Capitolo ventesimo
In certi momenti io e Frank filavamo d’amore e d’accordo con Chuck, Eddie e Gene. Ma poi succedeva sempre qualcosa (di solito per colpa mia), e allora mi lasciavano perdere, e lasciavano perdere anche Frank, in parte, perché era amico mio. Era bello andare in giro con Frank. Arrivavamo dappertutto, con l’autostop. Uno dei nostri posti preferiti era uno studio cinematografico. Per entrarci, strisciavamo sotto una staccionata circondata da erbacce alte. Cerano l’enorme parete e i gradini usati nel film di King Kong. C’erano le strade finte con le case finte. Le case erano solo facciate con niente dietro. Ci andammo parecchie volte, e ficcavamo il naso dappertutto fino a quando non arrivava la guardia a buttarci fuori. Facevamo l’autostop fino alla spiaggia e al parco dei divertimenti. Ci passavamo tre o quattro ore per volta. Lo conoscevamo a memoria, quel posto. Non era granché. La gente ci cacava e ci pisciava, e c’erano bottiglie vuote dappertutto. Il cesso era pieno di preservativi, duri e raggrinziti. Ci andavano i barboni a dormire, quand’era chiuso. Non c’era molto da divertirsi, al parco dei divertimenti, in realtà. Da principio mi piaceva la Stanza degli Specchi. Io e Frank restammo lì dentro fino a quando imparammo a memoria il percorso nel labirinto di specchi, e dopo non ci provammo più gusto. Io e Frank non litigavamo mai. Eravamo curiosi. Giù al molo davano un film su un taglio cesareo, e così andammo a vederlo. Era schifoso. Tutte le volte che tagliavano la donna il sangue usciva fuori a zampilli, e poi tirarono fuori il bambino. Andavamo a pescare sul molo, e quando prendevamo qualcosa lo vendevamo alle vecchie ebree sedute sulle panchine. Mi beccai un sacco di botte da mio padre per le scorribande con Frank, ma pensai che le avrei prese comunque, e che quindi tanto valeva prenderle per qualcosa.
Ma continuavo ad aver problemi con gli altri ragazzi del quartiere. Mio padre non era d’aiuto. Per esempio, mi comperò un costume da indiano completo di arco e frecce quando tutti gli altri ragazzi avevano costumi da cowboy. Era come a scuola - tutti contro di me. Mi giravano intorno coi loro costumi da cowboy e le pistole, e così quando cominciavo a vedermela brutta mettevo una freccia nell’arco, tiravo la corda e aspettavo. Questo li convinceva sempre a lasciarmi stare. Non mi mettevo mai quel costume da indiano, a meno che mio padre mi ci obbligasse.
Continuavo a litigare con Chuck, Eddie e Gene; facevamo la pace e poi litigavamo da capo.
Un pomeriggio, ciondolavo intorno ai ragazzi. Non ero in lite con la banda, e nemmeno in buona, me ne stavo semplicemente lì ad aspettare che dimenticassero l’ultima cosa che avevo fatto che li aveva fatti arrabbiare. Non c’era nient’altro da ,fare. Solo aria bianca e aspettare. Mi stancai di star lì senza far niente e decisi di andare su fino a Washington Boulevard, di arrivare al cinema, e poi di tornar giù in West Adams Boulevard. Forse sarei passato davanti alla chiesa. Mi incamminai. Poi sentii Eddie che diceva:
« Ehi, Henry, vieni qua! ».
I ragazzi erano nel vialetto tra due case. Eddie, Frank, Chuck e Gene. Stavano guardando qualcosa. Erano chini su un grosso cespuglio e guardavano qualcosa.
« Vieni qui, Henry! ».
« Che cosa c’è? ».
Mi avvicinai al cespuglio.
« C’è un ragno che sta per mangiare una mosca! », disse Eddie.
Guardai. Il ragno aveva tessuto una tela tra i rami di un cespuglio e una mosca era rimasta impigliata nella ragnatela. Il ragno era molto eccitato. La mosca si agitava nel tentativo di liberarsi e scuoteva l’intera ragnatela. Ronzava freneticamente, disperatamente, mentre il ragno le avvolgeva il corpo e le ali in un’altra ragnatela. Le girava intorno, avvolgendola completamente, e la mosca ronzava. Il ragno era molto grosso e brutto.
« Adesso la prende! », urlò Chuck. « Adesso la mangia! ».
Mi feci largo tra i ragazzi, diedi un calcio ai rami e buttai fuori il ragno e la mosca dalla ragnatela col piede.
