Il sogno che Lorenzo e Massimo non sono riusciti a realizzare è stato quello di andare a vedere le luci e le decorazioni dei negozi di New York, l'immenso albero illuminato dagli 8 chilometri di luci del Rockefeller Center, il Babbo Natale “vero” e le renne agli angoli delle strade. La tenerezza delle loro teste vicine davanti al computer, a segnarsi gli alberghi e i prezzi dei voli. Qui voglio solo ricordare i loro abbracci e come rideva Max quando Lollo gli correva incontro. Come lo faceva volare in alto e lo riprendeva con le braccia alzate anche quando non ne aveva più la forza. Voglio ricordarli distesi sul divano, uno vicino all'altro, mentre guardavano “Don Matteo”. E come camminavano tenendosi per mano in riva al mare o per la strada. Ho il cellulare pieno di foto, di loro due di spalle, loro due che ridono, loro due allo stadio, loro due affacciati sul mare di Capri, loro due sempre attaccati l'uno all'altro. Lo stesso identico modo di camminare. E Lollo che chiedeva a Max di insegnargli qualche parola in foggiano. Ho flash bellissimi, di quei giorni, ho stampati nella memoria i loro ultimi giorni felici, prima che Massimo se ne andasse.

 

Poi è arrivato il dolore. Un dolore che non riesco nemmeno a definire, tanto è stato forte e bastardo. La notte, il soffitto sembrava mi schiacciasse. Era inaccettabile, quello che stava succedendo, soprattutto per Lorenzo, così piccolo. E per Massimo, il suo papà, ancora così giovane e con tanti progetti in testa. Non riuscivo nemmeno a immaginare come Lorenzo avrebbe potuto affrontare il distacco. E poi l'inevitabile mancanza. E come avrebbe fatto Giulia? Perché stava succedendo proprio a loro tre? Perché quest'altra vigliaccata nella nostra vita? Non avevamo già pagato abbastanza? Quanto sono stati forti mio genero e mia figlia perché Lollo si accorgesse il meno possibile di quanto gli stava succedendo intorno. Max tornava dalle terapie, e anche se stremato si prendeva il figlio in braccio per giocare con lui. E il giorno dopo tornava a lavorare in redazione, senza dire niente a nessuno. Non c'erano speranze, anche se abbiamo continuato lo stesso a crederci, fino all'ultimo secondo. Come se la speranza potesse uccidere la sofferenza che sarebbe arrivata. La speranza non te la può mai togliere nessuno.

 

La mia casa colorata, piena di rosso, musica e sassi di mare, era diventata grigia, cupa. Ho smesso di aprire la porta agli amici, per tre anni c'è stato solo il silenzio. Avevo incollata addosso la sensazione di non voler calpestare il “tutto” che stavano vivendo Massimo e Giulia al piano di sotto. Camminavo piano, perché di sotto non sentissero i miei passi, mi sembrava di calpestare il loro dolore. La mattina andavo a “Forum”, mi inventavo un sorriso, facevo le mie trasmissioni, le riunioni con gli autori, e poi tornavo di corsa a casa. Sentendomi quasi in colpa perché ero viva, e perché per qualche ora riuscivo anche a distrarmi andando a lavorare.

 

Massimo non voleva che io lo sapessi. Non l'ha mai voluto far sapere a nessuno che stava male. Una dignità immensa. Non lo ha mai detto nemmeno a sua madre, ai suoi fratelli, alla sua famiglia, ai suoi amici. Soltanto Giulia si portava dentro, oltre alla preoccupazione e al dolore, anche la responsabilità pesantissima di tacere con tutti. Tranne che con me. Ma anche se non me lo avesse detto, l'avrei capito da sola. Massimo dimagriva a vista d'occhio. Ma continuava a sorridere e a lavorare. "Amore, dillo ai tuoi cognati, condividi questa responsabilità con loro, un giorno potrebbero prendersela con te perché non glielo hai detto." "No, mamma, ho promesso a Massimo, lui non vuole." "Ma io, fossi in sua madre, lo vorrei sapere. È una forma di egoismo nasconderle la verità." Niente, Massimo era irremovibile, parlare con i suoi sarebbe stato un vero e proprio tradimento da parte di Giulia. Non voleva essere compatito. E Giulia combatteva la sua battaglia in silenzio, accanto a lui. Lorenzo, negli ultimi due mesi, era quasi sempre con me, mentre Giulia faceva avanti e indietro dal Campus, dove era ricoverato Massimo.

