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La Corsara
CATEGORIA | bicicletta da uomo da città, ruote da 28”, telaio in alluminio |
MARCA | Atala |
VELOCITÀ | 18 |
COLORE | telaio nero, parafanghi e carter cromati |
DOTAZIONE | faro anteriore, portapacchi, cavalletto |
Fu un lutto, nella primavera del ’90, constatare che il tubo della sella ormai fuoriusciva per intero, e anche il manubrio, benché fosse alzato al massimo, risultava troppo basso. Dopo tre stagioni di glorioso servizio, la Diavolessa si era irrimediabilmente ristretta!
Solo mio fratello, che senza vergogna le faceva la posta, esultò senza capire lo strazio dell’abbandono né la vertigine che provavo nel ritrovarmi a rasentare il metro e sessantacinque, ormai esposto a scelte senza ritorno. Giunto sulla soglia dei sedici anni a forza di pedalate, specchietti dei verbi greci e abluzioni al Topexan, ero finalmente pronto per la mia prima bicicletta da grandi!
Ero stato io, quel bimbetto impacciato che montava in sella solo se poteva affidarsi alle rotelle stabilizzatrici? E il pisquano che aveva preso il volo al cospetto del leone Reno? A giudicare dalle foto nell’album di famiglia ero proprio io, il Fuoriclasse Emergente del Pedale. Adesso, invece, bastava una settimana di campeggio per farti ritrovare dei timidi baffi da cinese, un accenno di pizzetto sul mento e un’ombra promettente di basette. E una vicina di tenda carina era più che sufficiente per ribaltare le prospettive della vacanza (se si rifiutava di fidanzarsi, potevi sempre spendere la domanda di riserva: «Ti piacerebbe diventare amici di penna?»). Tutte cose che il nuovo possessore della Diavolessa non poteva capire, e che i nostri genitori – se mai le avevano sapute – dovevano avere dimenticato.
A quell’età i miei non potevano che apparire impermeabili a tutti gli stimoli che mi arrivavano in dono dal mondo esterno, a cominciare dalle rivelazioni contenute nei libri che correvano di mano in mano fra amici, nei film che la televisione non mostrava quasi mai e negli inni registrati su musicassetta che ci davano forza e consapevolezza. Il giorno in cui sperimentai il mio primo taglio alla moicana, erano già parecchie le scoperte che mi allontanavano da Babbo e Mamma. Ormai la familiarità completa aveva lasciato spazio a un lieve ritegno reciproco, e c’erano sempre più cose del loro figliolo Fuoriclasse che non sapevano. (D’accordo: insieme a un amico del quale preferisco proteggere l’identità, un pomeriggio arrostimmo filamenti di banana per poi fumarli. Ma, gente, chi non ci ha mai provato?)
L’ho già detto che ero sulla soglia dei sedici anni?
E che la mountain bike mi sembrava l’anello di congiunzione fra il mondo conservatore del ciclismo su strada e l’iconoclasta sottocultura del rock alternativo?
Il Rampichino originale, prodotto dalla milanese Cinelli sin dal 1985, era stata la novità più prorompente e imitata degli ultimi anni, tanto che il suo nome, persa la maiuscola, si era fatto sinonimo nella nostra lingua di “mountain bike”.
I nuovi veicoli erano di concezione americana, ma sembravano agli antipodi della BMX, buona solo per fare acrobazie sul posto. Il concetto che riprendevano era piuttosto quello della Leopard e della Furia, le nostre antiche cavalcature da cross a sella lunga: la bici era fatta per vivere all’aria aperta, perciò doveva viaggiare sui sentieri dirupati come sull’asfalto di città. A differenza delle vecchie “americane”, però, i rampichini avevano un telaio adatto a coprire lunghe distanze e un cambio giapponese a diciotto velocità, degno delle migliori bici da corsa, che li rendeva oltremodo brillanti in salita.
Quando la pendenza si faceva impegnativa, da che mondo era mondo il ciclista si era levato in piedi sui pedali, riducendo i punti d’appoggio a mani e piedi. Sulle mountain bike, invece, si poteva restare seduti anche quando la strada impennava. Gli esperti attribuivano il miracolo al prodigioso cambio giapponese di un certo dottor Shimano che, sui rapporti più morbidi, permetteva di pedalare a un ritmo frenetico, lasciando il veicolo incollato alla strada.
