9.
Terza soluzione: Mutualizziamo il debito
“I get by with a little help from my friends.”
The Beatles, With a little help from my friend
La situazione in Europa nel 2011-2012 era paradossale: alcuni paesi soffrivano a causa della prima crisi che l’euro stava attraversando dalla sua nascita, altri ne beneficiavano. I capitali, infatti, si spostavano dai paesi sotto la pressione dei mercati finanziari (quelli del Sud Europa più l’Irlanda), facendo aumentare i tassi di interesse, a quelli del Nord Europa (soprattutto la Germania), facendo scendere i tassi di interesse. La fuga era generata dalla paura di un’uscita dall’euro dei paesi a bassa competitività e ad alto debito. Ma l’euro non era il prodotto di un ideale di unione economica e, in prospettiva, politica? E se questo era l’ideale, non ne conseguiva anche la necessità per i paesi “forti”, e che per giunta traevano vantaggio dalla crisi, di sostenere in qualche modo i paesi “deboli”? Quello che mancava all’architettura europea non era un elemento di solidarietà? Come dicevano i Beatles, ce la si può cavare con un po’ d’aiuto dagli amici.
Da questa osservazione partirono in quel periodo diverse proposte per “condividere il rischio” (risk sharing) tra membri dell’area dell’euro. Questo capitolo parla di tali proposte di condivisione dei rischi, con una particolare attenzione a quelle che comportano la mutualizzazione del debito pubblico, cioè il rimpiazzo del debito emesso dai singoli stati con un debito emesso da un’entità centrale europea, magari da un ministero delle Finanze europeo. È questo forse il modo con cui il debito italiano può essere ridotto? Purtroppo, come vedremo, la mutualizzazione del debito richiede uno spirito di solidarietà che non troviamo neppure negli stati federali (come gli Stati Uniti, il Canada o la Germania), cioè in quelle aree monetarie che hanno raggiunto una piena unione politica. Aspettarsi che questo accada nell’area dell’euro, che è ancora molto lontana da un’unione politica, è quindi irrealistico.
Condividere il rischio in un’unione monetaria
Molti economisti hanno sostenuto che il buon funzionamento di aree monetarie come quella dell’euro richiede forme di condivisione del rischio: se un membro dell’unione monetaria subisce uno shock – specifico di quel paese (gli economisti parlano di shock idiosincratici, tanto per complicare un po’ le cose) o comune a tutta l’area (in quest’ultimo caso il ragionamento vale solo se lo shock ha ripercussioni diverse tra paesi) –, dovrebbe essere aiutato dagli altri membri dell’unione. Questa condivisione del rischio è necessaria perché i paesi, entrando a far parte di un’area comune, perdono uno strumento fondamentale per assorbire gli shock – la politica monetaria e di cambio – e di solito vengono anche vincolati nella gestione della politica fiscale (come vedremo nel capitolo 12). Inoltre, aiutare i paesi in crisi va a vantaggio di tutti perché una crisi in uno stato può contagiare facilmente gli altri paesi della stessa area monetaria. Quindi, per lo meno nel caso in cui i membri rispettino le regole del club, dovrebbero beneficiare del supporto degli altri membri in caso di necessità.
Questa la teoria. Ma, in pratica, che succede? In pratica, le forme di condivisione del rischio sono meno frequenti ed estese di quanto molti sostengano, anche nelle aree monetarie che hanno raggiunto una piena unione politica, cioè negli stati federali.1
Ci sono tre modi per aiutare paesi colpiti da uno shock. Il primo è di trasferire risorse a fondo perduto. Il secondo è di prestare risorse. Il terzo è di mettere in comune il debito emettendo titoli o fornendo garanzie in comune (il che aiuta i paesi “deboli” indipendentemente dal fatto che siano o no in crisi, ma li aiuta di più in caso di crisi, quando i tassi d’interesse sul debito tendono ad aumentare).