 

Per il compleanno di Lollo Max ha chiesto un permesso di poche ore alla clinica per venire a casa a spegnere le candeline con lui. Troppo straziante ricordare il momento in cui, dopo la torta, è uscito di casa per tornare al Campus, salutando tutti con la mano. Quel saluto è stato il suo ciao a chi era lì, e gli voleva bene. A 10 anni non è facile capire perché un giorno tuo papà non entra più da quella porta, e ti senti dire che è diventato una stella. A 10 anni non si è più così piccoli da potersi distrarre con i giochi e gli amichetti, né si è ancora abbastanza grandi per sapersi difendere dalla sofferenza. A 10 anni, però, si ha già il pudore delle proprie lacrime. Me l'ha insegnato mio nipote. E infatti non l'ho mai visto piangere, il mio coraggiosissimo cacciatore di stelle.

 

Ogni tanto, soprattutto quando lo vedo assorto, con gli occhi che fissano un punto qualunque della stanza, vorrei entrargli dentro per capire dove vanno i suoi pensieri. Dove nasconda i suoi ricordi e il bisogno di avere ancora il suo papà vicino. Le ricorrenze sono tappe infernali, per chi vive un dolore. Lo sono per noi adulti, figuriamoci per un bambino. Il Natale, il compleanno, una festa in famiglia, il primo e l'ultimo giorno di scuola, il torneo di calcetto, il cinema con i papà degli amici. Nessun bambino dovrebbe mai vivere a metà. La serenità, per un bimbo, dovrebbe essere un diritto sacro. Il Cielo se lo dovrebbe ricordare. Lorenzo, la sua parte di serenità, la trova nella forza di Giulia, nel suo amore granitico, nella fatica che fa per essere sempre presente nella sua vita, dalla scuola ai compiti della sera, agli allenamenti di calcio e ai pomeriggi con gli amichetti, alla spesa e alla casa. Il tutto facendo i salti mortali per non mancare mai al suo lavoro.

 

E continua ad andare avanti, senza appoggi e senza stampelle, anche quando è sfatta dalla stanchezza e dai problemi, ed è lei che avrebbe bisogno di un abbraccio. Quante mamme e papà ci sono come lei, quanta sofferenza c'è in troppe case, quante famiglie che lottano contro il dolore, quanti bambini ci sono nella situazione di Lorenzo, e quanta ammirazione e amore ho per ognuno di loro. Giulia e Lorenzo, insieme e da soli, stanno imparando a combattere, a sfidare questa loro nuova vita, stanno imparando a smantellare i muri che hanno dentro. Probabilmente hanno anche paura per un futuro che adesso fanno fatica a immaginare, ma ce la faranno. Ricostruiranno il loro mondo, pezzetto dopo pezzetto. La rinascita passa dal dolore, dicono. E poi riaccenderanno le loro luci, ne sono sicura. Una grande, grandissima donna, mia figlia. Ne ho avuto la riprova in questi ultimi quattro, difficilissimi anni. E so quello che dico.

 

P.S. Professor Pierfilippo Crucitti, grazie per tutto quello che hai fatto per Massimo, per l'affetto e la cocciutaggine che ci hai messo, per il bene che gli hai voluto e per come, ancora oggi, tu e Laura continuate a stare vicini a Giulia e Lollo.

 

 

Io, per esempio, quando sono caduta non ho mai trovato una mano che mi aiutasse a rialzarmi. Sono diventata adulta nella consapevolezza che quando cadi sei sempre solo. Ci sono state giornate in cui mi guardavo intorno e non trovavo nessuno vicino a me. Mai che qualcuno, a parte i miei fratelli, mi dicesse dai, alzati, ti sorreggo io. Si fa una fatica boia a non perdere fiducia in se stessi, quando ti rendi conto che il meccanismo si è inceppato. Ti chiedi dove hai sbagliato, sposti la tua attenzione dal fuori al dentro, cerchi scappatoie, intravedi un cammino nuovo, davanti a te, ma non sai se sarai in grado di affrontarlo. La manciata di anni che hai davanti sono troppo pochi rispetto al tanto che vorresti ancora fare. Ci sono scelte che, quando le fai, o ti costringono a farle, se le sbagli rischi di farti molto male. L'ho già detto. Cadi dall'alto senza rete di protezione. È come se ti spegnessero l'interruttore dentro. Rimani al buio. Forse hai detto troppi no ai quali avresti dovuto dire sì, e dei sì ai quali avresti dovuto dire no. Hai sbagliato interlocutori o salotti. Hai frequentato i tuoi amici, e non gli amici degli amici. Hai sempre fatto le tue vacanze in una casetta vicino Anzio, mai nei posti dove è importante farsi vedere e dove ti pagano il soggiorno se posti una tua foto davanti all'albergo. Non hai affittato barche da attraccare ai moli che “contano”. Ma sono stata sicuramente più felice così.