Il guaio era che le biciclette da montagna costavano l’iradiddio rispetto alle altre, così da escluderle a priori dalla categoria dei modelli di uso quotidiano. Era un vero peccato, ché segretamente si facevano le bave davanti alle vetrine che esponevano i modelli più competitivi – macchine californiane dai grossi tubi e i pedali ramponati, irriverenti negli accostamenti cromatici fra telaio, manopole e sella. Di tanto in tanto vedevi un fortunato ventenne che ne cavalcava una, carica di adesivi e graffiti come uno skateboard, e sentivi le gambe farsi molli per l’invidia.
«A te serve un modello versatile» stabilì Babbo quando fu chiaro che abbisognavo di una bici nuova.
«Purché sia un mezzo adatto in collina» spesi le mie carte, arricciando in maniera insopportabile i tre peli che mi adornavano il mento.
«Non da spenderci dietro una fortuna» calò la briscola Mamma, e suggerì: «Qualcosa di simile a quella che hai adesso andrebbe benissimo.»
Così era quella, la base d’asta. «Ma ha solo tre velocità! Adesso ne hanno tutte diciotto» li aggiornai. «Perfino le city bike da sfighé!»
Mia madre mi guardò incredula. «City bike» ripeté. «Ecco cosa ti serve.»
La situazione rischiava di precipitare, così tentai di forzare l’assedio con una mossa subdola. «Peccato» sospirai, assumendo un’espressione a metà fra il ragazzo pensoso della Dead Poets Society e il cucciolo di cocker. «Mi risulta che zio Walter si diverta come un matto, col suo rampichino.»
«Non mi risulta che Walter abbia mai avuto nessuno da mantenere!» ruggì Babbo. «Se butta i soldi dalla finestra, sono affari suoi.»
Addio, rampichino: violare il tabù della frugalità ti fu fatale!
Nel mio destino c’era un’Atala nera, in apparenza il classico modello maschile da città, che nascondeva però un’anima corsara. Grazie a un cambio (non giapponese) a diciotto velocità, governato da due leve poste in testa al tubo obliquo, approcciava le salite con maggiore agilità rispetto alla Diavolessa. In pianura, poi, le ruote da ventotto pollici si gemellavano ai miei polpacci per un nuovo genere di volata: il telaio della Corsara andava lanciato da lontano, ergendosi sui pedali finché non sentivi la bici farsi leggerissima. Era il momento di accomodarsi in sella, pedalando a tutta per mantenere il ritmo, e se riuscivi a spingerla al massimo, quella ti ringraziava mangiando la strada come ci volasse sopra.
Avevo a disposizione un mezzo in grado di darmi nuove soddisfazioni e un mondo intero da conoscere (a patto di rientrare per le dieci), e ancora sorrido al ricordo di come assieme agli amici, ebbri d’ingratitudine e di velocità, strapazzassimo le nostre nobili cavalcature in sciocche competizioni da suburra.
Oggi che sono tornate di gran moda le corse urbane sulle bici a scatto fisso, forse agli occhi di qualcuno apparirebbero deliziosamente vintage le immagini delle gare improvvisate per le vie del quartiere, contestualizzate dalle felpe a grandi campiture segnaletiche e dai primi camicioni grunge.
E poi, ci dilettavamo nel surf. Surf ciclistico, ovviamente.
Con la speranza di non tediare chi già conosce la disciplina, ne riassumo qui lo spirito: due ciclisti pedalano appaiati, mentre il terzo uomo, calato nel ruolo del surfista, si deve mantenere in equilibrio con i piedi sui portapacchi, arricchendo la corsa con quanti più number possibili (tratti su un piede solo, salti e inginocchiamenti).
Il trio comprendeva Ernesto Bastelli detto Erbas, il lentigginoso Giulio Mosca, che era il più leggero dei tre ma pedalava come un dannato, e il sottoscritto.
