29
Arkady e Tatiana si vestirono al buio e scesero in strada portando con sé le bici.
C’era soltanto una direzione possibile. Forse Alexi ci avrebbe impiegato tre ore a sbarazzarsi del motoscafo e ritornare in macchina da sud. La metà settentrionale della penisola si trovava in Lituania e, a quanto Arkady ricordava del precedente viaggio con Maxim, era possibile che le guardie di frontiera se ne stessero al calduccio nei loro letti, il che significava che non sarebbe stato un problema attraversare il confine.
Sapeva, però, che le cose non stavano esattamente così. Alexi li aveva stanati e loro erano come topi in fuga. Le batterie dei fanalini, quasi esaurite, mandavano una luce sempre più fioca. Da un lato arrivava il rombo delle onde, dall’altro il mormorio degli alberi. Arkady non aveva idea di quanta strada avessero fatto. Se avessero potuto continuare ad andare, forse l’oscurità li avrebbe inghiottiti come la balena con Giona, e nessuno li avrebbe mai più visti.
Il fanalino di Tatiana fu il primo a spegnersi, e lei prese a pedalare al suo fianco per mantenere il contatto.
Come misurava la distanza il cuore? Con quante pedalate, quanti giri delle ruote? Immaginava, più che vedere, le onde che lambivano la spiaggia e gli alberi mossi dal vento che si piegavano sulle dune.
Quando si spense anche il suo fanalino, Arkady fermò Tatiana ed entrambi rimasero immobili nell’oscurità, mentre la sabbia turbinava ai loro piedi. Davanti a sé udì dei respiri. Incerti, come in attesa.
Una luce accecante illuminò la strada, un fascio bianco e azzurrino, proveniente dal vecchio riflettore della stazione di confine, che non cercava bombardieri a grandi altitudini, ma bersagli a piedi. Pur riparandosi gli occhi, Arkady scorse il balenio delle armi automatiche e si chiese se appartenessero alla polizia di frontiera o agli uomini di Alexi. In quel momento, nello spazio tra lui e la stazione, si riversò sulla strada un carosello di ombre. Delle forme munite di corna, una confusa danza di sagome che si riparavano tra gli alberi e riprendevano a correre tra uno schioccare di rami, mentre intorno volavano i proiettili.
Portando a mano le biciclette, Arkady e Tatiana indietreggiarono, muovendosi al bordo del fascio di luce, che sembrava allungarsi all’infinito. Finalmente il bagliore si attenuò fino a ridursi a un debole chiarore, per intensificarsi di nuovo all’avvicinarsi dei fari di una macchina.
Arkady buttò a terra Tatiana. «Sta’ giù.»
La macchina li superò e si fermò. Il riflettore della stazione si spense, sostituito dai fasci di luce delle torce che oscillavano avanti e indietro.
Arkady sentì aprirsi le portiere della macchina e riconobbe la voce di Alexi.
«Li avete presi?»
«Non ancora, ma sappiamo che sono qui.»
«Sguinzagliate i cani.»
«Già fatto, ma ci sono i cervi, cazzo.»
«Alci, idiota.»
«Che importa? I cani impazziscono.»
«Li avete visti?»
«Mi sembra di sì.»
«Allora trovateli.»
«E i birdwatcher?»
«Ho disposto dei controlli sulla strada. Se si avvicinano, ci avvertiranno.»
Non appena Alexi si allontanò, Arkady e Tatiana presero ad aprirsi un varco tra i rami. Di tanto in tanto si udiva uno sparo. Alla fine altre macchine si allontanarono dalla stazione, fendendo l’oscurità con i fari. Poi calò il silenzio.
La luce dell’alba rischiarò gradualmente le dune su un lato della strada e il mare sull’altro. Arkady e Tatiana pedalavano in silenzio. Davanti a loro emerse dalla foschia una figura che trascinava una slitta colma di cianfrusaglie. Era l’uomo che raccoglieva rifiuti sulla spiaggia, ma avrebbe anche potuto essere un pellegrino, un prete mendicante, un battelliere del Volga che trasportava le sue funi. In ogni caso, una persona che si confondeva nel paesaggio, che si vedeva ma non si notava. Esitò nello scorgere Arkady e Tatiana, quasi fossero spettri. Arkady lo superò da una parte prima di cambiare bruscamente direzione, e Tatiana fece lo stesso dall’altra. L’uomo impiegò qualche istante prima di scattare e, nel farlo, ribaltò la slitta, rovesciando il carico. Non più impedito nei movimenti, prese a correre a gambe levate, superò Tatiana, inciampò, ritrovò l’equilibrio, indifferente al fatto di avere perso la sciarpa e la sacca. Salì su una duna, rapido come una lepre, mentre Arkady, abbandonata la bicicletta, si metteva all’inseguimento, correndo tra lattine e bottiglie sparse, scivolando nella sabbia cedevole. Lo raggiunse sulla cima della duna, lo afferrò per una caviglia e lo trascinò a terra. Era un omino dall’aspetto selvatico e sparuto, con gli occhi che sembravano uscirgli dalle orbite.