« Che cazzo fai? », disse Chuck.
« Brutto figlio di puttana! », urlò Eddie. « Hai rovinato tutto! ».
Indietreggiai. Perfino Frank mi guardava con aria strana.
« Avanti, suoniamogliele! », urlò Gene.
Erano tra me e la strada. Corsi giù per il vialetto e finii nel cortile sul retro di una casa sconosciuta. Mi stavano rincorrendo. Attraversai il cortile e mi nascosi dietro il garage. C’era una recinzione a traliccio, alta un paio di metri e ricoperta di rampicanti. Mi arrampicai su per il traliccio e lo scavalcai. Attraversai un altro cortile e imboccai il vialetto, e mentre correvo su per il vialetto mi voltai indietro e vidi Chuck in cima al traliccio. Poi scivolò e cadde, atterrando sulla schiena. « Merda! », disse. Io girai a destra e continuai a correre. Corsi per sette o otto isolati, poi mi sedetti sul prato di qualcuno per riposare. Non si vedeva nessuno, in giro. Mi chiesi se Frank mi avrebbe perdonato. Decisi di non farmi vedere per una settimana almeno…
E così dimenticarono. Per un po’ non successe niente. Passarono molti giorni senza che succedesse niente di particolare. Poi il padre di Frank si suicidò. Nessuno sapeva perché. Frank mi disse che lui e sua madre avrebbero dovuto trasferirsi in una casa più piccola, in un altro quartiere. Disse che mi avrebbe scritto. E così fece. Solo che non erano vere lettere, ma fumetti. Sui cannibali. Cominciò lui con una storia di rogne coi cannibali, e io ripresi dal punto in cui aveva smesso, sempre storie di cannibali. Mia madre trovò uno dei fumetti di Frank, lo mostrò a mio padre e la nostra corrispondenza finì.
Andai in sesta e cominciai a pensare a scappare di casa, ma poi decisi che se la maggior parte dei padri che conoscevo non riusciva a trovar lavoro, come cazzo avrebbe potuto trovarlo un bambino alto meno di un metro e cinquanta? John Dillinger era l’eroe di tutti, adulti e bambini. Rapinava le banche, i suoi soldi se li prendeva, lui. E poi c’erano Pretty Boy Floyd e Ma Baker e Machine Gun Kelly.
La gente cominciò ad andare nei prati dove crescevano le erbacce. Erano venuti a sapere che si poteva cuocerle e mangiarle. C’erano risse in quei prati, e agli angoli delle strade. Erano tutti arrabbiati. Gli uomini fumavano Bull Durham e non si lasciavano intimidire da nessuno. Avevano tutti la etichetta tonda del Bull Durham che sporgeva dal taschino della camicia e si arrotolavano le sigarette con una mano sola. Quando si incontrava qualcuno con l’etichetta del Bull Durham che usciva dal taschino bisognava fare attenzione. La gente non faceva che parlare di seconde e terze ipoteche. Una sera mio padre tornò a casa con un braccio rotto e due occhi neri. Mia madre aveva un lavoro sottopagato da qualche parte. E tutti i ragazzi del quartiere avevano un paio di pantaloni per la domenica e uno per tutti i giorni. Quando le scarpe si consumavano, non ce n’erano di nuove. I grandi magazzini vendevano suole e tacchi, per 15 o 20 cents, insieme alla colla, e ci riparavamo le scarpe da soli. I genitori di Gene avevano un gallo e alcune galline nel cortile dietro casa, e quando le galline non facevano abbastanza uova se le mangiavano.
Quanto a me, era sempre la stessa storia… a scuola, e con Chuck, Gene e Eddie. Non erano solo gli adulti a incattivirsi, anche i bambini, e perfino gli animali si incattivivano sempre di più. Era come se imitassero gli uomini.
Un giorno me ne stavo lì senza far niente come al solito, ad aspettare chissà che. Non ero particolarmente in buona con la banda, ma ormai non me ne importava più niente. Poi arrivò Gene, di corsa. « Ehi, Henry, vieni a vedere! ».
« Cosa c’è? ».
« Vieni! ».
Gene si mise a correre e io gli andai dietro. Corremmo su per il viale dei Gibson, fino al cortile sul retro. C’era un grosso muro di mattoni tutt’intorno al cortile dei Gibson.
« Guarda! Ha messo il gatto con le spalle al muro! Adesso lo ammazza! ».
