non fosse riuscito ad avermi quel furfante di suo padre. E lui è ancor più in basso, perchè è orgoglioso della propria brutalità. Gli ho insegnato a disprezzare quel che è spiritualità, come cose vane e deboli. Non credi che Hindley sarebbe fiero di suo figlio, se lo potesse vedere? quasi fiero quanto lo sono io del mio. Ma vi è questa differenza: uno è oro adoperato come pietra per pavimento, e l'altro è stagno lucidato per contraffare l'argento. Il mio non ha alcun valore in sè, non di meno avrò il merito di farlo andare finchè miserabile materia può andare; il suo aveva qualità di primo ordine e gliel'ho mandate in malora; rese peggiori che inutili. Io non ho nulla di che rammaricarmi; lui avrebbe motivi di cui io solo sono a conoscenza. E il più bello di tutto questo è che Hareton mi è maledettamente affezionato! Converrai che in questo ho superato Hindley. Se quel mascalzone potesse levarsi dalla tomba per rimproverarmi per i torti verso il suo rampollo, avrei il divertimento di vedere detto rampollo ricacciarlo, indignato che osi oltraggiare l'unico amico che lui possieda al mondo!»

            A quest'idea, Heathcliff uscì in una breve risata demoniaca, e io non gli diedi risposta, perchè mi resi conto che non ne aspettava alcuna. Nel frattempo, il nostro giovane compagno, che sedeva troppo discosto da noi per sentire quel che veniva detto, cominciò a mostrarsi agitato, probabilmente pentito di aver negato a se stesso il piacere della compagnia di Caterina per tema di un po' di fatica. Il padre notò le sue occhiate irrequiete dirette alla finestra, e quella mano che si tendeva irresolutamente verso il cappello.

            «Alzati, pigrone!» esclamò con simulata cordialità. «Via, dietro a loro! sono all'angolo, presso l'alveare.»

            Linton radunò le proprie forze, e abbandonò il focolare. La finestra era aperta, e, mentre s'incamminava fuori, sentii Caterina domandare al suo poco socievole compagno, che cosa significasse l'iscrizione sopra la porta. Hareton guardò in alto, e si grattò il capo come un vero zotico.

            «È qualche dannata scrittura,» rispose, «non so leggerla.»

            «Non sai leggerla?» gridò Caterina. «Io so leggerla: è inglese. Ma voglio sapere perchè è lì.»

            Linton sghignazzò: la sua prima manifestazione di allegria.

            «Non sa le lettere dell'alfabeto,» disse a sua cugina. «Potreste mai credere che esista un babbuino più grosso di lui?»

            «È completamente in sè?» chiese la signorina Cathy con serietà; «o è un deficiente? Gli ho rivolto la parola due volte, ma aveva un'aria così stupida che credo non mi abbia capito. Io, sono sicura, non so quasi capire lui!»

            Linton rise nuovamente, e adocchiò, con derisione, Hareton che in quell'istante sembrava assolutamente privo d'intelletto.

            «Non si tratta altro che di pigrizia, non è vero Earnshaw?» disse. «Mia cugina immagina che tu sia un idiota. Ecco che ora sconti a tue proprie spese le conseguenze dell'avere in spregio "la scienza dei libri", come la chiameresti tu. Hai notato, Caterina, la sua terribile pronuncia dello Yorkshire?»

            «Bene, a che diavolo mai serve?» brontolò Hareton più pronto a rispondere al suo compagno quotidiano. Stava per dire di più, ma quei due ragazzacci scoppiarono a ridere, la mia imprudente signorina essendo felice della scoperta di poter fare di quello sconcertante modo di parlare materia di divertimento.

            «Di che necessità è il diavolo in quella tua frase?» disse Linton ridendo. «Il papà ti ha ordinato di non dire brutte parole, e tu non puoi aprire bocca senza dirne una. Cerca di comportarti come un gentiluomo!»

            «Se tu non fossi simile a una ragazza ti butterei in terra in questo momento, vedresti: miserabile fraschetta che non sei altro!» ribattè l'adirato selvaggio, allontanandosi con il viso in fiamme per la rabbia e la mortificazione a un tempo; poichè era cosciente di essere stato insultato e incerto sul modo di replicare.

            Il signor Heathcliff, avendo sentito lui pure quella conversazione, sorrise quando lo vide andarsene; ma, subito dopo, gettò un'occhiata di singolare avversione a quei due stupidelli, che rimanevano a chiacchierare sulla soglia: il ragazzo trovando sufficiente animazione fin che si trattava di discutere delle mancanze e delle deficienze di Hareton, e raccontando aneddoti dei suoi modi di fare; e la ragazza divertendosi a quella serie di maliziose impertinenze, senza considerare la cattiva indole di cui davano prova. Lungi dal provare compassione per Linton, cominciai ad averlo in antipatia e a scusare, fino a un certo punto, suo padre perchè non lo teneva in nessun conto.

            Rimanemmo fin nel pomeriggio; non mi fu possibile condurre via Cathy prima; ma, fortunatamente, il mio padrone non aveva ancora lasciato la sua camera: e non seppe della nostra prolungata assenza. Al ritorno avrei ben desiderato di poter illuminare la mia pupilla sul carattere delle persone che avevamo appena lasciato; ma ella avrebbe pensato che fossi mal disposta nei loro riguardi.

            «Aha!» gridò; «tu prendi la parte del papà, Elena; non sei imparziale, lo so; o altrimenti non mi avresti fatto credere, per molti anni, che Linton abitasse molto lontano da qui. Sono molto arrabbiata; ma troppo contenta per dimostrartelo! Comunque non sparlare dello zio: è mio zio, ricordatene, e io sgriderò il papà per aver litigato con lui!»

            E continuò su questo tono, tanto che non cercai più di convincerla del suo errore. Quella sera non parlò della visita perchè non vide il signor Linton. Il giorno seguente tutto venne fuori, con mia gran tristezza: ma pure non ne fui del tutto spiacente, pensando che il compito di dirigere e consigliare si addicesse di più a lui che a me. Ma le ragioni per cui il padre non voleva che la figlia andasse alle Heights, non sembrarono convincenti a Caterina.

            «Papà!» esclamò ella, dopo il buon giorno, «indovina chi ho visto ieri nella mia passeggiata sulle colline? Ah, papà, hai trasalito! tu hai avuto torto, non è vero, dillo ora! Ho visto... ma ascoltami; sentirai come ti ho scoperto; ed Elena, che fa lega con te, e che pretendeva di aver tanta compassione di me, quando continuavo a sperare, ed ero sempre delusa, il ritorno di Linton.»

            Fece un racconto fedele della passeggiata e delle sue conseguenze; e il mio padrone, sebbene mi rivolgesse più di uno sguardo di rimprovero, non disse nulla, finchè non ebbe finito. Allora l'attirò a sè, e le domandò se sapesse perchè le aveva tenuto nascosta la vicinanza di  Linton. Come poteva pensare che fosse stato per negarle un piacere godibile senza alcun male?

            «È stato perchè avevi in antipatia il signor Heathcliff,» replicò Cathy.

            «Allora credi che io tenga di più ai miei propri sentimenti che ai tuoi, Cathy?» disse lui. «No, non è perchè non mi piace il signor Heathcliff, ma perchè il signor Heathcliff non ha simpatia per me; ed è un uomo diabolico, che gode a far il male e a rovinare quelli che lui odia, se gliene offrono la minima occasione. Sapevo che tu non potevi avere rapporti con tuo cugino senza averne anche col padre, e sapevo anche che lui ti avrebbe detestata per causa mia, così ho preso le mie precauzioni per non farti rivedere Linton, ma è stato per il tuo bene. Ora che sei cresciuta intendevo spiegartelo e mi dispiace di aver tardato.»

            «Ma il signor Heathcliff è stato molto cordiale, papà,» osservò Caterina, per nulla convinta; «e non ha fatto la minima obiezione riguardo al vederci; ha detto che posso andare a casa sua tutte le volte che lo desidero, ma che non te lo dica, perchè tu hai litigato con lui, e non gli hai perdonato di aver sposata la zia Isabella. E tu non vuoi. Tu sei quello che merita biasimo, lui almeno è disposto a permettere a noi, a Linton e a me d'essere amici, e tu non lo sei.»

            Il mio padrone, vedendo che la sua parola non valeva a convincerla della malvagità dello zio, le raccontò in breve la condotta tenuta da lui con Isabella e il modo con cui Wuthering Heights era diventata sua proprietà. Lui non poteva tollerare di dilungarsi su un argomento simile, perchè, sebbene ne parlasse poco, provava per l'antico nemico lo stesso orrore e lo stesso odio, di cui il suo cuore aveva sempre traboccato dalla morte della signora Linton.

            «Avrebbe potuto essere ancora al mondo, se non ci fosse stato lui!» era la sua costante, amara riflessione; e, ai suoi occhi, Heathcliff appariva un assassino.

            La signorina Cathy - che non conosceva cattive azioni, all'infuori delle sue piccole disobbedienze, ingiustizie e passioni che nascevano dal temperamento focoso o dalla semplice spensieratezza, e di cui si pentiva il giorno stesso nel quale le aveva commesse - si meravigliava davanti alla tenebrosità di una mente capace di meditare e covare la vendetta per anni e di realizzare i propri piani deliberatamente senza il minimo senso di rimorso. Ella sembrò così profondamente impressionata e scossa alla rivelazione di questo inatteso aspetto della natura umana - escluso finora dai suoi studi e dalle sue idee - che il signor Edgardo non giudicò necessario continuare l'argomento. Egli si limitò a soggiungere:

            «Così da ora in poi, cara, saprai perchè desidero che tu eviti la sua casa e la sua famiglia: ora torna alle tue occupazioni e ai tuoi divertimenti di sempre, e non pensar più a quella gente.»

            Caterina baciò il padre e, per un paio d'ore, attese quietamente alle sue lezioni, come era sua consuetudine, e poi andò con lui in visita ai poderi e la giornata  trascorse non diversa dal solito; ma la sera, quando si fu ritirata in camera sua, e io andai ad aiutarla a svestirsi, la trovai che piangeva in ginocchio presso il letto.

            «Oh, vergogna, scioccherella!» esclamai. «Se tu avessi avuto un vero dolore, ti vergogneresti di versare una sola lacrima per questa piccola contrarietà. Tu non hai mai avuto un dolore reale, cara. Supponi, per un momento, che il padrone e io fossimo morti e che tu fossi sola al mondo, che cosa proveresti allora? Confronta la presente circostanza con una sciagura simile e sii grata  per gli amici che hai, invece di bramarne altri che non  puoi avere.»

            «Non piango per me, Elena,» rispose lei, «ma per lui. Sperava di vedermi ancora domani, proverà una grande delusione: mi aspetterà, e io non arriverò!»

            «Sciocchezze!» dissi io, «t' immagini forse che lui abbia pensato tanto a te quanto tu a lui? Non ha Hareton per compagno? Non una su cento, piangerebbe per dover rinunciare all'amicizia di una persona vista solo due volte e per due mezze giornate in tutto. Linton immaginerà come stanno le cose, non si darà pena.»

