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Quarta soluzione: I gioielli della Corona

“In teoria non c’è differenza tra teoria e pratica: in pratica c’è differenza.”

Yogi Berra, citazione apocrifa

Il debito pubblico italiano è gestito dalla Direzione del Tesoro del ministero dell’Economia e delle finanze. È così in molti paesi: il ministero che gestisce il debito è il ministero del Tesoro. Il nome tradisce il fatto che uno dei compiti principali di questa parte della pubblica amministrazione era, in origine, gestire non tanto il debito, ma le attività reali e finanziarie di proprietà pubblica, il tesoro, appunto. Il debito pubblico è, in una prospettiva storica, un’invenzione relativamente recente (come descritto nel libro di Niall Ferguson, The Cash Nexus, già citato alla nota 2 del capitolo 1), al contrario del debito privato che invece esiste da millenni. Molto prima era sorta la necessità di gestire la ricchezza del sovrano – i gioielli della Corona – e chi la gestiva era il tesoriere del regno.

Quando uno stato è fortemente indebitato, è naturale chiedersi se, a fronte del debito, non esistano anche ingenti attività che magari potrebbero essere vendute per ridurne il peso. Puntualmente, anche in Italia, quando si fanno più accese le discussioni su come ridurre il debito pubblico, molti trovano nella vendita delle attività detenute dallo stato il deus ex machina per evitare una dolorosa austerità. E quelli che non parlano di vendita invocano la necessità di valorizzare la ricchezza dello stato, aumentandone il rendimento in modo da ricavarne risorse per pagare gli interessi sul debito.

Come vedremo, in teoria le attività del settore pubblico italiano sono ingenti. Ma, in pratica, venderle non è per niente semplice. Questa è un’area in cui la distanza tra la teoria di quello che si può fare e la pratica risulta particolarmente ampia (da qui la citazione all’inizio di questo capitolo).1

Quanto è grande la ricchezza delle pubbliche amministrazioni?

Non si sa precisamente, il che vi dà subito l’idea delle difficoltà che si incontrano nel realizzare un potenziale piano di vendita. La Direzione del Tesoro ha avviato dal 2010 una rilevazione estesa a tutte le pubbliche amministrazioni – anche per adempiere la richiesta contenuta nella legge 191 del 2009, articolo 2, comma 222, di pubblicare un Rendiconto patrimoniale a valori di mercato –, ma per ora le attività coperte hanno compreso soltanto immobili e partecipazioni (si sta lavorando sulle concessioni, ma i relativi dati non sono ancora disponibili). Inoltre, per ora la rilevazione riguarda le quantità, non il valore di mercato delle proprietà. Un altro problema è che, come spesso accade nel nostro paese, non tutte le pubbliche amministrazioni hanno risposto alla richiesta di fornire dati sul proprio attivo (la legge non prevede penalità per gli inadempienti, purtroppo). Al momento il Tesoro non pubblica quindi un dato sulla ricchezza delle pubbliche amministrazioni. Ciò detto, proviamo a fare qualche conto basandoci sulle informazioni disponibili. Dove ci porta questa… caccia al tesoro?

Per la sola amministrazione centrale, più precisamente per lo stato, viene pubblicato il Conto generale del patrimonio dello stato curato dalla Ragioneria generale, in cui però i valori riportati non sono a prezzi di mercato ma a valori storici di bilancio (per esempio nel caso degli immobili), valori che possono essere molto lontani dai prezzi di mercato. Questo documento stima per lo stato un totale di attività pari a 969 miliardi a fine 2014 (ho arrotondato: la Ragioneria presenta un totale in termini di euro e centesimi), di cui 669 miliardi sono rappresentati da attività finanziarie e 300 miliardi da attività reali.

Inoltre, l’Istat ha pubblicato a maggio 2015 il valore delle attività non finanziarie di tutte le pubbliche amministrazioni (http://www.istat.it/it/archivio/160822). Secondo l’Istat, a fine 2013 la ricchezza non finanziaria delle pubbliche amministrazioni (inclusiva – cito alla lettera – di immobili, impianti, macchinari, armamenti, risorse biologiche coltivate, prodotti di proprietà intellettuale e terreni agricoli) ammontava a 491 miliardi, il che quadra abbastanza con il dato riportato dalla Ragioneria per il solo stato (anche perché la fonte è in parte proprio quella, anche se poi l’Istat ha proceduto a una stima approssimata dei prezzi di mercato degli immobili).

