Capitolo primo.
In principio era il Tempio

E furono chiamati Templari

Alcuni cavalieri amati da Dio e ordinati a suo servizio rinunciarono al mondo e si consacrarono a Cristo. Con voti solenni, pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, si impegnarono a difendere i pellegrini contro briganti e predatori, a proteggere le strade e a fungere da cavalleria del Re Sovrano. Essi osservano la povertà, la castità e l’obbedienza, secondo la regola dei canonici regolari.

[...]

E poiché non avevano chiese o dimore di loro proprietà, il re li alloggiò nel suo palazzo, vicino al Tempio del Signore. L’abate e i canonici regolari del Tempio diedero loro, per le esigenze del loro servizio, un terreno non lontano dal palazzo; e per questa ragione, furono chiamati più tardi Templari1.

Così lo storico Jacques de Vitry, vescovo di Acri dal 31 luglio 1216 al 1245, descriveva la fondazione dell’ordine militare e religioso del Tempio. Era un’esperienza di vita consacrata che aveva avuto origine in Gerusalemme agli inizi del secolo XII, quando, all’indomani della prima crociata (1099), la Città Santa tornò in mano ai cristiani2.

Intorno ai principali siti che avevano un ruolo centrale nel racconto evangelico era stato costituito un regno cristiano formato da quattro potentati maggiori: la contea di Edessa, che nel momento della sua massima estensione andava dalla città di Antiochia verso ovest fin oltre il corso dell’Eufrate; il principato di Antiochia, posto nel territorio settentrionale delle attuali Siria e Turchia; la contea di Tripoli, corrispondente alla parte settentrionale dell’attuale Libano, e il principato di Galilea, esteso intorno al lago di Tiberiade e lungo la valle del fiume Giordano. Nonostante la vittoria cristiana, il nemico islamico accerchiava il regno, guardingo e incombente; premeva lungo i confini con atti continui di guerriglia, aggrediva le carovane di pellegrini diretti in visita ai Luoghi Santi e, in breve, teneva i cristiani di Terrasanta sotto il tiro costante della sua minaccia.

Nel 1104 o 1105 un cavaliere di nome Hugues, capo del feudo di Payns vicino Troyes e vassallo del conte di Champagne, si recò pellegrino al Santo Sepolcro insieme al suo signore. Questo flusso di militari francesi verso la Terrasanta è forse legato al viaggio compiuto in Occidente da Boemondo principe di Antiochia nello stesso periodo (1105-1106). Caduto prigioniero dei musulmani nell’agosto 1100 e rilasciato dopo tre anni, partì verso la Francia deciso a sciogliere un voto a san Leonardo, per intercessione del quale aveva riconquistato la libertà; in quell’occasione chiese la mano di Costanza, figlia del re di Francia Filippo I, e sollecitò l’invio di rinforzi per la difesa del regno cristiano. Sbarcato in Puglia, cercò ed ottenne il sostegno di papa Pasquale II e del suo legato Bruno di Segni per recarsi oltralpe a predicare una nuova crociata. Boemondo, per come lo descrive la principessa bizantina Anna Comnena, era un uomo di aspetto magnifico, dotato di una parlantina affascinante. Le sue capacità sicuramente influirono nel muovere le coscienze dei signori occidentali, ma lo fecero anche altri aspetti di carattere pragmatico; non ultimo il fatto che Boemondo era partito dall’Europa in qualità di duca di Taranto, e adesso vi tornava come principe d’Antiochia, ovvero capo di uno Stato crociato3.

Adempiuto dunque il lodevole proposito di pregare in ginocchio davanti al Santo Sepolcro, il signore di Payns decise di restare a Gerusalemme. Al pari di altri cavalieri, che le fonti chiamano milites ad terminum, voleva offrire un servizio gratuito al santuario della Resurrezione per un certo numero di anni; o forse per tutta la vita4. La scelta rispondeva a un profondo bisogno religioso, innanzitutto; in secondo luogo, assecondava una tendenza culturale.

Gli intellettuali che sostennero la crociata erano imbevuti di cultura biblica; e naturalmente attingevano alla Scrittura per esortare i fedeli alla partenza. Soprattutto in Roberto il Monaco e Baldrico di Dol, che fra il 1107 e il 1108 composero entrambi una cronaca intitolata Historia Hierosolymitana, abbondano i riferimenti alla Bibbia: la Terrasanta dei crociati si identifica con la Terra Promessa d’Israele, e i cristiani sanno che Dio combatterà con il suo popolo contro i nemici, com’è descritto nei Salmi (67, 22). Il papa è immagine di Mosè, che nel libro dell’Esodo (17, 11) tiene le mani alzate mentre gli ebrei combattono contro gli Amaleciti. Il culmine di questa assimilazione è una scena di gloria e di vittoria tratta dal Salmo 78: il compimento delle profezie diverrà visibile con l’ingresso delle Nazioni nel Tempio5.

Dal Libro di Gioele (4, 1-2) veniva la certezza che proprio laggiù, a Gerusalemme, sarebbe risuonata la tromba dell’Ultimo Giorno:

Poiché ecco, in quei giorni e in quel tempo,

quando avrò fatto tornare i prigionieri di Giuda e Gerusalemme,

riunirò tutte le nazioni e le farò scendere nella valle di Giosafat,

e là verrò a giudizio con loro

per il mio popolo Israele, mia eredità, che essi hanno disperso fra le genti

dividendosi poi la mia terra.

Morire nella Città Santa poteva garantire al fedele lì sepolto un privilegio speciale, quando il Signore avrebbe resuscitato i morti cominciando da quelli giacenti laggiù, nella valle di Giosafat, che in ebraico significa esattamente «Dio giudica»6.

Quest’idea aveva condotto a Gerusalemme un lungo flusso di pellegrini cristiani sin dalla tarda antichità, dunque molti secoli prima che – in virtù di complesse ragioni non solo religiose – cominciasse il cosiddetto «pellegrinaggio in armi», più tardi denominato «crociata». Dalla celebre matrona Egeria, che nella seconda metà del IV secolo lasciò la sua nativa Aquitania per visitare i Luoghi Santi sfruttando la buona viabilità dell’impero romano, al vescovo franco Arculfo che viaggiò verso l’anno 670, quando la rete viaria d’Europa era sicuramente più scomoda e malridotta, fino ai signori feudali che vi si recarono con gli uomini del loro seguito alla vigilia della prima crociata, il viavai di pellegrini fu praticamente ininterrotto. Un fatto sorprendente per l’uomo moderno è che non cessò mai, nonostante tutti i rischi e le difficoltà, nemmeno quando il fanatismo di alcuni dominatori islamici contro i cristiani rese la visita talmente pericolosa che l’ipotesi di morire martiri non era una remota possibilità7.

Fra gli altri devoti in attesa del transito verso la vita ulteriore, anche il cavaliere Hues de Paiens delez Troies, com’è chiamato in antico francese, decise con alcuni compagni di rendersi utile alla Terrasanta e agli altri cristiani. Lo fece nell’unico modo in cui probabilmente poteva, ovvero usando le armi per scortare i pellegrini itineranti lungo le insidiose strade della Terrasanta. I Templari delle origini, o «prototemplari», come a volte sono chiamati dagli storici, avevano la fisionomia di una milizia privata composta essenzialmente da volontari8.

Una spada contro i nemici della fede

Nel quadro sociale del secolo XII, la guerra consisteva soprattutto in scontri di cavalieri, tanto che la parola più frequente per indicare un contingente bellico, cioè militia, si traduceva correntemente «cavalleria». I fanti, una presenza comunque importante, avevano più che altro mansioni di supporto, ed erano chiamati servientes proprio perché la loro attività si poneva al servizio dei cavalieri.

Ricoperto da capo a piedi dal pesantissimo usbergo fatto di maglia di ferro, con lo scudo, gli schinieri e l’elmo, il guerriero a cavallo doveva essere necessariamente un professionista del combattimento, e mantenersi in allenamento costante per riuscire a muoversi agilmente con indosso tutto quel carico. Miles era però una parola ambivalente nella cultura del tempo: accanto al volto violento, fatto di scorrerie, spargimento di sangue e conquista, si era affermato durante i secoli dell’alto medioevo un aspetto concorrente, etico e morale, con forti sfumature religiose.

A partire dall’età carolingia, le gerarchie ecclesiastiche avevano lavorato per moralizzare la guerra, cercando di convogliarla entro argini delimitati, perché non fosse violenza indiscriminata ma invece uno strumento di pace e di ordine sociale. Si era consolidata l’usanza di conferire le armi al nuovo cavaliere seguendo una cerimonia religiosa dotata di una liturgia propria, durante la quale il nuovo miles avrebbe atteso la sua «consacrazione» dopo una notte di veglia in preghiera, e un bagno rituale che richiamava simbolicamente il battesimo. Proprio come il sacramento, indicava la purificazione del nuovo combattente; rappresentava una rinascita rispetto all’uomo vecchio, contagiato dal male, dal gusto di spargere sangue e annientare il nemico, dalla ferinità. La cavalleria era dunque un corpo sociale preposto alla guerra, ma era anche un insieme di persone che avevano un orizzonte religioso comune e, almeno in linea teorica, certe norme etiche da osservare9.

Invalse l’uso di recitare una benedizione sulla spada che veniva consegnata al nuovo miles; essendo quell’arma lo strumento della violenza e il simbolo stesso della condizione di cavaliere, il gesto era quasi un voler esorcizzare i suoi aspetti diabolici. La formula si ispirava (con molte varianti) a quelle recitate durante le cerimonie di incoronazione dei sovrani e degli imperatori, poiché, come ricordava l’arcivescovo Ildeberto a Ottone I, re di Germania nell’anno 936, con quella spada bisognava combattere tutti i nemici di Cristo, fossero essi pagani o anche cristiani malvagi. Dall’anno 950 circa, si praticava anche la benedictio vexilli bellici, cioè la consacrazione dello stendardo militare che la schiera porta in guerra come propria insegna, per chiedere a Dio la vittoria sui nemici del popolo cristiano10. Guerra e santità non erano dunque incompatibili, almeno per gran parte dei teologi e degli intellettuali cristiani.

Una lunga tradizione esegetica traeva dalla Sacra Scrittura la convinzione che la vita stessa dell’uomo, sempre alla ricerca di Dio ma costantemente insidiato dal diavolo, doveva considerarsi una battaglia ininterrotta contro il male; militia est vita hominis super terram, dice il Libro di Giobbe (7, 1). Naturale pertanto che la cultura ecclesiastica attribuisse il ruolo di milites Christi anche ai monaci; essi vivevano ritirati dal mondo, ma pregando e facendo penitenza a beneficio dell’intero corpo sociale, e dovevano ritenersi con ogni diritto buoni combattenti di Cristo, perché lottavano costantemente contro il peccato11.