            «Ma non potrei scrivergli il motivo per cui non posso andare?» mi domandò, alzandosi. «E mandargli quei libri che ho promesso di prestargli? I suoi libri non sono belli come i miei, e ha desiderato infinitamente di averli, quando gli ho detto come fossero interessanti. Non posso, dunque?»

            «No, davvero! no, davvero!» risposi con fermezza. «Lui ti scriverebbe, e non la si finirebbe più. No, signorina Caterina, la conoscenza deve essere troncata ; così vuole tuo padre, e io baderò che così sia.»

            «Ma come può un bigliettino?...» ricominciò, assumendo un'espressione implorante.

            «Silenzio!» l'interruppi. «Non cominciamo coi bigliettini. Va' a letto.»

            Mi guardò con occhi malevoli, tanto che dapprima non volevo neppure darle un bacio per la buona notte; le rimboccai le coperte e chiusi la porta, molto, contenta, ma, pentendomi a mezza via, ritornai piano, ed ecco la signorina in piedi, presso il tavolo, con un foglietto bianco davanti a sè e una matita in mano, che nascose in fretta e furia al mio sopraggiungere.

            «Nessuno lo porterà, se lo scrivi,» le dissi, «e, per ora, ti spengo il lume.»

            Posai lo smoccolatoio sulla fiamma, ricevendo, nel medesimo tempo, un colpetto sulla mano e un petulante «Cattivaccia!» Poi la lasciai di nuovo e lei tirò il catenaccio, nel peggiore e più capriccioso umore. La lettera fu terminata e inviata a destinazione a mezzo di chi veniva dal villaggio a prendere il latte, ma io lo seppi solo più tardi. Le settimane passarono, e Cathy recuperò il suo buon umore, benchè le fosse nata una passione straordinaria per starsene sola in un angolo; e spesso, se m'accadeva di avvicinarmi, a un tratto, mentre leggeva, trasaliva e si chinava tutta sul libro, evidentemente desiderosa di nasconderlo; scoprii che da quelle pagine sporgevano dei lembi di carta. Alla mattina aveva anche preso l'abitudine di scender presto e di indugiare in cucina, come se aspettasse l'arrivo di qualcosa, e c'era inoltre il cassettino di un mobile della biblioteca, che la interessava per ore e ore; ne portava sempre con sè la chiave, quando se ne allontanava.

            Un giorno, mentre ispezionava questo suo cassetto, osservai da lontano che, al posto di giocattoli o gingilli, vi si trovavano pezzetti di carta piegata. La mia curiosità e i miei sospetti si acuirono; decisi di dare un'occhiata a quei misteriosi tesori; così, la notte, non appena Cathy e il mio padrone furono saliti in camera, cercai e trovai subito, tra le mie chiavi di casa, una che andasse bene per quella serratura. Aperto il cassetto, ne vuotai il contenuto nel mio grembiule, e me lo portai in camera per esaminare il tutto a mio agio. Sebbene ormai me lo aspettassi, rimasi veramente sorpresa davanti alla copiosità della corrispondenza - quasi quotidiana - di Linton Heathcliff; ed eran tutte risposte a lettere inviate da lei. Le prime erano impacciate e brevi; tuttavia, grado a grado, si erano trasformate in lunghe confessioni d'amore, sciocche, come era naturale, considerata l'età dello scrivente, ma con qua e là pensieri che, pensai, dovevano provenire da una fonte più profonda. Alcune di quelle missive mi colpirono singolarmente per il loro strano assieme di ardore e di indifferenza; cominciavano con sentimenti forti e concludevano nello stile affettato che uno scolaro potrebbe adoperare con un'immaginaria amante incorporea. Se piacessero a Cathy, non potrei dirlo: ma a me sembravano tutte sciocchezze. Dopo averne fatte passare quante mi parve necessario le involtai in un fazzoletto, le posi in disparte, richiudendo il cassetto vuoto.

            Come sua consuetudine, la mia giovane padrona scese per tempo, e si recò in cucina: la vidi andare alla porta all'arrivo di un certo ragazzotto, e, mentre la lattaia gli riempiva il bidone, lei gli ficcò qualcosa nella tasca della giacchetta, e ne tolse fuori qualcos'altro. Feci il giro del giardino, e rimasi in attesa del messaggero; costui combattè valorosamente per difendere il proprio tesoro e, tra l'una e l'altro, rovesciammo il latte, ma io riuscii a sottrargli il plico, e, minacciandolo di serie conseguenze, se non se ne fosse andato via più che in fretta, rimasi sotto il muro a leggere l'affettuosa missiva di Cathy. Era più semplice ed eloquente di quella del cugino, molto graziosa e molto sciocca. Scossi il capo e, meditando, tornai in casa. La giornata piovosa non permise a Cathy di girovagare nel parco; così, terminati i suoi studi del mattino, ricorse allo svago del cassetto. Suo padre stava leggendo seduto a tavola, e io avevo trovato modo di occuparmi a ritagliare la frangia di una tendina della finestra, ma tenevo gli occhi continuamente fissi su ogni atto della mia padroncina. Un uccello, che scopra vuoto il nido che poco prima aveva lasciato pieno di garruli uccellini, non espresse mai una più completa disperazione, con strida angosciose e battito d'ali, quanto Cathy con un solo «Oh!» e il cambiamento di espressione di tutto il volto poco prima così felice.

            Il signor Linton alzò il capo.

            «Che cos'hai, amore? Ti sei fatta male?» disse. Il tono della sua voce e il suo sguardo l'assicurarono che lui non era stato lo scopritore del bottino.

            «No, papà,» disse senza respiro. «Elena! Elena! vieni su... soffoco!»

            Ubbidii alla sua chiamata e l'accompagnai fuori.

            «Oh, Elena! le hai prese tu!» cominciò subito, cadendo in ginocchio, non appena ci fummo rinchiuse da sole. «Oh, rendimele, e non lo farò più, mai più! Non dirlo al papà. Non l'hai detto al papà, Elena? Oh, dimmi di no. Sono stata molto cattiva, ma non lo farò mai più!

            Severamente, le ingiunsi di alzarsi.

            «Così,» esclamai, «signorina Caterina, a quanto pare sei andata ormai abbastanza avanti: puoi, con ragione, vergognartene! Un bel mucchio di stupidaggini studiate nelle ore di svago, senza dubbio; ma sì, abbastanza ben scritte per essere stampate! E che cosa supponi ne penserà il padrone, quando gliele metterò davanti agli occhi? Non gliele ho ancora mostrate, ma non credere che voglia mantenere i tuoi ridicoli segreti. Vergogna! e devi esser stata tu la prima a scrivere assurdità del genere! lui non avrebbe mai avuto il coraggio di cominciare, ne sono sicura!»

            «Non sono stata io! non sono stata io!» singhiozzò Cathy quasi sul punto di spezzarsi il cuore. «Io non ho pensato mai di potere amarlo fino a quando...»

            «Amarlo!» gridai io, con quanto sdegno potevo mettere nella parola. «Amarlo! A chi è mai stato dato di sentire una cosa simile? Potrei allo stesso modo parlare di amare il mugnaio che viene una volta all'anno a comperare il grano da noi. Bell'amore, davvero! e non hai visto Linton nemmeno per quattro ore in tutta la tua vita. Ecco qua un cumulo d'idiozie. Me le porto alla biblioteca, e vedremo che cosa dirà vostro padre di questo amore

            Ella si precipitò verso le preziose lettere, ma io le tenni levate sopra il mio capo; e, allora, si abbandonò di nuovo alle più fervide preghiere che le bruciassi... che ne facessi qualsiasi cosa ma che non le mostrassi a suo padre. E poichè ero in realtà disposta a ridere come a sgridare - giudicando tutto quello una pura vanità di ragazza - alla fine cedetti, in parte, chiedendole:

            «Se acconsento a bruciarle, prometti di non mandare nè ricevere alcuna lettera, nè un libro (poichè vedo che gli hai mandato dei libri), nè riccioli, nè anelli, nè giocattoli?»

            «Non ci mandiamo giocattoli!» gridò Caterina, il suo orgoglio imponendosi alla vergogna.

            «Niente del tutto, allora, mia signora,» dissi. «A meno che tu non prometta, ecco, vado.»

            «Prometto, Elena!» gridò, prendendomi per la gonna. «Oh, bruciale, sì, sì!»

            Ma, quando cominciai a smuovere il fuoco per far posto, il sacrificio le parve troppo penoso da sopportare. Ella supplicò intensamente di risparmiargliene una o due.

            «Una o due, Elena, da tenere per amore di Linton!»

            Slegai il fazzoletto e cominciai a lasciar cadere le lettere da un angolo; la fiamma le prese, le accartocciò, le fece volare in frantumi su per la cappa del camino.

            «Ne voglio una, crudele che sei,» gridò, cacciando la mano nel fuoco e estraendone alcuni pezzi anneriti con pericolo delle sue dita.

            «Benissimo... e io ne vorrò avere da mostrare a tuo padre!» risposi, scuotendo il fazzoletto per farvi ricader dentro il resto, e volgendomi di nuovo verso la porta.

            Ella buttò quei resti bruciacchiati nelle fiamme, e mi fece segno di finire l'olocausto. Fu fatto: smossi le ceneri su cui sparsi una palata di brace; ed ella, profondamente offesa, si ritirò in silenzio nel suo appartamento privato. Scesi per dire al padrone che il malessere della signorina era quasi scomparso, ma che avevo creduto fosse meglio per lei riposare per un poco. Non volle pranzare; ma riapparve al tè, pallida, con gli occhi arrossati, e meravigliosamente umile nell'aspetto. La mattina seguente risposi all'ultima lettera della serie con queste parole:

            «Il signor Linton Heathcliff è pregato di non mandare altri biglietti alla signorina Linton perchè non saranno accettati.»

            E da quel giorno il ragazzotto del latte arrivò a tasche vuote.

           

 

XXII    (torna all'indice)

           

 

           

            L'estate e il principio d'autunno erano ormai passati; si era già ai primi di ottobre, ma quell'anno il raccolto era in ritardo e non tutti i nostri campi erano già mietuti. Il signor Linton e la figlia solevano andare trai mietitori, soffermandosi fin dopo il crepuscolo, quando venivano messi insieme gli ultimi covoni; così accadde che una sera, fredda e umida, il mio padrone prendesse una forte infreddatura, così forte da infettargli i polmoni e costringerlo a rimanere in casa durante l'intero inverno quasi senza interruzione.

            La povera Cathy, distolta dal suo piccolo romanzo, tutta impaurita si era fatta più triste e assorta e suo padre insisteva perchè leggesse meno e camminasse di più, così stimai mio dovere di supplire meglio che potevo con la mia compagnia alle privazioni di quella sua, quantunque le mie numerose occupazioni non mi permettessero di seguirla sempre nelle passeggiate. Inoltre la mia compagnia era certamente meno gradita di quella del padre.

