CATEGORIA bicicletta da cross da bambino da 20”, telaio in acciaio
MARCA Chiorda
VELOCITÀ 3
COLORE telaio nero, parafanghi e carter cromati
DOTAZIONE targa portanumero, cavalletto

Nel 1981, ai piani alti delle hit parade internazionali convivevano la raccolta postuma di John Lennon e Start Me Up dei Rolling Stones, lo ska degli Specials e un giovane Michael Jackson, Tainted Love dei Soft Cell e l’avanguardia neotribale di Adam and the Ants.

In Italia era la stagione di Claudio Cecchetto col suo Gioca jouer, di Maledetta primavera, Cicale e Rock’n’Roll Robot.

Il presidente partigiano occupava con autorevolezza il Quirinale; Spadolini del PRI era divenuto di recente il primo non democristiano a rivestire la carica di presidente del Consiglio e, tutto sommato, il Paese sembrava indirizzato sulla via della ripresa dopo lo sfascio e le contrapposizioni degli anni Settanta.

Nemmeno gli studenti a zonzo in piazza Verdi osavano più inneggiare alla rivoluzione, al massimo organizzavano vacanze nei campeggi nudisti. Il fatto era che, come la Democrazia cristiana, anche il comunismo andava perdendo via via ogni appeal: lo stile di vita americano, prospero, dinamico e sorridente, era più che mai il modello di riferimento e persino le scuole elementari più agresti, dove ancora i bambini parlavano fra loro in dialetto, presero a includere nei programmi un’ora settimanale di lingua inglese.

Inclini a intercettare lo spirito dei tempi, noi bimbi d’Italia cominciammo a interessarci un po’ tutti al basket NBA (meglio i Lakers di Kareem Abdul-Jabbar o i Celtics di Larry Bird?), allo skateboard, agli hamburger e, in generale, agli esotici costumi in voga fra la California e la Nuova Inghilterra, così come potevamo mettere insieme indizi sul federalismo o sul Giorno del ringraziamento tramite “Happy Days”, i fratelli Bradford e le sagaci battute di Arnold.

Eravamo nel bel mezzo del cambiamento, ma Moser doveva essere un irriducibile conservatore: nonostante la mole di successi nelle corse da un giorno, continuava testardamente a non vincere il Giro.

Nell’81 lo Sceriffo e Saronni, gli attesi arcirivali, si erano limitati a vestire in rosa per pochi giorni a testa e, alla fine, aveva vinto il vicentino Battaglin.

Nel 1982, poi, la legge di Bernardinò aveva conquistato nuovamente il Bel Paese. Moser non era giunto che ottavo, e si era dovuto accontentare, a mo’ di premio di consolazione, della maglia ciclamino della classifica a punti.

Si stava pericolosamente sfiorando il ridicolo, e in settembre noi sostenitori dello Sceriffo conoscemmo la nostra Caporetto. La località precisa, per la verità, aveva nome Goodwood e vi si teneva la Coppa del mondo di ciclismo: fu lì che Beppe Saronni, incontenibile nella foga dei suoi venticinque anni, staccò tutti, compreso Bernardinò, per aggiudicarsi la prestigiosa maglia iridata, la stessa che un tempo era appartenuta al mio appannato eroe.

Per mesi, Saronni ci si pavoneggiò su tutti i mezzi di comunicazione, una mossa mediatica che interpretai come uno sberleffo; persino “Il Giornalino”, normalmente sensibile nei suoi redazionali, ebbe il pessimo gusto di includere un suo poster-omaggio. Così, tanto per versare nuovo sale sulle nostre ferite.

Anche il ciclismo da cortile stava per evolversi nel segno dell’America.

Ne fui certo quando Rudi Ciompi si presentò in cortile su una Leopard giallo canarino, ispirata nella ciclistica a una moto da cross: il telaio a tubi curvi, il manubrio oltraggiosamente largo e le grosse molle degli ammortizzatori inocularono in me, dal primo istante, il virus dell’invidia. Il suo unico difetto era la sella lunga a due posti, che induceva Mimmo Paglia a reclamare passaggi come una fidanzata petulante.

Se però il Descamisado non era in vista, Rudi poteva permettersi mirabilie. Con quel mostro sotto il sedere, filava sull’erba incolta come sull’asfalto. Mentre si allenava a saltare su e giù dai marciapiedi mi guardava con aria di sufficienza, e io credevo di sapere cosa aveva in animo.

Nel giro di poco, pretese una rivincita. La Mirella non aveva una singola possibilità contro la Leopard: appena fuori dall’asfalto mi avrebbe staccato senza rimedio, e tre lati della pista su quattro erano sull’erba. Tentai di evitare la disfatta, posticipando ad arte la sfida e intanto lavoravo nell’ombra.