Durante i primi secoli dell’era cristiana, in realtà gli scrittori ecclesiastici avevano condannato severamente ogni tipo di attività militare, giudicandola comunque incompatibile con la fede cristiana. Questa linea di pensiero non era tuttavia l’unica, e la storia della Chiesa annoverava esemplari figure di guerrieri divenuti campioni della fede: fra i più noti e amati dalla gente c’erano san Teodoro e san Maurizio, san Giorgio e san Martino di Tours12.

Alla vigilia della prima crociata, quando giunsero in Europa le notizie allarmanti dei massacri di cristiani perpetrati in Siria-Palestina dai turchi selgiuchidi che avevano occupato Gerusalemme, i due volti della milizia cristiana, quello socio-politico e quello spirituale-contemplativo, in qualche modo finirono per fondersi. Il grande mistico e teologo Bernardo di Chiaravalle, invitato dal re di Gerusalemme Baldovino II, ideò un modello di vita consacrata capace di armonizzare questi due aspetti che si presentavano in antitesi alla luce del messaggio evangelico, pervaso dal comandamento della non violenza. Bernardo attinse all’insegnamento di sant’Agostino da Ippona, una fonte antichissima e molto illustre. Nel corso dei secoli, la teologia agostiniana aveva ispirato in modo così ampio la dottrina della Chiesa che difficilmente il papa avrebbe potuto negare la validità etica del progetto.

Sant’Agostino tracciava il profilo del bellum iustum, cioè una speciale qualità di combattimento solo difensivo, attuato a tutela di persone inermi che non hanno la possibilità di difendersi per conto proprio, e sono pertanto destinate a soccombere. Nell’epistola a Bonifacio, il santo giudica complementari l’opera buona di chi prega nel silenzio della contemplazione, attirando la benevolenza divina e la scelta di chi difende gli altri combattendo con le armi in pugno. Questi diversi combattenti collaborano a uno stesso piano di salvezza, entrambi svolgono un ruolo essenziale a vantaggio del popolo cristiano13.

In breve, secondo Agostino colui che salva un innocente dalla violenza ingiustificata non commette peccato, anche se uccide l’aggressore; san Bernardo tradusse questo concetto in quello di malicidio, ovvero eliminazione del male. Indicava in tal modo l’azione del cavaliere che salva altri cristiani inermi dalla violenza dei saraceni.

Il malicidio, un’opera meritoria per la quale il cavaliere mette in pericolo la propria vita, sarà la missione specifica affidata dalla Chiesa ai Templari, quando, nel gennaio 1129, papa Onorio II ratificherà ufficialmente la costituzione dell’ordine nel concilio di Troyes per tramite del legato apostolico cardinale Matteo di Albano. Come a ragione sottolinea Rudolf Hiestand, i Templari, al pari degli altri ordini militari del secolo XII, furono essenzialmente un prodotto del papato14.

Dal Tempio del Signore al Santo Sepolcro

Questa singolarissima categoria di religiosi combattenti formava un esperimento mai visto prima nella millenaria storia della Chiesa; la storica e filologa Simonetta Cerrini, che ha studiato a lungo la tradizione della regola templare, parla di una vera e propria «rivoluzione». La portata innovativa del progetto era infatti tale che sollevò anche diverse critiche nel mondo monastico, contrario a che uomini consacrati dai tre voti di povertà, obbedienza e castità spargessero il sangue di altri uomini15.

Ai Templari era affidata una doppia missione: combattere e pregare. Avevano perciò una duplice fisionomia, come spiega san Bernardo nel trattato In lode della nuova cavalleria, composto per promuovere la crescita dell’ordine templare:

È una cosa degna di ammirazione e oltremodo singolare vedere come essi siano più miti degli agnelli e, nel contempo, più feroci dei leoni, sì che quasi dubito se sia meglio chiamarli monaci oppure soldati, a meno che non sia forse opportuno chiamarli in entrambi i modi, in quanto in loro non manca né la mitezza del monaco né il coraggio del guerriero16.

La radice della loro particolare spiritualità risiedeva proprio nella Sacra Scrittura, dove numerosi inni esaltavano le gesta belliche del popolo eletto contro i suoi nemici. Una guerra sicuramente santa, perché combattuta contro i cultori degli idoli; un’ideologia che la società cristiana al tempo delle crociate trovò adeguata alle sue esigenze, mentre i documenti pontifici attingevano a piene mani a quei passi della Bibbia che celebravano Dio come Sabaoth, il Signore degli Eserciti17.

Biblica era anche la sensibilità di quei cavalieri – nove secondo Guglielmo di Tiro, trenta invece per Michele Siriano – che scelsero di legare le proprie esistenze alla città di Gerusalemme, consapevoli di abitare nel luogo più sacro. Il cuore autentico della Città Santa, il suo simbolo principale da quando il popolo d’Israele era giunto nella terra di Canaan. Un posto carico di reminiscenze scritturali, e circondato da un alone di mito.

Il nome originario che Hugues de Payns aveva dato ai suoi compagni richiamava l’idea del loro combattere in spirito e in armi insieme a Gesù: pauperes commilitones Christi, cioè «i poveri commilitoni di Cristo». Il testo latino della loro regola, quello approvato nel 1129, li chiama proprio così: Incipiunt capitula regule commilitonum Christi, o commilitonum Sancte Civitatis. Eppure in una fase molto precoce, tanto da comparire nella regola stessa, c’è un’altra denominazione concorrente che si afferma e li lega al Tempio di Salomone, la casa di Dio: la vediamo emergere in certi passi come questo, in domo Dei Templique Salomonis18.

Si trattava di un’associazione vincolante. Il fascino e la carica evocativa dell’antico santuario erano così forti nell’immaginario religioso dei cristiani da sopraffare il nome primitivo imposto dal fondatore; più volte nella regola ricorre l’abitudine di identificare questi guerrieri come connessi indissolubilmente al celebre edificio, almeno in modo ideale (cum milites Templi dicamini, e ancora dicentes se esse de Templo)19.

Generalmente, si ritiene che Bernardo scrisse il De laude verso il 1136, subito dopo il concilio di Pisa, cui prese parte al fianco di papa Innocenzo II; ma Simonetta Cerrini ha motivo di credere che il trattato sia più antico, cioè prodotto mentre si preparava il concilio di Troyes. In quanto sermo exhortatorius, il testo doveva al tempo stesso spiegare ed esaltare il progetto, illustrandone l’idealità ai Padri del concilio, al legato apostolico, ai signori laici presenti e a quanti, dopo la fondazione, sarebbero stati chiamati ad entrare nella nuova milizia religiosa. Il De laude costituiva il «manifesto» dei Templari, immaginati nel loro profilo concreto e ideale dal loro più strenuo sostenitore20.

Nel trattato di san Bernardo, al Tempio salomonico spetta un ruolo cruciale. Oltre che dimora per i frati, è soprattutto il simbolo di un’eredità, di una continuità nella fede e nello spirito di sacrificio che accomuna l’antico popolo di Israele ai nuovi guerrieri consacrati:

Il Tempio di Gerusalemme, nel quale abitano tutti insieme, è un edificio certo meno imponente rispetto a quello antico e celeberrimo di Salomone, ma non gli è inferiore quanto alla gloria. Infatti, tutta la magnificenza di quello constava negli ornamenti d’oro e d’argento, che sono cose corruttibili, nella perfetta squadratura delle pietre e nella varietà dei legnami impiegati; nel nuovo, il principale motivo di vanto e la più splendida delle decorazioni sono la fede dei suoi abitanti, e la loro vita disciplinata, scandita da regole religiose.

Il primo Tempio lasciava stupiti per la varietà dei suoi colori, quest’altro invece è venerabile per le diverse virtù che vi coltivano e le sante azioni che vi si compiono. La santità infatti si addice alla dimora di Dio, poiché Egli non si compiace tanto dei marmi lucidati a specchio, quanto dei costumi morigerati, e preferisce la purezza della mente più che le pareti ricoperte d’oro. La facciata di questo nuovo Tempio è comunque adornata, ma di armi, non di pietre preziose. Al posto delle antiche corone auree, le pareti tutt’intorno sono ricoperte da scudi appesi; invece dei candelabri, dei turiboli per l’incenso, dei vasi rituali, nella dimora si trovano dappertutto freni per i cavalli, selle e lance.

Ciò dimostra con chiarezza come i cavalieri siano accesi dallo zelo per la casa di Dio, lo stesso veemente fervore che un giorno infiammò il Condottiero di questi cavalieri [Gesù], che armando la sua mano santissima non di ferro ma di una frusta di funicelle, entrò nel Tempio per scacciare i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute, rovesciò i banchi dei venditori di colombe, giudicando sommamente indegno che una casa di preghiera fosse contaminata dalla pratica dei mercanti.

Così dunque questo esercito di uomini devoti, trascinati dall’esempio del loro Re, vedendo i Luoghi Santi profanati dagli infedeli, e giudicandolo un fatto ancora più grave rispetto alla contaminazione che possono dare i mercanti, decisero di vivere nella sacra dimora con armi e cavalli. Ed avendola purificata da ogni vestigia degli infedeli, come pure accadde agli altri santi luoghi, vi trascorrono il tempo di giorno e di notte tenendosi impegnati in occupazioni utili ed oneste.

Fanno a gara tra di loro per onorare il Tempio di Dio con un omaggio continuo e sincero, immolando al Signore con eterna devozione non carni di agnelli come usava l’antico rituale, bensì offerte incruente: l’affetto fraterno che vige tra di loro, l’ubbidienza devota, la povertà come scelta volontaria21.

Il parallelo è diretto, esplicito, evocativo.

I Templari alloggiavano i loro numerosi cavalli nel sotterraneo che i crociati chiamavano le Stalle di Salomone, il quale, come vedremo, aveva in realtà scarsi legami storici con il figlio di Davide; la memoria del sito, e la sua incredibile suggestione, facevano sì che la gente vedesse nei Templari gli eredi di quel personaggio così illustre e speciale che duemila anni prima aveva pregato il Signore e celebrato olocausti in quello stesso luogo.

Non era poi tanto audace, Bernardo, quando considerava i Templari quali eredi per così dire naturali dei guerrieri scelti di Israele; quando li definisce addirittura «ministri» del Signore, poiché svolgono al suo servizio una santa missione. E non lo era quando trasferiva al Santo Sepolcro le caratteristiche che un giorno, e per tradizione, erano state quelle del grande santuario di Yahwè:

Dio stesso ha scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mondo questi Suoi ministri [ministri della Sua giustizia] tra i più valorosi d’Israele, per custodire con fedeltà e vigilmente il letto del vero Salomone – cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai nell’arte della guerra (Sal 117, 23).