Una sera stabilimmo che si trattava di un vero e proprio sport e che, di conseguenza, le attività a venire sarebbero state coordinate dall’erigenda Federazione Italiana del Surf Ciclistico; ci piaceva il fatto che il suo acronimo suonasse come la parola inglese fish.
Fu sotto la sua egida che, abbandonate le rampe dei garage del quartiere, la nostra semovente piramide umana si trasferì per qualche sera nel centro storico. Fra via San Felice e le Due Torri mettemmo a punto numeri squisiti, prodigi di stile come il “doppio 180”, nel corso del quale il surfista saltava compiendo una mezza rotazione per atterrare sui portapacchi; per un po’ viaggiava curiosamente a chiappe avanti, quindi completava l’esercizio con un nuovo salto che lo riportava nella direzione di marcia. Gli incidenti, naturalmente, si sprecavano: nel tentativo chimerico di essere il primo surfista della storia a eseguire un “360 completo”, non trovai l’appoggio dei portapacchi e franai addosso a Erbas, trascinandolo sul pavé in un groviglio di raggi, pedivelle e membra dolenti. Poiché nessuno era rimasto mutilato, ci ricomponemmo senza esitazioni, e riprendemmo la nostra folle marcia.
Darci a tali prodezze nel cuore guelfo della nostra città bastava a farcene sentire i signori.
«Siamo della “Fisc”» si gridava a squarciagola. «Provate anche voi il surf ciclistico!»
Adesso non eravamo più invisibili, e le ragazze ci mostravano a dito, divertite tanto dai piccoli successi della nostra attività di propaganda, quanto dalla spettacolare noncuranza del nostro rovinare.
Una sera – sui portapacchi c’era Giulio Mosca – una vigilessa in bici ci intimò di farlo scendere. «Via!» gridò il lentigginoso, spronandoci perché lanciassimo la fuga, ma gli ubbidii solo io: Erbas rimase sul posto coi freni tirati e il povero Giulio cadde schiena a terra sotto gli occhi della donna.
«Zio povero!» lo sentii imprecare alle mie spalle. «Mi son fatto malissimo!»
La vigilessa voleva chiamargli a tutti i costi un’ambulanza; per evitare un ricovero coatto Mosca fuggì sul portapacchi di Erbas.
Non furono i danni alle persone, tuttavia, a determinare la messa al bando del surf ciclistico.
Il fatto era che cerchi e parafanghi non gradivano troppo quel genere di sollecitazioni, tipo salti a piè pari sul retrotreno al grido di “nichilismo!”.
E, dopo due o tre visite dal meccanico, i miei genitori misero in chiaro che non avrebbero più scucito una lira per le attività della neonata Federazione: da lì in avanti sarebbe stata mia cura pagare le riparazioni della Corsara. Oltre che un figlio ingrato, ero anche nullatenente, così mi sforzai di scordare il surf e trovare un buon motivo per tenere la bici in ordine.
(Il fatto che una soave fanciulla vivesse in collina si sarebbe rivelato, di gran lunga, il migliore nel quale potessi sperare.)
Fra amici, era ormai invalsa l’idea che lo sport professionistico fosse una esecrabile espressione del capitalismo; per avere notizie del grande ciclismo dovevo interpellare di nascosto mio fratello.
Era lui, adesso, che si occupava di seguire il Giro tappa per tappa, e sapeva esattamente dove e come Gianni Bugno aveva fregato ancora una volta il Diablo Chiappucci o qual era l’arma in più di Chioccioli contro il Diablo o ancora perché Fondriest aveva vinto un Mondiale, e il Diablo invece no. Erano il suo nuovo leitmotiv, le magagne del Diablo Chiappucci, e se ne crucciava come mi ero crucciato io per Moser.