Dai tempi del disastro ai Giardini Margherita, i miei non avevano più guardato con troppo favore la Mirella, come se portasse ancora addosso l’odore della colpa, o qualcosa del genere. E io speravo che il mio sfortunato modello da femmina venisse sostituito, a breve, da una cavalcatura più moderna e incline ai terreni accidentati.

Il mio attendismo costò caro: adesso, quando Mimmo e Rudi giocavano ai Chips, stretti l’uno all’altro in sella alla Leopard, non mi consideravano più. Ero ridotto a starmene in disparte con mio fratello Riccardo, più giovane di quattro anni e perfettamente a proprio agio sulla mia vecchia Numero Uno. La vita in cortile si stava facendo impossibile, così implorai i miei di darsi una mossa.

«Che problema c’è?» Babbo m’invitò a considerare la questione con filosofia. «Se quello ti batte, chiedigli subito la rivincita a bici scambiate.»

«Ma non me la presterà mai, la Leopard!» tentavo di aprirgli gli occhi.

«Allora è segno, anzi prova, che se la fa sotto. Questo perché sa di non essere davvero il più forte, e tu risulti automaticamente il vincitore morale.»

Non volevo risultare il vincitore morale, volevo tagliare il traguardo per primo e chiedevo solo un mezzo adeguato per farlo, ma il Direttore Sportivo sembrava deciso a ignorare le mie richieste. Probabilmente aveva stabilito in cuor suo che, a quel punto della mia carriera, sarebbe stato educativo assaporare il gusto della sconfitta. Così, dopo essere stato campione del cortile e bambino volante, avrei visto la faccenda sotto una luce nuova: come Moser, sarei stato condannato a risalire da un abisso.

Ancora non mi ero deciso a concedere al Ciompi la sua rivincita, quando Mamma decretò che ero abbastanza grande per pedalare sulla pubblica via insieme a lei. Avevo otto anni, e il cortile, ormai, mi andava stretto!

Fui sottoposto a un allenamento intensivo, studiato per incentivare la mia affidabilità; prevedeva prove pratiche e domande trabocchetto ordite da Mamma. Superato ogni test, la mia prima missione consistette nel pedalare in scia alla sua olandese fino a casa di Nonna: si trattava di traversare il quartiere come tante volte avevamo fatto a piedi, ma la prospettiva dalla strada mi garantì uno spettacolo del tutto inedito.

Com’erano diverse, le cose, cambiando velocità! Non facevi in tempo ad abituarti allo spettacolo d’una via, che già avevi svoltato e ti trovavi di fronte una scena nuova. Bordeggiando il mercato rionale, si succedevano in fretta i chioschi e le vetrine dei negozi dai quali normalmente si passava carichi di spesa, lenti come pellegrini e inclini a perdere tempo in chiacchiere. Noi invece filavamo veloci sulla lingua d’asfalto, e solo di tanto in tanto Mamma si girava per controllare che ci fossi ancora. Mi parlava, ma non capivo una parola di quel che mi diceva né lei intendeva le mie risposte.

Quando ormai mancava poco, riconobbi zio Walter che usciva dal bar Acquadêla mangiando un gelato; Mamma pedalava ignara, così fui io a chiamarlo e a suonare il campanello, ma lui si limitò a volgere lo sguardo per un attimo e subito lo distolse, senza davvero mettere a fuoco la carreggiata. Non ci aveva visti! Fu allora che realizzai come filare su una bici equivalesse a chiamarsi fuori dalla vita sociale che si svolge lungo i marciapiedi: a quanto pareva, la solitudine era il prezzo della velocità.

«Allora com’è andata?» domandò Mamma frenando l’olandese sotto la casa nella quale era stata ragazza. Le ridevano gli occhi, nel guardarmi, come fosse stata lontana molti giorni e si stupisse di ritrovarmi. Era tutto così strano che ne provai un sottile timore, ma lei mi rassicurò. «Sei stato bravissimo» disse, carezzandomi la testa sudata. «Appena siamo su, devi assolutamente raccontare a Nonna del nostro viaggio.»

Da allora, ogni volta che Mamma mi proponeva di accompagnarla da qualche parte in bici accettavo con entusiasmo. Non sapevo più fare a meno di quella sensazione straniante e vertiginosa data dal filare, veloci e invisibili alla gente comune, attraverso una città che non sembrava mai la stessa.