Il Tempio di Salomone, in tutta la sua immane portata storica e simbolica, viveva dunque nel nome stesso dei Templari. E in qualche modo, come vedremo, li predestinava a entrare nella leggenda. Ma qual era la forma di questo santuario?

Hiram, Boaz e Jachin

Perciò Davide disse: «Questa è la casa del Signore Dio, e questo è l’altare per gli olocausti di Israele».

Allora Davide ordinò di radunare gli stranieri che si trovavano nel paese di Israele e diede incarico agli scalpellini di squadrare pietre per la costruzione della casa di Dio. Davide preparò ferro in abbondanza per i chiodi dei battenti delle porte e per le grappe di ferro, bronzo in tale abbondanza da non potersi pesare. Il legname di cedro non si contava, giacché quelli di Sidone e di Tiro avevano inviato a Davide legname di cedro in abbondanza.

(I Cronache 22, 1-5)

Narra il Primo Libro delle Cronache che Davide, conquistata Gerusalemme e fattane la sua capitale, edificò per se stesso un palazzo; poi decise di costruirvi un Tempio, per custodire l’Arca dell’Alleanza in un luogo che fosse adeguato alla gloria del Signore.

Il prezioso reliquiario di legno, segno visibile della presenza di Yahwè, fino ad allora era stato alloggiato sotto una tenda. Per bocca del profeta Natan, Dio fece tuttavia sapere a Davide che l’opera sarebbe stata compiuta soltanto da suo figlio; troppe guerre aveva combattuto l’Unto di Dio, troppo sangue aveva versato, mentre suo figlio sarebbe stato un sovrano di pace, come indicava anche il suo nome: Salomone. Così il sovrano preparò i materiali che il successore avrebbe utilizzato e incaricò 24.000 persone fra i capi, i sacerdoti e i leviti perché sovrintendessero alla costruzione22.

L’area prescelta era il monte Moria, il luogo dove un giorno era stato preparato il sacrificio di Isacco (Gen 22, 2). L’altare degli olocausti nel nuovo Tempio, secondo la volontà di Davide, doveva restare quello che lui stesso aveva innalzato sull’aia acquistata da Ornan il Gebuseo.

La descrizione presente nel Libro dei Re lascia capire che lo splendore di questa dimora sacra non dipendeva tanto dall’imponenza delle dimensioni, quanto dal fasto straordinario del suo apparato decorativo. Dagli studi archeologici emerge che in effetti l’edificio non era molto grande, misurando circa trenta metri di lunghezza per nove o dieci di larghezza; quanto allo splendore dell’opera, Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche (VIII, III, 68, 74-75) ne ha lasciato una descrizione inequivocabile:

Sotto ai troni aveva fatto un soffitto diviso a intagli d’oro. Ricoprì le pareti di tavolati di cedro ricoperti d’oro, sicché tutto il Tempio scintillava da ogni parte e, dallo splendore dell’oro, tutte le parti risplendevano abbagliando gli occhi di quanti entravano.

[...]

Egli lastricò il pavimento del Tempio con lamine d’oro, e alla porta del tempio mise degli usci proporzionati all’altezza dei muri: venti cubiti di larghezza, e anche questi ricopre d’oro.

In una parola, non lasciò parte alcuna del Tempio, sia dentro che fuori, che non fosse d’oro.

Per realizzare l’impresa, Salomone chiese l’aiuto del re di Tiro Chiram, un nome che si trova in diverse varianti con suoni similari: in ebraico è hiram, forma che si ritiene una delle traslitterazioni più vicine alla fonetica dell’originale nome fenicio. Dietro un compenso non proprio modico (olio e cereali, oltre alla cessione di ben venti villaggi della Galilea), gli fornì il legname proveniente dalle foreste del Libano, essenzialmente legno di cedro23.

Nella cultura dell’Antico Testamento, il cedro non è un legno qualunque ma piuttosto l’essenza che caratterizza l’edilizia dei santuari e dei palazzi reali o aristocratici; la stessa imponenza del fusto, che raggiungeva un’altezza di trenta metri, ne faceva un simbolo di grandezza e di maestà. Questo albero possedeva nell’antica cultura del Medio Oriente anche un valore simbolico oggi difficile da definire, ma sappiamo dal Levitico (14, 1-9, 48-53) che le sue ceneri erano impiegate in certi rituali per purificare i lebbrosi e le case, mentre secondo Isaia (44, 14) questo legname si usava per intagliare gli idoli24.

Dal re di Tiro vennero offerte anche le maestranze qualificate, in particolare l’architetto Curam, detto anche Curam-Abi, che era figlio di un uomo fenicio e di una donna ebrea, della tribù di Dan o di Neftali. Le moderne ricostruzioni archeologiche, che hanno cercato per quanto possibile di sondarne l’aspetto, confermano i dati biblici in questo senso: il progetto e la decorazione del Tempio erano chiaramente ispirati a quelli fenici25.

Dopo, Salomone mandò la richiesta ad Eirom affinché inviasse un artigiano da Tiro, chiamato Cheiròm che da parte di madre era Neftalita – lei veniva, infatti, da quella tribù –, e il padre di lei si chiamava Uria di stirpe israelita. Costui era espertissimo in ogni mestiere, e particolarmente valente nella lavorazione dell’oro, dell’argento e del bronzo: e fu lui che eseguì ogni cosa riguardante il Tempio secondo il volere del re.

(Antichità giudaiche, VIII, III, 76)

Ai lati dell’entrata sorgevano due colonne, che non avevano alcuna funzione architettonica; nell’immaginario dei secoli a venire conosceranno una fortuna e una longevità che forse il loro costruttore non avrebbe immaginato.

Quella a nord, cioè a destra guardando l’ingresso, aveva il nome di Jachin (in ebraico yākîn, che significa probabilmente «Dio renderà solido»); l’altra, quella a sud, di Boaz (da bō’az, «con forza»). Dovevano rappresentare simbolicamente la durata che il Tempio e il suo culto avrebbero avuto nei secoli? Sembrerebbe di sì, a giudicare dai nomi. Erano fatte entrambe di bronzo – o, come si crede oggi, con un fusto di legno rivestito da placche bronzee –, avevano dimensioni imponenti (18 cubiti di altezza, cioè circa 8 metri) ed erano sormontate da capitelli alti 5 cubiti (circa 2,25 metri), decorati un fregio raffinatissimo26.

Fu questo Cheiròm che innalzò le due colonne di bronzo dello spessore di quattro dita, l’altezza era di diciotto cubiti, e dodici di circonferenza; sul capitello di ognuna vi era un giglio di metallo fuso che si elevava all’altezza di cinque cubiti, attorno stava una reticella intrecciata a fogliame di bronzo che copriva i gigli: e da questa pendevano duecento melograne disposte in due file. Una di queste colonne la collocò allo stipite destro del vestibolo, e la chiamò Jachein, collocò l’altra allo stipite sinistro e la chiamò Abaiz.

(Antichità giudaiche, VIII, IV, 77-78)

Il loro senso esatto sfugge tuttora agli studiosi, che hanno riscontrato la presenza di simili colonne nel tempio di Kamid el-Loz (in Libano), costruito nell’età del Bronzo recente. Si suppone che fossero inserite nella struttura del Tempio per continuare la tradizione dei grandi betili presenti nei santuari cananei, cioè imponenti pietre erette in onore della divinità che indicavano la presenza fisica del dio stesso e l’installazione del suo culto. Se così fosse, si tratterebbe di una chiara sopravvivenza di abitudini pagane, ma l’ipotesi non ha mai trovato riscontro in prove sicure27.

Per custodire l’Arca dell’Alleanza

Nei suoi tratti fisici, il Tempio era un edificio a pianta rettangolare orientato da est a ovest, con l’ingresso a oriente. Già entrando nel cortile, l’occhio umano poteva scorgere una presenza grandiosa, un enorme catino lustrale fatto interamente di bronzo, che doveva risplendere come se fosse d’oro:

Fuse ancora il Mare di bronzo a foggia di emisfero: questo vaso di bronzo fu chiamato mare a motivo della sua capacità. Era, infatti, un catino fuso del diametro di dieci cubiti e dello spessore di un palmo; era sostenuto da una spirale innestata nel cuore del vaso, che girava in dieci volute, e aveva il diametro di un cubito.

Attorno al mare stavano dodici buoi con la faccia rivolta ai quattro venti, tre per ogni direzione, e tenevano la parte posteriore abbassata di modo che l’emisfero poggiasse sopra di essi a mano a mano che tutto attorno si stringeva. Il mare poteva contenere tremila bath.

[...]

Riempito il Mare di acqua, lo destinò ai sacerdoti affinché potessero lavarsi mani e piedi quando entravano nel tempio e dovevano salire all’altare, mentre i catini erano destinati alla pulizia delle interiora e dei piedi degli animali offerti in olocausto.

(Antichità giudaiche, VIII, IV, 79-80, 87)

Del resto, voleva la tradizione biblica che il sovrano avesse inviato una spedizione nel paese chiamato Sofeir, o «terra dell’oro»; il luogo corrisponde alla misteriosa terra di Ofir citata nei Salmi (45, 10), nel Libro di Giobbe (22, 24) e in Isaia (13, 12), dalla quale arrivarono a Gerusalemme anche pietre preziose e legni esotici usati per fare i pilastri del santuario28.

La planimetria del Tempio era composta da tre stanze poste in fila l’una dopo l’altra. La prima aveva il nome di Ulam, e costituiva il vestibolo o portico. Era larga circa nove metri e profonda quattro metri e mezzo29. Dal vestibolo si accedeva alla seconda stanza, chiamata Hekal, da un termine di origine sumerica (egal, «grande casa») che indicava un santuario o un palazzo. Era propriamente la sala del culto, e in seguito riceverà il nome di Santo. Vi si trovavano l’altare dei profumi, detto anche altare di cedro o altare d’oro (fatto a forma di pilastro quadrangolare con i due angoli in forma di corno), la tavola con i pani dell’oblazione (un’offerta vegetale che accompagnava quella cruenta degli animali immolati) e dieci candelieri30.

Dall’Hekal si accedeva all’ultima stanza, i veri penetrali del Tempio, attraverso una porta che dopo l’esilio, forse per influsso dovuto alla visione dei templi babilonesi, fu sostituita da un velo finemente ricamato. Era il Debir («camera posteriore»), o Santo dei Santi, il luogo più sacro, dove era riposta l’Arca dell’Alleanza. Questa era un cofano fatto di legno sormontato da una possente struttura detta propiziatorio (in ebraico kapporet), un monumentale coperchio grande quanto l’Arca stessa, decorato alle estremità da due figure di cherubini (da kerûb, benedicente») forgiate in oro massiccio, una di fronte all’altra; intrecciando fra loro le punte delle ali, dice Giuseppe Flavio, coprivano l’Arca come una specie di tenda o cupola31.

