Capitolo ottavo

Portai la busta a casa, la diedi a mia madre e andai in camera mia. La mia camera. La cosa migliore di quella camera era il letto. Mi piaceva restare a letto per ore, anche durante il giorno, con le coperte tirate su fino al mento. Si stava bene lì sotto, non succedeva mai niente, non c’era gente, niente. Mia madre mi trovava spesso a letto di giorno.

« Henry! Alzati ! Non sta bene che un bambino stia a letto tutto il giorno ! Su, alzati ! Fa’ qualcosa ! ».

Ma non c’era niente da fare.

Quel giorno non andai a letto. Mia madre stava leggendo il biglietto. Dopo un po’ la sentii piangere. Poi gemere e lamentarsi. « Oh, dio mio! Sei la vergogna mia e di tuo padre ! Che vergogna! E se i vicini lo vengono a sapere? Che cosa penseranno di noi? ».

Mio padre e mia madre non parlavano mai coi vicini.

Poi la porta si aprì e mia madre entrò di corsa nella stanza: « Come hai potuto far questo a tua madre? ».

Le lacrime le scorrevano giù per le guance. Mi sentii un verme.

« Aspetta che ritorni tuo padre! ».

Sbatté la porta della camera e io restai seduto ad aspettare. Mi sentivo in colpa, in un certo senso…

Sentii mio padre arrivare. Sbatteva sempre la porta, aveva il passo pesante e parlava a voce molto alta. Era tornato. Dopo qualche minuto la porta della mia camera si aprì. Mio padre era alto quasi un metro e novanta, un uomo grande e grosso. Tutto svanì davanti ai miei occhi, la sedia su cui sedevo, la carta da parati, le pareti, i miei pensieri. Mio padre era la nube che oscura il sole, la violenza che emanava da lui faceva sparire di colpo tutto il resto. Era tutto orecchie, naso, bocca, non potevo guardarlo negli occhi, c’era solo la sua faccia rossa e arrabbiatai.

« Va bene, Henry. In bagno ».

Andai in bagno e lui mi seguì e si chiuse la porta alle spalle. Le pareti erano bianche. C’erano uno specchio e un finestrino, schermato da una rete nera e tutta rotta. C’erano la vasca da bagno, la tazza del cesso e le piastrelle. Mio padre alzò un braccio e prese la coramella del rasoio appesa a un gancio. Sarebbe stata la prima di molte battute, ne avrei prese tante, con frequenza sempre maggiore. E sempre senza ragione.

« Bene, tirati giù i pantaloni ».

Mi tirai giù i pantaloni.

« Tirati giù le mutande ».

Me le tirai giù.

Poi alzò la striscia di cuoio. Il primo colpo fu più uno choc che un dolore. Al secondo cominciai a sentir male. A ogni colpo il dolore aumentava. Da principio ero conscio delle pareti, della tazza, della vasca. Alla fine non vedevo più niente. Mentre. picchiava, mi sgridava, ma io non sentivo una parola. Pensavo alle sue rose, alle rose che coltivava in giardino. Pensavo alla sua automobile nel garage. Cercavo di non mettermi a urlare. Sapevo che se mi fossi messo a urlare forse avrebbe smesso di picchiarmi, ma sapendo questo, e sapendo quanto desiderasse che mi mettessi a urlare, facevo di tutto per resistere. Le lacrime mi traboccavano dagli occhi, ma restavo in silenzio. Dopo un po’ fu tutto un vortice, un guazzabuglio, ed esisteva solo la terrificante possibilità di restar lì per sempre. Alla fine qualcosa si mosse, cominciai a singhiozzare, a tossire, ingoiando il muco salato che mi scendeva giù per la gola. Mio padre smise di picchiarmi.

Era andato via. Riacquistai coscienza del finestrino e dello specchio. La coramella del rasoio era di nuovo appesa al suo gancio, lunga, marrone e attorcigliata. Non riuscivo a chinarmi per tirar su mutande e pantaloni e così andai alla porta, a passi goffi e stentati, coi vestiti sulle caviglie. Aprii la porta del bagno e vidi mia madre in corridoio.

« È un’ingiustizia », le dissi. « Perché non mi hai aiutato? ».

« Il padre », disse lei, « ha sempre ragione ».

Poi mia madre se ne andò. Io andai in camera mia trascinandomi dietro pantaloni e mutande, e mi sedetti sul bordo del letto. Il materasso faceva male. Fuori, attraverso la rete della finestra sul retro, vedevo le rose di mio padre. Erano rosse, bianche e gialle, grosse e aperte. Il sole era basso, ma non ancora al tramonto, e gli ultimi raggi entravano obliqui dalla finestra sul retro. Pensai che anche il sole apparteneva a mio padre, che non avevo il diritto di godermelo perché splendeva sulla casa di mio padre. Ero come le sue rose, appartenevo a lui, non a me stesso.