Cominciamo dai trasferimenti a fondo perduto. Questo è stato un tema molto studiato dagli economisti che si sono occupati dell’area dell’euro. Fin dai primi anni novanta, quando è stato annunciato il progetto della moneta unica, molti economisti hanno notato che nelle aree monetarie i paesi che cadevano in recessione ricevevano dal centro maggiori trasferimenti netti. Cioè la differenza tra risorse ricevute dal centro e risorse trasferite al centro cresceva quando i paesi erano in difficoltà. Non si potevano introdurre meccanismi simili in Europa? Diverse proposte in proposito furono avanzate, anche dalla Commissione europea e dal Fondo monetario.2
In realtà, i trasferimenti netti che si realizzano in presenza di shock nelle altre aree monetarie avvengono come conseguenza dell’accentramento di certe politiche di tassazione e spesa in un bilancio centrale (un bilancio federale). Il grosso dell’aumento di questi trasferimenti netti deriva, in particolare, dall’accentramento delle imposte sul reddito, per cui i cittadini del paese in crisi pagano meno tasse al bilancio federale quando il loro reddito scende. Inoltre, se esiste un sussidio di disoccupazione centrale, quando un membro di uno stato federale cade in recessione, i suoi cittadini ricevono più soldi dal bilancio federale.3 Invece, i trasferimenti lordi agli stati volti specificatamente ad attenuare gli effetti degli shock sono piuttosto limitati. Quindi, l’aumento dei trasferimenti netti è l’effetto collaterale dell’esistenza di un bilancio federale in cui si sono accentrati certi strumenti di tassazione e spesa. Il bilancio dell’Unione europea è invece minuscolo (più o meno un ventesimo di quello che troviamo anche nelle federazioni fiscali più decentrate) e, al momento, non svolge nessun ruolo significativo in termini di condivisione del rischio. Il ministro Padoan ha proposto, anche di recente, di centralizzare certe politiche fiscali, come quelle per i sussidi di disoccupazione (trovate la proposta al sito www.mef.gov.it/inevidenza/article_0165.html). Ma questa centralizzazione urta con l’avversione dei paesi europei a ridurre la propria sovranità. Né c’è stato alcun progresso nella creazione di meccanismi di trasferimento ad hoc, che, comunque, come ho detto, non esistono neppure negli stati federali.
Il secondo modo di condividere il rischio è di elargire prestiti ai membri dell’unione monetaria colpiti da uno shock. I prestiti vanno erogati a tassi d’interesse ragionevoli. Non era questo il caso, come abbiamo visto, del primo programma di sostegno alla Grecia. Ma poi le cose sono state sistemate, su base, per così dire, istituzionale, creando un sistema permanente di finanziamenti ai paesi dell’area dell’euro in difficoltà. Quindi, in questo campo c’è stato effettivamente un progresso. In questo caso si segue l’esperienza degli stati federali, o almeno di alcuni. Infatti, mentre in paesi come gli Stati Uniti il bilancio federale non è mai intervenuto (dal 1840) a sostegno di uno stato, in altre federazioni (compresa la Germania) ci sono stati diversi casi d’intervento del bilancio centrale a favore dei membri della federazione (i Länder tedeschi).
Nell’area dell’euro, vista l’assenza di un bilancio centrale di dimensioni adeguate, si è creata una istituzione ad hoc, con sede in Lussemburgo, chiamata European Stability Mechanism (Esm), attualmente guidata da un tedesco, Klaus Regling, ex Fondo monetario ed ex Commissione europea, ottimo economista e gran conoscitore dei meccanismi istituzionali europei. L’Esm eroga prestiti in cambio di politiche di aggiustamento fiscale e strutturale, proprio come fa il Fondo monetario. Le procedure richieste per questi prestiti sono piuttosto complicate, ma sono quelle cui l’Europa ci ha ormai abituato (e su cui torneremo nel capitolo 12 parlando di regole fiscali continentali). La cosa più importante da notare per questo libro è che la solidarietà derivante dai prestiti dell’Esm riguarda i paesi che sono già in crisi. Non si tratta quindi di un meccanismo che i paesi ad alto debito possono utilizzare per ridurre il debito o il suo costo al fine di evitare una crisi.