«Ci stavi osservando» disse Arkady.
«Sì, e allora? Che c’è di male?»
«Che poi saresti andato a riferire ad Alexi.»
«Non stavo facendo niente. Mi limitavo a camminare e tu mi hai aggredito. Ho i miei diritti.»
«Lascia perdere Alexi. Dov’è il Macellaio? L’uomo del furgone con sopra il maialino. Chi è? Dove lo trovo?»
«No. Niente da fare.»
Il terrore gli dava forza. Riuscì a liberare una mano e gli gettò una manciata di sabbia in faccia poi, prima che Arkady se la togliesse dagli occhi, sparì tra i pini.
Ritornando sui propri passi, Arkady trovò Tatiana che stava esaminando l’accozzaglia di lattine, bottiglie, pezzi di legno raccolti sulla spiaggia, conchiglie, oltre alla sciarpa e alla sacca. Dentro vi trovarono un panino e un cellulare.
«È scappato.»
«Pazienza. Ci metterà un po’ a comunicare con il mondo» disse Tatiana, porgendogli il cellulare.
Lui controllò le telefonate recenti. L’ultima, di pochi minuti prima, era diretta a un numero di Kaliningrad. Dalla rubrica vide che corrispondeva ad Alexi.
«Stai bene?» gli chiese lei.
«Sì. Mi dispiace che se la sia filata.»
«Ha detto qualcosa?»
«Niente.»
Ci sono diversi modi per darsi alla fuga. Uno è di andarsene il più lontano possibile, l’altro è di mimetizzarsi nell’ambiente. Nella cittadina turistica di Zelenogradsk comprarono dei poncho con cappucci e binocoli per confondersi con i birdwatcher che studiavano le rotte degli uccelli migratori nel cielo sulle loro teste. Come ci si sentiva a essere persone comuni? Con un bambino e una nonna in attesa a casa, la vaschetta dell’acqua sul calorifero, il gatto dal nome fantasioso, senza la paura che qualcuno possa puntarti una pistola alla testa. Se accanto a loro passava una macchina nera, Arkady e Tatiana fingevano di essere una coppietta di sposi novelli e si buttavano in un negozio di souvenir a chiedere il prezzo degli oggetti ricavati dall’ambra. La si vedeva dappertutto, sotto forma di pendenti, braccialetti, collane, chiara come il miele o scura come la melassa, con all’interno i semi di una mela o le ali di una mosca primordiale colta nel suo ultimo palpito, prima di finire intrappolata nella resina.
«Ti stai divertendo. Ti piace la caccia anche se sei tu la preda» le disse Arkady.
«Da piccola non ho mai capito perché, quando si giocava, le bambine dovessero stare a guardare mentre i maschietti se la spassavano.»
«Non sei cambiata.»
«Non mi va di rimanere indietro, se vuoi saperlo.»
Fu lei a trovare un internet café, un seminterrato rischiarato dal baluginio degli schermi. Sui muri fiorivano decalcomanie fluorescenti. Il banco serviva caffè espresso e tisane. Dei globi luminosi si levavano e affondavano nelle lampade di pietra lavica. C’erano soltanto altri due clienti abituali. Con le cuffie in testa, alle loro postazioni, avvolti nel fumo delle sigarette e in quello dolciastro del narghilè, costituivano due esemplari umani perfettamente adattati al loro habitat, immemori l’uno dell’altro.
Dal telefono del locale, Arkady chiamò Victor. Rispose Zhenya.
«Sei tu, Arkady? Sei ancora vivo?»
«Temo di sì.»
«Lo temo anch’io.»
Un cartello sulla parete vietava l’accesso ai blog, l’uso di Skype e l’invio di mail offensive. La cameriera, una ragazza con la testa rasata e dei tatuaggi blu, spiegò che il divieto riguardava i turisti, non i nativi di Kaliningrad.
Una volta effettuata la connessione visiva, sullo schermo apparvero Zhenya, Victor e una graziosa ragazza dai capelli rossi.
«Scommetto che lei è Lotte. Dev’essere una buona amica» disse Arkady.
Durante lo scambio di presentazioni, Lotte continuò a fissarlo con intensità. Che spettacolo doveva essere, si disse Arkady. Un cavallo spompato di fianco alla splendida Tatiana, la quale a sua volta osservava Zhenya con grande curiosità. Victor, impassibile, fissava le scale che scendevano nel locale.
Non c’era traccia degli uomini di Alexi; quello non era un posto per loro, pensò Arkady. Alexi non era come Grisha. Era un calcolatore, ma non ispirava la stessa lealtà o lo stesso rispetto. Era malvagio, più di quanto fosse consentito persino nel mondo della malavita. I suoi uomini, che avrebbero dovuto setacciare senza sosta la città, indipendentemente dal fatto che il tempo fosse brutto o bello, si fermavano a bere da qualche parte per togliersi il freddo dalle ossa.