            In un pomeriggio di fine ottobre o al principio di novembre - uno di quei pomeriggi umidi, piovigginosi, in cui l'erba e i sentieri sono cosparsi dalle foglie appassite e fruscianti che la pioggia ha fatto cadere, e il freddo cielo azzurro è quasi velato dalle nubi - densi nuvoloni s'innalzarono rapidamente da occidente, forieridi di altra acqua, pregai quindi la mia padroncina di rimandare la sua passeggiata a causa di quella minaccia celeste. Ella rifiutò e io, di malavoglia, indossai un soprabito, e presi un ombrello per accompagnarla a fare un giro fino in fondo al parco; passeggiata consueta, quando era depressa, e lo era invariabilmente se il signor Edgardo stava peggio del solito, cosa che non si sapeva mai da lui, ma che tutt'e due indovinavamo dal silenzio e dalla malinconia del volto del padrone. Ella camminava tristemente; ora non c'erano più corse nè salti, benchè il vento freddo avrebbe potuto tentarla a un poco di moto. E spesso, spiandola di sottecchi, la coglievo nell'atto di asciugarsi le guance con il dorso della mano. Mi guardai intorno in cerca di qualche possibile distrazione per i suoi affanni. Da un lato della strada sorgeva un'alta ripa incolta su cui piante di noccioli e querce intristite dalle radici affioranti avevano poca presa: il terreno troppo instabile e le bufere ne avevano piegato alcune fin quasi a terra. D'estate, la signorina Cathy si divertiva ad arrampicarsi su quei tronchi, e a sedersi tra i rami, dondolandosi a venti piedi dal terreno, e io, compiaciuta della sua agilità e del suo animo sereno e ancora ingenuo, trovavo opportuno ammonirla ogni volta che la scoprivo a tali altezze, ma in modo tale da farle capire che non vi era effettiva necessità di discendere. Dall'ora del pranzo a quella del tè soleva starsene in quella sua culla dondolata dalla brezza, canterellando vecchie canzoni le mie ninne nanne - o guardando gli uccelli, suoi vicini, nutrire i loro piccoli o iniziarli al volo, oppure sprofondava a occhi chiusi in qualche sogno, più felice di quanto le parole possano esprimere.

            «Guarda, Cathy!» esclamai, additandole una nicchia sotto le radici di un albero contorto. «L'inverno non è ancora arrivato qui. Lassù c'è un piccolo fiore, l'ultimo bocciolo della moltitudine di campanule che nel mese di luglio avvolgevano come in una nube lilla quegli scalini muscosi. Non vuoi arrampicarti a coglierlo per mostrarlo al papà?»

            Cathy fissò a lungo quel solitario fiore che tremava nel suo rifugio di terra, alla fine rispose:

            «No, non lo toccherò: ma sembra malinconico, non è vero Elena?»

            «Sì,» risposi, «non meno malinconico e sofferente di te. Hai le guance esangui. Prendiamoci per mano e corriamo. Sei così depressa che credo riuscirò a starti a pari.»

            «No,» ribattè e continuò ad andar qua e là soffermandosi ogni tanto a meditare sopra un poco di muschio, o sopra un ciuffo di misera erba, o un fungo che spiccava con il suo vivo color arancio fra mucchi di foglie brune, e a tratti si levava una mano al viso.»

            «Caterina! perchè piangi, amore?» le domandai, accostandomi e mettendole il mio braccio sulla spalla. «Non devi piangere perchè il papà è raffreddato; sii grata che non ha nulla di peggio.»

            In quel momento scoppiò in lacrime; il respiro era soffocato dai singhiozzi.

            «Oh, sarà qualcosa di peggio,» disse. «E che cosa farò quanto tu e il papà mi lascerete, quando sarò sola? Non posso scordare le tue parole, Elena: mi risuonano sempre all'orecchio. Come sarà rovinata la mia vita, come sarà triste il mondo, quando tu e il papà sarete morti.»

            «Nessuno può dire, se non morrai tu prima di noi,» le risposi. «È male anticipare le disgrazie. Bisogna sperare che passino ancora anni e anni prima che qualcuno di noi se ne vada: il padrone è giovane, e io sono forte, non ho ancora quarantacinque anni. Mia madre ha vissuto fino agli ottanta, una donna piena di vita fino all'ultimo. E supponi che il signor Linton ci fosse risparmiato fin oltre i sessant'anni, sarebbe un numero maggiore di anni di quello da te calcolato, Cathy. E non sarebbe vano piangere per una calamità più di vent'anni prima che possa verificarsi?»

            «Ma la zia Isabella era più giovane del papà,» mi fece osservare, guardandomi in viso con una timida speranza di trovare qualche altra consolazione.

            «La zia Isabella non aveva le mie nè le tue cure,» le risposi. «Non era felice come il padrone e non aveva nulla per cui desiderare di vivere. Tutto quello che devi fare e di prodigare cure assidue al tuo papà, e di rallegrarlo facendoti vedere allegra; devi evitargli qualunque ansietà per qualsiasi motivo; bada a questo, Cathy! Non voglio nasconderti che potresti ucciderlo con il mostrarti disubbidiente e irrequieta, o con l'accarezzare un vano e irreale affetto per il figlio di chi sarebbe ben contento di vedere il tuo papà nella tomba. Così non devi neppure lasciargli scorgere che ti addolori per una separazione che lui ha giudicato necessaria.»

            «Soffro solo per la malattia del papà,» rispose la mia compagna. «Non ci tengo a nessuna cosa in confronto di lui. E io non compirò mai... mai... oh, mai, finchè sarò in me, un atto e neppure dirò mai una parola che lo possano rattristare. Lo amo più di me stessa Elena; e lo so da questo: ogni notte prego perchè mi sia dato di sopravvivergli; perchè vorrei addolorarmi io piuttosto di lui; non è la prova che l'amo più di me stessa?...»

            «Buone parole,» risposi, «ma i fatti lo devono provare, e, quando starà bene, bada di non dimenticare le risoluzioni prese nell'ora del pericolo!»

            Così parlando, ci avvicinammo a una porta che dava sulla strada; e la mia padroncina, di nuovo raggiante, s'arrampicò e si sedette sulla sommità del muro, per cercare di cogliere alcune bacche che rosseggiavano in cima ai rami di una rosa selvatica, ombreggiante un lato della strada maestra; i frutti più in basso erano scomparsi, ma soltanto gli uccelli potevano toccare quelli più in alto. Per coglierli bisognava mettersi nella posizione di Cathy. Nel protendersi per strapparli, le cadde il cappello, ed, essendo chiusa la porta, la ragazza mi propose di lasciarsi scivolar lungo il muro per riprenderlo. Le raccomandai di essere cauta per non arrischiare una caduta, ed ella scomparve agilmente. Ma il ritorno non era cosa tanto facile; le pietre erano lisce e perfettamente connesse, e i cespugli di rose e i pochi rami rampicanti delle more non offrivano aiuto alla salita. Io, come una sciocca, non pensai a questo fin quando non la sentii ridere ed esclamare:

            «Elena, dovrai andar a prendermi la chiave, altrimenti dovrò fare il giro fino alla loggia del portiere. Non posso scalare il muro da questa parte!»

            «Rimani dove sei,» le risposi, «ho il mio mazzo di chiavi in tasca; forse riuscirò ad aprire, se no andrò.»

            Caterina si divertì a danzare di qua e di là davanti alla porta, mentre provavo tutte le grosse chiavi una dopo l'altra. Avevo introdotta l'ultima, ed, essendomi persuasa che nessuna serviva, le ripetei il mio desiderio che se ne rimanesse lì, e stavo per correre a casa più in fretta che potevo, quando mi arrestai a un rumore che sembrava avvicinarsi. Era il trotto di un cavallo anche la danza di Cathy s'arrestò.

            «Chi sarà?» mormorai.

            «Elena, vorrei che tu potessi aprir la porta,» rispose con un bisbiglio ansioso la mia compagna.

            «Oh, signorina Linton!» gridò una voce bassa (quella del cavaliere), «sono contento d'incontrarvi. Non abbiate premura d'entrare, perchè ho una spiegazione da domandarvi e da ottenere.»

            «Non parlerò con voi, signor Heathcliff,» rispose Caterina. «Il papà dice che siete un uomo malvagio, e che ci odiate tutt'e due, lui e me, ed Elena dice la medesima cosa.»

            «Questo non ha nulla a che vedere,» disse Heathcliff. (Era lui.) «Non odio mio figlio, oserei supporlo, ed è riguardo a lui che domando la vostra attenzione. Sì, avete motivo d'arrossire: due o tre mesi or sono non eravate solita a scrivere a Linton? vi divertivate ad amoreggiare, eh? Meritavate e l'uno e l'altro d'esser bastonati! Voi specialmente, la maggiore; e la meno sensibile, da quel che si vede. Ho le vostre lettere, e, se vi date tante arie con me, le manderò a vostro padre. Immagino che il divertimento vi sia venuto a noia, e che così lo abbiate troncato, vero? Ebbene, così avete abbandonato Linton in un abisso di disperazione. Faceva sul serio lui; era veramente innamorato. Com'è vero che io sono al mondo, lui se ne muore per voi; gli si spezza il cuore per la vostra leggerezza, non per modo di dire, ma in realtà, sapete. Sebbene Hareton ne abbia fatto il suo zimbello per sei settimane, sebbene io abbia ricorso a misure più severe, cercando di scuoterlo dalla sua imbecillità con le minacce, peggiora ogni giorno di più e sarà al camposanto prima che giunga l'estate, a meno che voi non lo lasciate sperare.»

            «Come potete mentire così sfacciatamente con questa povera ragazza?» protestai ad alta voce. «Vi prego di proseguire per il vostro cammino! Con che coscienza inventare menzogne così abiette? Signorina Cathy, farò saltare la serratura con una pietra; non prestate ascolto a sciocchezze così vili. Potete sentire in voi stessa, come non sia possibile morir d'amore per un estraneo.»

            «Non sapevo che ci fossero delle spie,» borbottò quel furfante colto sul fatto. «Stimatissima signora Dean voi mi piacete, ma non mi piace la vostra doppiezza,» soggiunse a voce alta. «Come potete voi mentire tanto sfacciatamente, affermando che io odio questa "povera ragazza" e inventando storie fantastiche per incuterle il terrore della mia casa? Caterina Linton (soltanto il nome mi commuove), mia bella ragazza, sarò assente da casa tutta la settimana; andate a vedere se non ho detto la verità, andate, ve ne prego, cara! Immaginate vostro padre al mio posto, e Linton al vostro; allora provate a pensare in che conto terreste il vostro innamorato se rifiutasse di muovere un passo per confortarvi, quando vostro padre stesso lo implorasse; e, per pura stupidità non cadete nel medesimo errore. Giuro, sulla salvezza dell'anima mia, che lui sta per andarsene alla tomba, e che nessuno tranne voi lo può salvare!»

            La serratura cedette, e io uscii.

            «Giuro che Linton è morente,» ripetè Heathcliff guardandomi duramente. «E il dolore e la disillusione ne affrettano la morte. Nelly, se non volete lasciarla andare, andate voi. Io ritornerò solo tra una settimana e credo che lo stesso vostro padrone non le vieterebbe di recarsi da suo cugino!»

            «Vieni dentro,» dissi, prendendo Cathy per un braccio e facendole quasi forza perchè rientrasse; ella indugiava a osservare con occhi turbati la fisionomia di colui che aveva parlato sino ad allora, una fisionomia troppo grave per lasciar trapelare l'inganno macchinato.