Ora, se aggiungiamo a questa stima delle attività reali (491 miliardi) il dato sulle attività finanziarie dello stato (669 miliardi; si tratta di anni diversi ma non di molto), arriviamo a 1160 miliardi. Questo non comprenderebbe però le attività finanziarie della parte non statale della pubblica amministrazione.2

Guardiamo infine le stime pubblicate in passato: la più citata è quella di Edoardo Reviglio che, nel 2011, stimava un attivo totale di 1815 miliardi per tutte le pubbliche amministrazioni.3 Come ordine di grandezza ci siamo, ma il margine di errore sembra essere ampio.

Insomma, il valore delle attività delle pubbliche amministrazioni, seppur più basso, non dovrebbe essere troppo lontano da quello del debito (2136 miliardi a fine 2014, vedi capitolo 1). Ma l’incertezza su questo valore suggerisce che la sua vendita per ripagare il debito pubblico non sarebbe poi così facile. Prima di vedere più a fondo perché una vendita sarebbe difficile, occorre però chiederci: perché vendere?

Perché vendere? Vendere o valorizzare?

Un’obiezione comune a vendere le attività pubbliche per ridurre il debito è che una vendita non cambia la ricchezza netta dello stato (o di un’altra parte della pubblica amministrazione). Si riducono le passività e si riducono le attività: il netto non cambia. Perché farlo allora? In realtà, ci possono essere buoni motivi (a parte la motivazione più generale di chi ritiene che, comunque, una riduzione dello spazio del pubblico porti a una maggiore efficienza del sistema economico). Un primo motivo è che un debito pubblico elevato comporta che ogni mese lo stato deve essere in grado di vendere sul mercato titoli per rifinanziare il debito in scadenza. Questo costante fabbisogno di liquidità espone lo stato al rischio di crisi di cui abbiamo parlato nel capitolo 2. Purtroppo le attività del settore pubblico (per quanto ingenti) hanno tipicamente un basso grado di liquidità (pensate al patrimonio immobiliare). Queste attività possono essere vendute gradualmente in periodi buoni, ma in un momento di crisi non danno liquidità. Per ridurre il rischio è allora meglio ridurre gradualmente sia le attività sia le passività dello stato.

Ma c’è anche un secondo motivo. Le attività detenute dalle pubbliche amministrazioni hanno spesso un basso rendimento, anche in periodi in cui i tassi d’interesse che lo stato paga sul proprio debito sono elevati. Per esempio, è stato stimato (anche se, di nuovo, si tratta di stime molto incerte) che, qualche anno fa, quando i tassi d’interesse sul debito pubblico erano dell’ordine del 5-6 per cento, le attività delle pubbliche amministrazioni, in conseguenza di una cattiva gestione, rendevano in media meno dell’1 per cento e, per la parte immobiliare, solo lo 0,5 per cento (sono i dati del già citato studio di Reviglio). Quindi, vendendo attività a basso rendimento, lo stato potrebbe evitare di prendere a prestito a tassi elevati, con un risparmio netto.

Se è così, però, si potrebbe allora cercare di valorizzare le attività dello stato piuttosto che venderle, soprattutto se la vendita è difficile. È quanto sostenuto, fra gli altri, da Tito Boeri e Giuseppe Pisauro in una breve nota pubblicata nel mezzo della crisi dell’area dell’euro. Non era un’idea nuova. Nel 2002 venne creata una società (Patrimonio dello stato S.p.A.) con il compito di valorizzare le attività dello stato. Venne posta in liquidazione nel 2011. Evidentemente neanche valorizzare è così semplice.

Perché è così difficile vendere, o valorizzare, i gioielli della Corona?

Ci sono tre motivi (a parte quelli di chi si oppone politicamente alla vendita per non allargare il ruolo del privato nell’economia, la motivazione simmetrica a chi ritiene che occorra privatizzare per principio).

Primo, ci sono i soliti interessi di parte. Vendere vuol dire togliere potere a qualcuno che gestisce le proprietà pubbliche. Aumentare il rendimento delle proprietà pubbliche vuol dire far pagare a qualcuno un prezzo più elevato per l’uso di quelle attività. Pensiamo alle concessioni (per esempio sui litorali) che, secondo la stima di Edoardo Reviglio, rendono solo lo 0,5 per cento. Che ci siano interessi di parte è quindi indubbio.