Così, quando la sconfitta venne e Rudi Ciompi alzò da terra la gialla Leopard in segno di trionfo, non ne soffrii troppo: andare in bici in cortile era per me roba da mocciosi, nient’altro che un diversivo. Ormai viaggiavo per strada come i grandi, io, in mezzo al traffico di utilitarie Fiat, furgoni e motorini. Lo vasto mondo era il mio paese, tanto che, quando la Rai mandò in onda il film a puntate dedicato al viaggio di Marco Polo, stabilii che un giorno anch’io avrei superato confini, solcato deserti e traversato imperi.

Serviva solo procurarsi il mezzo adatto, e non stancarsi mai di spingere sui pedali.

La Mirella andò in pensione nei giorni concitati delle regate di Azzurra. Se l’Italia poteva dire la sua perfino nella vela, bisognava stare certi che non esistevano risultati impossibili. In quell’atmosfera dolcemente euforica, mio padre si sbottonò: presto sarebbe andato in visita da un buon biciclettaio per cercarmi il mezzo ideale alla nuova era.

Speravo in cuor mio nella Saltafoss, una bici fuoristrada leggendaria, ritenuta in grado di correre sull’asfalto come fra le rocce. Era abbastanza robusta da consentirti di scendere da San Luca lungo le ripide scalinate del portico, e si diceva che il fratello grande di Rudi, in una notte d’estate, l’avesse fatto davvero. Poiché era una bicicletta molto costosa, mi sarei accontentato volentieri anche d’un modello chopper di terza mano, come il Tin Tin Ager dal minuscolo ruotino anteriore e il manubrio da giganti che i signori Paglia avevano procurato a Mimmo.

Quella specie di cavalcatura da Hell’s Angels priva di motore era famosa perché, a leggere la pubblicità sui giornalini, la si poteva vincere tramite un concorso delle merende Alemagna. Mimmo non ce l’aveva mai fatta nonostante ne consumasse a quintali, così alla fine i genitori si erano arresi e ne avevano trovata una d’epoca nel corso delle vacanze pasquali. Portarla su da Gioiosa Jonica non era stato semplice, e la Tin Tin ancora recava i segni del brutto momento in cui si era sganciata dal portapacchi all’altezza di Lagonegro. Avevano recuperato la bicicletta correndo fuori dalla macchina a rischio della vita e, conoscendo la signora Paglia, ero pronto a scommettere che l’operazione era stata condotta a base di strilli disumani, in grado di coprire il rombo degli autoarticolati.

Ora che la pregiata cavalcatura era giunta a destinazione, il Descamisado non se ne staccava nemmeno per farcela provare un minuto. Nella sua nuova tracotanza, rivendicava per sé il ruolo di Poncharello, il più carismatico fra i Chips, e un giorno passò decisamente la linea.

«Io ero Ponch, Rudi era l’agente Jonathan, e tu» concesse, «con quella bici da femmina, puoi fare la ladra in Ciao che noi inseguivamo.»

La proposta di interpetare una donna a bordo di un ciclomotore suonava decisamente oltraggiosa. Ero esterrefatto, ma il Ciompi, anziché manifestarmi la sua solidarietà, lasciò andare una risatina da ponziopilato e disse: «Niente scherzi. Io ero Ponch e tu, Mimmo, l’agente Jonathan».

«E io?» domandai a orecchie basse. «Facciamo che ero il sergente Joe?»

«Per me va bene» approvò Rudi.

«Con quella bici, non puoi essere dei Chips» si mise di traverso il Descamisado sul chopper salvato dall’autostrada.

«Chi sei per decidere?» lo affrontai. «Sei il più lento di tutti!»

«Ah sì? E la tua bici è da sfigati!»

Erano entrambe affermazioni inconfutabili, ma perdemmo la testa come se l’altro avesse detto chissà quale enormità. Lasciammo cadere le bici e ce le demmo di santa ragione, sordi ai richiami del Ciompi che ci girava intorno strillando: «Calma, ragazzi! Vi ricordo che siamo la California Highway Patrol!».

Per farci smettere, servirono le grida terrificanti della signora Paglia che, affacciata alla finestra, prese a sgolarsi come un muezzin: «Akkorruom’! ’E criature si accidono!».

Sottoposto a una pressione morale ormai insostenibile, quasi piansi di gioia quando arrivò anche per me una bicicletta americana: era nera come la notte, smisurata nella sella, e sul tubo era scandita a lettere adesive la scritta Furia. Non potevo credere ai miei occhi: il mio cavallo del West aveva il telaio tutto d’un pezzo, non pieghevole come quello dei bimbi, e in più poteva vantare un cambio a tre velocità e gli ammortizzatori davanti e dietro! Arrivava munita di una targa portanumero già adorna di un adesivo dell’Estathé e di grandi ruote tassellate da venti pollici, a prima vista adattissime per i crudi sterrati della Via della Seta.