            Spinse il cavallo verso di noi, e, chinatosi, disse:

            «Signorina Caterina, a voi confesso che ho poca pazienza con Linton, e Hareton e Giuseppe ne hanno ancor meno. Confesso che si trova in una rozza compagnia. Soffre per il desiderio di un po' di gentilezza e d'amore, e una parola gentile da voi sarebbe la sua migliore medicina. Non badate ai crudeli avvertimenti della signora Dean, ma siate generosa, e fate in modo di vederlo. Vi sogna giorno e notte, e non può convincersi che voi non l'odiate, dato che non gli scrivete nè lo visitate.»

            Chiusi la porta, e vi spinsi contro una pietra che la tenesse ferma; e, aperto l'ombrello, vi tirai sotto Cathy, perchè la pioggia cominciava a cadere tra i rami degli alberi gementi, e ci avvertiva di evitare ogni indugio. La fretta impedì qualsiasi commento sull'incontro con Heathcliff, mentre a grandi passi procedevamo verso casa, ma indovinavo istintivamente che il cuore di Caterina era ora avvolto in una doppia oscurità. L'espressione del suo volto era così desolata da farlo sembrare un altro volto; evidentemente ella riteneva pura verità ogni sillaba che aveva udito.

            Il padrone si era ritirato a riposare prima che noi rientrassimo. Cathy entrò piano in camera sua per domandargli come stesse, ma lui si era addormentato. Tornata fuori da quella stanza mi pregò di rimanere con lei in biblioteca. Prendemmo il tè insieme, e poi lei sedette sul tappetino e mi disse di non parlare, perchè era stanca. Presi un libro e finsi di leggere. Non appena mi suppose assorta in quell'occupazione, riattaccò a piangere sommessamente; sembrava la sola occupazione possibile per lei. La lasciai piangere per un poco, indi feci delle rimostranze, e posi in ridicolo tutto quel che il signor Heathcliff aveva detto a proposito del figlio, come se fossi stata certa che lei mi avrebbe dato ragione. Ahimè! Non avevo preveduto l'effetto di quel racconto appena sentito: era proprio quello a cui Heathcliff aveva mirato.

            «Potete aver ragione, Elena,» ella rispose, «ma io non mi sentirò mai tranquilla finchè non saprò. E bisogna che dica a Linton che non è colpa mia se non gli scrivo, che lo convinca che non cambierò mai.»

            A che cosa avrebbe giovato prendersela con lei, protestare contro la sua sciocca credulità? Quella sera ci separammo da nemiche; ma il giorno seguente eccomi sulla strada di Wuthering Heights, a fianco del pony della mia prepotente padroncina. Mi era intollerabile assistere al suo corruccio, vedere il suo volto pallido e afflitto e quei suoi occhi stanchi, cedetti nella debole speranza che Linton stesso avrebbe provato con la sua accoglienza che una troppo piccola parte del racconto di Heathcliff era basata sui fatti.

           

 

XXIII    (torna all'indice)

           

 

           

            A una notte di pioggia era seguito un mattino di foschia - mezza pioggia e mezzo gelo - e il nostro sentiero era attraversato da improvvisi torrentelli che scendevano gorgogliando dalle alture. Avevo i piedi bagnati, ero abbattuta, di cattivo umore, proprio tanto quanto bastava per rendere maggiormente sgradevoli tali contrarietà.

            Entrammo nella fattoria dalla parte della cucina per accertarci che il signor Heathcliff fosse realmente assente, perchè credevo poco alle sue affermazioni

            Giuseppe sembrava starsene in beatitudine; solo, presso un gran fuoco, con la nera pipa in bocca e davanti a sè un boccale di birra e larghe fette tostate di torta d'avena.

            Caterina corse al focolare per riscaldarsi. Chiesi se il padrone fosse in casa. La mia domanda rimase così a lungo senza risposta che pensai che il vecchio fosse diventato sordo, la ripetei quindi a voce più alta.

            «No-oo!» ringhiò, o meglio gridò attraverso il naso. «No-oo! dovete tornarvene donde venite.»

            «Giuseppe!» gridò in pari tempo una voce stizzosa dall'altra stanza. «Quante volte devo chiamarvi? Ora non c'è che poca brace. Giuseppe! venite subito!»

            Vigorosi sbuffi di pipa mostrarono che lui non aveva orecchie per quell'appello. La governante e Hareton erano invisibili; l'una fuori per una commissione, l'altro al suo lavoro, probabilmente. Riconoscemmo la voce di Linton, ed entrammo.

            «Possiate morire in una soffitta! possiate morir di fame!» disse il ragazzo, scambiando il nostro arrivo per quello del suo negligente servitore.

            S'arrestò, accorgendosi dell'errore, e la cugina volò a lui.

            «Sei tu, signorina Linton?» disse, sollevando il capo dal bracciale della poltrona nella quale stava adagiato. «No, non baciarmi; ciò mi toglie il respiro. Povero me! il papà ha detto che saresti venuta,» continuò, dopo essersi un po' riavuto dall'abbraccio di Caterina mentre lei si teneva lì presso tutta confusa. «Vuoi chiuder la porta per favore? hai lasciato aperto; e quelle... odiose creature non vogliono portare carbone per il fuoco. Fa così freddo!»

            Smossi la cenere, e andai io stessa a prendere un secchio di carbone. L'invalido si lagnò del pulviscolo di cenere, ma aveva una tosse fastidiosa, e sembrava febbricitante e ammalato, così non gli rimproverai la sua impazienza.

            «Ebbene, Linton,» mormorò Caterina, vedendolo rasserenato. «Sei contento di vedermi? Posso fare qualcosa per te?»

            «Perchè non sei venuta prima d'ora?» egli domandò. «Avresti dovuto venire invece di scrivere. Mi stancava terribilmente scrivere quelle lunghe lettere. Avrei preferito molto di più parlare con te. Ora, anche il parlare mi affatica, come pure ogni altra cosa. Chissa mai dove è Zillah! Vorreste (guardando me) andare in cucina a vedere se c'è?»

            Non avevo ricevuto nessun grazie per l'altro mio servigio, e, non sentendomi disposta a correre avanti e indietro a sua richiesta, replicai: «Non c'è proprio nessuno all'infuori di Giuseppe?»

            «Ho sete,» esclamò irosamente volgendo lo sguardo altrove. «Da quando il papà è andato via, Zillah non fa che correr giù a Gimmerton, è una vergogna! E sono stato costretto a scender qui... si sono dati l'intesa di non sentirmi quando chiamavo da sopra.»

            «Vostro padre è premuroso con voi, Heathcliff?» gli domandai, osservando che Caterina si mostrava meno servizievole.

            «Premuroso? Obbliga loro a essere più premurosi, se non altro,» gridò. «Miserabili! Sai, signorina Linton, che quel bruto di un Hareton mi deride! Lo odio! in verità, li odio tutti: sono esseri odiosi.»

            Cathy andò a cercar dell'acqua; ne trovò una brocca piena nella credenza, ne riempì una tazza, e gliela porse. Egli le ordinò di aggiungervi un cucchiaio di vino che era in una bottiglia sulla tavola, e, dopo averne trangugiato un sorso, apparve più tranquillo, e disse a Caterina che era molto gentile.

            «E sei contento di vedermi?» domandò lei, ripetendo la sua prima domanda, compiacendosi di veder spuntare su quel volto un lieve sorriso.

            «Sì, lo sono. È cosa insolita udire una voce come la tua!» rispose. «Ma sono stato molto addolorato perchè non ti vedevo. E il papà giurava che era colpa mia, diceva che ero solo un miserabile, un cialtrone, un indegno, e che tu mi disprezzavi; fosse stato lui al mio posto, diceva, sarebbe già padrone di Grange più di tuo padre; ma tu non mi disprezzi, non è vero, signorina?...»

            «Vorrei che tu mi chiamassi Caterina, o Cathy,» interruppe la mia padroncina. «Disprezzarti? No! dopo il papà ed Elena, amo te più di chiunque altro al mondo. Però non amo il signor Heathcliff, e, al suo ritorno, non ardirò venire; resterà lontano per molti giorni?»

            «No, non per molti,» rispose Linton; «ma, da quando è cominciata la stagione della caccia è fuori di frequente per la landa, e tu potresti, durante la sua assenza, passare qualche ora con me. Di' che lo farai. Credo che con te non sarei noioso, tu non mi provocheresti mai, e saresti sempre pronta ad aiutarmi, non è vero?»

            «Sì,» disse Caterina, accarezzandogli i lunghi e soffici capelli; «se potessi soltanto ottenere il consenso del papà, passerei metà del mio tempo con te. Quanto sei grazioso, Linton! Vorrei che tu fossi mio fratello.»

            «Allora mi vorresti bene come a tuo padre?» fece egli, più allegramente. «Ma il papà dice che mi ameresti più di lui e di tutto il mondo, se tu fossi mia moglie, così preferirei che tu lo fossi.»

            «No, io non amerei mai nessuno più del mio papà,» rispose lei solennemente. «E alle volte le mogli sono odiate, ma non si odiano le proprie sorelle e i propri fratelli; e, se tu fossi mio fratello, vivresti con noi e il papà amerebbe te quanto ama me.»

            Linton negò che si possano mai odiare le mogli, ma Cathy l'affermò, portando ad esempio l'avversione del padre di lui per sua zia. Cercai di arrestare quella lingua imprudente, ma non vi riuscii che già aveva detto tutto quanto le era noto. Il giovane Heathcliff, molto irritato, asserì che la sua affermazione era falsa.

            «Me l'ha detto il papà e lui non dice mai cose non vere,» gli rispose vivacemente.

            «Il mio papà disprezza il tuo!» gridò Linton. «Lo chiama vile imbecille.»

            «Il tuo è un malvagio,» ribattè Caterina; «e tu sei molto cattivo a osare ripetere quel che dice lui. Deve essere ben malvagio per aver obbligata la zia Isabella a lasciarlo nel modo che ha fatto.»

            «Non è vero che l'abbia lasciato,» disse il ragazzo; «non devi contraddirmi.»

            «È verissimo,» gridò la mia padroncina.

            «Ebbene, allora ti dirò una cosa!» fece Linton. «Tua madre odiava tuo padre: ecco!»

            «Oh!» esclamò Caterina, troppo adirata per proseguire.

            «E amava il mio,» soggiunse egli.

            «Bugiardo che non sei altro! Ora ti odio,» disse senza respiro, e con il viso che le si faceva rosso per la collera.

            «L'amava! l'amava!» ripetè Linton, sprofondandosi in un angolo della sua poltrona con il capo arrovesciato per godere dell'agitazione della sua oppositrice, che stava dietro a lui.

            «Silenzio, signor Heathcliff!» dissi io, «questa pure è una storia di vostro padre, m'immagino.»

            «Non lo è: zitta tu!» rispose. «Sì, sì, Caterina, l'amava! l'amava, l'amava!»

            Cathy, fuori di sè, diede una spinta violenta alla poltrona, facendo cadere Linton contro un bracciolo. Fu subito preso da una tosse soffocante che pose fine al suo trionfo, ma che gli durò tanto a lungo che io ne restai allarmata. In quanto a sua cugina, ella piangeva al colmo della disperazione, terrorizzata del male che aveva commesso, benchè non dicesse nulla. Sostenni Linton fin che l'accesso non si calmò, ma poi fui da lui respinta, ed egli reclinò il capo in silenzio. Caterina, a sua volta trattenne qualsiasi lamento, sedette dalla parte opposta, e fissò solennemente lo sguardo nel fuoco.