Lo scrigno era il segno tangibile e il luogo stesso della presenza divina, poiché secondo il Primo Libro di Samuele (4, 4) «Yahwè siede sui cherubini». Prima che Salomone realizzasse il Tempio, l’Arca era ospitata sotto la Tenda del Convegno, un santuario mobile fatto da pelli di montone tinte di rosso; secondo il Primo Libro dei Re, dentro l’Arca non c’era niente, ma successive redazioni scrivono che conteneva le due tavole di pietra sulle quali Mosè aveva scritto i dieci comandamenti, l’urna d’oro che racchiudeva la manna con cui Dio aveva nutrito il suo popolo durante la traversata del deserto e il bastone di Aronne che era prodigiosamente germogliato32.

Il Santo dei Santi era un luogo inviolabile in cui entrava soltanto il sommo sacerdote, dopo aver compiuto un lungo ed elaborato rituale di purificazione. Vi entrava una sola volta all’anno per compiere il rito dell’Espiazione, forse la solennità maggiore del culto di Yahwè, che aveva una sua ritualità particolare, dettagliata e molto complessa. Dopo aver immolato un giovenco per sé e la sua famiglia, il sommo sacerdote entrava nel santuario e bruciava incenso fino a formare una nube così densa da coprire il propiziatorio posto sull’Arca: in tal modo Dio era presente e nascosto al tempo stesso. Con il sangue del giovenco aspergeva l’Arca dell’Alleanza e il propiziatorio, poi lo mischiava a quello del capro immolato a Yahwè per lavare i peccati del popolo e con la mistura aspergeva i corni dell’altare, che l’Esodo (30, 10) dice «di una santità eminente»33.

Nell’anno 598 le truppe babilonesi di re Nabucodonosor saccheggiarono Gerusalemme, e il Tempio fu depredato dei suoi arredi:

Il re di Babilonia portò via tutti i tesori del Tempio e i tesori della reggia [...] Deportò tutta Gerusalemme, tutti i funzionari di palazzo e tutti i soldati di carriera in numero di diecimila, tutti gli artigiani; rimasero soltanto i poveracci.

(II Re 24, 13-14)

Il numero delle persone deportate non è certo, ma sembra chiaro che fu trasferita la parte più ricca della società locale, i maggiorenti, mentre gli strati inferiori della popolazione rimasero in loco; le funzioni religiose nel Tempio proseguirono, anche se il santuario aveva perduto i suoi arredi più preziosi.

Dodici anni dopo, Gerusalemme fu di nuovo occupata e stavolta la punizione dei babilonesi fu più dura, anche contro il santuario che rappresentava per il popolo un simbolo insostituibile di identità etnica e politica. Boaz e Jachin, le due colonne che avevano addirittura un nome e quindi una specie di personalità, vennero brutalmente prese di mira dalla furia degli invasori:

I babilonesi fecero a pezzi le colonne di bronzo [...] presero inoltre tutti gli arredi sacri [...] quanto era d’oro e quanto era d’argento.

(II Re 25, 13-16)

Evidentemente, durante il primo saccheggio non era stato portato via proprio tutto ciò che aveva valore; o, forse, questa seconda spoliazione si riferisce al fatto che stavolta furono staccate anche le placche d’oro che rivestivano diversi punti del santuario.

Seriamente danneggiato, il santuario venne anche dato alle fiamme; secondo Giuseppe Flavio, questo accadde 470 anni, sei mesi e dieci giorni dopo la sua erezione.

Un sacrario immortale

Benché distrutto, il santuario salomonico non scomparve e, seppur devastato, rimase il cuore ideale dell’ebraismo. L’area sacra continuava a ospitare un culto che non venne mai interrotto, e restò in città anche una classe di sacerdoti che officiavano i sacrifici a Yahwè: il Libro di Geremia (41, 5) narra infatti di un pellegrinaggio al Tempio poco dopo questi eventi34.

I libri della Scrittura redatti durante l’esilio sono colmi del rimpianto per il Tempio perduto, ne celebrano la grandezza e lasciano ai posteri il monito solenne di ricostruirlo. Il profeta Ezechiele fu trasportato in trance dalla potenza divina e vide il grande santuario celeste, immagine ideale di quello terreno:

Al principio dell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là. In visione divina mi condusse nella terra d’Israele e mi pose sopra un monte altissimo sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Egli mi condusse là: ed ecco un uomo, il cui aspetto era come di bronzo, in piedi sulla porta, con una cordicella di lino in mano e una canna per misurare. Quell’uomo mi disse: «Figlio dell’uomo: osserva e ascolta attentamente e fa’ attenzione a quanto io sto per mostrarti, perché tu sei stato condotto qui perché io te lo mostri e tu manifesti alla casa d’Israele quello che avrai visto».

[...]

Lo spirito mi prese e mi condusse nell’atrio interno: ecco, la gloria del Signore riempiva il tempio. Mentre quell’uomo stava in piedi accanto a me, sentii che qualcuno entro il tempio mi parlava e mi diceva: «Figlio dell’uomo, questo è il luogo del mio trono e il luogo dove posano i miei piedi, dove io abiterò in mezzo agli Israeliti, per sempre».

(Ez 40, 1-4; 43, 5-7)

Nell’anno 539 a.C. Ciro il Grande occupò Babilonia, e all’impero babilonese si sostituì quello persiano. Molto più liberale degli antichi dominatori, aveva in sé un’idea monoteistica della divinità, e anche se il suo dio non era quello degli ebrei, fu generoso con loro. Ebbero il permesso di tornare in patria e di riportare nel Tempio gli arredi sacri un tempo depredati:

Il re Ciro fece trarre fuori gli arredi del Tempio di Yahwè, che Nabucodonosor aveva portato via da Gerusalemme e aveva deposto nel tempio del suo dio. Ciro, re di Persia, dette ordine di tirarli fuori al tesoriere Mitridate, il quale li consegnò a Sheshbassar, re vassallo di Giudea.

(Ezra I, 7-8)

Sheshbassar, che non era un sovrano ma piuttosto un delegato della monarchia persiana, si incaricò di ristrutturare il santuario, e i lavori furono terminati da suo nipote Zorobabele. Come la mitica fenice, simbolo antichissimo di rinascita, il Tempio sembrava avere un destino di continua resurrezione. Segni celesti molto evidenti mostravano che la sua santità era immortale. L’edificio poteva essere devastato e incendiato, persino raso al suolo; ma il Tempio non era mai stato soltanto un’opera muraria. Dentro la scatola preziosa di pietre finemente intagliate, di legni pregiati rivestiti da placche d’oro, esisteva un santuario inestinguibile, perché fatto di sostanza spirituale; il Secondo Libro dei Maccabei lo descrive dietro il simbolo del fuoco sacro che ardeva sull’altare delle offerte al Signore:

Infatti quando i nostri padri furono deportati in Persia, i sacerdoti fedeli di allora, preso il fuoco dall’altare, lo nascosero con cautela nella cavità di un pozzo che aveva il fondo asciutto e là lo misero al sicuro, in modo che il luogo rimanesse ignoto a tutti. Dopo un buon numero di anni, quando piacque a Dio, Neemia, rimandato dal re di Persia, inviò i discendenti di quei sacerdoti che avevano nascosto il fuoco a farne ricerca; quando essi ci riferirono che non avevano trovato il fuoco ma acqua grassa, comandò loro di attingerne e portarne. Poi furono portate le offerte per i sacrifici e Neemia comandò che venisse aspersa con quell’acqua la legna e quanto vi era sopra. Così fu fatto e dopo un po’ di tempo il sole, che prima era coperto di nubi, cominciò a risplendere e si accese un gran rogo, con grande meraviglia di tutti.

(II Maccabei 1, 19-22)

Nell’anno 167 Antioco IV Epifane volle profanarlo, e fece celebrare sacrifici a Zeus sull’altare degli olocausti. L’azione rientrava in un progetto che voleva togliere agli ebrei le loro rigide abitudini culturali e religiose, per ellenizzarli e renderli così più integrati nel quadro politico della nuova monarchia nata dalle conquiste di Alessandro Magno e dei suoi generali. Nello stesso periodo storico la Bibbia venne tradotta in greco nella città di Alessandria d’Egitto, e questo nuovo testo, detto dei Settanta perché secondo la tradizione vi lavorarono settanta sapienti, si diffuse tanto da essere letto in tutte le sinagoghe, facendo praticamente cadere in disuso quello originale in lingua ebraica, ormai diventato un idioma di uso erudito e sacerdotale35.

Gli ebrei accettarono senza drammi il fatto di non ascoltare più la Torah nella loro lingua nativa, anche se era quella con cui Dio aveva parlato ai profeti, quella in cui erano stati scritti i dieci comandamenti. Le profanazioni del santuario scatenarono invece un violento moto di rivolta che culminò nella guerra dei Maccabei. Il Tempio ne fu l’epicentro:

Giuda intanto e i suoi fratelli dissero: «Ecco, sono stati sconfitti i nostri nemici: andiamo a purificare il santuario e a riconsacrarlo». Così si radunò tutto l’esercito e salirono al monte Sion. Trovarono il santuario desolato, l’altare profanato, le porte arse e cresciute le erbe nei cortili come in un luogo selvatico o montuoso, e gli appartamenti sacri in rovina. Allora si stracciarono le vesti, fecero grande pianto, si cosparsero di cenere, si prostrarono con la faccia a terra, fecero dare i segnali con le trombe e alzarono grida al Cielo. Giuda ordinò ai suoi uomini di tenere impegnati quelli dell’Acra, finché non avesse purificato il santuario. Poi scelse sacerdoti incensurati, osservanti della legge, i quali purificarono il santuario e portarono le pietre profanate in luogo immondo36.

Pare che la sensibilità popolare non amasse molto questo secondo santuario, sia perché era più piccolo e modesto di quello edificato da Salomone, sia perché aveva una forma quadrata, ben radicata nella cultura della Mesopotamia ma estranea alla tradizione ebraica37. Più tardi Erode il Grande fece smantellare il secondo Tempio per sostituirlo con un’opera grandiosa, capace di reggere il confronto con ciò che nell’immaginario degli ebrei, e negli scritti dei profeti, era stato il santuario di Salomone. L’opera richiese oltre un secolo per essere portata a compimento, ed era concepita per ricordare la maestà del Tempio edificato quasi mille anni prima. Attento alle esigenze del suo popolo e volendo compiere una potente manovra demagogica, Erode ordinò ai suoi architetti di studiare minuziosamente le profezie di Ezechiele, affinché si vedesse realizzato ciò che Israele aveva tanto a lungo sognato e atteso.

