Maddie McGlade

Ospite residente, Casa di Riposo Oranmore

Portstewart, Irlanda del Nord

Domenica, 8 settembre 1968

Anna. Ti guardo lì in piedi e vedo l’immagine sputata di tua madre, Florence – che la sua anima possa riposare in pace – e negli occhi lo stesso lampo di acuta intelligenza. Dammi la mano affinché possa vederti meglio. Non sei cambiata molto, a parte quella cosa che entrambe sappiamo. Oh, è inutile che mi guardi in quel modo. Ma certo, perché saresti qui, se no? Capisco dalla tua faccia che c’è un bambino in arrivo, anche se non si vede. Strano il modo in cui i giovani non mostrano interesse per il passato finché questo non arriva al galoppo in groppa al futuro. Dopodiché non ne hanno mai abbastanza, lo scrutano, vogliono sapere che fine ha fatto. Immagino sia sempre stato così. Nessuno mai si interessa alle storie di famiglia finché non abbiamo dei figli nostri a cui raccontarle.

Non potevi saperlo ma, di tutti i giorni possibili, sei arrivata proprio in quello del mio compleanno. O perlomeno nel giorno che io considero il mio compleanno. Quando venni al mondo papà andò a denunciare la nascita, ma non essendo granché istruito non era sicuro della data. Se anche non è il giorno esatto, comunque non è molto lontano. Una cosa è certa: entro la fine della settimana avrò compiuto novantadue anni. Se rimani per il tè avrai una fetta di torta.

Siediti, Anna. Lo senti questo odore? È la ghiaia bagnata dalla pioggia. Devi averla portata dentro tu, sotto le scarpe. Ha un sapore metallico, ricorda la scossa della lingua che batte contro il dente di una forchetta ossidata. L’odore, il sapore che avevo in bocca non lo dimenticherò mai: è ancora intenso come quel giorno di quasi ottant’anni fa, quando tua nonna mi obbligò a sdraiarmi a faccia in giù sul viale con il naso affondato nella ghiaia. Era una donna dura, Anna, spinosa come un cardo e devota alle sue «meritate punizioni». Quella in particolare doveva servire a farmi imparare a tenere il naso fuori dagli affari di chi stava al di sopra di me, disse, e dentro la terra, il posto cui apparteneva. Oh, non fare quella faccia scandalizzata. Sono sopravvissuta, come a molte altre cose. E, per quanto dura lei fosse, adesso mi sembra di capirla meglio. Adesso ne so qualcosa anch’io di quel che si prova quando ci si sente intrappolati, e benché sia strano a dirsi, considerati tutti soldi che avevano, credo che davvero si sentisse in trappola. Ha sofferto per ciò che ha fatto. E io non covo rancore verso i morti. Nessuno di noi è senza colpa.

E che presenza era in casa! Certi giorni quasi mi aspetto di incrociarla sul pianerottolo, eretta, dritta come un fuso, i folti capelli ramati ben raccolti alti sulla testa, il viso come una maschera, senza mai un sorriso. Svolgeva i suoi compiti in casa come un giocattolo caricato a molla: tutto doveva essere fatto per tempo, qualunque manchevolezza la metteva di cattivo umore. Se il gas non veniva acceso o la tavola apparecchiata, o se trovava una macchia su un tovagliolo, ti sentivi il suo sguardo addosso come una morsa sul braccio. Era come un sole scuro, e tutti noialtri – i domestici, i bambini e il padrone – le ruotavamo attorno come pianeti cercando di non farla arrabbiare o di non irritarla in nessun modo, volendo mantenere la pace.

Non dimenticherò mai la prima volta che la vidi in abito da sera. Lavoravo da poco al castello, ero passata dalle scale di servizio per spegnere il fuoco in salotto dopo che Peig, la governante, mi aveva detto che il padrone e la padrona sarebbero andati a un ballo. Uscendo dalla sala la vidi in cima allo scalone, con il padrone in basso; portava un mantello di raso nero tutto ricoperto di piume di gallo nere colorate di verde in punta. Sembrava un corvo in procinto di spiccare il volo, metà uccello e metà donna, come se dalle spalle le fossero spuntate le ali. Non riuscivo a vedere dove finivano le braccia e cominciava il mantello. Era favolosa e spaventevole al tempo stesso. In tutta la mia vita non ho mai avuto tanto terrore di una persona! Stava in piedi in cima alle scale, a braccia aperte, aspettando l’opinione del padrone, e quando si accorse di me in fondo alla rampa, il suo sguardo era quello di un falco che aveva adocchiato un passerotto. Non mi sarei stupita di vederla sollevarsi da terra sbattendo quelle grandi ali nere di piume per alzarsi in volo oltre la ringhiera, poi calare in picchiata e afferrarmi nel becco. Tornai in cucina, tremavo tanto che Peig mi chiese cosa c’era che non andava. Io le dissi che la padrona a momenti mi mangiava, e lei si mise a ridere fino alle lacrime, dovette asciugarsi gli occhi col grembiule. Quando alla fine si riprese mi disse che c’erano voluti così tanti animali per fare quel suo capo di vestiario che tutto sommato era lecito dubitare che effettivamente nella padrona ci fosse rimasto ancora qualcosa di umano!