 

Certo, abituata a stare sotto i riflettori da trent'anni, con tutti che ti cercano continuamente, che quasi “pretendono” la tua presenza anche ai battesimi di chi non conosci, con il cellulare che non smette un solo momento di squillare e di ricevere SMS, quando arriva il silenzio fai fatica ad accettarne la presenza. Quando, di colpo, da un certo giorno in poi, ti accorgi che non ti arrivano più i soliti inviti per le cene, per le serate e per gli eventi del cinema o della cultura (pochi, soprattutto a Roma), che le trasmissioni serali di punta si dimenticano di te, a parte quelle giornalistiche, che nessuno ti chiede più servizi fotografici, che la lista degli “amici” si assottiglia sempre di più, e che sui social qualcuno ti comincia a scrivere ma perché non te ne vai in pensione… Ecco, a quel punto devi cominciare a fare i conti con te stessa. Che non sono mai facili, soprattutto a una certa età.

 

Ti viene da chiederti, è inevitabile: “Ma io a che punto sono? Con chi ho viaggiato, fino adesso? Chi sono le persone che mi hanno voluto bene veramente?”. Inutile dirsi ma che te ne importa, a te di tutta questa roba non te ne è mai fregato niente, non andavi quasi mai da nessuna parte, strappavi gli inviti quasi prima che ti arrivassero, hai sempre detestato le cene con il generone romano. Ti dava fastidio sederti a tavola con gente che, spessissimo, non stimi. Perché sai chi sono, da dove arrivano, sai che vivono da parassiti in ambienti che non hanno alcuna etica morale. Perché ti ritrovi a confrontarti con signore e signorine vestite e truccate da circo, che si venderebbero la madre pur di essere presenti dappertutto. E, infatti, finiscono regolarmente sulla rubrica “Cafonal”, di Dagospia. Guardi tutto quel cibo sprecato, lasciato in modo annoiato nei piatti, perché la gente è sempre a dieta, e pensi che, invece, là fuori c'è gente che ha sempre fame. Ti dici che la vita vera è lontana da lì, da quelle persone. Ti vergogni di esserci anche tu. E non è populismo, il mio. È l'ingiusta realtà dei fatti.

 

Come le cene mondane che precedono il Natale. Sono ipocrisia pura. Quella è solidarietà “pelosa”, si organizzano eventi, a pagamento, per inviare il ricavato non si capisce mai bene dove e a chi. La gente partecipa per finire sui giornali, senza pensare che, con quello che paga, farebbe felice una qualsiasi casa famiglia. Mi rendo conto che sto cercando, dentro di me, tutto quello che non vale più la pena di rimpiangere. Te lo ricordi o no, che per farti fare un servizio fotografico ti hanno sempre dovuta pregare in ginocchio, e magari annullavi tutto anche all'ultimo minuto? Perché le foto ti hanno sempre dato fastidio, non sai metterti in posa, le gambe le allunghi sempre nel modo sbagliato, non sai mai come mettere le mani, ti sei sempre coperta invece di scoprirti, e poi la scelta dei vestiti, i colori che piacciono e non piacciono ai vari direttori, le copertine promesse che saltano, le scarpe gioiello con i tacchi alti che non vuoi perché non ci sai camminare, preferisci le foto in pantaloni, a piedi nudi e con i maglioni neri, anche se gli stilisti ti mandano vagonate di roba.

 

E allora, perché adesso ci rimani male? Perché mi sento cancellata. Perché ho capito che quella era tutta gente che non voleva Rita e basta. Ma mi cercava perché ero Rita dalla Chiesa, quella della televisione. Voleva il circo, il carrozzone sul quale salire. Appena ho capito questa “piccolissima” differenza, non solo ho smesso di starci male, ma ho cominciato a divertirmi davvero. Il passaggio alla pulizia sociale, nella mia vita, è stato immediato, consolatorio. Non ero io che ero sbagliata, era quello che rappresentavo, che era stato cancellato dal cast del Truman Show. E 'sti cavoli!, come si dice a Roma.

 

A me è successo quando sono passata a La7, da Urbano Cairo. Da che ero su tutti i giornali, con i titoloni in prima pagina, mi sono ritrovata, dopo pochi anni, nell'indifferenza verso colui che è “stato”, e non “è” più. Eppure ero sempre io. Rita.

 

 

Cairo mi aveva telefonato una sera, all'improvviso, perché credeva fortemente in me. "Possiamo incontrarci dopodomani a Milano?" "Sì, certo, possiamo. Mi fa piacere conoscerla."

