17
La pioggia era uno schifo. Il fango era uno schifo. E anche il giorno dopo sarebbe stato uno schifo.
«Questa è Kaliningrad.» Maxim allargò le braccia per dare il benvenuto ad Arkady. «Un sogno nato morto.»
A cominciare dall’aeroporto, pensò Arkady. Roba da Terzo Mondo. La costruzione era stata interrotta a metà, e con essa i sogni di gloria. Gran parte del tetto era crollata e da quello che restava emergevano barre di rinforzo contorte e corrose dalla ruggine. Le barriere stradali costringevano il traffico a procedere a zigzag. Una fila di berline BMW nere attendeva le autorità di turno, ma Maxim le surclassava tutte con la sua maestosa ZIL.
«Sei venuto in macchina da Mosca?» gli chiese Arkady.
«Non potevo abbandonare il mio bene più prezioso.»
«Come facevi a sapere che avevo preso questo volo?»
«Me l’ha detto Anya. Ho deciso che, come Dante nell’Inferno, avevi bisogno di una guida. “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.” Maxim caricò la borsa di Arkady. Sembrava di ottimo umore. «Non dimenticarti che ho insegnato qui per anni. Se qualcuno può condurti sano e salvo attraverso i pericoli di questa terra di contraddizioni, quello sono io.» Indicò ad Arkady un sacchetto di carta che conteneva una bottiglia di cognac Hennessy invecchiato dodici anni. «Un dono propiziatorio per ottenere delle facilitazioni di parcheggio. In realtà sto mettendo in mostra la ZIL per promuovere un rally per classi da Mosca a Kaliningrad. Mettiti seduto, torno tra un attimo.» E si lanciò sotto la pioggia, con il sacchetto ficcato sotto il braccio.
Secondo Arkady, Maxim Dal si era offerto di aiutarlo per proteggere il suo premio da cinquantamila dollari. Si domandò perché mai avesse partecipato alla manifestazione per Tatiana, con il rischio di essere tagliato fuori. Certo, si trattava di un premio messo in palio dagli americani, ma le autorità moscovite avrebbero potuto ritirargli il passaporto. Non era facile da capire, ma Maxim era un maestro del doppio gioco. Eppure l’uomo aveva un suo stile, ben espresso dalla ZIL, con il suo cambio a pulsante, gli interni in cuoio e i portacenere dall’apertura a scatto. Arkady si accese una sigaretta e ne aprì uno. Da quando era scampato alla morte per compressione, si stava arrendendo alle buone abitudini.
«Hai un aspetto spaventoso» gli disse Maxim una volta tornato. «Non te la prendere, è solo un’osservazione.»
«Non sei il primo che la fa.»
L’autostrada si snodava tra campi brulli, ma il manto stradale era liscio come un tavolo da biliardo e i lampioni erano quanto mai stravaganti, con il loro design che riproduceva la forma di un galeone.
«Questa è l’autostrada più costosa d’Europa. La moglie del sindaco ha un’impresa di costruzioni stradali. È così che va il mondo da queste parti, ed è importante che ci sia qualcuno che te lo spieghi.» Maxim gli lanciò un’occhiata. «Non sei felice. Temi che non riusciremo a lavorare insieme?»
«Tu non sei un detective e nemmeno un investigatore.»
«Sono un poeta, il che è più o meno la stessa cosa. E poi sono nato qui. Per questo posso aiutarti. Saremo molto vicini, come sardine in scatola.»
Kaliningrad non aveva niente della vastità o del senso di potere di Mosca, né dell’eleganza di San Pietroburgo. “Sardine” gli sembrava un termine adatto.
«E come farai ad aiutarmi?»
«Ti porterò in giro.»
«Perché?»
«Amavo Tatiana» disse Maxim. «Dimmi almeno qual è la ragione per cui sei qui. Se non c’è più il corpo e il caso è chiuso, che cosa ci rimane?»
«Un fantasma. Come poeta dovresti capirlo.»
La freccia colpì il bersaglio; Maxim era sempre stato accusato di essere un poeta monocorde, così come Arkady stava diventando preda di un’ossessione. Se Ludmila Petrovna non aveva nuove informazioni sul conto della sorella, Arkady avrebbe anche potuto risparmiarsi il viaggio.
«È vero quello che dicono, e cioè che sei arrivato a fine corsa?» chiese Maxim. «La gente sostiene che hai una scheggia di piombo nel cranio, una bomba a orologeria che nessun intervento può rimuovere.»
«Hai finito?» chiese Arkady.
«I poeti non finiscono mai. Non possono fare a meno di chiacchierare.»
«Be’, in effetti sono a rischio. È per questo che non posso accettare il tuo aiuto.»
«Questo è un mio problema.»
