CATEGORIA bicicletta da bambino da 12”, telaio pieghevole in acciaio
MARCA Atala
VELOCITÀ 1
COLORE telaio laccato bianco, parafanghi e carter in plastica arancione
DOTAZIONE portapacchi integrato al telaio, campanello

Gli uomini più importanti di tutti, a sentire gli adulti, erano Pertini, Agnelli e il papa.

Al vertice della piramide sociale di noi giovanissimi, invece, rifulgevano di gloria come vivi idoli i grandi campioni sportivi. Il nostro pantheon era occupato da personaggi quali il velocissimo Pietro Mennea, il pugile Roberto Durán, detto “Mani di Pietra”, e Niki Lauda, il pilota di Formula Uno risorto dalle fiamme come la fenice. In quel tempio pagano, i fuoriclasse della Serie A erano celebrati al pari degli assi del ciclismo, uno sport che all’epoca occupava le prime pagine dei quotidiani e le copertine del “Giornalino”.

Felice Gimondi, bergamasco dal lungo naso frangivento e i capelli fitti come le setole d’un selvatico, era il vecchio eroe del pedale italico. Il suo cognome era diventato sinonimo di “campione”, e c’era sempre, sotto i portici del quartiere, qualche spiritoso che strillava dietro ai ciclisti solitari: «Vai, Gimondi, che sei solo!».

Zio Walter, lo sportivo di casa, raccontava che l’inossidabile Felice non solo aveva vinto tre volte il Giro d’Italia, ma era riuscito a trionfare anche al Tour de France e alla Vuelta spagnola; in aggiunta, aveva collezionato successi nelle corse da un giorno più prestigiose, fra le quali un campionato del mondo.

Roba forte, insomma, ma la sua impresa più grande era da lasciare sbigottiti: in un tempo sospeso fra storia e leggenda, infatti, Gimondi aveva sconfitto una specie di diavolo prestato allo sport, il fortissimo Cannibale Merckx.

«In verità, era il figlio della regina del Belgio» mi rivelò lo zio.

«Allora era un principe» dedussi.

«Lei era una strega» mi fece rabbrividire. «Non voleva che Cannibale facesse la vita di palazzo. Lo voleva corridore.»

«Come mai?»

«Perché le piaceva tantissimo andare in bici. Così, quando lui aveva più o meno la tua età, aveva fatto un sortilegio. “Abra cadabretta, non regnerai dal trono, ma da una sella di bicicletta!”»

«Non vale!» protestai, col senso di giustizia tipico dei bimbi della scuola materna.

«Lei l’ha fatto lo stesso. E, grazie a quella magia, Cannibale è diventato velocissimo: andava ancora in triciclo, quando ha vinto la Freccia Vallone. E in prima elementare ha fatto sua la mitica Liegi-Bastogne-Liegi.»

Parlava con la noncurante competenza dell’universitario baffuto, assiduo compulsatore di “Stadio” e “Gazzetta”, così neanche per un attimo dubitai delle sue parole.

«Diventato grande» riprese Walter in tono solenne, «Cannibale Merckx non ha più perso una corsa. Dovunque si presentasse, arrivava sempre primo. Andò avanti così, per anni e anni, e il povero Gimondi, che pure era forte, al massimo poteva arrivare secondo.»

«Sorbole, però! Col sortilegio son buoni tutti!» ripresi foga, indignato dalle scorrettezze della monarca del Belgio. «Ma, alla fine, come ha fatto Gimondi a batterlo?»

«Qui viene il bello!» esclamò lo zio, illuminato dalla gioia del ricordo. «Devi sapere che Cannibale si riteneva l’uomo più fortunato della terra: vinceva sempre la maglia rosa del Giro, quella gialla del Tour e quella coi cerchi colorati da campione del mondo. Così, le miss lo baciavano sul podio e guadagnava milioni. Pian piano, però, si era imborghesito e...»

«Cosa si era?»