Fu addirittura raddoppiata l’area sacra del Moria, l’altopiano nordorientale della città dove sorgeva il santuario, con un’ardita opera di terrazzamenti sostenuti da costruzioni gigantesche; poi vennero stabilite basi di pietra fatte di blocchi enormi, alcuni dei quali giungevano addirittura a due metri di altezza e dodici di lunghezza.

Il santuario vero e proprio, che mantenne la sua struttura tradizionale incentrata sulle tre stanze (Ulam, Hekal e Debir), si vedeva sorgere alto verso il cielo, a sormontare una struttura progressiva fatta di cortili concentrici, sempre più stretti e più elevati via via che il senso della sacralità si faceva più denso e diminuiva il numero delle persone ammesse ad entrare. Il primo grandissimo recinto inquadrava uno spazio aperto di forma rettangolare che sul lato maggiore misurava ben duecentotrentacinque metri. L’intero perimetro era circondato da grandi portici con colonne alte undici metri, con il tetto in legno di cedro e il pavimento abbellito da pietre colorate. Lungo il lato meridionale l’impressionante Portico Reale, fatto di tre navate di cui la centrale giungeva a misurare ventotto metri d’altezza, aveva colonne così grandi che tre uomini non riuscivano, unendosi, ad abbracciarne il fusto. Questo luogo era accessibile a tutti, e vi si andava anche per discutere di affari, politica e cultura, come si faceva nei Fori romani.

Nel centro del grande piazzale sorgeva il santuario vero e proprio, inquadrato da un secondo recinto. Quindici gradini guidavano verso l’ingresso del muro esterno, mentre alcune scritte sulle colonne ammonivano i pagani a non oltrepassare la soglia, perché quel cammino, scandito da ben tredici porte, era riservato alla sola gente del popolo eletto. L’effetto generale era quello di una magnificenza capace di impressionare gli stranieri:

All’esterno del Tempio non mancava nulla per impressionare né la mente né la vista; infatti essendo ricoperto dappertutto di massicce piastre di oro, fin dal primo sorgere del sole era tutto un riflesso di bagliori, e a chi si sforzava di fissarlo faceva abbassare lo sguardo come per i raggi solari. Agli stranieri in viaggio verso Gerusalemme esso appariva da lontano simile a un monte coperto di neve, perché dove non era ricoperto d’oro era bianchissimo.

(Guerra giudaica, V, 5, 222-223)

Le donne entravano nel primo recinto senza procedere oltre, mentre un’altra scala, fatta di quindici gradini bassi, conduceva al cortile degli uomini; qui dominava lo scenario la magnifica porta di bronzo donata come ex voto da Nicanore, un ricco ebreo di Alessandria d’Egitto, grato a Dio per essere scampato a un naufragio. Era talmente imponente e pesante che per manovrarla, secondo Giuseppe Flavio, serviva la forza di venti uomini. Al di sopra, separato da una balaustra dopo tre gradini, stava il cortile dei sacerdoti, dall’alto del quale era impartita la benedizione al popolo; infine si incontrava l’ultimo recinto, grande circa sessanta metri per ottanta, dove si immolavano gli animali per i sacrifici.

Ma ancora oltre, più in alto delle grida miserevoli delle vittime sgozzate e del fumo acre proveniente dalle viscere bruciate, sorgeva il Tempio vero e proprio. Entrando nel vestibolo, passato il colonnato alto trenta metri e largo quarantacinque, un profondo silenzio sacrale faceva dimenticare le scene cruente del recinto più interno, come pure la calca dei mercanti e della varia umanità che affollava quello inferiore, dove Gesù si adirò contro i mercanti e i cambiavalute38. La porta era di cedro placcata d’oro, sovrastata da una vite anch’essa in oro, simbolo della Creazione, della saggezza e del popolo d’Israele. Un magnifico velo ricamato secondo l’usanza babilonese la chiudeva, molto prezioso anche se più piccolo di quello esterno, lungo addirittura ventotto metri39.

Circondato da un labirinto di trentotto stanze e una galleria dai muri tappezzati di legni incorruttibili, con un sistema di veli disposti in modo da celarlo allo sguardo umano, stava il Santo dei Santi. Era il Kadosh kadoshim: completamente vuoto, ora che l’Arca era stata deportata, accessibile al sommo sacerdote unicamente per un giorno l’anno, abitato soltanto dall’Invisibile Presenza.

Alla ricerca del Tempio perduto

Il Tempio prende forma nella mente degli uomini. [...]

Il Tempio non è mai semplicemente un edificio distrutto. È diventato il più potente simbolo della ricerca umana di un ideale perduto, un’immagine della grandezza antica e di quella a venire40.

Il mattino del 28 agosto dell’anno 70 il generale Tito, figlio di Vespasiano e comandante in capo dell’esercito di Roma, si preparava all’assalto finale contro Gerusalemme, dopo tre anni di guerra combattuta per sedare la rivolta degli ebrei nella provincia della Giudea. Durante la battaglia, un soldato romano lanciò un tizzone ardente dentro una delle basse porte dorate del Tempio: gli antichi arredi di legno di cedro divamparono all’istante. Finito il combattimento, i romani rasero completamente al suolo ciò che dell’edificio era rimasto41.

Una specie di sinistra fatalità incombeva sul mistico edificio. Descrivendo la sua distruzione ad opera delle legioni di Tito, durante la guerra giudaica, Giuseppe Flavio sembra quasi evocare la predestinazione di questo luogo sacro alla rovina. Una rovina causata dagli stessi ebrei, che vi si erano asserragliati dentro, mettendo i romani nella necessità di distruggerlo per stanare la radice della rivolta. Una rovina scritta in qualche modo nel destino, perché cadde esattamente lo stesso giorno in cui, secoli prima, era stato dato alle fiamme dalle truppe di Nabucodonosor:

Tito si ritirava dalla [fortezza] Antonia deciso a scatenare all’alba del giorno dopo un assalto con tutte le forze per investire da ogni parte il tempio. Questo già da parecchio tempo era stato dal dio condannato alle fiamme, e col volger degli evi ritornò il giorno fatale, il dieci del mese di Loos, quello in cui una volta esso era già stato incendiato dal re dei babilonesi42.

Gli ebrei furono severamente colpiti da una nuova, umiliante deportazione; e quelli che abitavano sparsi nei vari territori dell’impero romano dovettero subire un’altra punizione che li colpiva economicamente, ma soprattutto feriva il loro senso di identità: una tassa pro capite molto onerosa (fiscus giudaicus), imposta persino alle donne e ai bambini dai tre anni in poi. Anche in passato i giudei pagavano una quota da inviare a Gerusalemme per celebrare il sacrificio del Tempio, che restava il cuore fisico e l’orizzonte ideale del loro culto; Vespasiano usò invece questo importo per ricostruire il sacrario di Giove sul Campidoglio. Un simile intento punitivo offendeva profondamente la sensibilità religiosa degli ebrei: il loro denaro veniva usato per il culto degli idoli43. Al Tempio fisico, distrutto, si sommava anche il Tempio spirituale, profanato dalle azioni impure e vessatorie di Vespasiano.

Nell’anno 132 il rivoluzionario Shimon Bar Kochba (in ebraico, «figlio della stella») si proclamò Messia; enfatizzando gli aspetti politici di questo ruolo, che a quel tempo possedeva molti significati diversi, animò l’ultima rivolta giudaica contro la dominazione romana. Il Tempio distrutto venne ricostruito, benché in modo sommario; poco dopo, nel 135, l’imperatore Adriano sgominò la rivolta e fece radere al suolo l’intera città di Gerusalemme, facendo erigere al suo posto una metropoli concepita secondo i canoni dell’urbanistica imperiale, e dandole un nome derivato dal suo gentilizio: Aelia Capitolina.

Il grande santuario dunque non esisteva più. Era perduto, dimenticato sotto il lastricato della nuova città romana, mentre gli ebrei se ne andavano in esilio e i rabbini, nella città di Jamnia, si riunivano per assicurare una continuità alla loro tradizione culturale e religiosa. Il Tempio del resto non era mai stato semplicemente un edificio, un mero cumulo di materiali inerti, per quanto preziosi e raffinati; prima di ogni altra cosa, era il mezzo del contatto fra l’uomo e Dio. Una comunicazione che in effetti poteva avvenire comunque, senza che necessariamente vi fossero intorno portici enormi ed arredi d’oro massiccio.

Per gli ebrei continuava ad essere il simbolo più forte della loro identità religiosa e culturale, dunque continuarono a rappresentarlo seguendo quanto dicevano la Scrittura e la tradizione. La porta del vestibolo, quella affiancata dalle due colonne di bronzo con un nome proprio dal senso misterioso, sembra aver giocato un ruolo importante nell’iconografia del santuario, quasi una specie di identikit della struttura.

A Dura Europos (nella Siria sudoccidentale) è stato rinvenuto il sito di un’antica sinagoga edificata verso il 160-170, e poi ingrandita intorno al 250; ha la particolarità di possedere i muri decorati da trenta bellissimi affreschi disposti su tre file che ritraggono molte figure, anche umane (l’Arca, i patriarchi e diversi profeti). La mentalità cosmopolita affermatasi in Medio Oriente durante la tarda antichità rendeva possibile in certi casi transigere sul rigido divieto biblico di fare ritratti per non cadere nell’idolatria44.

Negli affreschi di questa sinagoga è riprodotto anche il Tempio, accanto al candelabro a sette bracci e ad altri oggetti ebraici riservati al culto; è una raffigurazione frontale e schematica che mostra una porta chiusa a due battenti, affiancata da quattro colonne, non quindi solo due, come nel santuario salomonico. Qualcosa di molto simile compare su una moneta coniata al tempo della rivolta giudaica di Bar Kochba; possiamo ragionevolmente presumere che fosse quella, almeno ai tempi dell’impero romano, l’immagine in qualche modo canonica per ritrarre il leggendario Tempio.

Siamo ormai in epoca pienamente cristiana. E per i cristiani, d’altro canto, non era un luogo meno importante né meno carico di significati spirituali.

Gesù nel Tempio

La separazione rispetto agli ebrei si era consumata dopo l’anno 90, quando i rabbini emisero delle norme che miravano ad escludere gli eretici dalle comunità ebraiche, misure che colpivano in primo luogo i giudeo-cristiani. Il Talmud di Babilonia e quello di Gerusalemme, due compilazioni successive, riportano la sostanza di una preghiera (la birkat hammînîm) che si rivolge al Signore affinché sradichi l’apostasia, e nella parola che indica i settari (mînîm) sono inclusi i cristiani, cioè quanti identificavano il Messia d’Israele con Gesù di Nazareth45. Nondimeno, i seguaci del Nazareno rimasero per molto tempo legati alla loro cultura d’origine, ereditandone alcune pratiche di culto, e anche le tradizioni. Per i giudeo-cristiani il Tempio restava comunque un luogo speciale; già venerabile per quanto narrato nell’Antico Testamento, lo divenne ancora di più grazie a ciò che in esso aveva fatto e insegnato il Nazareno46.