            «Come vi sentite ora, signor Heathcliff?» domandai, dopo una lunga pausa.

            «Vorrei che lei si sentisse come mi sento io,» rispose, «dispettosa e crudele! Hareton non mi tocca mai, non mi ha mai battuto una sola volta in vita sua. E oggi stavo meglio; ed ecco che...» e la voce gli si spense in un gemito.

            «Io non ti ho battuto!» mormorò Cathy, comprimendo il labbro per frenare un altro scoppio di passione.

            Egli sospirò ed emise lamenti come uno che soffra molto, e continuò così almeno per un quarto d'ora, solo, si sarebbe detto, per addolorare sua cugina, poichè ogni volta che udiva un singhiozzo soffocato di lei, poneva maggior studio nel gemere lamentosamente.

            «Mi duole di averti fatto male, Linton,» disse lei alla fine, non resistendo più a quella tortura. «Ma a me, quel piccolo urto non avrebbe fatto alcun male, e non mi figuravo lo potesse fare a te; non ti ho fatto un gran male, nevvero, Linton? Non permettere che torni a casa con tale pensiero. Rispondi! parlami.»

            «Non posso parlarti,» mormorò; «mi hai fatto tanto male che starò sveglio tutta la notte soffocato da questa tosse. Se l'avessi tu, sapresti che cosa m'hai fatto; ma tu dormirai placidamente mentre io soffrirò senza nessuno vicino a me. Vorrei un po' sapere se ti piacerebbe di passare notti terribili come le mie!» E cominciò a gemere, compassionandosi.

            «Poichè il passare terribili notti è una vostra consuetudine,» dissi io, «non è stata la signorina a turbare la vostra tranquillità, e stareste lo stesso anche se non fosse mai venuta. Nondimeno, non vi disturberà più oltre, e forse sarete più quieto quando vi avrà lasciato.»

            «Devo andarmene?» domandò Caterina con dolore chinandosi verso di lui. «Vuoi che me ne vada, Linton?»

            «Non puoi mutare quello che hai fatto,» rispose capricciosamente, scostandosi da lei, «a meno che tu non lo aggravi con l'irritarmi, fino a farmi venire la febbre.»

            «Ebbene, allora, devo andarmene?» ripetè.

            «Lasciami almeno solo,» disse egli, «non posso sentirti parlare.»

            Ella s'indugio, resistendo a ogni mio consiglio di partire fino a esserne stanca, ma, poichè lui non alzava gli occhi, nè le rivolgeva la parola, finalmente si diresse verso la porta, e io la seguii. Fummo richiamate da un grido. Linton era scivolato dalla sedia sul focolare, ove giaceva contorcendosi, deciso a mostrarsi per mera perversità quella peste di ragazzo viziato che era. Io, dal suo stesso modo di comportarsi, intuii perfettamente le sue intenzioni, e vidi che sarebbe stata una follia cercare di assecondarlo. Non così la mia compagna; corse da lui piena di terrore, s'inginocchiò, pianse, lo confortò e lo supplicò; finchè lui non si quietò per mancanza di respiro, non certo perchè pentito d'averla sconvolta.

            «Lo metterò a sedere sulla panca,» dissi, «così potrà dimenarsi finchè vuole; non possiamo rimanere a curarlo. Spero sarai soddisfatta, Cathy, nel vedere che non sei tu la persona che può giovargli, e che la sua condizione di salute non è causata da un affetto per te. Ora, dunque, eccolo a posto! Vieni via; non appena saprà che non c'è più nessuno che badi ai suoi capricci, sarà contento di starsene tranquillo.»

            Ella gli pose un cuscino sotto il capo e gli offrì dell'acqua, che egli rifiutò, mostrandosi a disagio come se giacesse su una pietra. Lei cercò di aggiustargli quel cuscino più comodamente.

            «Questo non mi serve,» disse lui, «non è abbastanza alto.»

            Caterina gliene portò un altro, da porre sopra il primo.

            «Questo è troppo alto,» mormorò quel fastidioso ragazzo.

            «Come devo accomodarlo, allora?» domandò Caterina con disperazione.

            Egli si sollevò fino a lei, mentre ella s'inginocchiava sulla panca, e convertì la sua spalla in un sostegno.

            «No, questo non va,» dissi. «Accontentatevi del cuscino, Heathcliff. La signorina ha già sprecato troppo tempo per voi; non possiamo rimanere cinque minuti di più.»

            «Sì, sì, possiamo,» rispose Caterina. «Lui è buono e paziente. Comincia a capire che io stanotte starei in maggior pena di lui, se pensassi che sta peggio per la mia visita, e allora non oserei più ritornare. Di' la verità, Linton, perchè, se ti ho fatto del male, non verrò più.»

            «Devi venire a curarmi,» rispose egli, «lo devi appunto per il male che mi hai fatto, lo sai che mi hai fatto terribilmente male! quando sei entrata stavo benino.»

            «Non sono stata solo io,» disse sua cugina. «A ogni modo ora saremo amici. E tu desideri vedermi qualche volta, sì, veramente?»

            «Ti ho detto di sì,» rispose Linton con impazienza. «Siedi sulla panca e lasciami appoggiar il capo sul tuo grembo. Così soleva fare la mamma, per interi pomeriggi. Siedi senza muoverti, e non parlare; però puoi cantare una canzone, se sai cantare, oppure raccontami una lunga fiaba interessante, una di quelle che hai promesso d'insegnarmi. Ma, preferirei una ballata, comincia.»

            Caterina gli ripetè la più lunga che ricordasse. Quell'occupazione piaceva moltissimo a tutt'e due. Linton ne volle un'altra, e, dopo di questa, un'altra ancora, a onta delle mie strenue obiezioni, e così continuarono un pezzo, finchè l'orologio suonò le dodici, e sentimmo Hareton nella corte tornare a mangiare.

            «E domani, Caterina, verrai di nuovo?» domandò il giovane Heathcliff, tenendola per la gonna mentre ella si alzava di malavoglia.

            «No,» risposi io, «e neppure dopodomani.»

            Ma ella, evidentemente, gli aveva dato una risposta diversa, perchè mentre si chinava a sussurrargli all'orecchio, la fronte gli si spianò.

            «Ricordati, Caterina, che domani non verrai qui!» cominciai io, non appena fummo fuori da quella casa. «Non fai questi sogni, non è vero?»

            Ella sorrise.

            «Oh, starò molto attenta,» proseguii io, «farò accomodare quella serratura, e so che non puoi fuggire da nessun'altra parte.»

            «Posso scalare il muro,» disse, ridendo. «Grange non è una prigione, Elena, e tu non sei il mio carceriere. Inoltre, ho quasi diciassette anni, sono una donna. E sono certa che Linton si rimetterebbe presto se avesse le mie cure. Sono maggiore di lui, sai, e ho più giudizio: sono meno bambina, vero? Con un po' di carezze farà presto a modo mio. Quando è buono è un caro piccolo amico, se fosse stato in casa nostra, ne avrei fatto il mio preferito! Una volta abituati l'uno all'altro, non litigheremo mai, non credi? A te piace, Elena?»

            «Piacermi!» esclamai. «È il peggior malatuccio che abbia mai oltre passati i dieci anni! Per fortuna, come mi ha detto il signor Heathcliff, non riuscirà a toccare i venti. Dubito molto che arrivi a vedere la primavera! una perdita molto piccola per la sua famiglia in qualsiasi momento se ne vada! Ed è una fortuna per noi che suo padre se lo sia preso; più gentilmente lo si fosse trattato e più noioso ed egoista sarebbe diventato. Mi rallegro per l'impossibilità che diventi tuo marito, signorina Cathy.»

            La mia compagna, a tale discorso, si fece seria. Il sentirmi parlare così indifferentemente della morte del bamboccio ferì il suo animo.

            «È più giovane di me,» rispose dopo aver meditato a lungo, «e dovrebbe vivere più di me; vivrà... non meno di me. «È robusto ora come lo era quando venne da noi, ne sono certa. Soffre solo per un'infreddatura, come il papà. Tu dici che il papà starà meglio, e perchè non potrebbe essere così anche di lui?»

            «Bene, bene,» gridai, «dopo tutto non occorre che ce ne curiamo; perchè, ascoltami Caterina, e manterrò la mia parola; se tenti di recarti a Wuthering Heights un'altra volta, con me o senza di me, ne informerò il signor Linton e, a meno che lui lo permetta, l'intimità con tuo cugino, non deve essere ravvivata.»

            «Lo è già,» brontolò Cathy di cattivo umore.

            «Ebbene, allora non dovrà continuare,» diss'io.

             «Vedremo,» fu la sua risposta, e, presa la corsa, mi lasciò, io la seguii a fatica.

            Arrivammo tutt'e due a casa prima dell'ora del nostro pasto; il mio padrone, supponendo che noi fossimo state in giro per il parco, non domandò spiegazione della nostra assenza. Non appena rientrata, mi cambiai scarpe e calze che erano fradice, ma la lunga sosta alle Heights aveva prodotto qualche guaio. Il mattino seguente fui obbligata a letto, e durante tre settimane rimasi nell'impossibilità di attendere ai miei doveri; calamità non mai provata, per mia buona fortuna, nè prima nè dopo.

            La mia padroncina si comportò come un angelo, sia con il prestarmi le sue cure che con il rallegrare la mia solitudine, poichè la forzata reclusione mi aveva molto depressa. È cosa molto uggiosa per una persona attiva e sempre in moto come sono io; ma pochi avrebbero avute minori ragioni di lagnarsi di me. Non appena Caterina lasciava la camera del signor Linton, veniva al mio capezzale. La sua giornata era divisa tra noi due: nessun divertimento le prendeva un sol minuto: ella trascurava i suoi pasti, i suoi studi, i suoi giochi ed era la più affettuosa infermiera che avesse mai vegliato un malato. Il suo cuore doveva essere ben caldo d'affetto se, amando tanto suo padre, poteva ugualmente prodigarsi per me. Ho detto che la sua giornata era divisa tra noi due, ma il padrone si ritirava presto, e io generalmente non chiedevo nulla dopo le sei, così la sera era tutta sua. Poverina! non mi domandai mai che cosa potesse fare tutta sola dopo il tè, e, benchè, frequentemente quando veniva a darmi la buona notte, le notassi un fresco colorito sulle guance, e un che di rosato sulle sue dita sottili, invece d'immaginare che quella tinta proveniva da una cavalcata attraverso il freddo della landa, continuai ad attribuirla al fuoco della biblioteca.

           

 

XXIV    (torna all'indice)

           

 

           

            Trascorse tre settimane, mi fu possibile abbandonare la mia camera, e muovermi per la casa; e la prima volta che rimasi alzata la sera pregai Caterina di leggermi a voce alta, avendo la vista indebolita. Eravamo nella biblioteca, il padrone si era già coricato; ella mi parve acconsentisse piuttosto di mala voglia, e, immaginando che i miei libri non sarebbero stati adatti per lei, la pregai di scegliere tra quelli che stava già leggendo. Ne scelse uno tra i suoi preferiti, e lesse di seguito per circa un'ora, poi cominciarono le domande.