Non fare quella faccia, Anna. Non devi preoccuparti: tu non hai niente di lei, non temere. Tua madre conosceva bene tutta la vicenda, me lo fece capire in almeno una decina d’occasioni, aveva letto tutti i ritagli di giornale che avevo conservato, per non dire di tutte le volte che aveva versato lacrime amare per sua sorella Charlotte, che non conobbe mai. Promise di prendersi cura di te come mai madre si sarebbe presa cura di un figlio, e lo fece, per sette brevi anni, finché le fu possibile. Finché i suoi polmoni glielo permisero, poi se la portò via la tubercolosi. Lottò con tutte le sue forze per restarti vicina, Anna, lei sapeva cosa significava crescere senza madre, e non voleva che la stessa cosa succedesse a te, ma non ce la fece. Dopo che si fu ammalata mi disse che aveva sempre sentito di avere aria di prigione nei polmoni, aria umida e fredda, per via di dov’era nata. Quando il padrone la portò al castello era solo una poppante di pochi giorni: impossibile che ricordasse qualcosa di Grangegorman Prison, ma quell’idea era un chiodo fisso. Diceva di avere l’«aria di prigione» intrappolata dentro al petto, e che il suo corpo incominciava solo allora a buttarla fuori con la tosse. Ti avrei presa io con me, Anna, ti avrei cresciuta io stessa, se mi fosse stato possibile, e per un po’ ci ho provato. Ma tuo padre capì che per me era una fatica immane, e fu allora che gli venne l’idea delle suore domenicane, così ti mandò a studiare ad Aquinas Hall. Penso che cercasse di darti ciò che tua madre avrebbe voluto per te.

Tu hai il suo stesso carattere dolce, Anna. Hai aspettato ad avere un figlio quasi quanto Florence ha aspettato prima di avere te. Devi avere trentadue anni. Dico bene? Non dovrei sbagliarmi di molto. Siamo entrambe di settembre, noi due. Perciò cosa siamo? Vergine e Bilancia, sì, credo sia così. Ricordo la notte in cui sei nata, la «Grande Domenica», il 27 settembre 1936. Il posto era pieno di gitanti che si erano riversati in città già allo spuntar del sole, per godersi forse l’ultima occasione di bel tempo e l’estate chiudere in bellezza. Il lungomare era zeppo di bancarelle che vendevano gelati e bibite gassate, e c’erano gli organetti con i pierrot rotanti, e le barche danzavano nella baia: verdi, gialle, azzurre. I tuoi genitori vivevano nella casa gialla dove ora stai tu, a Victoria Terrace, a pochi metri dal porto. Come al solito, i giovanotti si spintonavano l’un l’altro sulla pertica spalmata di grasso, e ogni volta che ne cadeva uno faceva un gran tonfo nell’acqua, dalla folla si levava un boato, e la povera Florence lasciava andare un altro gemito e un altro grido. Il travaglio durò dieci ore. Mrs Avery, la levatrice, era esausta. Tuo padre invece camminava avanti e indietro fuori dalla stanza; bevve una teiera dopo l’altra e fumò un intero pacchetto di Players, dopodiché scese per accendere la radio, come se sperasse di sentire notizie su di te. Dal piano terra saliva la musica dei salmi: era il coro della BBC; ci fu un «Alleluia!» e un ultimo grido, ed eccoti nata. Piccola Anna, un visetto rosa e un sorriso che avrebbe fatto sciogliere una candela spenta. Mai ho visto un figlio nascere circondato da tanto amore. Questa storia non ti è nuova, Anna, eppure non ti stanchi mai di ascoltarla, vero? Tutti dovrebbero avere qualcuno che racconti loro le storie di quando sono nati.