Nel Tempio il vangelo di Luca pone la preistoria del cristianesimo. Zaccaria era un sacerdote della classe di Abia, l’ottava fra quelle istituite da Davide per regolare i turni di servizio settimanale nel santuario; in visione, l’arcangelo Gabriele gli parlò mentre era il suo turno di offrire l’incenso sull’altare del santo, e gli annunciò la futura nascita del Battista47. Sempre nel Tempio avvennero le più precoci manifestazioni della natura eletta di Gesù: al momento in cui viene presentato dai genitori con l’offerta rituale dei colombi, Simeone, un uomo giusto cui era stato predetto che non sarebbe morto prima di aver visto con i suoi occhi il Messia, indotto dallo Spirito salì al Tempio e riconobbe l’Unto del Signore nel bambino.

Nel santuario abitava la profetessa Anna, figlia di Fanuele della tribù di Aser; sopraggiunta in mezzo a loro, anche lei riconobbe la messianicità del bambino. All’età di dodici anni, durante il pellegrinaggio che ogni anno compivano Maria e Giuseppe in occasione della Pasqua, Gesù dimostra di possedere la Parola divina come un dono innato, tanto da poter discutere di cose sacre con i dottori della Legge48.

Durante la sua missione, il Nazareno era salito al Tempio per svolgervi le proprie devozioni, da buon ebreo, e anche per insegnare. Condotto sul pinnacolo più alto, era stato tentato da Satana; aveva irritato la potente classe dei sacerdoti sadducei proprio perché criticava il culto tradizionale basato sull’offerta di sacrifici e invitava alla conversione dell’anima, a un nuovo tipo di culto soprattutto spirituale. Nel cortile esterno affollato di gente, Gesù aveva rovesciato i banchi dei cambiavalute accusando i sacerdoti di tollerare che una casa di preghiera fosse ignobilmente trasformata in un mercato.

Nel vangelo di Giovanni, dove il misticismo è più intenso rispetto ai tre sinottici, il Tempio distrutto e ricostruito in tre giorni serve come immagine a Gesù per indicare il proprio corpo, predicendo ai discepoli la morte in croce e la futura resurrezione. Di conseguenza, Paolo di Tarso adotta l’idea del Tempio per indicare i cristiani, che formano tutti insieme il corpo mistico di Cristo, mentre nella Lettera agli Ebrei si parla di un Tempio celeste nel quale Cristo entrò con il dono del proprio sangue. È il santuario «non fatto da mani d’uomo», che si contrappone a quello antico e inferiore, benché venerabile, che restava comunque un prodotto della tecnica umana, e perciò deperibile49.

Alla fine del racconto della Passione, è il santuario stesso che sembra urlare contro il delitto commesso da coloro che hanno crocifisso Gesù: il velo del Tempio si squarciò a metà, un evento riportato da tutti e tre i sinottici (Mc 15, 38; Mt 27, 51; Lc 23, 44). Fisicamente, quell’oggetto era uno dei due preziosi teli sacri posti nel santuario, e si ritiene che la sua lacerazione sia dovuta al terremoto che si verificò in quello stesso momento; ma la tradizione evangelica menziona e discute il fatto concreto solo se riflette un senso ulteriore, spirituale50.

Era inevitabile che gli scrittori cristiani attribuissero al santuario di Gerusalemme il ruolo di scenario ideale nel quale, forse più che altrove, la natura divina di Cristo si era manifestata agli uomini. Ai loro occhi, la missione e il ministero del Nazareno si erano svolti entro questo spazio speciale, fulcro del culto giudaico, proprio per indicare come il cristianesimo nascesse dalla radice più autentica del giudaismo, però lacerandolo, in un certo senso, e superandolo.

Ma c’erano tradizioni parallele, confluite soprattutto negli scritti apocrifi, che legavano al Tempio anche la figura della madre Maria: nel Protovangelo di Giacomo si racconta di come Maria fosse stata allevata proprio nel santuario fino all’età di dodici anni, momento in cui la legge ebraica consentiva alle donne di sposarsi. Nel Tempio filava la porpora, un materiale prezioso usato per gli arredi sacri, ad esempio i velami, la copertura della Tenda del Convegno, le vesti del sommo sacerdote e altri oggetti liturgici; ciò ne faceva una donna consacrata alla sua futura missione, predestinata51.

Il Testamento di Beniamino, che è parte di una raccolta di apocrifi nota come Testamenti dei Dodici Patriarchi, presenta una suggestiva mescolanza di elementi che rispecchia la sensibilità religiosa e le idee di questa cultura cristiana in formazione. Composto verso l’anno 200 a partire da testi anteriori, i testamenti di Levi e di Neftali, contiene anche elementi provenienti dai romanzi ellenistici, allora molto in voga; in esso, il Tempio diventa un luogo metafisico, trascendente, interno all’anima, la parte dell’uomo dove si compiono i misteri della salvezza:

Solo in una parte di voi resterà il tempio di Dio e sarà anche più glorioso del primo, e là si raduneranno le dodici tribù e tutti i pagani, fino a quando l’Altissimo invierà la sua salvezza con la visita del suo unigenito. Ed egli entrerà nel primo tempio, dove il Signore sarà insultato e sollevato sul legno. E la tenda del tempio sarà lacerata, e lo spirito di Dio discenderà sui pagani come fuoco che si diffonde52.

Nell’esegesi cristiana, il grande santuario divenne un luogo metafisico, intorno al quale si affollavano tradizioni antichissime e intensi ricordi del culto, ma anche echi di guerra.

Deus Sabaoth. I Templari e la guerra santa

I due libri dei Maccabei, considerati canonici sin dai tempi più antichi, contengono molti passi che sono propriamente inni militari. Vennero scritti per implorare Dio di dare la vittoria ai suoi combattenti, che lottano per una causa giusta e santa; durante l’età delle crociate, i Maccabei fornivano materiale prezioso per i sermoni e le omelie, ed erano una fonte di ispirazione tanto più autorevole perché proveniente da un testo sacro ispirato direttamente da Dio.

San Bernardo di Chiaravalle conosceva profondamente la Bibbia, e sull’interpretazione della Sacra Scrittura si fondava la cultura teologica del suo tempo, che non aveva ancora conosciuto la filosofia scolastica e la riscoperta di Aristotele. Il trattato composto per sostenere l’ordine dei Templari trabocca letteralmente di passi della Scrittura, ed è un vero peccato che non sia mai stato compiuto un esame esauriente di questa intensa matrice biblica con cui l’abate forgiò l’etica del primo ordine religioso e militare. A ben vedere, si trattava di una scelta obbligata. Se il teologo voleva spiegare la sua idea del malicidio, se voleva non solo scagionare ma addirittura esaltare il ruolo di chi versa sangue umano per la difesa di una causa religiosa, doveva cercare riferimenti nei libri dell’Antico Testamento, perché quelli del Nuovo erano interamente pervasi da un messaggio di non violenza.

Nella predicazione religiosa che animò la prima crociata, l’intervento militare in Terrasanta era giustificato dalle stragi e dalle profanazioni operate dai saraceni invasori, ovvero dai Turchi di etnia selgiuchide che avevano occupato la Siria-Palestina, più aggressivi e intolleranti rispetto agli arabi che l’avevano tenuta per secoli. L’eco delle violenze era giunta in Occidente, dove la cultura ecclesiastica rievocava certi delitti e certi sacrilegi nel Primo Libro dei Maccabei:

Versarono sangue innocente intorno al santuario e profanarono il luogo santo. Fuggirono gli abitanti di Gerusalemme a causa loro e la città divenne abitazione di stranieri; divenne straniera alla sua gente e i suoi figli l’abbandonarono. [...] Il suo santuario fu desolato come il deserto, le sue feste si mutarono in lutto, i suoi sabati in vergogna, il suo onore in disprezzo. Quanta era stata la sua gloria altrettanto fu il suo disonore e il suo splendore si cambiò in lutto.

(I Maccabei 4, 12-13; 37-40)

Il testo sacro autorizzava a pensare che la resistenza fosse una cosa gradita a Dio, e che anzi il Signore potesse ispirare coraggiosi difensori pronti a morire per il riscatto del suo popolo e del suo santuario:

In quel tempo si unì con loro un gruppo degli Asidei, i forti d’Israele, e quanti volevano mettersi a disposizione della legge; inoltre quanti fuggivano davanti alle sventure si univano a loro e divenivano loro rinforzo. Così organizzarono un contingente di forze e percossero con ira i peccatori e gli uomini empi con furore; gli scampati fuggirono tra i pagani per salvarsi.

(I Maccabei 4, 42-44)

Dai Salmi Bernardo trae un’ampia sezione del De laude (III, 5, 6) in cui afferma che uccidere può diventare addirittura un’opera meritoria, se lo si fa per schiacciare i nemici della fede che opprimono i cristiani e profanano i loro luoghi sacri:

Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la guerra (Sal 67, 31); siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in figlio il santuario di Dio. Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle teste dei nemici per distruggere qualunque superbia [ad destruendam omnem altitudinem] che osi ergersi contro la conoscenza di Dio, che è la fede cristiana, affinché le nazioni non dicano: Dov’ è il loro Dio? (Sal 114, 2).

L’attività dei Templari, eccellenza bellica e morale nell’esercito cristiano, nasce all’interno di questo contesto teologico. Con un’operazione audace e interessante, Bernardo riesce addirittura a inserire i suoi commilitoni di Cristo nel quadro delle profezie di Isaia che annunciano il riscatto di Sion:

Rallegrati, Gerusalemme, e riconosci il tempo in cui sei stata visitata. Godete e lodate anche voi, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme; Dio ha mostrato la sua santa potenza al cospetto di tutte le nazioni (Is 52, 9-10). Tu eri caduta, o Vergine d’Israele, e non c’era chi ti risollevasse: sorgi, dunque, o vergine, scuoti la polvere, o sventurata figlia di Sion! Alzati, ti dico, e tieniti eretta nello splendore (Is 52, 2), e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio. Non ti chiameranno più derelitta, e la tua terra non sarà più a lungo detta desolata. Poiché il Signore si è compiaciuto di te (Is 62, 64), ed il tuo territorio sarà ripopolato. Alza gli occhi attorno e guarda: tutti costoro si sono riuniti e sono venuti a te (Is 49, 18). Dall’alto ti è stato inviato questo aiuto. Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione; tu berrai il latte delle nazioni, ti nutrirai alle mammelle riservate ai re (Is 60, 15).

