Capitolo diciannovesimo

In quinta andò un po’ meglio. Gli altri ragazzi sembravano meno ostili e io diventavo sempre più grosso fisicamente. Ancora non facevo parte delle squadre ufficiali, ma non mi minacciavano più come prima. David e il suo violino se n’erano andati. La famiglia si era trasferita. Tornavo a casa solo. Venivo spesso seguito da un paio di ragazzi, dei quali il peggiore era Juan, ma si limitavano a seguirmi senza parlare. Juan fumava. Camminava proprio dietro di me, con la sigaretta in bocca, e c’era sempre un amico diverso con lui. Non mi seguiva mai da solo. Mi facevano paura. Avrei voluto che se ne andassero. Eppure, in un certo senso, non mi importava. Juan non mi piaceva. Non mi piaceva nessuno, in quella scuola. Credo che loro lo sapessero. Credo che fosse per quello che mi odiavano. Non mi piaceva come camminavano, come parlavano, non mi piacevano le loro facce, ma d’altra parte non mi piacevano nemmeno mio padre e mia madre. Avevo ancora la sensazione di esser circondato da bianchi spazi vuoti. Avevo sempre una leggera nausea. Juan era scuro di pelle e portava una catena d’ottone al posto della cintura. Le ragazze avevano paura di lui, e i ragazzi anche. Mi seguiva fino a casa quasi tutti i giorni, con un amico. Io entravo in casa e loro restavano fuori. Juan fumava la sua sigaretta, con aria da duro, e il suo amico se ne stava lì come un idiota. Li guardavo da dietro le tende. Alla fine se ne andavano.

»

Mrs. Fretag era l’insegnante di inglese. Il primo giorno di scuola ci chiese come ci chiamavamo.

« Voglio conoscervi tutti », disse.

E sorrise.

« Ora, ciascuno di voi ha un padre, ne sono certa. Credo che sarebbe interessante vedere cosa fa per vivere il padre di ciascuno di voi. Cominceremo dal primo banco e proseguiremo con tutti gli altri. Ora, Marie, cosa fa tuo padre per vivere? ».

« Fa il giardiniere ».

« Ah, benissimo! Numero due… Andrew, che cosa fa tuo padre? ».

Fu una cosa tremenda. Tutti i padri del mio quartiere avevano perso il lavoro. Mio padre aveva perso il lavoro. Il padre di Gene stava seduto sulla veranda tutto il giorno. Tutti i padri erano disoccupati tranne quello di Chuck che lavorava in una fabbrica di carne in scatola. Guidava una macchina rossa col nome della fabbrica sulle fiancate.

« Mio padre fa il pompiere », disse il numero due.

« Ah, molto interessante », disse Mrs. Fretag. « Numero tre ».

« Mio padre è avvocato ».

« Numero quattro ».

« Mio padre fa il… poliziotto… ».

E io cosa potevo dire? Forse solo i padri del mio quartiere erano disoccupati. Avevo sentito parlare del crollo della Borsa. Era una brutta cosa. Forse la Borsa era crollata solo nel nostro quartiere.

« Numero diciotto ».

« Mio padre fa l’attore del cinema… ».

« Diciannove… ».

« Mio padre è concertista, suona il violino… ».

« Venti… ».

« Mio padre lavora in un circo… ».

« Ventuno… ».

« Mio padre guida l’autobus… ».

« Ventidue… ».

« Mio padre è cantante d’opera… ».

« Ventitré… ».

Ventitré. Ero io.

« Mio padre fa il dentista », dissi.

Mrs. Fretag fece il giro della classe fino a quando arrivò al numero trentatré.

« Mio padre è disoccupato », disse il numero trentatré.

Merda, pensai, vorrei averlo detto io, ma non mi è venuto in mente.

Un giorno Mrs. Fretag assegnò un compito.

« Il nostro presidente, Herbert Hoover, verrà a Los Angeles sabato venturo e terrà un discorso. Voglio che andiate tutti a sentire il nostro presidente. E voglio che scriviate un tema su questa esperienza, su cosa pensate del discorso del presidente Hoover ».

Sabato? Non ci potevo andare, assolutamente. Dovevo falciare il prato. Dovevo pareggiare i fili. (Non riuscivo mai a pareggiare i fili.) Quasi ogni sabato mio padre mi picchiava con la coramella perché trovava un filo più lungo degli altri. Non c’era modo di spiegare a mio padre che dovevo andare a sentire il presidente Hoover.