All’incirca un mese prima che tu nascessi Florence ebbe un grave turbamento. Su alle chiuse di Coleraine fu trovato un neonato nell’acqua. Una femmina, o quanto meno quel che ne restava: era rimasta nel fiume per troppo tempo. Il giornale disse che il coroner non fu in grado di precisare se i polmoni avessero mai respirato aria. Dopo quell’episodio tua madre trascorse alcuni giorni a passeggiare qua e là cullandosi il ventre, parlandoti. Pianse la morte di quella bambina come se fosse stata sua, e le si spezzò il cuore al pensiero che qualcuno avesse potuto fare una cosa del genere a una piccina innocente. E io pensavo che su, in qualche punto del paese, vicino a dove il Bann scorre veloce, c’era una ragazza, magari nella cucina di una casa colonica, o dietro al banco di un negozio, una ragazza che era stata ad aspettare quella notizia, una ragazza con le viscere strappate e il giornale in mano, consapevole che quell’esserino impigliato nelle paratoie per la pesca era la sua bambina.

È davvero strano che dopo tanti anni io sia finita proprio qui. Sai, per me è una specie di casa, perché se metti assieme gli anni in cui ho vissuto in questo luogo come domestica e quelli come ospite residente, risulta che ho vissuto più a lungo qui che in qualsiasi altro posto. Quando ci arrivai per la prima volta, Anna, quando varcai per la prima volta questa soglia, avevo quattordici anni. Non avevo mai visto niente di simile al castello. Oh, l’avevo visto da fuori, certo, impossibile non notarlo. Si potrebbe dire che è cresciuto all’ombra di se stesso, per come è arroccato sul promontorio sopra Bone Row e il lungomare, e il porto e Green Hill al capo estremo. In giornate come questa se guardi al di là del mare si vedono a ovest le colline del Donegal, a est la Scozia e a nord, fin dove arriva lo sguardo, l’Atlantico. Non è mai stato quello che si definirebbe un bell’edificio. Troppo simile a una fortezza: grigio, con niente che tocchi il cuore. Oh, ma dentro! Dentro era un palazzo. Stanze grandi quanto chiese, non tutte suddivise come adesso; solo ambienti luminosi e ariosi, pieni di bel mobilio ma spaziosi, dove niente era troppo vicino a qualcos’altro. E ovunque il profumo dei gigli: la padrona li adorava. Io li odio, ancora adesso: quei petali bianchi, che quando si aprono sembrano lingue arrotolate, il modo in cui ti prendono in fondo alla gola facendoti soffocare; il polline color ruggine che ti lascia le mani macchiate per giorni. Datemi pure tutti i bucaneve, tutte le campanelle che volete, ma non i gigli. Eppure a tua nonna piacevano, e ne avrebbe riempito la casa, se avesse potuto. Diceva che coprivano l’odore del gas. Sempre meglio dell’odore che ha ora questo posto, comunque: disinfettante e patate bollite. Superfici lavabili, ecco cos’è importante al giorno d’oggi: linoleum e detergenti; lo stesso odore dappertutto. Perché la gente viene al mare per morire? È il suono del mare quello che cercano? Il primo suono udito? Scambiano forse il fragore e il risucchio dell’oceano con il flusso del sangue caldo nelle loro orecchie? Si tratta di un ritorno?

Lo vedi, Anna, questo piccolo segno sopra il mio polso? Ne vidi uno uguale sulla mano di mia madre poco prima che morisse. La forma fa pensare a un rondone in volo: due ali scure, una coda biforcuta. Io lo so dov’è diretto quell’uccellino, rapido com’è sempre il suo volo: dritto al sangue. L’ho nascosto sotto la manica; non voglio dottori intorno. Non svegliamo il can che dorme, così la penso io. Che senso avrebbe svegliarlo adesso? Sono quasi al termine, ma in un modo ben diverso dal tuo, grazie a Dio. Sono felice che tu sia venuta. Certo, tutti dovrebbero raccontare una storia quando stanno per morire. . . perché tanto cos’hanno da perdere?

Ecco Jenny, l’infermiera. La vedi, Anna, con la bella uniforme bianca? Riesce a sentire l’odore della morte su una persona. Non ha mai detto niente, ma ho visto la sua faccia cambiare, un giorno mentre aiutava la vecchia Mrs Wilson ad alzarsi dalla sedia; e un’altra volta, mentre dava la cena a Jimmy imboccandolo col cucchiaio. Sul suo viso tondo cala come un’ombra grigia; le si forma un solco in fronte, dopodiché diventa gentile, ancora più gentile del solito. Due giorni dopo la vecchia Mrs Wilson era morta; Jimmy, invece, quella notte stessa. E non manca molto, credo, al momento in cui lo sentirà su di me.