            «Elena, non sei stanca? Non faresti meglio a coricarti? Ti sentirai male a restare alzata così a lungo!»

            «No, no, cara, non sono stanca,» le rispondevo continuamente.

            Trovandomi irremovibile, provò un altro metodo per mostrare la sua stanchezza; furono sbadigli e stiramenti, e...

            «Elena, sono stanca.»

            «Smetti allora, e chiacchieriamo,» risposi.

            Questo fu ancora peggio; ella si lagnò, e sospirò, guardò l'orologio fino alle otto, e finalmente andò in camera sua, completamente vinta dal sonno, a giudicare dallo sguardo torpido e dal continuo stropicciarsi gli occhi. La sera successiva apparve ancor più impaziente, e, alla terza, dopo avermi fatto compagnia, si lagnò di un mal di capo, e mi lasciò. La sua condotta mi parve strana, e dopo esser rimasta sola un pezzo decisi di andare a chiederle se stesse meglio e a dirle di scendere e di sdraiarsi sul divano, anzichè starsene sopra, al buio. Ma Caterina non c'era, nè di sopra nè da basso. I domestici dichiararono che non l'avevano veduta. Ascoltai all'uscio del signor Edgardo, tutto era silenzio. Ritornai in camera sua, spensi il lume, e mi sedetti presso la finestra.

            La luna splendeva luminosa; un lieve strato di neve ricopriva il terreno; pensai che probabilmente le doveva esser venuta l'idea di andare in giardino per respirare un po' d'aria pura. Scoprii difatti una figura che strisciava lungo la siepe interna del parco; ma non era la mia padroncina: quando emerse alla luce, riconobbi uno degli stallieri. Rimase per qualche tempo a guardare in direzione della strada carrozzabile che attraversa il podere, indi partì a passo veloce, come se avesse scorto qualche cosa, e riapparve presto, conducendo il pony della signorina; ed ecco lei pure, appena scesa di sella, camminargli al fianco. L'uomo condusse destramente il pony verso la stalla attraversando il prato; Cathy entrò dalla finestra della sala da pranzo e salì lesta senza far rumore lì dove io stavo ad aspettarla. Richiuse la porta piano piano, si tolse le scarpe infangate di neve, il cappello, e, non accorgendosi della mia presenza, cominciava a togliersi il mantello, quando alzandomi d'un tratto, mi rivelai. La sorpresa la pietrificò per un istante; diede in un'esclamazione inarticolata e rimase immobile. «Mia cara signorina Cathy,» principiai ancor troppo vivamente commossa delle sue recenti gentilezze per sgridarla; «dove siete stata a cavallo a quest'ora? E perchè vorreste cercare d'ingannarmi col raccontare delle storie? Dove siete stata? Parlate.»

            «In fondo al parco,» balbettò. «Non dico una storia.»

            «E in nessun altro posto?» domandai.

            «No,» fu la risposta appena tartagliata.

            «Oh, Caterina!» gridai con dolore. «Sapete che avete fatto male, o non m'avreste detta una bugia. Questo mi addolora. Preferirei essere ammalata per tre mesi che sentirvi inventare deliberatamente una menzogna.»

            Ella si slanciò verso di me, mi gettò le braccia intorno al collo, scoppiando in lacrime. «Ebbene, Elena, ho tanta paura che tu sia adirata,» disse. «Promettimi di non adirarti, e saprai l'intera verità; mi è odioso nascondertela.»

            Ci sedemmo nel vano della finestra, l'assicurai che non l'avrei rimproverata, qualunque fosse il suo segreto, tanto lo avevo indovinato, quel segreto. Allora lei così incominciò:

            «Sono stata a Wuthering Heights e non ho mai mancato di andarvi un sol giorno da quando ti sei ammalata, a eccezione di tre volte prima che lasciassi la tua camera e due volte dopo. Ho dato a Michele libri e figure perchè mi tenesse pronta Minny ogni sera, e la riconducesse poi nella stalla; non dovrai sgridare neppure lui, bada. Ero alle Heights alle sei e mezzo, e generalmente vi rimanevo fino alle otto e mezzo, e poi galoppavo a casa. Non era per divertirmi che ci andavo: ero spesso triste durante tutto il tempo: solo ogni tanto sono stata felice, una volta alla settimana. Dapprima credevo non mi sarebbe stato facile persuaderti a lasciarmi mantenere la parola data a Linton, poichè nel venir via gli avevo promesso di ritornare il giorno seguente; ma, essendoti ammalata proprio l'indomani, quella pena mi è stata risparmiata. Nel pomeriggio, mentre Michele stava aggiustando la serratura al cancello del parco, mi sono impadronita della chiave, e gli ho detto che mio cugino era ammalato e desiderava che andassi io da lui, dato che non era in grado di venire a Grange, ma che il papà si sarebbe opposto a questa mia visita, e ho patteggiato con lui per avere il pony. Michele ama molto leggere, e credo anche che lascerà presto questo posto per sposarsi, così si è offerto di fare tutto quello che volessi purchè gli prestassi qualche libro della biblioteca, io però ho preferito dargli dei miei e lui ne è stato ancor piu soddisfatto...

            Alla mia seconda visita Linton sembrò di umore gaio; e Zillah (è la loro governante) riordinò la stanza e fece un gran fuoco, e ci disse che Giuseppe era andato a un convegno religioso e Hareton Earnshaw era fuori con i cani, a depredare i nostri boschi dei fagiani, come seppi più tardi, e quindi potevamo fare quel che volevamo. Mi portò del vino caldo e del pane di zenzero; si dimostrava molto buona; Linton sedette in una poltrona, e io nella seggiolina a dondolo sulla pietra del focolare, e insieme ridemmo e conversammo allegramente trovando tanto da dirci; e facemmo dei piani per l'estate, ma è inutile che ti ripeta questo perchè a te sembrerebbero cose sciocche. Ma una volta, tuttavia, stavamo quasi per bisticciare. Egli diceva che il modo più piacevole di passare una calda giornata di luglio, era di stare sdraiati da mattina a sera, su di una ripa d'erica in mezzo alla landa, con le api che ronzano intorno come in sogno tra i fiori, e le allodole che cantano in alto sopra il capo e il cielo azzurro e il più bel sole che brilli costantemente senza una nube. Questa era la sua idea di una felicità paradisiaca; la mia era di cullarmi tra le verdi fronde fruscianti di un albero, quando soffia il vento d'occidente, con le bianche nubi luminose che veleggiano rapidamente in alto; e non udire soltanto il trillo delle allodole, ma il festoso coro dei tordi dei merli, dei fringuelli e dei cuculi con, lontano, le colline interrotte da fresche vallette ombrose, ove l'erba cresce rigogliosa, ondeggiante alla brezza, e boschi, e acque risonanti, e tutto il mondo alacre e pieno di gioia intorno. Egli desiderava che ogni cosa fosse circonfusa in un'aureola di pace, io invece che tutto splendesse e danzasse in un giubilo glorioso. Gli dissi che il suo sarebbe stato un paradiso soltanto a metà, ed egli disse che il mio sarebbe stato frenesia; io dissi che nel suo mi sarei addormentata, ed egli che non avrebbe potuto respirare nel mio, e cominciò a diventare stizzoso. Alla fine convenimmo di provarli tutt'e due non appena fosse venuta la buona stagione, e allora ci baciammo e rimanemmo amici.

            Dopo essermene rimasta lì seduta, tranquilla, per una ora, mi guardai intorno in quella vasta stanza dal pavimento nudo, senza tappeti, e pensai come sarebbe stato divertente giocarci se avessimo tolta la tavola e pregai Linton di chiamare Zillah ad aiutarci, e avremmo così giocato a «mosca cieca», lei avrebbe cercato di prenderci, come tu solevi fare, lo sai, Elena. Lui non volle; non era divertente disse; ma acconsentì a giocare con me alla palla. Ne trovammo due in un armadio, tra un mucchio di vecchi giocattoli, trottole, cerchi, racchette, e volani. Una era marcata con un C; e l'altra con H; io desiderai avere quella con C, perchè era l'iniziale del mio nome, mentre quella con l'H poteva indicare Heathcliff, il nome suo; ma dalla palla uscì della crusca, e a Linton non piacque più. Io lo vincevo continuamente ed egli s'imbronciò di nuovo, tossì e ritornò alla sua sedia. Quella sera, però, ridiventò presto di buon umore; due o tre graziose canzoni lo deliziarono, le tue canzoni, Elena, e, quando fui costretta a venirmene via, mi pregò, anzi, mi supplicò di ritornare la sera dopo e io glielo promisi. Minny ed io volammo a casa, leggere come l'aria, e io sognai di Wuthering Heights, e del mio dolce, caro cuginetto fino al mattino.

            L'indomani ero triste; in parte perchè tu non stavi bene e in parte perchè desideravo che il papà venisse a conoscenza delle mie escursioni, e le approvasse; ma, dopo l'ora del tè, c'era un incantevole chiaro di luna, e, mentre cavalcavo, la mia tristezza sparì. Avrò un'altra sera lieta, pensavo tra me, e quel che mi fa ancor più piacere, l'avrà anche il mio grazioso Linton. Attraversai il giardino, e stavo per svoltare dalla parte rustica della casa, quando Earnshaw mi venne incontro, mi prese le briglie, e m'indicò di passare per l'entrata principale. Accarezzò il collo di Minny e disse che era «una bella bestiola» e sembrava desideroso che io gli parlassi.

            Io gli dissi: «Non toccate il mio cavallo se non volete riceverne qualche calcio.»

            Rispose in quel suo accento volgare: «In tal caso non mi farebbe un gran male», e gli esaminò le gambe, sorridendo. Avevo quasi voglia che gliene tirasse davvero uno, ma Hareton si mosse per aprire la porta e, mentre alzava il saliscendi, guardò all'iscrizione che sta sopra, e disse stupidamente con un misto di goffaggine e di orgoglio:

            «Signorina Caterina! ora so leggere.»

            «Che meraviglia!» esclamai. «Bene, lasciami sentire, da' prova della tua intelligenza!»

            Compitò stentatamente, sillaba per sillaba, il nome «Hareton Earnshaw».

            «E i numeri?» gli gridai, incoraggiandolo, visto che si era arrestato di colpo.

            «Non li so ancora,» rispose.

            «Oh, scioccone!» dissi, ridendo di cuore del suo insuccesso.

            Quello scemo, mi guardò con occhi sbarrati, le labbra atteggiate a un sorriso ebete, e con un cipiglio sempre più cupo, non sapendo se unirsi alla mia allegria, o ritenerla un atto di sprezzo. Posi fine ai suoi dubbi, ricuperando subito la mia solennità, e ordinandogli di andarsene perchè ero venuta a trovar Linton e non lui. Egli arrossì, me ne avvidi al chiaro di luna, lasciò cadere la mano dal saliscendi, e se n'andò: l'immagine dell'orgoglio offeso. Si credeva non meno colto di Linton, suppongo, perchè sapeva compitare il suo nome; e fu mirabilmente sconfitto perchè io non la pensavo come lui.