«Era diventato antipaticissimo e avaro. Ma credeva lo stesso di essere il più fortunato di tutti, così un giorno andò dal vecchio Diogene, che viveva in Grecia e sapeva ogni cosa.»

Se la regina del Belgio era una strega, potevo ben accettare l’esistenza di un greco onnisciente, così volli sapere soltanto: «Ci andò in bicicletta?».

«Ovvio. E sai perché? Voleva domandare a Diogene chi era l’uomo più fortunato della terra» si rispose da solo zio Walter. «Capirai, sperava di sentirsi dire: “Sei tu, caro Cannibale Merckx!”, invece il nonnetto lo squadrò ben bene, poi rispose: “L’uomo più fortunato è il più felice”. Lasciò Merckx con un palmo di naso, e se ne tornò a dormire.»

«Era notte?»

«Quel rompiscatole era andato a disturbarlo durante il riposino pomeridiano» illustrò lo zio, paziente, e aggiunse: «Be’, proprio quell’anno, al Giro d’Italia, accadde l’impossibile.»

Non potevo capire, e domandai: «Come andò?».

«Andò che Gimondi riuscì finalmente a battere Merckx» mise in chiaro. Sorrise sotto i baffi, deliziato, e aggiunse: «Una batosta, gli diede».

«Si vede che era finita la magia della regina» arguii, ma ricordo che lo zio mi fissò con aria leggermente irritata, come avessi mancato di cogliere l’essenziale del racconto.

«Può darsi» ammise, paziente. «Ma, visto che Gimondi si chiama Felice, non trovi che il vecchio Diogene ci abbia preso in pieno?»

C’era da restare a bocca aperta di fronte a tanta sapienza, ma già nuovi interrogativi si facevano avanti. «E il Cannibale» volli sapere, «come c’è rimasto, lui?»

Walter esitò, come si andasse a toccare un tema troppo scabroso. Per un po’ scosse la testa, poi abbassò le palpebre, infine si risolse a dirmi: «È impazzito di rabbia, Merckx. Ha fatto la bici in mille pezzi, lì sul traguardo, poi ci ha messo sopra la senape e se l’è mangiata».

«Anche i pedali?»

«Quelli li ha tenuti per ultimi» garantì lo zio. «Al posto del dolce.»

«Cavoli. È morto?»

«L’hanno preso per i capelli. Ma, da quella volta, non ha più partecipato a corse su strada.»

«Lo tengono all’ospedale dei matti, adesso?»

«Quelli non ci sono più, per fortuna» considerò lo zio. Poi mise su un’aria divertita e aggiunse, come si trattasse del particolare più gustoso: «Adesso si è dato al ciclocross, poveretto!».

Di storie come questa non si poteva dubitare, e gli assortimenti di biglie in vendita negli empori della Riviera confermavano la loro veridicità: nonostante lo stizzoso ritiro di Cannibale dalle corse su strada, dentro le reticelle più stagionate si continuavano a trovare palline dedicate a lui. Protetto da una mezza sfera di plastica trasparente, il figlio della perversa regina del Belgio appariva ancora giovane e deciso, disposto a dare battaglia sino alla fine dei tempi. Ad aggiungere un ulteriore tocco inquietante, la grafia del suo cognome cambiava sempre, come gli appellativi del Maligno: a seconda dei fabbricanti, Cannibale poteva chiamarsi Merckx, Mercx, Merkx o addirittura Mercs. Le sue biglie erano le uniche che facessero paura, e speravi tanto che seppellirle sotto due palmi di sabbia fosse sufficiente a neutralizzare i loro poteri.

I protagonisti del Giro d’Italia erano tanto celebrati, perché la nostra era una Repubblica di ciclisti: pedalavano tutti, a eccezione dei poppanti e degli ultracentenari. Le donne impiegavano la bicicletta per fare la spesa così come per andare al lavoro, e apprezzavano l’indipendenza dal mondo automobilistico che le due ruote sapevano garantire: grazie alla bici potevano sempre risolvere una commissione dell’ultimo minuto, andare a farsi i capelli o concedersi un giro per negozi senza dipendere dai passaggi di nessuno o impantanarsi nel traffico.