Al cospetto della nuova generazione di italiani, dovevo ammettere che lo Sceriffo era stato un grandioso “passista veloce”, ma in salita non andava proprio: ecco perché aveva faticato tanto a vincere il Giro. Bugno, invece, aveva trionfato poco più che venticinquenne, per poi aggiudicarsi due maglie iridate consecutive, dimostrandosi fortissimo nelle classiche di primavera come nelle grandi corse estive. Se aveva un limite, doveva essere iscritto nei geni del carattere: nessuno l’aveva mai visto sorridere. Anche l’estroso Chiappucci, con tutto che perdeva in pianura quel che guadagnava in salita, era un talento generoso e spettacolare, ed entrambi si dimostravano capaci di duellare coi migliori del pianeta sulle strade di Francia; si trovarono di fronte prima Greg LeMond e poi l’immenso Miguel Indurain, ma risultarono comunque i primi italiani a salire sul podio del Tour dai tempi di Gimondi (e il Diablo si portò a casa anche due maglie a pois della classifica scalatori).
Moser e Saronni non ce l’avevano mai fatta, eppure in prospettiva ingigantivano, come se ai ciclisti del momento non fosse concesso raggiungerli. Ormai idealizzati, nessuno osava più mettere in risalto le modeste doti da scalatore di Moser o le difficoltà dell’ultimo Saronni nel mantenere un’accettabile forma fisica.
I posteri avrebbero glorificato allo stesso modo l’ombroso Bugno e l’indomito Chiappucci? Era probabile, ma non scontato: le biglie dei ciclisti erano state ormai rimpiazzate dai videogiochi e in televisione andavano più forte che mai gli sport americani – persino quella baracconata del wrestling. I corridori in bici, così poco esotici, avrebbero saputo mantenere il loro ruolo centrale nelle mitologie dei giovanissimi?
Quanto a me, la Corsara continuava ad apparire l’unica cavalcatura possibile, il solo mezzo in grado di ammantare l’esistenza di epica e regalare la sensazione impagabile della libertà.
Arrivare in bici agli appuntamenti con le ragazze, nel corso dei primi Novanta, non era più in auge come ai tempi di Poveri ma belli, né ancora i pedali erano tornati di moda nel segno di un’eleganza fuori dal tempo, come sarebbe accaduto nel nuovo millennio.
Lo facevamo solo noialtri peones minorenni privi di un qualsivoglia mezzo a motore, ammettiamolo, e unicamente per evitare l’onta di presentarci in autobus.
In bici, perlomeno, evitavi i tempi morti delle attese alla fermata, e potevi materializzarti ai rendez-vous come un ragazzo in grado di guadagnare ogni meta sulle proprie gambe. Gli inconvenienti, tuttavia, non mancavano: tanto per cominciare, l’ansia di arrivare imponeva un ritmo forsennato da crono, col risultato che il pavé di via Urbana s’inclinava nell’immaginazione come un muro della Liegi-Bastogne-Liegi, e l’asfalto liscio dei viali si trasformava nell’ultimo chilometro d’una fuga solitaria verso la maglia iridata. Preso da tanta foga, finivo sempre per arrivare accaldato, scosso e senza fiori ai miei appuntamenti.
Una volta, strappato un sì per un’uscita pomeridiana alla sofisticata Astrid Sparvieri di I B, ero riuscito ad annientare in anticipo ogni chance di sedurla, ché in un passaggio stretto fra una colonna di portico e un cassonetto dei rifiuti, la maledetta manica destra della camicia si era impigliata in una sporgenza del cassonetto. La Sparvieri si era imbarazzata, all’idea di andare a bere qualcosa insieme a un giovanotto che portava una camicia strappata e, cosa più grave, un paio di bermuda da skateboard a scacchi gialli e neri.
Glielo leggevi in faccia, che sentiva di meritare di più dalla vita; se non un meraviglioso ventenne alla guida di una Golf, perlomeno uno stronzetto qualsiasi col motorino.
Era così educata che aveva tollerato, muta come la sfinge, le mie disquisizioni sulla filosofia anarcopunk, sulla prof di Lettere, moderna come il Congresso di Vienna, e su Pier Vittorio Tondelli, ma senza mai smettere di controllare dietro le mie spalle che non entrasse qualcuno di noto. Tempo che bevessi un caffè e una birra piccola, l’infelice non aveva ancor toccato la sua tazza di tè verde. Quando poi avevo tentato, goffo e senza un vero perché, di baciarla, si era difesa scoppiando in lacrime.