Poco prima (III, 4-6) aveva detto in modo esplicito che i Templari militano per il Signore esattamente come un tempo fecero i guerrieri di Israele, sicché sono giustificati come lo erano quanti prima di loro combatterono per un’identica causa. In breve, li presenta come i loro successori, coloro che in qualche modo hanno ereditato la stessa nobile missione:

Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene glorificato: nella morte del cristiano si manifesta la generosità del suo Re che chiama a sé il suo cavaliere per donargli la ricompensa. Pertanto sul nemico ucciso il giusto si rallegrerà vedendo la vendetta (Sal 57, 11). Ma sul cavaliere ucciso si dirà: – Il giusto guadagna ad essere tale? Sì, perché Dio gli rende giustizia sulla terra (Sal 57, 12).

Non vedete, dunque, quanta abbondante testimonianza la nuova cavalleria ha ricevuto dai tempi antichi, e che quanto abbiamo udito lo vedremo compiersi nella città del Signore degli eserciti? (Sal 49, 7)

Il messaggio biblico, per Bernardo, va adattato al momento presente e risulta quanto mai attuale. I Templari sono gli eredi dei Maccabei, i figli del nuovo Israele (IV, 8):

Pertanto non turbolenti ed impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e con ogni cautela e prudenza si dispongono in assetto di guerra, così come è stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele pieni di pace s’avanzano per la battaglia.

[...]

Hanno imparato a non confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei Maccabei, pensano sia molto agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien dall’alto (I Mc 3, 18-19). E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza, così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi in fuga diecimila (cfr. Sal 90).

Questa era l’immagine dei Templari come appariva alla società cristiana nei primi decenni del secolo XII, cioè filtrata alla luce di quanto insegnava la Bibbia, fonte di ogni sapere sacro e affidabile.

Esistevano però altri saperi, certo meno autorevoli della Scrittura, ma non per questo meno noti e apprezzati. Erano tradizioni rimaste escluse dal canone dei testi sacri, quelli ispirati direttamente da Dio, ma in ogni caso circolanti fra la gente comune e studiate anche dagli intellettuali. Costituivano leggende così antiche da assurgere alla dignità di convinzioni ampiamente diffuse, dalle quali scaturivano usi devozionali guardati con sospetto dalle autorità ecclesiastiche, forme di sincretismo religioso e, talvolta, persino pratiche di magia. In una parola, tradizioni apocrife.

1 Jacques de Vitry, Historia Hierosolymitana, in A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Milano 1987 (nuova ed. 2005), pp. 15-16.

2 C. Eubel, Hierarchia Catholica medii aevii, vol. I, Münster 1913, p. 68 e nota 2. Jacques de Vitry, in seguito cardinale del titolo di Tuscolo, fu un personaggio centrale nella storia religiosa e intellettuale della Terrasanta, attivamente impegnato nel contesto della quinta crociata. La sua Historia Hierosolymitana è una delle fonti più preziose per ricostruire la vita degli occidentali nel regno cristiano di Terrasanta e le vicende degli ordini militari. Cfr. S. Runciman, Storia delle crociate, trad. it. di A. e F. Comba, 2 voll., Torino 1966, vol. I, pp. 229-248; F. Cardini, Le crociate fra il mito e la storia, Roma 1984, pp. 51-82; A. Demurger, Chevaliers du Christ. Les ordres religieux-militaires au Moyen Âge (XIe-XVIe siècle), Paris 2002, pp. 37-38, 147, 199.

3 Runciman, Storia delle crociate, cit., vol. I, pp. 303-323; J. Flori, Bohémond, croisé modèle?, in «Come l’orco della fiaba». Studi per Franco Cardini, a cura di M. Montesano, Firenze 2010, pp. 123-132.

4 S. Cerrini, La rivoluzione dei Templari. Una storia perduta del dodicesimo secolo, Milano 2008, pp. 21-23; G. Ligato, Fra Ordini cavallereschi e crociata: «milites ad terminum» e «confraternitates armate», in «Militia Christi» e crociata nei secoli XI-XIII. Atti della undecima Settimana internazionale di studio, Mendola, 28 agosto-1° settembre 1989, Milano 1992, pp. 645-697. Sulla presenza e il ruolo dei volontari che servivano a tempo negli ordini militari, cfr. anche A. Forey, ‘Milites ad terminum’ in the Military Orders During the Twelfth and Thirteenth Centuries, in The Military Orders, vol. IV, On Land and by Sea, a cura di J. Upton-Ward, Aldershot 2008, pp. 5-11; per il caso specifico del Tempio, cfr. J. Schenk, Templar Families: Landowning Families and the Order of the Temple in France, Cambridge 2012, pp. 70-74.

5 Cardini, Le crociate fra il mito e la storia, cit., p. 36; L. Russo, Le fonti della «prima crociata», in Mediterraneo medievale: cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oriente, a cura di M. Meschini, Milano 2001, pp. 51-65. Sulla percezione della gente comune e la spiritualità che animò il movimento, è datato ma sempre valido il lavoro di P. Alphandéry, A. Dupront, La cristianità e l’idea di crociata, trad. it. di B. Foschi Martini, Bologna 1974, pp. 19-45. Ricco per la ricostruzione degli aspetti materiali delle crociate (politica, colonizzazione, indulgenze papali) è il recente volume di A. Demurger, Crociate e crociati nel medioevo, trad. it. di E. Lana, Milano 2010, anche se l’autore riserva uno spazio forse troppo esiguo alle componenti emotive e spirituali del movimento, che furono determinanti, specie nella fase iniziale.

6 M. Defossez, Giosafat, valle di, in Dizionario Enciclopedico della Bibbia (d’ora in poi DEB), Roma 20022, p. 633.

7 Il pellegrinaggio era di certo favorito dall’abitudine di fornire ospitalità gratuita a chi viaggiava per fini religiosi, mentre sembra che la pratica di far pagare vitto e alloggio sia entrata in uso più tardi, dopo l’anno Mille. Singolare è il racconto del monaco francese Richerio, che nel 991 viaggiò da Reims a Chartres coprendo una distanza di 250 km nell’arco di una settimana, munito soltanto di un servo e di una bestia da soma concessi dall’abate di Reims, ma senza né denaro né vestiti; cfr. H.C. Peyer, Viaggiare nel medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, trad. it. di N. Antonacci, Roma-Bari 2009, pp. 31-61, alla p. 53.

8 Hues de Paiens delez Troies si trova nell’antica traduzione in francese (1220-1223 circa) della Historia di Guglielmo, arcivescovo di Tiro (morto dopo il 1186); nel testo della regola templare approvato dal concilio di Troyes (gennaio 1129) è chiamato semplicemente magister militie Hugo, mentre un documento datato al 20 maggio 1130 lo definisce Hugo de Paianis. Altri testi leggermente più tardi concorrono a presentarlo come nativo del territorio di Troyes, ma è stato anche ipotizzato che fosse di origine italiana (presso Nocera dei Pagani), benché con prove ancora troppo fragili. Per una visione generale sul fondatore dei Templari cfr. M.C. Barber, The Origins of the Order of the Temple, in «Studia monastica», XII (1970), pp. 219-240; M.L. Bulst-Thiele, Sacrae Domus Militiae Templi Hierosolymitani Magistri, Göttingen 1974, pp. 19-29; Demurger, Vita e morte, cit., pp. 20-24. Per la disputa sulle origini francesi o italiane del fondatore dei Templari, cfr. i due libri recenti di T. Leroy, Hugues de Payns, chevalier champenois, fondateur de l’ordre des templiers, Troyes 2000, e M. Moiraghi, L’italiano che fondò i Templari. ‘Hugo de Paganis’ cavaliere di Campania, Milano 2005.

9 Sul tema esiste una bibliografia vastissima; fanno in ogni caso ancora da guida i lavori di F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1981 (nuova ed. Bologna 2014), in particolare pp. 293-333, e di J. Flori, L’idéologie du glaive. Préhistoire de la chevalerie, Genève 1983.

10 «Accipe [...] hunc gladium, quo eicias omnes Christi adversarios, barbaros et malos Christianos», in Widukindo de Corvey, Res Gestae Saxonicae, liber II, 3, ed. G. Waitz, Scriptores Rerum Germanicarum, Hannover 1904, p. 56, cit. in Flori, L’idéologie du glaive, cit., pp. 94, 99.

11 J. Leclercq, «Militare Deo» dans la tradition patristique et monastique, e R. Grégoire, Esegesi biblica e «militia Christi», entrambi in «Militia Christi» e crociata, cit., rispettivamente alle pp. 3-20 e 21-47. Va detto comunque che tutti i contributi del volume offrono un apporto importante riguardo al tema.

12 Sulla questione esiste una bibliografia molto vasta; per averne un’idea, si vedano ad esempio A. García y García, Reforma gregoriana e idea de la «Militia sancti Petri» en los reinos ibéricos, in La Riforma Gregoriana e l’Europa. Atti del Congresso Internazionale, Salerno, 20-25 maggio 1985, Roma 1989, pp. 241-262; F. Tommasi, ‘Pauperes commilitones Christi’. Aspetti e problemi delle origini gerosolimitane, in «Militia Christi» e crociata, cit., pp. 443-473; P. Siniscalco, Dal soldato martire all’imperatore: modelli di cristiani per la Chiesa antica, in ΕΥΚΟΣΜΙΑ. Studi miscellanei per il 75° di Vincenzo Poggi S.J., a cura di V. Ruggieri e L. Pieralli, Soveria Mannelli 2003, pp. 453-469.

13 Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, cit., p. 212.

14 F. Cardini, I poveri cavalieri del Cristo. Bernardo di Clairvaux e la fondazione dell’ordine templare, Rimini 1992 (nuova ed. 1999), pp. 81-114; Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 63-95; interessante anche la lettura di L. García-Guijarro-Ramos, Ecclesiastical Reform and the Origins of the Military Orders: New Perspectives on Hugh of Payn’s Letter, in The Military Orders, vol. IV, cit., pp. 77-83; R. Hiestand, The Military Orders and Papal Crusading Propaganda, in The Military Orders, vol. III, History and Heritage, a cura di V. Mallia-Milanes, Aldershot 2008, pp. 155-165, alla p. 155.

15 Celebre ma non certo unica è la critica di Isacco di Stella, che parlava dei Templari come di un «nuovo mostro» perché seguivano un modello di vita consacrata talmente estraneo all’insegnamento di Cristo da essere «un ordine del quinto vangelo»; cfr. Isaac de l’Étoile, Sermons, III, a cura di A. Hoste e G. Raciti, Paris 1987, sermone 48, pp. 158-161. Tuttavia, va rilevato che Isacco non cita espressamente i Templari, e ciò ha indotto alcuni studiosi a supporre che non voglia riferirsi ad essi; cfr. Demurger, Chevaliers du Christ, cit., p. 299; B.Z. Kedar, Crociata e missione. L’Europa incontro all’Islam, Roma 1991, pp. 136-137, e la discussione complessiva in Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 26-27.