Gli studenti delle medie e delle superiori se ne servivano ogni giorno per andare a scuola, e anche molti universitari la trovavano un’alternativa economica ai ciclomotori.

Persino gli uomini adulti, i proletari con la Cinquecento ammaccata al pari dei sofisticati possessori di Alfa e Lancia, avevano la bici sempre pronta, da impiegare per tutte le attività vagamente clandestine. Si andava in bici a complottare dal barbiere, a regalarsi una nuova cassetta da pesca, a messa oppure a casa dell’amante; allora si rientrava fischiettando, felici di mostrare al vicinato come si smonta di sella alla bersagliera.

Il cortile era sempre pieno di ragazzini che filavano sulle due ruote, talvolta a gara e altre in formazione, fingendosi cowboy in groppa ai purosangue. I loro giochi erano separati in maniera rigorosa da quelli di noi mocciosi di due e tre anni, creature striscianti e inclini al piagnisteo alle quali non era concessa alcuna cavalcatura. Per noi, marchiati come “piccoli”, restavano secchielli di mattoncini colorati e soldatini in scala 1/32, Super Tele mezzo sgonfi e il divieto assoluto di mescolarci alle corse sfrenate dei più grandi.

L’ipotesi di restare travolti dal gruppo lanciato verso il traguardo della Milano-Sanremo come una carica di bisonti era da evitare in ogni modo, ma la portinaia Fosca adombrava un’altra, terribile, eventualità: temeva infatti che noi cuccioli si potesse restare uccisi da una pallonata sferrata dai più grandi. «Una volta è successo davvero!» ci terrorizzava, così eravamo perennemente relegati in aree periferiche e ombreggiate, al confine della zona riservata alle bambine, sotto tutela come pianticelle poco vigorose.

Ricevere in regalo la prima bicicletta con le rotelle laterali era un’elevazione di status, che al solito coincideva con l’inizio della primavera: l’occasione era solenne, e spesso il pathos di padri e madri conferiva all’occasione una solennità paragonabile a quella delle cerimonie di passaggio turcomanne, nel corso delle quali i nomadi delle steppe offrono ai loro bambini un puledro da domare.

Mi trovavo a vivere la mia terza primavera. Quando il giorno venne, fui portato in cortile dalla nonna, di fronte ai miei genitori. Sorridevano, e con loro c’era una piccola bicicletta bianca e arancione che conoscevo già: era la cavalcatura di mio cugino Maurizio.

«Be’, non dici niente?» fece Babbo.

«È la bici di Mauri» notai.

«Te la regala» annunciò Mamma. Per qualche motivo, sembrava insieme compiaciuta e turbata.

«Adesso è tua» ribadì Babbo, e domandò un’ottava sotto: «Ti piace?»

Considerai la piccola Atala, in equilibrio spontaneo sulle rotelle laterali, come fosse la prima volta: il telaio laccato di bianco, le gomme da dodici pollici dello stesso colore, il carter e i parafango in plastica arancio ne facevano una bestia di carattere. La sella era già abbassata al minimo per accogliermi, eppure dovetti essere aiutato a montare.

«C’è anche il campanello» considerò Mamma. «Così puoi avvertire quando arrivi.»

«Avvertire chi?» volli sapere.

«Tutti!» esclamò, guardandomi come se avesse perduto fiducia nei miei confronti.

«E questi sono i freni» si premurò d’illustrare Babbo. «Usa sempre quello della ruota dietro, per sicurezza.» Mi mostrò qual era, poi fui libero di stringere le manopole in plastica zigrinata usurate da Maurizio e, spingendo sui pedali, mi avviai al piccolo trotto.