Zhenya alzò il taccuino per farlo leggere a Tatiana. Lei lo aveva già visto, ma era ugualmente impressionante la velocità con cui passava da una pagina all’altra.
«Lotte pensa che i simboli con i due punti corrispondano agli uomini che hanno preso la parola durante la riunione: i soci» disse.
«Il primo è stato sicuramente Grisha Grigorenko.»
«L’uomo con il cappello a cilindro e la linea sotto.»
«Quello successivo, senza la linea sotto, dovrebbe essere Beledon. Vecchio e micidiale. La falce di luna forse è Abdul. Abdul fa un sacco di soldi con i video e ne fa ancora di più garantendo la protezione dei gasdotti che attraversano la Cecenia.»
«Non so cosa possano simboleggiare i quadrati» confessò Zhenya.
«Blocchi per l’edilizia» disse Tatiana. «I due Shagelman, Isaac e Valentina, hanno un’impresa edile. Costruiscono autostrade, grattacieli, centri commerciali. Volevano abbattere il condominio dove abito. Non so chi siano gli altri due. La stella indica un potere istituzionale, qualcuno di importante al ministero della Difesa oppure un uomo forte del Cremlino. Uno di quei farabutti. Poi c’è la Cina. Joseph Bonnafos parlava cinese, ma anche russo, francese, tedesco, inglese, thailandese.»
«E la vespa?»
«L’ambra» disse Lotte.
«Secondo noi, è in ballo un accordo tra il governo cinese e una società vicina al Cremlino» disse con orgoglio Zhenya.
«Potrebbero essere i palazzinari della Curonian Renaissance, i banchieri della Curonian Bank o gli speculatori della Curonian Investments» osservò Arkady.
«No.»
«È la Curonian Amber» disse Tatiana.
Lunga pausa all’altro capo. «Giusto» fece Lotte.
«Da anni studio questa strana entità» continuò Tatiana. «All’apparenza la Curonian Amber è una miniera d’ambra abbandonata nella penisola di Neringa. Scavando un po’ più a fondo, si scopre che è la società a cui fanno capo la Curonian Bank, la Curonian Investments, la Curonian Renaissance e tutte le altre società del gruppo. Un’invenzione di Grisha, il modo per spostare capitali in tutte le direzioni. Chi poteva fermarlo? Era un multimiliardario con alleati dappertutto. Un personaggio notevole, ma non straordinario. A Mosca, come Grisha ce n’è un’altra dozzina. Quello di cui Joseph Bonnafos parlava era un colpo che lo tagliava fuori. E che poteva trasformarsi in un potenziale disastro pari a quello del sottomarino Kursk.»
«Secondo me, la Curonian Amber progetta di riparare un sottomarino cinese a propulsione nucleare» disse Zhenya. «Si parla di un prezzo di due miliardi di dollari. Che Grisha abbia avuto la tentazione di agire per conto proprio?»
Non era l’unica interpretazione possibile, pensò Arkady. Tatiana era dello stesso parere: glielo lesse in faccia. Una somma così notevole incuteva rispetto, tanto che anche lui ne fu momentaneamente soggiogato.
«Questo non cambia il fatto che Grisha fosse solo un ladro» disse Victor. «Esattamente come gli altri. Le riparazioni erano uno stratagemma per rubare soldi. Molti soldi.»
«Nessun accenno ad Alexi nel taccuino? Sono sicuro che creda di essere l’erede legittimo di Grisha e che tutto quello che apparteneva a lui è diventato suo. Ha cercato di mettersi in mezzo fin dall’inizio. Zhenya, quando ha chiesto a te e a Lotte di decodificargli il taccuino, hai avuto l’impressione che mirasse a qualcosa di specifico?» chiese Arkady.
«No, gli interessava tutto.»
«Qual è stata l’ultima cosa che ti ha chiesto?»
«Dove si sarebbe tenuta la riunione. Gli ho detto che avrebbe avuto luogo sullo yacht di Grisha, il Natalja Gončarova.»
«Abdul è a Kaliningrad» disse Victor. «Il suo concerto è finito. Se rimane, è perché ha qualcosa in mente.»
«Continuerò a lavorarci» promise Zhenya. «Sottomarini nucleari... è un’ipotesi azzardata. Forse ho interpretato male. Forse si tratta di ochette di gomma che galleggiano nella vasca da bagno.»
«Torna a casa» disse Victor ad Arkady.
«Buonanotte» aggiunse Tatiana.
Sullo schermo si presentò lo sfondo abituale con la veduta della Via Lattea. Arkady notò che Tatiana non aveva voluto suffragare l’ipotesi di Zhenya, accennando al sottomarino Kaliningrad e al fatto che aveva fallito i test di navigazione. Lei pensava in grande, in termini di nazioni e di Storia; ogni altra possibilità era una semplice divagazione. Arkady, invece, aveva davanti agli occhi l’immagine di tre bambini e di un uomo nel furgone di un macellaio.