«È della stessa ditta che ha fatto vincere il Mondiale a Gimondi» illustrò Babbo. Rimase a misurare l’effetto delle sue parole, ma sapeva anche lui che, ai miei occhi, Gimondi era il Medio Evo e quella bicicletta la quintessenza della modernità. «Ha gli ammortizzatori regolabili» aggiunse poi, e restò a guardarla senza muovere un dito, come si aspettasse che la forcella rispondesse ai comandi vocali. Su incoraggiamento di Mamma, ci ingegnammo a capire come modificarne la corsa e, una volta trovato il metodo, regalammo alla Furia un assetto ibrido.

Così filava benone anche sull’asfalto, in scia all’olandese, ma non vedevo l’ora di esasperare le sue caratteristiche da fuoristrada, certo che presto avrebbero lasciato di stucco il Ciompi e il suo Descamisado acquaiolo.

L’unico dispiacere fu non poterci uscire insieme a Babbo: dal giorno del mio spettacolare volo al cospetto del leone Reno, non l’avevo più visto salire in sella, come se quella caduta avesse traumatizzato più lui di me. Poiché rifiutava i miei inviti e faceva il vago sull’argomento, iniziai a sospettare che avesse fatto voto di non pedalare mai più.

Adesso che in cortile eravamo tutti e tre forniti di bici americane a sella lunga, l’armonia si ricompose come ai tempi d’oro.

A essere cambiata era la natura dei nostri cimenti.

Smettemmo di gareggiare, e anche di giocare ai Chips. Chi si fosse affacciato sul nostro terreno di gioco avrebbe dunque trovato tre ragazzini intenti a studiare da cascatori: salti sempre più arditi, impennate spericolate e slalom stretti fra i barattoli rimediati in casa andavano sostituendo, un giorno alla volta, il culto della velocità fine a se stessa.

Bici dalle selle oblunghe che si coprivano in fretta di adesivi – Marlboro, Adidas, Camel Trophy –, ginocchia sbucciate e un gergo peculiare erano i nostri segni distintivi: non sono sicuro che un sociologo ci avrebbe definito una “sottocultura”, ma di certo avevamo preso una deriva tutta nostra.

A nove anni poteva bastare una Furia da cross con la forcella regolabile per vivere allo stesso tempo due vite diverse, quella su strada del viaggiatore silenzioso e invisibile in scia a Mamma e quella, cameratesca e sguaiata, del virtuoso esibizionista da cortile.

Come Big Jim 004, anch’io potevo finalmente assumere diverse identità, e mi beavo della versatilità del mio mezzo. Improvvisare frenate in sgomma al grido di “Banzààài!” o spanciarsi dalle risate per l’ennesimo capitombolo del giovane Paglia non sembravano attività in contraddizione col sogno di usare la Furia per viaggiare dignitosamente attraverso i grandi spazi, e la sera mi divertivo a sfogliare l’Atlante generale De Agostini per stabilire le tappe delle mie future spedizioni.

Marco Polo e la sua via per il Catai continuavano ad affascinarmi, ma la mia agenda si andava arricchendo di impegni per molti degli anni a venire: dovevo perlomeno traversare l’Europa lungo il vecchio limes dell’Impero romano, ripercorrere i passi della spedizione di James Bruce alle sorgenti del Nilo Azzurro e, senza sottovalutare le insidie del pack, addentrarmi nell’Artide come Ambrogio Fogar e Armaduk.

Il tempo sembrava dalla nostra parte, nel 1983. Di fatto, gli unici pedalatori che mugugnavano erano mio fratello Richi e Francesco Moser: il primo perché si era ritrovato erede della Mirella, e l’altro perché la fortuna continuava a sorridere, sfacciatissima, a Saronni.

All’ultimo Giro aveva vinto di nuovo il Beppe, che così aveva sommato la maglia rosa a quella di Campione del mondo in carica, oscurando in una maniera che sembrava definitiva la fama dello Sceriffo.

Anche noi tifosi, giunti a quel punto, eravamo pronti a metterci il cuore in pace: a trentadue anni, il nostro eroe sembrava destinato a cedere il passo senza aver mai scritto il proprio nome fra i vincitori della corsa rosa. Proprio come vaticinato sulle spiagge adriatiche, nella notte dei tempi, da un aspirante iettatore di Parma.

Nessuno poteva sapere che, in realtà, Francesco Moser si preparava a chiudere la carriera coi fuochi d’artificio.