Il terzo approccio alla condivisione del rischio in un’unione monetaria è invece quello che più ci interessa: comporta mettere in comune il debito, o parte di esso, cioè rimpiazzare il debito dei singoli stati con un debito emesso o garantito centralmente, da una istituzione europea ad hoc o dalla Commissione europea, riducendo quindi il rischio di crisi.
Debito europeo per rimpiazzare il debito degli stati
Le tante proposte a riguardo sono quasi tutte caratterizzate dalla stessa idea. Una istituzione europea emette titoli sul mercato che sono garantiti congiuntamente da tutti i paesi dell’area dell’euro (la frase magica è che la garanzia deve essere “joint and several”, il che vuol dire che ogni membro è responsabile per l’intero prestito: ovvero il creditore, se ci sono problemi, può rivolgersi a qualunque membro dell’unione per riscuotere l’intero importo).4 Vista la garanzia a livello europeo, i nuovi titoli sono emessi a tassi bassi e le risorse raccolte sono utilizzate per finanziare l’acquisto di una parte dei titoli emessi dai singoli stati a tassi più alti. Questo toglie dal mercato una parte rilevante dei titoli, in alcune proposte fino al 60 per cento del Pil, che circolavano a tassi elevati. I paesi membri quindi diventano debitori verso un’istituzione europea, e non più verso i capricciosi mercati finanziari, e ripagano il debito nel tempo, magari fornendo in garanzia attività reali (per esempio, il patrimonio immobiliare dello stato).5
Si tratta spesso di meccanismi ingegnosi, ma queste idee non sono andate molto avanti. Il problema è che queste proposte richiedono un grado di solidarietà – di altruismo – che non si trova neppure negli stati federali, cioè in quelle aree economiche che hanno abbandonato molti aspetti della propria sovranità nazionale e che fanno parte di un’unica nazione. Negli stati federali il debito federale viene tipicamente emesso per finanziare il deficit federale, non per finanziare il deficit degli stati membri, né per sostituire il debito dei paesi membri con nuovo debito emesso centralmente.6
L’idea, anche negli stati federali, è che ogni membro (ogni stato americano, ogni Land tedesco) sia responsabile per il finanziamento del proprio deficit e del proprio debito. Ci sono stati casi in cui al momento della creazione di una nuova nazione c’è stato un accentramento del debito. È quello che è successo negli Stati Uniti dopo la Guerra d’indipendenza. Ma il debito degli stati, in quella occasione, era essenzialmente dovuto all’aver combattuto una guerra in comune contro gli inglesi, non per sostenere più elevati livelli di welfare, o, ancor peggio, di spreco, nella spesa pubblica dei singoli stati.7
Perché dunque i nostri partner nordici dovrebbero accollarsi l’onere di garantire il debito contratto dall’Italia? Certo, si possono trovare ottime ragioni, compreso quella che un buon funzionamento dell’area dell’euro alla fine conviene anche a loro. Ma resta il fatto che la mutualizzazione del debito non è per niente frequente, neppure negli stati federali.
Un post scriptum sul “Padre”
Concludo questo capitolo con una delle poche proposte di abbattimento del debito europeo che non richiede forme di garanzia da parte di tutti i paesi membri e quindi non implica quel tipo di altruismo che mi sembra irrealistico attendersi sulla base dell’esperienza storica. È una sezione un po’ più tecnica e i lettori non interessati potranno saltarla senza problemi.
La proposta, chiamata “Politically Acceptable Debt Restructuring in Europe” (“Padre”), viene da due economisti francesi, Pierre Paris e Charles Wyplosz.8 L’idea è brillante. Ogni paese europeo ha una ricchezza futura che è abbastanza certa ma che non controlla direttamente (e che quindi non può sprecare). Si tratta della propria quota dei profitti della Banca centrale europea. Questi profitti dipendono dalla capacità della Banca centrale di stampare banconote che non costano quasi nulla ma hanno un valore (si tratta di quello che nei capitoli 1 e 6 abbiamo chiamato “signoraggio”, il diritto di battere moneta). L’importo di questi profitti – dicono gli autori della proposta – è abbastanza certo nel tempo, a meno di pensare a un forte calo del fabbisogno di banconote nei prossimi decenni (il che è possibile ma gli autori assumono che non lo sia).