Secondo, molte delle attività delle pubbliche amministrazioni non sono facilmente vendibili e quelle più vendibili hanno già un rendimento elevato. Abbiamo visto che le attività finanziarie dello stato ammontavano a fine 2014 a 669 miliardi. Ma se guardiamo più da vicino non se ne può ricavare molto:

  • Le partecipazioni azionarie sono le più facilmente vendibili e quelle sono state, a partire dall’inizio degli anni novanta, la fonte principale delle entrate da privatizzazione dello stato (stimate in circa 120 miliardi di euro tra il 1993 e il 2005).4 Non rimane ora molto: le azioni quotate e non quotate a fine 2014 venivano contabilizzate in circa 70 miliardi e si sta procedendo con qualche vendita ulteriore (le ultime operazioni essendo la parziale cessione di Poste italiane S.p.A. e l’avvio della vendita del 40 per cento di Ferrovie dello stato italiane). Questa cifra non comprende le circa diecimila e passa società e agenzie partecipate degli enti locali. Molte di queste sono però “scatole vuote”. Il valore complessivo della quota di proprietà pubblica di queste partecipate non dovrebbe eccedere, anche in questo caso, qualche decina di miliardi.
  • Ci sono poi 344 miliardi di “crediti”, ma quasi un terzo di questi è verso altre parti della pubblica amministrazione, mentre la maggior parte del resto sono essenzialmente tasse che ancora devono essere pagate ma sono già state contabilizzate.
  • Seguono circa 185 miliardi di “partecipazioni”, ma si tratta quasi interamente di partecipazioni in organismi internazionali (il grosso essendo costituito dal contributo italiano ai meccanismi di sostegno ai paesi dell’euro in crisi, discussi nel capitolo 9), che certo non si possono vendere.
  • Altri 62 miliardi erano “anticipazioni attive”, la maggior parte delle quali è però nei confronti di altre parti della pubblica amministrazione.
  • Il resto è poca roba (8 miliardi).


    Anche per il patrimonio immobiliare occorre stare attenti. Secondo l’Istat vale oltre 360 miliardi (su 491 miliardi di ricchezza non finanziaria) e questa è una stima forse prudenziale, ma non tutto può essere facilmente venduto. Pensiamo alle caserme che devono essere bonificate prima di diventare vendibili. E poi nel totale ci sono anche gli edifici occupati dalle stesse pubbliche amministrazioni. Certo, c’è moltissimo spazio sprecato in quegli edifici, ma occorrono investimenti per razionalizzare gli spazi. Non fraintendetemi: bisogna efficientare l’uso degli spazi, ma non è che si possa fare tutto da un giorno all’altro.

    Il terzo ostacolo a una vendita o valorizzazione delle attività pubbliche riguarda la complessità dell’operazione. Il patrimonio delle pubbliche amministrazioni non appartiene a un solo ente. Appartiene agli ottomila comuni, alle cento province, alle venti regioni, ai duecento enti pubblici centrali, a non so quanti enti pubblici locali. E non dimentichiamoci che anche lo stato è costituito da diverse parti, da diversi ministeri. È vero che l’Agenzia del demanio può coordinarne il lavoro per quanto riguarda gli immobili, ma non controlla tutto. Non può, per esempio, di sua iniziativa prendere decisioni che riguardano gli immobili in uso di un certo ministero (che deve essere coinvolto, convinto eccetera). Occorrerebbe una regia centralizzata molto forte per procedere rapidamente a uno smobilizzo delle attività dello stato. Occorrerebbero manager pubblici (e tanti) in grado di farlo. Senza contare l’effetto sui prezzi di mercato che tale smobilizzo potrebbe avere. Insomma, per dirla nel linguaggio che tanto piace ai manager privati, i problemi di execution di un piano di vendita del patrimonio pubblico sono davvero seri.

    In conclusione, cosa si può fare?

