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IL MONDO È FATTO DI EVENTI,
NON DI COSE

 

Signori, il tempo della vita è breve...

se viviamo,

viviamo per calpestare i re

SHAKESPEARE, Enrico IV

 

 

Quando Robespierre liberò la Francia dalla monarchia, l’Europa dell’Ancien Régime temette fosse la fine della civiltà. Quando i giovani vogliono liberarsi da un vecchio ordine delle cose, i vecchi temono che tutto naufraghi. Ma l’Europa ha potuto vivere benissimo anche senza il Re di Francia. Il mondo può continuare a vivere benissimo anche senza Re Tempo.

C’è tuttavia un aspetto del tempo che è sopravvissuto allo sfaldamento subito con la fisica del XIX e XX secolo. Svestito degli orpelli di cui l’aveva ammantato la teoria Newtoniana, ai quali ci eravamo tanto abituati, splende ora ancora più chiaro: il mondo è cambiamento.

Nessuno dei pezzi che il tempo ha perso (unicità, direzione, indipendenza, presente, continuità...) mette in questione il fatto che il mondo sia una rete di avvenimenti. Una cosa è il tempo con le sue molte determinazioni, altra è il semplice fatto che le cose non «sono»: accadono.

L’assenza della quantità «tempo» nelle equazioni fondamentali non significa un mondo congelato e immobile. Al contrario, significa un mondo dove il cambiamento è ubiquo, senza essere ordinato da Padre Tempo: senza che gli innumerevoli accadimenti si dispongano necessariamente in bell’ordine, né lungo la singola linea del tempo Newtoniano, né secondo le eleganti geometrie Einsteiniane. Gli eventi del mondo non si mettono in fila come gli inglesi. Si accalcano caotici come gli italiani.

Ma sono avvenimenti, cambiare, accadere. L’accadere è diffuso, sparso, disordinato, ma è accadere, non stasi. Gli orologi che vanno a velocità diverse non definiscono un unico tempo, ma le posizioni delle loro lancette cambiano una rispetto all’altra. Le equazioni fondamentali non includono una variabile tempo, ma includono variabili che cambiano le une rispetto alle altre. Il tempo, suggeriva Aristotele, è la misura del cambiamento; variabili diverse possono essere scelte per misurare il cambiamento e nessuna di queste ha tutte le caratteristiche del tempo della nostra esperienza; ma ciò non toglie il fatto che il mondo sia incessante cambiare.

Tutta l’evoluzione della scienza indica che la migliore grammatica per pensare il mondo sia quella del cambiamento, non quella della permanenza. Dell’accadere, non dell’essere.

Si può pensare il mondo come costituito di cose. Di sostanza. Di enti. Di qualcosa che è. Che permane. Oppure pensare che il mondo sia costituito di eventi. Di accadimenti. Di processi. Di qualcosa che succede. Che non dura, che è continuo trasformarsi. Che non permane nel tempo. La distruzione della nozione di tempo nella fisica fondamentale è il crollo della prima di queste due prospettive, non della seconda. È la realizzazione dell’ubiquità dell’impermanenza, non della staticità in un tempo immobile.

Pensare il mondo come un insieme di eventi, di processi, è il modo che ci permette di meglio coglierlo, comprenderlo, descriverlo. È l’unico modo compatibile con la relatività. Il mondo non è un insieme di cose, è un insieme di eventi.

La differenza fra cose e eventi è che le cose permangono nel tempo. Gli eventi hanno durata limitata. Un prototipo di una «cosa» è un sasso: possiamo chiederci dove sarà domani. Mentre un bacio è un «evento». Non ha senso chiedersi dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi.

Le unità semplici nei termini delle quali comprendere il mondo non stanno in un qualche punto dello spazio. Sono – se ci sono – in un dove ma anche in un quando. Sono spazialmente ma anche temporalmente limitate: sono eventi.

A ben guardare, infatti, anche le «cose» che più sembrano «cose» non sono in fondo che lunghi eventi. Il sasso più solido, alla luce di quello che abbiamo imparato dalla chimica, dalla fisica, dalla mineralogia, dalla geologia, dalla psicologia, è in realtà un complesso vibrare di campi quantistici, un interagire momentaneo di forze, un processo che per un breve istante riesce a mantenersi in equilibrio simile a se stesso, prima di disgregarsi di nuovo in polvere, un capitolo effimero nella storia delle interazioni fra gli elementi del pianeta, una traccia di un’umanità neolitica, un’arma dei ragazzi della via Pál, un esempio in un libro sul tempo, una metafora per un’ontologia, una porzione di una partizione del mondo che dipende dalle strutture percettive del nostro corpo più che dall’oggetto della percezione, e via e via, un nodo intricato di quel cosmico gioco di specchi che è la realtà. Il mondo non è fatto di sassi più di quanto sia fatto di suoni fugaci e di onde che corrono sul mare.

Se il mondo fosse fatto di cose, d’altra parte, quali sarebbero queste cose? Gli atomi, che abbiamo scoperto essere composti a loro volta di particelle più piccole? Le particelle elementari, che abbiamo scoperto essere nient’altro che eccitazioni effimere di un campo? I campi quantistici, che abbiamo scoperto essere poco più che codici di un linguaggio per parlare di interazioni e eventi? Non riusciamo a pensare al mondo fisico come fatto di cose, di enti. Non funziona.