I paesi europei potrebbero quindi rinunciare a questi profitti e con il valore corrispondente potrebbero coprire le perdite di un ente che assorbisse, a rendimento zero, metà dei titoli di stato in circolazione, in modo da dimezzare il debito pubblico europeo. Gli acquisti di titoli da parte di questo ente dovrebbero essere ripartiti tra i paesi sulla base della propria quota di distribuzione dei profitti, che dipende dalle quote di partecipazione dei vari paesi nella Banca centrale europea. Non ci sarebbe bisogno di garanzie di alcun tipo perché la fonte dei profitti sarebbe la stessa Bce e quindi non ci sarebbe la possibilità per un paese membro di non versare la propria quota annuale. Inizialmente lo schema sarebbe in perdita perché i profitti ceduti non coprirebbero le perdite sui titoli acquistati, ma quel che conta è che il valore scontato dei flussi futuri derivanti dal signoraggio ecceda il valore delle perdite sulla conversione dei titoli.
Lo schema presenta un paio di punti critici. Il primo è che la cessione dei diritti alla propria quota di signoraggio da parte di un paese ne peggiorerebbe le finanze pubbliche per i decenni successivi. È vero quindi che il debito di un paese si ridurrebbe, ma si ridurrebbe anche il valore futuro delle entrate. Il secondo problema è empirico. Non è per niente chiaro se il valore del signoraggio sia sufficiente per coprire il costo dell’operazione, soprattutto tenendo conto di possibili cambiamenti (per esempio nelle tecnologie di pagamento) che potrebbero ridurre il fabbisogno di banconote.
Fatto sta che neppure questa proposta è andata avanti. Pragmaticamente credo sia meglio pensare a come ridurre il debito pubblico senza sperare in una sua mutualizzazione o in altre operazioni di ingegneria finanziaria.
Note - 9. Terza soluzione: Mutualizziamo il debito
1 Fra l’altro, quasi tutte le aree monetarie coincidono con unioni politiche. Qui il confronto è fatto con gli stati federali perché sono le forme meno intense di unione politica, e quindi più facilmente confrontabili con l’Unione europea, che è una forma ancora più attenuata (molto più attenuata) di unione politica.
2 La proposta del Fondo monetario si trova al sito https://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2013/sdn1309tn.pdf.
3 Questo punto è discusso nel capitolo 2 del libro Designing a European Fiscal Union: Lessons from the Experience of Fiscal Federations, curato dallo scrivente e da Martine Guerguil, Routledge, 2015.
4 Trovate un sommario di queste proposte al sito https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2012/wp12172.pdf.
5 Una proposta italiana in questa direzione è stata avanzata da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio con una lettera pubblicata sul “Sole-24 Ore” il 23 agosto 2011.
6 Fa eccezione l’Austria dove il governo centrale prende a prestito (e presta) le risorse necessarie ai membri della federazione. Ma si tratta di casi rari. Questo tema è discusso nel capitolo 5 del libro Designing a European Fiscal Union: Lessons from the experience of fiscal federations, cit.
7 Nel caso italiano, la creazione del regno unitario portò alla trasformazione del debito dei vari stati preunitari in un unico debito nazionale, ma il Regno sabaudo, lo stato leader dell’unificazione, aveva un debito più elevato degli altri stati preunitari, soprattutto del Regno delle due Sicilie (come raccontato da Floriana Cerniglia in un articolo pubblicato sugli “Annali di Storia Moderna e Contemporanea”, n. 1 del 1995 (il titolo è Stato unitario, ragioni politiche e regole economiche: il divario regionale nello Stato unitario dal 1861 al 1887). Il rimpiazzo del debito dei singoli stati con debito comune, quindi, non fu proprio un gesto altruista.
8 Trovate la più recente versione di questa proposta al sito: www.voxeu.org/sites/default/files/Geneva_Special_Report_3.pdf