Da lì in poi il nostro appuntamento era sprofondato nella Grande Glaciazione; verso le cinque ci eravamo inventati una scusa a testa e, sotto il portico di via Santo Stefano, lei mi aveva pregato di non raccontare a nessuno che ci eravamo baciati.
«Ma noi non ci siamo baciati» avevo fatto notare.
«Be’, tu non raccontarlo. Ho un ragazzo, al mare.»
«Sai che mi frega» avevo fatto spallucce, impermalito. Poi mi era preso un fremito che non sapevo, come se le sue parole avessero sprigionato un istinto ribaldo.
Era sospesa a mezzo braccio da me, le labbra socchiuse di meraviglia e indignazione, o forse soltanto in attesa; spettava a me, rischiare di nuovo. Le andai sotto a occhi semichiusi, e la mia bocca trovò la sua. Exultemus!
Baciavo Astrid Sparvieri e intanto mi sforzavo di assumere una postura da romantico amante in bianco e nero di Robert Doisneau.
“Chissà se quel cornuto immagina cosa stiamo facendo” mi dicevo nel mentre, spietato e felice di misurare il mio valore.
Non ero esattamente un esperto nell’arte del french kiss ma lei, in tutta onestà, era ancor più impacciata: si era adagiata contro di me, ma il suo corpo era rigido e non ricambiava il mio abbraccio; la verità è che Astrid baciava in maniera così poco focosa da farmi temere, a un bel punto, che fosse morta.
«Questo non significa proprio niente» aveva dichiarato quando era tornata a respirare. «Non so cosa mi è preso» si era affrettata ad aggiungere.
«Ti è preso che volevi farti baciare» avevo suggerito.
«Che resti fra noi» aveva specificato, a occhi bassi.
«Perché, ti vergogni? O hai paura che venga a saperlo il tuo ragazzo?»
«Non ho nessun ragazzo» aveva confessato, ed era rimasta a guardarmi come attendesse qualcosa da me.
Io, però, mi ero indispettito: se non aveva un fidanzato, il mio trionfo perdeva di valore. Mi aveva fregato! E, magari, adesso si aspettava pure che la domandassi in sposa. «Sei una bugiarda» mi era uscito di bocca, e l’adrenalina che mi abitava aveva detto il resto: «Siete tutte uguali: cercate di rendervi interessanti con le vostre fole, e di mettere noi maschi gli uni contro gli altri. Ma perché siete così sfigate?»
«Vaf-fan-cu-lo» aveva scandito la Sparvieri. Un attimo prima era pronta a diventare la mia ragazza, e adesso dovevo ripararmi dalle sue sberle. «Prendi la tua bicicletta di merda» insisteva a scacciarmi, «e vai a morire ammazzato!»
A me non dispiaque più di tanto: potevo spingermi a casa di Erbas o di Giulio Mosca, canticchiando California Über Alles, fiero del mio look d’avanguardia e pronto a sfidare in volata qualsiasi mezzo del trasporto pubblico.
Poi arrivò la soave Adelaide: il tempo si fermò per lo spazio di una primavera, e del poco che sapevo sulle ragazze non restò che la cenere.
Qualcuno ha scritto che il successo di Jack Frusciante è uscito dal gruppo si fonderebbe sulla capacità di raccontare un amore acerbo, ambientato nell’ultimissima stagione in cui i ragazzi d’Italia furono digiuni d’internet e sms. Nessuno sospettava come sarebbero cambiate le nostre vite con la messaggistica istantanea; a ripensarci oggi, sembra trascorsa un’era geologica dai tempi in cui gli appuntamenti si basavano sulla parola e, come per Giulietta e Romeo, il dolce tormento dell’attesa non poteva essere rovinato da squillini, cinguettii e domande inquisitorie via WhatsApp (“Dove 6???”).
Provare tanta gioia e paura insieme era un’esperienza abbastanza sconvolgente da sedare ogni desiderio d’indovinare il futuro: le emozioni che mi nutrivano bastavano a riempire di senso il presente.
