il concetto di «assoluto»
Qualcuno, non ricordo più chi, ha nominato il medioevo parlando di Beckett. Può sembrare un accostamento azzardato o addirittura sbagliato se pensiamo ai personaggi dello scrittore irlandese (limitiamoci alle quattro commedie unite in questo volume; ma il riferimento al resto dell'opera è implicito) cominciando dai due vagabondi Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot, unendo a loro Pozzo e il muto uomo che pensa, lo schiavo Lucky nella stessa commedia; e poi Hamm e Clov e i due vecchi nei bidoni della spazzatura in Finale di partita; e Krapp che ascolta l'ultimo nastro, la registrazione di un passato che non ha rapporti con la sua realtà clownesca; e Winnie che in Giorni felici abbellisce di parole la propria fine in una parvenza reale pietrificata (il passaggio di una formica diventa, nel suo incredibile movimento, la vita stessa).
Tutti personaggi, costoro, toccati da una drammaticità composta di grottesco, di comico e di assurdo, di vuoto, di silenzio, di ostinazione, di attesa, di parole che li assegnano chiaramente al nostro tempo. Ma non è soltanto l'abolizione in Beckett del concetto di tempo e della sua funzionalità esistenziale o metafisica a fare superare l'evidenza della distanza tra l'oggi e l'epoca medioevale; piuttosto è la forza enigmatica che lega i suoi personaggi all'assoluto (a un'idea di assoluto, a un assoluto nulla magari, a un mistero assoluto, a una indecifrabilità assoluta) a richiamare il pensiero del medioevo, non come epoca ma come rapporto tra l'uomo come è e quanto è al di fuori di lui e forse lo determina.
Ma l'assoluto di Beckett non è Dio, è invece un assoluto cieco. La presenza o la valutazione di Dio nella sua opera è o un'ambigua indicazione che può dar luogo contemporaneamente all'affermazione e alla negazione, oppure è l'impossibilità di nominarlo, quando invece non è l'indiretta proclamazione della sua morte. Ma dobbiamo stare attenti: il volere precisare, cominciando appunto da Godot, il significato di quell'invisibile personaggio o di quella allusione collegandola a una presenza determinante per l'attesa di Vladimiro ed Estragone (l'umanità); e, più avanti, il volere collegare la desolazione metafisica dei personaggi beckettiani a una loro presa di coscienza, è un errore come è un errore negarne la possibilità. Ciò che risulta invece chiaramente è la posizione assoluta dell'uomo di fronte al vuoto che lo comprende (qui, nell'annullamento, il riferimento al medioevo ci sta bene) e come immediata conseguenza la possibilità di rilevare in quel mondo una componente mistica drammaticamente consapevole dell'inesistenza delle stesse fonti mistiche suscitatrici (o dell'incapacità di vederle? ma questo sarebbe già attribuire a Beckett misure problematiche, cioè principi di una logica dell'essere).
Bisogna procedere cautamente, più che mai, per non correre il rischio di arrivare a conclusioni affrettate o sbagliate. È meglio dire che non si deve concludere, né precisare, né definire. Il mondo di Beckett riesce a fermare soltanto la parola nulla, per il resto si muove cercando di rappresentare quell'unico aspetto, che abbiamo visto, dell'evidenza. Oltre quel punto se altro c'è (non per la nostra comprensione di lettori o di spettatori teatrali ma per quella dei personaggi-emblemi che ci vengono proposti) deve sfuggire o dichiararsi nemico, indecifrabile e assurdo. Una conclusione di qualsiasi genere ammetterebbe la possibilità di una logica (finita o infinita non importa dire per il momento) che muterebbe tutte le prospettive del mondo dello scrittore il quale, le poche volte che ha parlato sommariamente del suo lavoro, ne ha sempre negato il valore simbolico.