E così non andai. Quella domenica presi un foglio di carta e mi misi a fare il tema sul discorso del presidente Hoover. La macchina scoperta, seguita dalla folla plaudente, era entrata nello stadio del football. La precedeva una macchina carica di agenti segreti, e altre due macchine la seguivano da vicino. Gli agenti erano uomini coraggiosi, portavano la pistola per proteggere il nostro presidente. La folla si era alzata in piedi quando la macchina aveva fatto il suo ingresso nell’arena. Non si era mai visto niente del genere. Era il presidente. Era lui in persona. Il presidente agitò la mano in segno di saluto. La folla applaudì. La banda suonava. Uno stormo di gabbiani volteggiava nel cielo: anche loro sapevano che quell’uomo era il presidente. E c’erano anche gli aerei che scrivevano nel cielo. Scrivevano nel cielo frasi come « La prosperità è dietro l’angolo ». Il presidente si alzò in piedi nella macchina, e proprio in quel momento le nubi si aprirono e un raggio di sole gli illuminò il volto. Era come se anche Dio sapesse che era il presidente. Poi le macchine si fermarono e il nostro grande presidente, circondato dagli agenti segreti, salì sul podio. Si avvicinò al microfono e proprio in quel momento un uccellino scese dal cielo e andò a posarsi accanto a lui. Il presidente lo allontanò con un gesto della mano e la folla rise con lui. Poi cominciò a parlare, e tutti tacquero. Io non sentivo bene quello che diceva perché ero seduto troppo vicino a una macchina del pop corn che faceva un rumore infernale con tutti quei chicchi che scoppiavano, ma mi sembrò di sentirgli dire che la Manciuria non costituiva un serio problema, e che nel nostro paese le cose sarebbero andate per il meglio; non dovevamo preoccuparci, l’unica cosa che dovevamo fare era credere nell’America. Ci sarebbe stato lavoro per tutti. Ci sarebbero stati abbastanza dentisti e abbastanza denti da strappare, abbastanza incendi e abbastanza pompieri per spegnerli. Le fabbriche, gli stabilimenti, avrebbero riaperto. I nostri amici sud-americani avrebbero pagato i loro debiti. Presto avremmo dormito tutti sonni tranquilli, con lo stomaco pieno e il cuore colmo. Dio e il nostro grande paese ci avrebbero circondati di amore e protetti dal male, dai socialisti, ci avrebbero risvegliato dall’incubo nazionale, definitivamente…

Il presidente tacque e agitò la mano in segno di saluto tra gli applausi della folla, poi tornò alla macchina; salì, e ripartì, seguito da macchinate intere di agenti segreti, mentre il sole cominciava a tramontare, e il pomeriggio a trasformarsi in sera, una sera rossa e dorata, meravigliosa. Avevamo visto e sentito il presidente Herbert Hoover.

Consegnai il tema il lunedì. Il martedì Mrs. Fretag arrivò in classe e ci guardò dalla cattedra.

« Ho letto i vostri temi sulla visita a Los Angeles del nostro stimato presidente. Cero anch’io, ad ascoltarlo. Alcuni di voi, ho notato, non hanno potuto partecipare all’avvenimento per una ragione o per l’altra. Per quelli di voi che non hanno potuto ascoltare il presidente, leggerò ora il tema di Henry Chinaski ».

Nell’aula si fece un terribile silenzio. Ero di gran lunga lo studente più malvisto della classe. Era come affettargli il cuore col coltello, a quei ragazzi.

« È uno scritto molto creativo », disse Mrs. Fretag, e cominciò a leggere il mio tema. Mi piaceva il suono delle mie parole. Tutti ascoltavano attentamente. Le mie parole riempivano la stanza, da una lavagna all’altra, colpivano il soffitto e rimbalzavano, coprivano le scarpe di Mrs. Fretag e si ammucchiavano sul pavimento. Alcune delle ragazze più carine della classe cominciarono a lanciarmi occhiate di straforo. I duri della classe erano molto seccati. Io bevevo le mie parole come un assetato. Cominciai perfino a credere a quello che avevo scritto. Vidi l’espressione di Juan: sembrava che gli avessero dato un pugno in faccia. Allungai le gambe e mi appoggiai allo schienale del banco. La lettura finì troppo presto.

« E su questa grande nota », disse Mrs. Fretag, « finisce la nostra lezione. Potete andare ».

Si alzarono tutti in piedi e cominciarono a raccogliere le loro cose.

« Tu no, Henry », disse Mrs. Fretag.

Restai seduto e Mrs. Fretag restò in piedi a guardarmi.

Poi disse: « Henry, ci sei andato, a vedere il presidente? ».

Restai lì seduto in cerca di una risposta. Non ne trovavo nessuna. Dissi: « No, non ci sono andato ».

«Questo rende ancora più pregevole il tuo sforzo».

« Sì, signora… ».

« Puoi andare, Henry ».

Mi alzai e uscii dall’aula. Mi diressi verso casa. E così, ecco cosa volevano: bugie. Belle bugie. Ecco di cosa avevano bisogno. La gente era stupida. Avrei avuto buon gioco, io. Mi guardai intorno. Juan e il sub amico non mi stavano seguendo. Le cose cominciavano ad andar meglio.