«Fai attenzione» raccomandò Mamma, a mezza voce per non rompere l’incanto.

«La sua Numero Uno» notò Babbo, intenerito.

Era semplicemente meraviglioso, il procedimento alchemico che trasformava il movimento dei pedali nella facoltà di viaggiare a ritmo sempre più sostenuto, fin quasi ai limiti del cortile; allora serviva fermarsi, smontare e riposizionare la cavalcatura trascinandola per il manubrio, per provare un’altra volta la piccola ebbrezza della velocità.

«Allora, ti piace?» ripeté mio padre, ma la sua non era già più una domanda.

Poiché si pedalava tutti, il mese di maggio era dedicato alla celebrazione di un rito collettivo, che gli adulti prendevano terribilmente sul serio: sugli uomini calava un silenzio carico di presagi e aspettative e le donne si facevano mute e dignitose come a messa, quando la radio entrava nel clou della tappa di giornata del Giro d’Italia.

Nel ’77 vinse fra gli anatemi di zio Walter un belga di nome Pollentier. Alle sue spalle si classificò il più giovane d’una dinastia di ciclisti trentini, Francesco Moser. Secondo lo zio, le migliori speranze del Paese erano riposte nei polpacci di quel ragazzo, e mi fece notare che il suo cognome, alpestre e ossitono, suonava deciso come una volata vincente: Mo-sèr! Il Francesco da Palù di Giovo aveva soprannome lo Sceriffo, un tocco western che mi conquistò definitivamente, sicché anch’io lo elessi a beniamino ed eroe.

Il suo trionfo avvenne alla fine delle vacanze estive, nel lontano Venezuela, dove tagliò il traguardo per primo ai campionati del mondo: il poster che lo ritraeva in maglia iridata andò ad arredare la camera dello zio, e davanti a quell’altare pagano fu stabilito che nel mio cuore non ci sarebbe stato posto per altri corridori.

Ormai guardavo dall’alto in basso i vecchi gimondisti, compativo i sostenitori di Pierino Gavazzi, Wladimiro Panizza e Gibì Baronchelli; quei nomi, al cospetto d’un epico “Mo-sèr!”, suonavano scevri d’epica, adatti semmai a prestigiatori e artisti del varietà.

Rispetto allo Sceriffo, ero un vero imbranato. Con la mia Atala sapevo solo andare dritto e, ogni volta che raggiungevo il limitare del cortile, mi toccava scendere di sella. Era una faticaccia, manovrare a mano per invertire il senso di marcia, così mi impegnai per apprendere l’arte delle curve. Fu un piccolo miracolo, riuscire a compiere il primo giro completo: ora non v’erano più iati fra andata e ritorno e l’azione che prima era spezzettata si era fatta per magia continua, fluida, inarrestabile nel disegnare ovali e otto. Ero in estasi, ma la nuova continuità della mia azione non bastò a guadagnarmi l’ammirazione dei virtuosi di sei o sette anni.

Fu mio padre a svelarmi la dura verità: per cancellare dal volto dei più grandi l’arietta di sufficienza, avrei dovuto imparare a reggermi in equilibrio senza rotelle. «Darai qualche sederata per terra, all’inizio» volle avvisarmi. «Ci siamo passati tutti.»

«Purché non si rompa la testa» aggiunse Mamma e lui protestò che i bambini non andavano allarmati, ma spinti verso l’esperienza del mondo.

Il problema era che non avevo un campo d’allenamento diverso dal cortile e mi vergognavo all’idea di allineare capitomboli sotto gli occhi di tutti. Così, per quanto Babbo mi incoraggiasse, rifiutavo l’idea.

Solo lungamente blandito, accettai il compromesso di levare la rotella di sinistra. Trovai che l’equilibrio non ne risentiva troppo, in compenso potevo toccare velocità inaudite. Per qualche tempo sperimentai le mie volate solitarie e asimmetriche, imparando a gestire il rischio di un mezzo che, fatalmente, tendeva a sbandare. Riportai un certo numero di lividi, tutti sul lato sinistro del corpo, ma non ero certo l’unico bambino dalle gambe leopardate e le dita inanellate di cerotti.

