L'opera teatrale

 

IL TEATRO DELL'ASSURDO

Di fronte a uno scrittore a suo modo così esplicito nei modi di rappresentazione (o di narrazione, ma in questo caso il discorso dovrebbe essere precisato in dimensioni parallele e a un certo punto dipendenti, anche se in Beckett è stato il teatro a seguire la narrativa), così oscuramente esplicito - se si può dire - e così chiuso, incomunicabile se non forse nella misura del nulla, nei suoi significati e nelle sue ossessioni tragico-umoristiche, è difficile cominciare a parlare. Non si trova facilmente la prima parola che riferisce, lo spiraglio verbale che potrebbe permettere di sbirciare attraverso il compatto muro che sembra circondar l'evidenza delle sue figurazioni drammatiche.

Forse, dobbiamo cominciare proprio dalla valutazione del termine significato, e anche dal valore di parola nell'avvilente mondo di fantocci umani che nel teatro di Beckett, e ancor più nella sua narrativa ma con risultati discordi e fondamentalmente meno evidenti come unità espressiva, perdono gradatamente la loro struttura fisica (corruzione o sgretolamento, alle volte quei personaggi cadono proprio a pezzi ma continuano ad essere, ad esistere o perlomeno a corrispondere alle dimensioni apparenti) nel proseguimento, immobile, di parole e di cose e di movimenti che si elencano in un'esistenza del tutto ipotetica: mentre la storia si è fermata, o molto probabilmente non è mai esistita. È chiaro che il mondo enigmatico di Beckett, nei confronti del quale lo stesso scrittore irlandese non si è mai pronunciato (respingendo per esso, con qualche rapida frase di risposta a domande occasionali di intervistatori, ogni interpretazione definita), invita all'interpretazione o al tentativo di raggiungerla, proprio perché la constatazione della sua struttura ermetica dà subito la sensazione della presenza di un prodotto da ricavare da quell'operazione chiusa. (Adorno aveva notato qualcosa di simile.)

Il disagio di Beckett, o qualche suo scatto di noia, avverso al simbolo o al possibile significato, possiamo capirli se li riferiamo personalmente a lui - protagonista di un dramma esistenziale - che appare come ossessionato dalle conseguenze delle parole che pure i suoi personaggi non cessano mai di prediligere identificandosi nella parola stessa che pronunciano, ripetendola più volte, magari giocandoci sopra, e riuscendo, in tal modo, a riempire per un attimo il vuoto di cui sono emblemi e testimoni. Lo scrittore irlandese sembra voler prima di tutto dire che la vita è una violenza astratta, senza senso, perché non è nulla e non corrisponde a nulla; ma questa è soltanto la frase dichiarativa di un contenuto appena accennato, non originale, che ha bisogno di mettere le carte in tavola per allargare e approfondire la sua forza dimostrativa. Era infatti necessario per Beckett testimoniare della non esistenza della vita rappresentando la vita. Ne è risultato che il valore del teatro (e della narrativa) beckettiani non sta tanto nelle conseguenze che provoca o nelle conclusioni che riesce a formulare o nelle mete che potrebbe raggiungere (tutto questo sarebbe una contraddizione troppo evidente che distruggerebbe ogni premessa e di più, notiamolo, l'infinito suo insistere sulle premesse che sa determinare la passione dei suoi personaggi: ricordare Finale di partita, il suo ritualismo drammatico che è invenzione poetica o concettuale, e certamente non è esibizionismo o aggiornamento intellettuale) quanto nella constatazione senza uscita dei suoi momenti, nei quali l'uomo è portato inesorabilmente davanti a se stesso.