C’è una cosa che voglio farti vedere; è su in camera mia, dietro la porta. Sai cos’è? È lo stipo delle farfalle di tua nonna: ce l’ho da parecchi anni. Il custode dei segreti, il tesoro della padrona. Ebano, credo sia, molto solido, con quattro grossi piedi a cipolla. Il legno più scuro che abbia mai visto. Non ha mai sprigionato un briciolo di calore, nemmeno quando la luce del fuoco ci batteva sopra. Dodici cassettini, ognuno col suo pomello di legno. A nessuno di noi era permesso avvicinarsi: era l’unico oggetto in tutta la casa di cui la padrona si prendeva cura personalmente. Questa sua passione non riuscirò mai a capirla: che senso può avere conservare qualcosa di morto? Da una cosa del genere non ne poteva venire niente di buono. Mia mamma soleva dire che una farfalla bianca era l’anima di un bambino, e che non si doveva osare farle del male altrimenti l’anima non trovava pace. Lo stipetto finì a casa di Peig, e quando tanti anni fa lo aprii e ci guardai dentro non era rimasto altro che polvere e muffa e spilli arrugginiti dov’erano state le farfalle. È stato un momento tristissimo, e per la prima volta in vita mia – non so bene perché – provai dispiacere per la padrona, e piansi per lei. Piansi perché aveva perso Charlotte e i ragazzi e il padrone, per i giorni passati in prigione e per quanto era stata infelice quella sua vita triste e solitaria. Soprattutto, piansi perché non sapeva che cosa aveva e che cosa aveva perso. In ogni cassetto la stessa cosa: polvere e muffa e i resti rinsecchiti di maggiolini e ragni, uno spreco di piccole vite. Ma, quando feci per richiuderlo, uno dei cassetti non voleva tornare al suo posto: si capiva che dietro c’era qualcosa. Lo estrassi completamente, infilai la mano e toccai un libro, e nel tirarlo fuori pensai che fosse un messale, era rilegato in pelle nera con fregi dorati. Lo aprii, e sulla prima pagina vidi la data a matita, e allora capii subito di cosa si trattava: era il diario che la padrona aveva tenuto quand’era in prigione. La sua scrittura era sempre molto ordinata, il tratto piccolo e preciso, ma qua e là c’erano degli inciampi in avanti nell’occhiello di una l o di una f, come se la matita avesse cercato di sfuggirle dalle dita per mettersi di propria volontà a ballare una giga.

Lessi tre righe, poi lo richiusi e lo misi via. Lo so, è difficile crederci, Anna, ma sapevo che non era destinato ai miei occhi. Forse l’aveva messo lì quand’era tornata per la prima volta in visita alla casa. Forse intendeva riprenderlo. Forse intendeva distruggerlo. Forse era destinato a tua madre. Chi può dirlo? Ma credo fosse la sua occasione per parlare, e doveva aver voluto che qualcuno ascoltasse, ma non che quel qualcuno fossi io. Quando Peig morì lo stipo e il diario passarono nelle mie mani. Io decisi che un giorno li avrei dati a Florence, una volta che tu fossi un po’ cresciuta, una volta che lei avesse provato a se stessa che non c’era nessuna maledizione, che anche lei meritava di essere chiamata mamma. Ma aspettai troppo. Così ora li do a te. Potrai dire che tra noi non ci sono legami di sangue, Anna: la vecchia tata Madd, la tata di tutti, senza figli da poter chiamare suoi. Ma sei tu la vera erede della storia, e dello stipo delle farfalle. È a te che devono andare entrambi. Tu sarai l’unico lettore del diario, Anna. Chi, meglio di te?

Sono stanca, figlia mia. Tornerai, vero? Potrei raccontarti di più, forse, un altro giorno. C’è ancora dell’altro da raccontare. Ma la storia mi sfugge via, come una manica di lana che s’impiglia nel filo spinato. Mi si disfa sotto gli occhi. Cerco di tenerla assieme con le parole, ma a volte perde forma, non assomiglia per niente a quello che era un tempo. Scegliere una sola storia è difficile, quando ce ne sono tante da raccontare.