            «Fermatevi, cara signorina!» l'interruppi. «Io non vi sgriderò ma la vostra condotta qui non mi piace affatto. Se vi foste ricordata che Hareton è vostro cugino come lo è Linton, avreste sentito quanto fosse biasimevole comportarvi in un simile modo. Se non altro, il suo desiderlo d'essere colto quanto Linton era un'ambizione degna di lode, e probabilmente non avrà imparato solo per far bella mostra del suo sapere; voi l'avevate reso prima vergognoso della sua ignoranza, ne sono certa, e lui avrà voluto rimediare a questo, entrare nelle vostre buone grazie. Deridere il suo imperfetto tentativo è stato un segno di cattivissima educazione da parte vostra. Se voi foste stata allevata in condizioni pari alle sue, sareste meno rozza? Da bambino, era sveglio e intelligente come potete esserlo stata voi, e io sono addolorata che ora lui sia disprezzato perchè quel vile di un Heathcliff l'ha trattato tanto ingiustamente.»

            «Ebbene, Elena, non piangerai per questo vero?» esclamò, sorpresa della mia serietà. «Ma aspetta, e sentirai se ha imparato il suo A B C per piacere a me, e se potesse valere la pena di essere gentile con quel bruto. Entrai, Linton sedeva sulla panca, e s'alzò per salutarmi...»

            «Stasera sono ammalato, Caterina, amore,» disse «e dovrai parlare soltanto tu, e lasciare che ti ascolti. Vieni e siediti vicino a me. Ero sicuro che non avresti mancato alla tua parola, e ti farò promettere di tornare prima che te ne vada.»

            Sapevo di non doverlo contrariare, perchè era ammalato, e gli parlai dolcemente senza fargli domande, mi guardai bene dall'irritarlo in qualsiasi maniera. Gli avevo portato qualcuno dei miei libri più belli, e mi aveva chiesto di leggergli un po', io stavo per soddisfare il suo desiderio, quando Earnshaw spalancò l'uscio. Aveva meditato, e gli era rimasto del veleno in cuore. Avanzò verso noi, afferrò Linton per il braccio, e lo gettò giù dal sedile.

            «Vattene nella tua stanza!» disse con voce quasi inarticolata per la passione, e il suo volto appariva gonfio e furioso. «Portatela là, se viene a trovar te solo; non mi obbligherete a star fuori di qui. Andatevene tutt'e due!»

            Inveì contro di noi, non lasciando a Linton nemmeno il tempo di rispondergli e quasi scaraventandolo in cucina; serrava i pugni, mentre io seguivo il mio amico, evidentemente desideroso di picchiarmi. Per un momento ebbi paura e lasciai cadere un volume; egli me lo lanciò dietro con un calcio, e ci chiuse fuori. Sentii una risata maligna, secca, presso il fuoco, e, girandomi, vidi quell'odioso Giuseppe fregarsi le mani ossute e tremanti.

            «Ero sicuro che vi avrebbe dato una lezione! È un gran ragazzo, quello! Ha lo spirito del giusto! Lui sa, eh si, sa, come lo so io, chi dovrebbe essere il padrone quaggiù! Ech, ech, ech! Vi ha fatti filare a modo! Ech, ech, ech!»

            «Dove dobbiamo andare?» domandai a mio cugino, non curandomi dello scherno di quel miserabile vecchio.

            Linton era pallido e tremava. Non era bello, allora, Elena; oh no! aveva un aspetto terrificante perchè quel suo volto scarno e quei suoi grandi occhi avevano una espressione di frenetica, impotente ira. Afferrò la maniglia della porta e la scosse: era chiusa dal di dentro.

            «Se non mi lasci entrare ti ucciderò! se non mi lasci entrare ti ucciderò!» gridò più che non disse. «Demonio! demonio! ti ucciderò... ti ucciderò!»

            Giuseppe fece sentire ancora il suo riso gutturale.

            «Ecco tale e quale il padre!» gridò. «Tale e quale il padre! In noi c'è sempre qualcosa dei nostri genitori. Non badargli, Hareton, ragazzo, non aver paura, non può arrivare a te!»

            Io afferrai le mani di Linton e cercai di toglierlo di là, ma egli gridò così orribilmente che non ebbi il coraggio di insistere. Alla fine le sue grida furono soffocate da un terribile accesso di tosse; sangue gli sgorgò dalla bocca e cadde a terra. Io corsi in cortile, venendo meno dal terrore, e chiamai Zillah, con quanto fiato avevo in gola. Mi udì subito: stava mungendo le vacche in una stalla dietro al granaio e, lasciata a metà quell'incombenza, si precipitò a domandare che cosa occorresse. Non avevo fiato per risponderle; la trascinai in casa, mi guardai intorno per cercare Linton. Earnshaw era uscito per vedere il male che aveva causato, e proprio in quel mentre stava trasportando di sopra quel povero essere. Zillah e io salimmo dietro a lui, ma egli mi fermò in cima ai gradini, e mi disse che non dovevo entrare, e di ritornare a casa. Gridai che egli aveva ucciso Linton e che volevo entrare. Giuseppe chiuse la porta a chiave e dichiarò che non avrei fatto simile bambinata, e mi domandò se fossi pazza anch'io. Rimasi là a piangere finchè non riapparve la governante. Mi assicurò che Linton stava per rimettersi ma che non poteva sentirmi piangere, e mi portò quasi di peso in «casa».

            Elena, mi sarei strappata i capelli! singhiozzai e piansi tanto che i miei occhi ne furono quasi accecati, e quel selvaggio per cui tu hai tanta simpatia, mi era lì davanti e credeva ogni tanto di potersi imporre con un sst! e negava che l'accaduto fosse colpa sua; e, finalmente, spaventato all'idea che avrei raccontato ogni cosa al padre di Linton, e che lui sarebbe stato messo in prigione e impiccato, cominciò a piagnucolare, e corse fuori per nascondere la sua vile agitazione. Ma non mi ero ancora liberata da lui, quando mi costrinsero a partire. Mi ero allontanata un cento braccia all'incirca dalle terre della fattoria, e lui a un tratto uscì dall'ombra della strada maestra, arrestò Minny, e mi prese per un braccio.

            «Signorina Caterina, sono molto addolorato,» cominciò, «ma è veramente troppo...»

            Gli diedi una sferzata con la mia frusta, pensando che forse voleva uccidermi. Mi lasciò libera, urlando una delle sue terribili bestemmie, e io galoppai verso casa quasi fuori di me.

            Non vi diedi la buona notte quella sera, e non mi recai a Wuthering Heights, la sera successiva; desideravo moltissimo di andarci, ma ero stranamente eccitata; un momento temevo di sentire che Linton era morto, e un altro momento tremavo al pensiero di incontrare Hareton. Al terzo giorno mi feci coraggio: o almeno, non potei sopportare di rimanere più a lungo con l'animo sospeso e fuggii un'altra volta. Andai alle cinque, e a piedi, sperando di poter riuscire a penetrare in casa e nella camera di Linton inosservata. Ma i cani abbaiarono. Zillah mi ricevette, dicendomi che il ragazzo stava rimettendosi benino; mi fece entrare in una piccola stanza ben ordinata e con i tappeti in terra, dove con mia inesprimibile gioia vidi Linton sdraiato su un piccolo divano, intento a leggere uno dei miei libri. Ma per tutta un'ora lui nè mi parlò nè mi guardò, ha un carattere così disgraziato, Elena! E quel che mi sorprese fu che, quando alla fine aprì bocca lo fece per affermare che ero stata io a sollevare tutto quel baccano, e che Hareton non doveva essere biasimato. Tacqui per non rispondere furiosamente, mi alzai e uscii dalla stanza. Mi richiamò con un debole. «Caterina!». Egli non si era aspettato una simile mia reazione; ma io non mi girai e l'indomani rimasi a casa, quasi decisa a non andar più a trovarlo. Ma era così triste coricarmi e alzarmi senza avere sue notizie, così la mia risoluzione svanì prima ancora che io l'avessi formata a dovere. Se mi era sembrato un male fare quel viaggio una volta, ora mi sembrava male non farlo. Michele venne a chiedermi se dovesse preparare la sella di Minny, e io dissi di sì, e, mentre il pony mi portava attraverso le colline, pensavo che adempivo un dovere. Fui costretta a passare davanti alle finestre della facciata, per giungere al cortile, sarebbe stato inutile cercare di nascondere la mia presenza.

            «Il padroncino è nella "casa",» disse Zillah, quando mi vide dirigermi verso il salotto. Entrai, c'era anche Earnshaw, ma lasciò immediatamente la stanza. Linton sedeva nella grande poltrona, mezzo addormentato; avvicinandomi al fuoco, cominciai, con un tono volutamente serio:

            «Poichè non ti piaccio, Linton, e poichè pensi che venga appositamente per farti soffrire, e sostieni che è così ogni volta, questo sarà il nostro ultimo convegno: diciamoci addio, e informa il signor Heathcliff che non desideri vedermi, e che non deve inventare altre falsità in proposito.»

            «Siediti e togliti il cappello, Caterina,» rispose. «Tu sei tanto più felice di me, dovresti essere migliore. Il papà parla abbastanza dei miei difetti, e mostra abbastanza disprezzo nei miei riguardi perchè mi sia naturale dubitare di me stesso. Temo di essere davvero un buono a nulla, come mi chiama tante volte lui, e allora mi sento così di cattivo umore e così amaro che odio tutti! Sono abietto, e ho un pessimo carattere, sono quasi sempre di cattivo umore; e, se lo desideri, puoi dirmi addio; ti libererai di una noia. Soltanto, Caterina, dammi ragione in questo: credi che, se potessi essere dolce, gentile e buono come lo sei tu, vorrei esserlo; mi piacerebbe ancor di più che godere perfetta salute! E, credi, che la tua gentilezza ha fatto sì che ti amassi più profondamente che se mi fossi meritato il tuo amore, e, benchè non abbia potuto e non possa far a meno di mostrarti qual è la mia indole, ne ho rammarico e me ne pento, e sarà così finchè non morirò!»

            Sentii che diceva la verità e che dovevo perdonargli e che, anche se avessimo litigato ancora, l'istante dopo avrei dovuto perdonargli di nuovo. Ci riconciliammo, ma piangemmo ambedue, per tutto il tempo che io rimasi non di solo dolore: però io ero spiacente che Linton avesse una natura così ingrata. Non lascerà mai che i suoi amici siano in pace e non sarà mai in pace lui stesso! Da quella sera sono sempre andata nel suo salottino, perchè il padre ritornò il giorno dopo.

            Tre volte all'incirca siamo stati allegri e pieni di speranze come lo fummo la prima sera; le altre mie visite sono state malinconiche e turbate, ora a cagione del suo egoismo e del suo orgoglio, e ora a cagione delle sue sofferenze, ma ho imparato a sopportare i primi quasi con lo stesso animo con cui sopportavo le altre. Il signor Heathcliff mi evita di proposito; non l'ho quasi mai veduto. La scorsa domenica, per dire il vero, essendo arrivata un po' più presto del consueto, l'ho sentito rimproverare crudelmente il povero Linton per la sua condotta della sera precedente. Non potrei dire come l'abbia saputo a meno che stia ad ascoltare; Linton si era comportato certamente in modo provocatorio, tuttavia non erano cose che riguardassero gli altri all'infuori di me, e io ho interrotto la sgridata del signor Heathcliff, entrando e dicendogli appunto quello che ne pensavo. È scoppiato a ridere e se n'è andato dicendo che era contento che prendessi le cose da questo punto di vista. Da allora, ho pregato Linton di dire sottovoce le sue sgarberie. Ora, Elena, sai tutto. Non mi si può impedire di andare a Wuthering Heights, senza affliggere due persone; mentre tacendolo al papà, questo non può disturbare la tranquillità di nessuno. Non glielo dirai, non è vero? Saresti senza cuore se glielo dicessi.