Da qualche tempo, si attentava a cavalcare una dodici pollici perfino Mimmo Paglia, un bambino chiassoso e sovrappeso che abitava al terzo piano. Era costretto a vestire come un adulto e, a chi domandava come mai, rispondeva che i genitori avevano fatto un voto alla Madonna. Mi sfuggiva perché la Madre di Gesù dovesse rallegrarsi delle giacchette beige di Mimmo, sinceramente orrende, ma dubitavo che le fossero altrettanto care la sua voce gracchiante e l’attitudine a riempirsi la pancia di gazose, ghiaccioli e Girelle.

A ogni buon conto, nessun voto gli impediva di ruzzare in cortile, col risultato che i suoi completi formali assumevano nel giro di poco un’aria di grande trasandatezza; mio padre, riecheggiando sonorità sudamericane, lo chiamava il Descamisado.

I suoi parenti erano più espansivi dei miei e, da quando gli avevano passato la bicicletta della sorella – un ridicolo modello rosa, decorato con le figurine dell’Ape Maia –, era tutto un “Forza, Mimmo!”, “Dài, Mimmo!” e “Bravissimo, Mimmo!”. Lo incoraggiavano come stesse vincendo il Giro dell’Emilia, nonostante quell’impiastro si muovesse con lentezza scoraggiante, le guance fucsia e gli occhi sbarrati per lo sforzo. E poi si serviva ancora di entrambe le rotelle.

Fu per dimostrare la indiscutibile superiorità della mia Atala su quel ridicolo modello da femmine che pretesi la rimozione dell’ultimo ausilio laterale: intendevo librarmi nel mondo adulto di chi pedala libero e senza confini, e volevo che al mio decollo assistessero Mimmo e tutti i suoi parenti. Purtroppo, lo spettacolo che offrii loro, e alla mia attonita genitrice, fu di altro genere: presa velocità per mantenermi in equilibrio, volli strafare e mulinai qualche pedalata di troppo. Non ero mai andato così forte e dovetti registrare che il cortile si accorciava di fronte a me con una rapidità inedita.

«Bloccate quella creatura prima che si ammazzi!» sentii gridare dalla signora Paglia: visto dalla sua prospettiva, dovevo sembrare un proiettile umano deciso a lanciarsi contro il cancello chiuso.

«Fermati, per carità! Appoggia i piedi!»

Questa, invece, era Mamma. Tendeva sempre a prendermi sottogamba e decisi di stupirla adottando la manovra d’emergenza che tante volte mi aveva salvato: sterzando bruscamente sulla destra mentre spostavo il peso dalla stessa parte, ero abituato a sentir la mia cavalcatura arrestarsi sul posto. Di solito, infatti, l’Atala veniva frenata dall’azione combinata della ruota anteriore e della rotella. Realizzai troppo tardi che quest’ultima non c’era più, e la manovra fu condannata all’insuccesso. Il cancello sparì all’improvviso dal mio campo visivo, i tigli del cortile e tutto il palazzo schizzarono verso l’alto come se il cielo li avesse risucchiati, e io finii disarcionato sull’asfalto con una botta secca di faccia.

Quando la madre e la sorella grande di Mimmo mi raggiunsero per soccorrermi, ero talmente indispettito dalla figuraccia che intimai loro di non toccarmi. «Sto benissimo» mentivo. «Ho fatto apposta. Non l’avevate capito?»

Appena arrivò mia madre, però, la pregai che mi portasse su in casa. All’improvviso, mi era venuta una gran voglia di guardare “La tv dei ragazzi”, una borsa del ghiaccio calata sulla fronte a mo’ di colbacco, e sarebbe stato fantastico se Mamma mi avesse tenuto compagnia.