    Non vorrei avervi dato l’impressione di essere contrario alla vendita del patrimonio pubblico per rimborsare il debito pubblico. Tutt’altro (io venderei pure la Rai, o almeno un pezzo…). Occorre muoversi in questa direzione con maggiore energia che in passato anche perché in Italia, almeno finché non avremo un’amministrazione pubblica più efficiente, e finché non si faranno maggiori passi avanti nella lotta alla corruzione, temo che la gestione di certe attività da parte del settore pubblico non faccia molto bene all’economia. In generale, la proprietà pubblica di attività reali, soprattutto nel campo imprenditoriale, dovrebbe essere giustificata solo dalla presenza di quello che gli economisti chiamano “fallimento di mercato”, l’incapacità del mercato di agire in modo da massimizzare il benessere comune. Altrimenti, il settore pubblico dovrebbe lasciare spazio a quello privato.

    Occorre, però, essere realisti sull’ammontare delle risorse che potrebbero essere ricavate dalla vendita del patrimonio pubblico, o dalla sua valorizzazione, anche assumendo una piena determinazione politica in questa direzione. Un lavoro pubblicato dal centro studi Astrid, e firmato da alcuni dei maggiori esperti italiani del settore pubblico (tra cui Giuliano Amato, Franco Bassanini, Paolo Guerrieri, Rainer Masera, Marcello Messori, Stefano Micossi, Giuseppe Pennisi, Edoardo Reviglio e Maria Teresa Salvemini) concludeva che nel giro di un decennio si potrebbero ricavare risorse pari ad almeno 300 miliardi di euro (il 17-18 per cento del Pil). Una cifra rilevante, superiore a quanto ricavato in passato in un lasso di tempo corrispondente, nonostante le proprietà pubbliche fossero più estese. Ma, anche se si riuscisse a raggiungere queste cifre, cosa che credo sia non impossibile ma difficile, si tratterebbe comunque di poco più del 10 per cento del debito pubblico. Occorre provarci, ma non sarebbe credibile basare un programma di riduzione del debito principalmente su un piano di dismissioni.

    Un commento finale: più volte, nel corso del mio lavoro al Fondo monetario internazionale, ho trovato paesi in difficoltà che tendevano a sovrastimare le possibili entrate da privatizzazioni (compresa, in tempi recenti, la Grecia, le cui vendite effettive sono state per ora piuttosto modeste). C’ho fatto il callo. Non mi impressiono più.

    Post scriptum sulla gestione del debito

    Dedico solo poche righe a quello che è il compito principale al giorno d’oggi del tesoriere dello stato. Quello di gestire non l’attivo, ma il passivo, cioè di decidere in che forma prendere a prestito, a breve o a lungo termine, in euro o in altre valute, con copertura o meno dei rischi sui tassi d’interesse e così via. Bastano poche righe perché non credo che una diversa gestione del debito possa cambiare drasticamente il peso del debito pubblico italiano. Chi gestisce il debito in Italia lo fa con professionalità ed esperienza e non credo siano possibili miglioramenti significativi. In generale, anche in questo campo il lavoro al Fondo monetario mi ha insegnato che cercare di ottenere grossi risparmi cambiando la composizione del debito si paga in termini di rischio cui si è esposti (tranne che in casi di palese incapacità dei gestori del debito). Di nuovo, meglio non cercare scorciatoie pericolose.

    Note - 10. Quarta soluzione: I gioielli della Corona

    1 Yogi Berra era un giocatore di baseball italo-americano celebre per le sue frasi lapalissiane ma comunque efficaci. La frase riportata però non sembra sia mai stata davvero pronunciata da Berra, anche se è spesso elencata tra gli yogiberrismi.

    2 Nelle sue statistiche l’Ocse riporta un valore molto più elevato per la ricchezza non finanziaria delle pubbliche amministrazioni a prezzi di mercato: 892 miliardi, la maggior parte dei quali è costituita da edifici.

    3 http://www.itaca.org/documenti/news/relazione%20reviglio%2029%2009%2011.pdf. In precedenza, Domenico Siniscalco, allora direttore generale del Tesoro, aveva pubblicato una stima molto più bassa (805 miliardi), ma questa era relativa a fine 2000, con alcune componenti stimate addirittura sulla base di dati che risalivano a metà degli anni ottanta. (http://www.dt.tesoro.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_it/eventi/eventi/Prof.-Siniscalco-14-maggio-2002.pdf).

    4 Una efficace presentazione delle privatizzazioni in questo periodo si trova nell’articolo di Stefano Micossi al sito http://www.italianieuropei.it/tablet/item/202-le-privatizzazioni-in-italia-qualche-utile-lezione.html