C’era un gattino bianco in un angolo del muro. Non poteva arrampicarsi, e non poteva andare da una parte né dall’altra. Inarcava la schiena e soffiava, con gli artigli pronti. Ma era molto piccolo, e il bulldog di Chuck, Barney, ringhiava e si faceva sotto, minaccioso. Ebbi la sensazione che fossero stati i ragazzi a metter là il gatto e poi ad andare a prendere il cane. Ne ero quasi sicuro, per via dell’espressione con cui Chuck, Eddie e Gene guardavano il gatto: un’espressione colpevole.
« Siete stati voi », dissi.
« No », disse Chuck, « è colpa del gatto. È stato lui a venir qui. Che si arrangi, adesso ».
« Siete dei bastardi. Vi odio », dissi.
« Barney lo ammazzerà, quel gatto », disse Gene.
« Barney lo farà a pezzi », disse Eddie. « Ha paura degli artigli, ma quando si deciderà lo farà fuori in un minuto ».
Barney era un grosso bulldog marrone con la bava che colava giù dalle mascelle. Era stupido e grasso e aveva due insulsi occhi scuri. Ringhiava senza interruzione e avanzava a poco a poco, con i peli ritti sul collo e sulla schiena. Avevo voglia di dargli un calcio in quel suo stupido culo, ma avevo paura che mi sbranasse la gamba. Pensava solo a uccidere. Il gattino bianco non era nemmeno cresciuto del tutto. Soffiava e aspettava, schiacciato contro il muro, una bella creatura, così pulita.
Il cane avanzava piano. Perché avevano bisogno di quello spettacolo? Non era questione di coraggio, era solo una cosa sporca. Dov’erano gli adulti? Dov’erano le autorità? Erano sempre pronti ad accusarmi di qualcosa. E adesso dov’erano?
Pensai di fare un balzo in avanti, afferrare il gatto e scappar via di corsa, ma non ne avevo il coraggio. Avevo paura che il bulldog mi attaccasse. La consapevolezza di non avere il coraggio di fare quello che avrei dovuto mi faceva star male. Mi venne la nausea. Ero debole. Non volevo che quel gatto morisse, eppure non riuscivo a trovare il modo di salvarlo.
« Chuck », dissi, « lascia andare il gatto, ti prego. Richiama il cane ».
Chuck non rispose. Aveva gli occhi fissi sullo spettacolo.
Poi disse: « Barney, prendilo! Avanti, prendi quel gatto! ».
Barney si mosse in avanti, e all’improvviso, il gatto fece un balzo. Era un ammasso furibondo e indistinto di pelo bianco e soffi, artigli e denti. Barney indietreggiò e il gatto si ritirò di nuovo contro il muro.
« Prendilo, Barney », disse ancora Chuck.
« Sta’ zitto, maledizione! », dissi io.
« Non usare quel tono con me », disse Chuck.
Barney ricominciò ad avanzare.
« Siete stati voi a combinare tutto », dissi.
Sentii un rumore leggero alle nostre spalle e mi voltai. Dietro la finestra della camera da letto c’era il vecchio Mr. Gibson che ci guardava. Anche lui, proprio come i ragazzi, voleva veder morto quel gatto. Perché?
Il vecchio Mr. Gibson era il nostro postino con la dentiera. Aveva una moglie che stava sempre in casa. Usciva solo per vuotare la pattumiera. Mrs. Gibson portava sempre una retina sui capelli ed era sempre in camicia da notte, vestaglia e pantofole.
Poi, mentre guardavo, Mrs. Gibson, vestita come sempre, andò a mettersi vicino al marito per guardare lo spettacolo. Il vecchio Mr. Gibson era uno dei pochi uomini del quartiere ad avere un lavoro, ma nonostante questo aveva bisogno di veder morto quel gatto. Gibson era proprio come Chuck, Eddie e Gene.
Ce n’erano troppi, come loro.
Il bulldog si fece sotto. Non potevo stare a guardare. Provai una gran vergogna ad abbandonare il gatto in quel modo. C’era sempre la possibilità che cercasse di scappare, ma sapevo che gliel’avrebbero impedito. Quel gatto non stava affrontando solo il bulldog, stava affrontando l’Umanità.
Mi voltai e mi allontanai, via da quel giardino, su per il viale e giù per il marciapiede. Camminai lungo il marciapiede verso il posto in cui vivevo, e lì, nel giardino davanti alla sua casa, c’era mio padre che mi aspettava.
« Dove sei stato? », mi chiese.
Non risposi.
« Va’ dentro », disse lui, « e smettila di fare quella faccia, altrimenti te lo do io, un buon motivo per fare quella faccia! ».