Come un Girardengo appena più basso e rock, cercavo di alleviare le mie pene spronando la Corsara in salita, disposto a sciropparmi chilometri in piedi sui pedali pur di passare un’ora con la ragazza che mi faceva sentire vivo. Avevo l’impressione di voler bene – io che sulle Smemorande degli amici scrivevo di odiare tutti – a ogni singola creatura, foss’anche un tiglio o un usignolo, incontrata sulla strada che mi portava da lei; ascoltare la musica delle ruote che frenavano sulla ghiaia davanti a casa di Aidi era la più dolce delle vittorie, ché provavo un bisogno disperato di starle vicino.
Ero felice come non mai, e al contempo non riuscivo a darmi pace; non capivo fino in fondo perché lei esitasse e si sentisse chiamata a partire per un Paese lontano. Dal mio punto di vista, infatti, avevamo già tutto quello che serviva a due ragazzi per avviarsi insieme incontro alle grandi avventure della vita.
Ascoltavo con la morte in petto i suoi “cerca di capire”, i “mi piaci troppo per rovinare tutto” e il resto delle parole con le quali, cercando di non ferirmi, spiegava di non sentirsi pronta a essere la mia fidanzata.
Soltanto la pendenza e la velocità potevano essere rimedi adatti a quel terremoto di emozioni: al momento di rientrare a casa, la salita da grimpeur affrontata all’andata si trasformava in un fantasmagorico scivolo che percorrevo pedalando a tutta. Nutrivo la segreta speranza di veder spuntare da via San Mamolo un bus inglese a due piani, come quello della canzone degli Smiths, per risolvere quel grumo di sentimenti contraddittori in uno schianto: allora lei, avvertita delle mie condizioni, si sarebbe precipitata a tenermi la mano mentre la vita fuggiva da me, e non avrei saputo immaginare un più bel morire.
Quando partì, la speranza sopravvisse solo poche settimane, scandite da lettere chilometriche e invii di foto, disegni e musicassette. Fu lei a telefonarmi nel cuore della notte, per annunciarmi che mi voleva ancora bene, ma era tempo di imparare a vivere separati; quella chiamata mi lasciò addosso la tenebrosa certezza che aveva trovato un boyfriend americano, e tutto il sentimento che provavo girò come il vento, cambiando verso e colore alla mia esistenza.
Adesso ero avvelenato dalla sensazione di essere stato preso in giro. Non potevo ammettere che lei, prudente come si era dimostrata col sottoscritto, ora si lasciasse baciare dal primo bietolone che aveva conosciuto in Pennsylvania. Allora non era affatto casta e pura come mi aveva fatto credere! Un malriposto senso d’orgoglio mi condusse a ricambiare il male con il male: per vendicarmi di quell’umiliazione, decisi di corteggiare la sua migliore amica. Quella s’insospettì delle improvvise attenzioni, ma alla fine cedette alle mie maldestre avances: mi feci beffe di lei, né più né meno, solo per dimostrare al mondo che non m’importava più di Adelaide.
Il ragazzo innocente di pochi mesi prima era morto davvero, e senza bisogno di trovare sulla propria strada un autobus a due piani.
La dolcezza si trasformò in furia, la speranza di trovare una persona con la quale condividere tutto si ribaltò nell’amara constatazione che, sissignori, alla fine ogni uomo è un’isola.
Ora che sapevo cosa significasse la sofferenza, non avevo più riguardi: mi lanciavo zigzagando senza ritegno all’attacco del muro di San Luca, certo che, un giorno molto vicino, sarei riuscito ad arrivare in cima alla salita senza poggiare il piede a terra.
Quando superai per la prima volta la terribile doppietta di tornanti delle Orfanelle, il sollievo fu di poco conto: nemmeno conquistare la più celebre salita della città bastava a spegnere quel che mi bruciava dentro.
Potevo provare a estinguere l’incendio solo grazie alla velocità, così mi gettai urlando come un kamikaze lungo il versante opposto. Stringevo il manubrio con una forza che non avevo mai sentito nelle braccia e la mia pedalata, ignara di punti morti, era un inno alla catastrofe. Lanciato a precipizio in sella alla Corsara, maledicevo le lacrime che mi bagnavano le guance e il destino bastardo dei ragazzi, che non lasciava alternative tra una perfetta estasi e la voglia di apocalisse.