«E invece no. La Russia non può permettersi di perdere un altro dei suoi amati poeti.»
Arkady lo guardò di sottecchi. Maxim era rosso come se qualcuno l’avesse schiaffeggiato. Mentre si avvicinavano alla città, l’architettura mutò, passando dagli orribili casermoni a cinque piani dell’era Chruščëv agli orribili casermoni a otto piani dell’era Brežnev.
«Ricordo che una volta sei venuto in visita alla mia scuola» disse Arkady.
«Davvero?»
«Io allora ero in terza elementare. L’Unione Scrittori aveva organizzato una serie di incontri culturali per noi mocciosi.»
«Ah, sì. Chissà come siete rimasti colpiti.»
«Ricordo una poesia in particolare. “I cavalli sono tutti nobili.”»
La pioggia aveva preso a cadere, tamburellando a ritmo costante. I pedoni si rifugiavano negli angoli e, quando attraversavano, due ondate opposte di ombrelli si incrociavano. Maxim si concesse un sorriso. «Così ti è piaciuta quella poesia?»
Zhenya non giocava a scacchi da settimane, ma era a corto di soldi e un torneo all’aperto all’Università statale di Mosca prometteva facili guadagni. Alcuni membri del club lo riconobbero e cercarono di sottrarsi all’eventualità di giocare con lui, ma in generale tra gli studenti regnava la fiducia. I giocatori on line, abituati alle luci lampeggianti del computer, questa volta erano seduti all’aria. La moda imperante tra i giovani erano jeans laceri e maglioni griffati, e Zhenya, che indossava un paio di pantaloni militari stazzonati, sembrava un prigioniero di guerra.
L’università rappresentava tutto quello che lui detestava, e cioè quello che non aveva mai avuto: appoggi, denaro e la promessa di un futuro. Lui era privo di futuro, ma anche di passato. La sua vita era come un cerchio. Suo padre aveva sparato ad Arkady e Victor aveva ucciso suo padre. Chissà cosa avrebbe potuto diventare Arkady senza quel proiettile in testa. Uno straordinario pianista? Un grande filosofo? Quanto meno un procuratore generale. Quei nove grammi di piombo dovevano aver agito sul suo cervello come un fuoco d’artificio. L’uomo aveva i suoi limiti. Che cosa cercava a Kaliningrad? Tatiana non c’era più. La rivista “Ora” aveva scelto nuovi eroi da promuovere e il procuratore altre vittime da perseguitare, accusate come lei di fomentare il disordine sociale.
Zhenya riconobbe lo studente con la felpa dell’università di Stanford che l’aveva apostrofato allo Stagno del Patriarca e per poco non si fece venire il torcicollo nel tentativo di tenere la testa bassa. I concorrenti erano venti, tra cui la ragazza con i capelli rossi che quel giorno aveva contribuito a umiliarlo. Forse scopava con Stanford. Erano una coppia perfetta.
Stanford fu il primo avversario che Zhenya si trovò davanti. Quasi tutti i contendenti avevano perfezionato il loro gioco allenandosi elettronicamente. Coglioni. Eliminando un volto dall’altra parte della scacchiera, escludevano importanti fattori come il tempo, la componente psicologica e la possibilità di una reazione violenta.
Un tintinnare di bottiglie di birra attirò la sua attenzione. Stanford, che gli stava seduto di fronte, annunciò: «Il Baro degli Scacchi è tornato tra noi. Eccolo qui. “Attento allo Jabberwock, figliolo! Alla bocca che morde, agli artigli che afferrano!”» disse citando Alice nel Paese delle Meraviglie.
Quella fu la sua ultima risata. Zhenya simulò un’apertura olandese, gli succhiò i pezzi e li risputò per farli asciugare. Poi lo informò che gli avrebbe dato scacco matto in tre mosse.
Le altre partite giocate da Zhenya si svolsero più o meno allo stesso modo. Non si accorse che anche la ragazza aveva vinto tutti i suoi incontri finché non se la trovò in finale, dall’altra parte della scacchiera.
«Abbiamo già giocato in passato» gli disse.
«Ne dubito. Mi ricordo sempre le partite interessanti.»
«È successo anni fa, in un casinò. Eravamo due ragazzini, allora.»
In quel momento Zhenya si ricordò. Era stato a una mostra, dove aveva dovuto darsela a gambe per portare a casa la pelle.
«Perché tu e il tuo amico mi date del baro?»
«È stato lui a chiamarti così, io avevo usato un’altra parola. Avevo detto “genio”.»
Il sole pomeridiano illuminava la leggera peluria sulle sue guance, le sopracciglia delicate erano appena aggrottate, gli occhi due cristalli verdi. E Zhenya si accorse troppo tardi che stava per perdere un pedone.