Invece funziona pensare il mondo come rete di eventi. Eventi più semplici ed eventi più complessi che si possono scomporre in combinazioni di eventi più semplici. Qualche esempio: una guerra non è una cosa, è un insieme di eventi. Un temporale non è una cosa, è un insieme di accadimenti. Una nuvola sopra una montagna non è una cosa: è il condensarsi dell’umidità dell’aria man mano che il vento scavalca la montagna. Un’onda non è una cosa, è un muoversi di acqua, l’acqua che la disegna è sempre diversa. Una famiglia non è una cosa, è un insieme di relazioni, avvenimenti, sentire. E un essere umano? Certo non è una cosa: è un processo complesso, in cui, come nella nuvola sopra la montagna, entrano ed escono aria, cibo, informazioni, luce, parole, e così via... Un nodo di nodi in una rete di relazioni sociali, in una rete di processi chimici, in una rete di emozioni scambiate con i propri simili.

Per molto tempo abbiamo cercato di comprendere il mondo in termini di una qualche sostanza primaria. Forse più di ogni altra disciplina, la fisica ha inseguito questa sostanza primaria. Ma più lo abbiamo studiato, meno il mondo sembra comprensibile in termini di qualcosa che è. Sembra essere molto meglio comprensibile in termini di relazioni fra accadimenti.

Le parole di Anassimandro citate nel primo capitolo ci invitavano a pensare il mondo «secondo l’ordine del tempo». Se non assumiamo di sapere a priori quale sia l’ordine del tempo, se non presupponiamo cioè l’ordine lineare e universale che ci è familiare, l’esortazione di Anassimandro resta valida: capiamo il mondo studiando il cambiamento, non studiando le cose.

 

 

Chi ha dimenticato questo buon consiglio ne ha fatto le spese. Due grandi che caddero in quest’errore sono stati Platone e Keplero, curiosamente sedotti entrambi dalla stessa matematica.

Nel Timeo, Platone ha l’ottima idea di provare a tradurre in matematica le intuizioni fisiche degli atomisti come Democrito. Ma lo fa in maniera sbagliata: tenta di scrivere la matematica della forma degli atomi, invece che la matematica del loro movimento. Si fa affascinare da un teorema matematico che stabilisce che ci sono cinque, e solo cinque, poliedri regolari, eccoli:

 

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e tenta l’ipotesi audace che queste siano proprio le forme degli atomi di quelle che nell’antichità si pensava fossero le cinque sostanze elementari: terra, acqua, aria, fuoco e la quintessenza di cui sono fatti i cieli. Bellissima idea, del tutto sbagliata. L’errore è cercare di comprendere il mondo in termini di cose anziché eventi: ignorare il cambiamento. La fisica e l’astronomia che funzioneranno, da Tolomeo a Galileo, da Newton a Schrödinger, saranno la descrizione matematica di come le cose cambiano, non di come sono. Degli avvenimenti, non delle cose. Le forme degli atomi saranno finalmente capite solo come soluzioni dell’equazione di Schrödinger, che descrive come gli elettroni si muovono negli atomi: ancora accadimenti, non cose.

Secoli dopo, prima di arrivare ai grandi risultati della maturità, il giovane Keplero cade nello stesso errore. Si chiede cosa determini la dimensione delle orbite dei pianeti e si fa stregare dallo stesso teorema che ha stregato Platone (è un bellissimo teorema, in effetti). Ipotizza che siano i poliedri regolari a determinare le dimensioni delle orbite dei pianeti: se li incastriamo uno dentro l’altro con delle sfere fra l’uno e l’altro, i raggi di queste sfere saranno – ipotizza Keplero – nella stessa proporzione dei raggi delle orbite dei pianeti.

 

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Bella idea, del tutto strampalata. Ancora una volta è la dinamica che manca. Quando Keplero passa, più tardi, a occuparsi di come si muovono i pianeti, le porte del cielo gli si aprono.

 

 

Noi, quindi, descriviamo il mondo come accade, non come è. Meccanica di Newton, equazioni di Maxwell, meccanica quantistica, eccetera, ci dicono come accadono eventi, non come sono cose. Capiamo la biologia studiando come evolvono e vivono esseri viventi. Capiamo la psicologia (un po’, non molto) studiando come interagiamo fra noi, come pensiamo... Capiamo il mondo nel suo divenire, non nel suo essere.

Le «cose» stesse sono solo accadimenti che per un po’ sono monotoni.73 Prima di ritornare alla polvere. Perché prima o poi, ovviamente, tutto ritorna alla polvere.

L’assenza del tempo non significa quindi che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac. Non forma neppure una geometria quadridimensionale. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore.

Se per «tempo» intendiamo null’altro che l’accadere, allora ogni cosa è tempo: esiste solo ciò che è nel tempo.

 

 

 

73. N. Goodman, The Structure of Appearance, Harvard University Press, Cambridge, 1951; trad. it. La struttura dell’apparenza, il Mulino, Bologna, 1985.