16 Il De laude novae militiae (conosciuto anche come Sermo Christi militibus) è inserito nella Patrologia Latina del Migne, vol. 182, coll. 911-940; la successiva edizione di riferimento è quella curata da J. Leclercq e H.M. Rochais nel vol. III della raccolta Sancti Bernardi Opera, Roma 1957-1977, pp. 212-239; una traduzione italiana è offerta da Cardini, I poveri cavalieri del Cristo, cit., pp. 131-159, nella quale il passo in oggetto si trova alla p. 140.

17 Nel De laude novae militiae (ad esempio III, 6; IV, 8) san Bernardo li paragona ai guerrieri di Israele, richiama Giuda Maccabeo e considera la nuova milizia benedetta da Dio come quella antica; cfr. Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., p. 68.

18 Per il testo della regola si veda S. Cerrini, Une expérience neuve au sein de la spiritualité médiévale: l’ordre du Temple (1120-1314). Étude et édition des règles latine et française, Thèse de doctorat sous la direction de Mme G. Hasenohr, 2 voll., Université de Paris-Sorbonne (Paris IV), 1997, vol. I, pp. 161-226 per l’edizione, e inoltre pp. 164, 167, 172, 175; vol. II, pp. 384-389. Una traduzione italiana, che comprende anche i diversi statuti sviluppati in seguito, è stata curata da G. Amatuccio, Il ‘Corpus’ normativo templare. Edizione dei testi romanzi con traduzione e commento in italiano, Martina Franca 2009.

19 Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, rispettivamente capp. 48 e 20, pp. 207 e 188.

20 La studiosa fa notare che il titolo con cui Bernardo designa Hugues de Payns, e cioè «cavaliere di Cristo e maestro della milizia», non contiene nessun riferimento ecclesiastico, come invece sarebbe dovuto accadere se fosse già stato il capo di un gruppo religioso riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa; pochi anni dopo, quando ormai il concilio di Troyes aveva sancito la nascita dell’ordine come istituzione, Guigues I de la Grande Chartreuse potrà chiamare Payns con il titolo di «priore della santa cavalleria»; cfr. Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 66-67.

21 Bernardi Clarevallensis, De laude novae militiae, V, 9, PL, cc. 917-940. Per comodità ho indicato tra parentesi i passi biblici a cui fa riferimento Bernardo, le cui allusioni sono ben chiare per i suoi lettori e uditori, che avevano una grande familiarità con il testo della Scrittura.

22 Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, VII, XIV, 335-336, 363-364, edizione a cura di L. Moraldi, 2 voll., Torino 2006, vol. I, p. 468.

23 J. Aunier, Chiram, in DEB, pp. 336-337; H. Frehen, J.-C. Margot, Cedro, in DEB, pp. 317-318.

24 Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, VIII, V, 141-142, ed. Moraldi, vol. I, p. 503.

25 A. Parrot, Le Temple de Jerusalem, Neuchâtel-Paris 1962 («Cahiers de Archeologie Biblique», 5; ed. precedente Michigan 1957); E.M. Laperrousaz, Après le «Temple de Salomon», la Bamah de Tel-Dan: l’utilisation de pierres à bossage phénicien dans la Palestine préexilique, in «Syria», 59 (1982), pp. 223-227; Id., Tempio, in DEB, pp. 1265-1267.

26 A. Boudart, Iachin e Boaz, in DEB, p. 685.

27 E. Lipiński, Ulam, in DEB, pp. 1307-1308; Id., Betel, in DEB, p. 259; Id., Kamid el-Loz, in DEB, p. 740. Per l’interpretazione del valore esatto del cubito, sulla quale si discute, cfr. A. Lemaire, Metrologia biblica, in DEB, pp. 851-855, alla p. 851.

28 Antichità giudaiche, VIII, V, 143-149, VI, 163, VII, 176-178, ed. Moraldi, vol. I, pp. 503-504, 507.

29 M. Defossez, Moria, in DEB, p. 885; J. Maier, Tempel. II. Biblisch-theologisch, in Lexikon für Theologie und Kirche (d’ora in poi LTK), vol. 9, Freiburg 2000, coll. 1322-1325.

30 E. Lipiński, Hekal, in DEB, p. 681; Id., Altare dei profumi, in DEB, pp. 92-93; A. Lemaire, Tavola, in DEB, p. 1261; A. Boudart, Oblazione, in DEB, pp. 932-933.

31 Antichità giudaiche, VIII, IV, 103, ed. Moraldi, vol. I, p. 496. Le immagini dei cherubini ricorrevano anche sulle porte del Santo dei Santi e dell’Hekal, e secondo l’Esodo (26, 1.31; 36, 8.35) anche sui teli e sui veli della Dimora. Si ritiene che corrispondano alle sfingi custodi dell’albero della vita. Cfr. A. Boudart, Propiziatorio, in DEB, p. 1060; E. Lipiński, Cherubino, in DEB, pp. 328-329; A. Lemaire, Velo del santuario, in DEB, p. 1324.

32 E. Lipiński, Santo dei Santi, in DEB, p. 1163; Id., Arca dell’alleanza, in DEB, pp. 180-181; A. van der Born, A. Lemaire, Tenda, in DEB, p. 1269; J. Aunier, Manna, in DEB, p. 803.

33 M. Carrez, Espiazione, giorno dell’, in DEB, pp. 514-515.

34 Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, X, VIII, 144-148, ed. Moraldi, vol. I, pp. 625-626; P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Roma 1994, pp. 23-27.

35 C. Saulnière, Antioco IV Epifane, in DEB, pp. 135-136; P.M. Bogaert, La versione dei LXX, in DEB, pp. 1330-1332; E. Lipiński, Ebraica, lingua, in DEB, pp. 441-442.

36 I Maccabei 4, 36-43; H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, trad. it. di M. Lo Buono, Milano 1986, p. 417.

37 Sacchi, Storia del Secondo Tempio, cit., pp. 34-39; Ch. Augrain, Zorobabele, in DEB, pp. 1379-1380.

38 Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XV, XI, 380-425, ed. Moraldi, vol. II, pp. 978-985; Id., Guerra giudaica, V, 184-237; Ez 43, 4-7, oltre a quanto esposto in Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, cit., pp. 415-423.

39 A. Drubbel, J.-C. Margot, Uva, vigna, vite, vino, in DEB, pp. 1318-1320.

40 S. Goldhill, Il Tempio di Gerusalemme. Storia e letteratura del luogo più sacro del mondo, Cinisello Balsamo 2009, p. 10.

41 Ivi, pp. 7-8.

42 Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, VI, 4, 249-250. Va ricordato che Giuseppe era molto favorevole ai romani, e aveva assunto il nome Flavio proprio in onore di Vespasiano, che lo aveva reso libero dopo essere divenuto schiavo fra i prigionieri di guerra ebrei; ad ogni modo, la notizia dello scrupolo usato da Tito per salvaguardare il luogo sacro finché fosse possibile collima con quanto si sa sulle tendenze generali dei romani, che erano molto rispettosi verso la religione dei popoli sottomessi. Cfr. G. Vitucci, Introduzione, in Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, pp. ix-xxxv.

43 D. Garribba, I diritti delle comunità della diaspora nel I secolo d.C., in Giudei e cristiani nel I secolo. Continuità, separazione, polemica, a cura di M.B. Durante Mangoni e G. Jossa, Trapani 2006, pp. 67-103, alle pp. 92-102.

44 M. de Mérode, Dura Europos, in DEB, pp. 438-439.

45 D. Marguerat, Ebrei e cristiani: la separazione, in Storia del cristianesimo. Religione-politica-cultura, 14 voll., ed. it. a cura di G. Alberigo, vol. I, Il Nuovo Popolo dalle origini al 250, a cura di P. Grech e A. Di Berardino, trad. it. di M. Zappella, Roma 2003, pp. 190-222, alle pp. 214-216 (ed. or., Histoire du Christianisme, diretta da J.-M. Mayeur, Ch. e L. Pietri, A. Vauchez e M. Venard, 14 voll., Paris 1990-2001, t. I, Le Nouveau Peuple [des origines à 250], a cura di C. Lepelley, M.-Y. Perrin, L. Cirillo e J. Flamant, Paris 2000). La questione è tuttavia controversa e non tutti gli studiosi sono d’accordo sul fatto che i mînîm, letteralmente «eretici», siano proprio i cristiani; cfr. G. Jossa, La separazione dei cristiani dai giudei, in Giudei e cristiani nel I secolo, cit., pp. 105-126. Sui caratteri del Talmud come fonte si veda J.T. Nelis, S. Hirsch, Talmud, in DEB, pp. 1257-1258.

46 Per una visione d’insieme su queste antichissime comunità cristiane cfr. i diversi contributi pubblicati in Il giudeo-cristianesimo nel I e II secolo d.C. Atti del IX Convegno di Studi Neotestamentari, a cura di A. Pitta, in «Ricerche storico-bibliche», 2 (2003); Giudei e cristiani nel I secolo, cit.

47 Lc 1, 5-25; 1 Par 24; A. van der Born, A. Lacocque, Zaccaria, in DEB, pp. 1370-1371; E. Lipiński, Sacerdotale, classe, in DEB, pp. 1134-1135.

48 Lc 2, 25-26, 27-32, 36-38, 41-52. Cfr. J. Mercier, Simeone, in DEB, p. 1212; Id., Anna, in DEB, p. 117.

49 Lc 19, 47; 21, 37; 22, 53. Gv 8, 20-59. Mt 21, 12. Gv 2, 14-16. Rm 8, 11. Eb 9, 11-14, 24.

50 Cfr. R.E. Brown, La morte del Messia. Un commentario ai Racconti della Passione nei quattro vangeli, introduzione di G. Ravasi, ed. it. a cura di G. Corti, Brescia 20032, pp. 1239-1261.

51 A. van der Born, J.-C. Margot, Porpora, in DEB, p. 1039; J. Radermakers, Maria negli apocrifi, in DEB, p. 815; A. van der Born, J. Mercier, Giacomo, Protovangelo, in Apocrifi del Nuovo Testamento, DEB, pp. 166-167. Origene, nel suo Commento a Matteo, parla di Maria che abita nel Tempio con altre vergini d’Israele; cfr. PG XIII, coll. 1631 sgg.

52 Gli apocrifi. L’altra Bibbia che non fu scritta da Dio, a cura di E. Weidinger, trad. it. di E. Jucci, Casale Monferrato 1992, pp. 116-117, 144-148, alla p. 147.