            «Per domani avrò presa la mia decisione a tal proposito, signorina Caterina,» le risposi. «Richiede un certo studio, così vi lascio andare a letto, e io me ne vado a meditare un po'.»

            Feci le mie riflessioni a voce alta, in presenza del padrone, andando dritta dalla camera di lei alla sua, e raccontandogli l'intera storia, a eccezione dei discorsi con suo cugino, e senza affatto nominare Hareton. Il signor Linton si allarmò e ne restò molto addolorato, più di quanto non mi lasciasse scorgere. Il mattino, Caterina seppe che non avevo tenuto la parola data, e seppe anche che le sue visite segrete dovevano finire. Invano pianse, e si disperò contro quell'interdizione, e implorò suo padre di avere compassione di Linton; la sola cosa che la confortò fu la promessa che lui stesso avrebbe scritto al nipote dandogli il permesso di venire a Grange tutte le volte che lo desiderasse, ma anche per spiegargli che non doveva più aspettarsi di vedere Caterina a Wuthering Heights. Forse, se avesse conosciuto bene di che pasta fosse suo nipote, avrebbe trovato necessario non concedere nemmeno quella lieve consolazione.

           

 

XXV    (torna all'indice)

           

 

           

            «Queste cose accaddero l'inverno scorso, signore,» disse la signora Dean; «appena poco più di un anno fa. Lo scorso inverno non mi sarei mai immaginata che alla fine di altri dodici mesi mi sarei trovata a intrattenere un estraneo alla famiglia, con un racconto simile! Ma, chissà se rimarrete a lungo estraneo. Siete troppo giovane per essere sempre contento di vivere solo; e io non so immaginare che si possa vedere Caterina Linton senza innamorarsene. Voi sorridete, ma perchè vi animate e v'interessate tanto quando parlo di lei? e perchè mi avete chiesto di appendere il suo ritratto sopra il vostro camino? e perchè...»

            «Fermatevi, mia buona amica!» gridai. «Potrebbe essere molto probabile che io l'amassi già, ma lei mi ricambierebbe? Ne dubito troppo per compromettere la mia tranquillità anche con un semplice tentativo; d'altronde, il mio vero domicilio non è qui. Io appartengo al mondo degli affari, e devo ritornarvi. Continuate. E Caterina ha rispettato la volontà del padre?»

            «Si, l'ha rispettata,» proseguì la governante. «L'affetto per lui era ancora il più profondo sentimento del suo cuore, e lui le aveva parlato senz'ombra di rimprovero; le aveva parlato con la grande tenerezza di chi sta per lasciare il proprio tesoro tra pericoli e tra nemici, e può lasciare come unico aiuto, come guida solo qualche parola da non dimenticare...»

            Giorni dopo il signor Linton mi disse:

            «Elena, desidererei che mio nipote scrivesse, o venisse. Dimmi sinceramente che cosa pensi di lui. Ha migliorato o c'è comunque speranza che migliori, crescendo?»

            «È molto delicato, signore,» risposi, «ed è poco probabile che raggiunga la virilità; ma posso dir questo, non somiglia al padre, e, se la signorina Caterina avesse la sfortuna di sposarlo, le sarebbe sottomesso, a meno che lei non fosse estremamente e scioccamente indulgente. A ogni modo, padrone, avrete tutto il tempo per conoscere e giudicare se sia adatto per lei; mancano ancora più di quattro anni prima che raggiunga la maggiore età,»

            Il signor Edgardo sospirò; e, andando alla finestra, guardò verso la chiesetta di Gimmerton. Era un pomeriggio nebbioso, ma al sole di febbraio, benchè velato, si potevano distinguere i due abeti del cimitero e le poche pietre mortuarie sparpagliate qua e là.

            «Ho pregato spesso per l'avvicinarsi di quanto sta per accadere, e ora comincio a sfuggirlo, e a temerlo. Pensavo che il ricordo dell'ora in cui, sposo, scesi da quella valle, sarebbe stato meno dolce del presentimento di essere, tra non molto, fra qualche mese, forse, tra qualche settimana trasportato lassù, e posto a giacere in quella solitaria conca! Elena, sono stato molto felice con la mia piccola Cathy; durante le notti invernali e i giorni d'estate è stata sempre una speranza viva al mio fianco. Ma non sono stato meno felice, meditando, solo, tra quelle pietre, sotto la vecchia chiesa: nelle lunghe sere di giugno, steso sulla tomba verde di sua madre, e desiderando, anelando al tempo in cui mi sarebbe dato di giacere accanto a lei. Che cosa posso fare per Caterina? Come potrò abbandonarla? Non m'importerebbe minimamente che Linton fosse figlio di Heathcliff, nè che lui me la portasse via se lo sapessi capace di consolarla della mia perdita. E neppure, a tal patto, m'importerebbe che Heathcliff riuscisse nelle sue mire e trionfasse nel rubarmi la mia unica benedizione! Ma, se Linton ne fosse indegno, debole strumento nelle mani di suo padre, oh! allora come abbandonargliela! E per quanto duro sia opprimere il suo spirito lieto, devo perseverare nel renderla triste sinchè vivo, e lasciarla sola quando muoio. Cara! Vorrei piuttosto offrirla a Dio e metterla sotto terra prima di me.»

            «Lasciatela nelle mani di Dio come lo è ora,» risposi io, «e, se noi dovessimo perder voi, e voglia Iddio nella sua bontà impedirlo, resterò la sua amica e tutrice fino alla fine. La signorina Caterina è una buona ragazza, non temo che possa volgersi al male di sua propria volontà, e chi fa il proprio dovere, alla fine, è sempre ricompensato.»

            Venne la primavera: ma il mio padrone non riacquistava ancora le forze; sebbene avesse ripreso le sue passeggiate nei poderi con la figlia. Questo a Cathy, nella sua inesperienza, poteva anche sembrare un segno di miglioramento, per di più lo vedeva spesso con le guance accese, gli occhi lucenti, così si riteneva sicura della guarigione. In occasione del diciassettesimo compleanno di lei, il padrone non si recò al cimitero; pioveva, e fui io a dirgli:

            «Certamente non uscirete stasera, signore?»

            Rispose:

            «No, quest'anno differirò la mia visita di qualche poco.»

            Scrisse di nuovo a Linton, per esprimergli il suo grande desiderio di vederlo; e, se l'invalido fosse stato in condizioni di salute possibili, sono certa che il padre gli avrebbe permesso di venire. Ma, come stavano le cose, mandò una lettera per dire che il signor Heathcliff si opponeva a una sua visita a Grange, tuttavia il gentile ricordo dello zio lo rallegrava, e sperava di poterlo qualche volta incontrare nelle sue passeggiate, e di supplicarlo personalmente perchè sua cugina e lui non rimanessero a lungo completamente divisi.

            Questa parte della lettera era semplice e probabilmente sua. Heathcliff sapeva il figlio capace di molta eloquenza per ottenere la compagnia di Caterina.

            «Non domando,» diceva, «che ella possa venire a trovarmi qui, ma dovrò io non vederla mai perchè mio padre mi proibisce di andare a casa sua, e voi le proibite di venire alla mia? Fate ogni tanto una passeggiata a cavallo con lei verso le «Cime»; e permetteteci di scambiare qualche parola in vostra presenza! Noi non abbiamo fatto nulla per meritare questa separazione, voi ne convenite, voi non me ne volete, e non avete motivo per non avermi nelle vostre buone grazie. Caro zio! domani mandatemi un biglietto gentile e il permesso di raggiungervi ovunque voi desideriate, fatta eccezione di Thrushcross Grange. Credo che in un colloquio con me vi persuaderete che il carattere di mio padre non è il mio; lui afferma che io sono più vostro nipote che suo figlio, e, sebbene io abbia difetti che mi rendono indegno di Caterina, ella me li ha perdonati, e per amor suo, perdonatemeli dunque anche voi. Mi domandate della mia salute, va meglio; ma, finchè rimango privato d'ogni speranza, e condannato alla solitudine o alla compagnia di persone che non mi hanno mai amato e non mi ameranno mai, come potrei esser lieto e star bene?»

            Edgardo, benchè provasse compassione del ragazzo, non diede il suo consenso perchè non era in grado di accompagnare Caterina. Forse in estate, disse, avrebbero potuto incontrarsi; nel frattempo desiderava che il nipote continuasse pure a scrivere, di tanto in tanto, e gli promise di dargli per lettera quei consigli e quel conforto che lui pensava di potergli dare sapendo, purtroppo, quanto fosse dura la sua condizione in famiglia. Linton si arrese; e, se fosse stato libero, probabilmente avrebbe guastato ogni cosa, riempiendo le sue lettere di lagnanze e di lamenti, ma suo padre vegliava assiduamente e voleva sempre leggere quanto gli scriveva il mio padrone; così, invece di parlare delle sue sofferenze e angosce personali, primo e unico pensiero della sua mente, Linton si ostinava sulla crudele ingiunzione che l'obbligava a star separato dalla sua amica e dal suo amore, e faceva gentilmente capire come il padrone dovesse permettere presto un incontro o altrimenti lui sarebbe stato indotto a credere di essere vittima di un deliberato inganno, di promesse illusorie.

            Cathy era, da parte sua, una potente alleata, e tra loro due riuscirono alla fine a persuadere il mio padrone a conceder loro di trovarsi una volta la settimana all'incirca, per compiere insieme un'escursione a piedi o a cavallo sotto la mia tutela, sulle colline più vicine a Grange: si era già al mese di giugno e il padre di Cathy declinava sempre più. Benchè avesse pensato a mettere annualmente da parte per la mia padroncina una quota della propria rendita, aveva un desiderio, naturale del resto, che lei potesse tenere per sè la casa degli antenati, o ritornarci tra breve, e questo non le sarebbe stato possibile se non sposando Linton; egli non aveva la minima idea che quest'ultimo stesse deperendo non meno rapidamente di lui; come nessun altro lo pensava; i dottori alle Heights non ci arrivavano, e nessuno di quelli che vedevano il giovane Heathcliff venne a riferirci mai nulla delle condizioni in cui versava. Io pure cominciai a pensare che i miei presentimenti fossero sbagliati e che lui doveva realmente essersi irrobustito poichè parlava di passeggiate o cavalcate sulle colline e sembrava ben deciso a conseguire il proprio intento. Non potevo di certo figurarmi un padre che trattasse il figlio morente con la tirannia e la malvagità con le quali poi seppi che Heathcliff aveva trattato il figlio per indurlo a dimostrare tanto sentimento per Caterina, ma la morte già minava i piani di quell'uomo avaro e senza cuore.

           

 

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