 

Quando sono entrata nel suo ufficio, ho visto che la sua scrivania era piena zeppa di fogli che raccontavano la mia vita professionale, i dati di ascolto delle mie varie trasmissioni, e gli introiti pubblicitari che portavo giornalmente a casa. Con “Forum” avevamo gli inserzionisti che facevano la coda fuori dalla porta per avere uno spazio all'interno del programma. Mi hanno anche fatta fuori dall'ordine dei giornalisti di Roma perché, secondo loro, un giornalista non può mettere la propria faccia nelle telepromozioni. Ma il mio tesserino da giornalista professionista, con tanto di numero di iscrizione all'albo, esiste e non me lo può togliere nessuno. Numero 50281.

 

Fra l'altro, c'è una categoria di colleghi che fa ben peggio che pubblicizzare materassi e formaggi. Vende la propria dignità per una comparsata in tv, ed è sempre pronta a saltare sul carro dei vincitori, politicamente parlando. Ha lo scatto incorporato nelle scarpe. Ma come, fino a ieri parlavi malissimo di Tizio o di Caio, e oggi lo cerchi al telefono, gli mandi messaggini e fiori? Io preferivo vendere le pentole.

 

Cairo tutte queste cose le sapeva benissimo, e mi voleva a tutti i costi nel pomeriggio di La7. "Lei è quella che ci vuole per una fascia oraria che devo ancora costruire, possiamo prenderci una bella fetta di pubblico, almeno ci pensi, proviamo." Simpatico, istrionico, convincente, si intuiva lontano un miglio che proveniva dalla scuola di Berlusconi. Grandi comunicatori tutti e due. Avevo appena lasciato Mediaset. Da un lato mi sentivo lusingata dalla sua offerta, un grosso contratto biennale, dall'altro, però, speravo ancora che qualcuno, “da casa”, mi richiamasse per dirmi ma dove cavolo stai andando, tu sei una nostra risorsa, devi restare con noi, tranquilla che la troveremo una soluzione per “Forum”. Invece niente. Come se non ci fossi mai stata. E io, con l'orgoglio in pancia, non chiamavo nessuno, non chiedevo.

 

Nel frattempo, Cairo aspettava una risposta. Ricordo ancora un viaggio sul Frecciarossa Roma-Milano con il mio manager di sempre, Lucio Presta. A un certo punto, mentre guardavo assorta fuori dal finestrino, Lucio mi ha scattato una foto che, per me, è rimasta il simbolo del momento che stavo vivendo. Uno scialle rosso intorno al collo, per difendermi dall'aria condizionata, e lo sguardo perso sulla campagna emiliana, con decine di balle di fieno davanti ai casolari. Confusione totale, grande dolore per quello che, forse, mi stavo lasciando alle spalle, un'infinità di dubbi e incertezze per il mio futuro.

 

Di Mediaset conoscevo anche le pietre, una per una. Lì dentro c'era tutta la mia vita, entravo e incontravo solo amici. Invece, adesso, avevo paura di quello che non conoscevo. Quando nella vita trovi un guscio protetto, dopo anni in cui hai attraversato tanti dolori, non vorresti mai lasciarlo. È come se ti sentissi al sicuro soltanto lì. Può sembrare infantile, come ragionamento, ma le fragilità non hanno età.

 

Firmo il contratto il 7 settembre 2013, dopo un'estate particolarmente difficile. Appena arrivata a Mondello, per qualche giorno di vacanza, ero finita la sera stessa all'ospedale di Palermo, dopo il viaggio in nave. Sembrava infarto, ma era una pericardite presa per l'aria condizionata, ghiacciata, che c'era in cabina, e che non si poteva chiudere, perché centralizzata. Avrei dovuto fare causa alla compagnia di navigazione, così come dovrei continuamente fare causa alle Ferrovie dello Stato per l'aria fredda che sparano a mille sui Frecciarossa. Ogni viaggio è una scommessa, una roulette russa, con la bronchite dietro l'angolo. Ti lamenti con il capotreno, scusi ma l'aria è troppo fredda, lui promette di abbassare, e invece ti salvi solo se hai un piumino 100 grammi di riserva e uno sciarpone da metterti in testa. E questo anche in pieno inverno.

 

Comunque, la pericardite e gli effetti di tutto il cortisone che dovevo prendere erano un altro pensiero che si aggiungeva, quell'estate, al grande punto interrogativo che avevo fisso in testa. Che dovevo fare? Ho sempre detto che, nella vita, preferisco le domande alle certezze, non mi piacciono i punti esclamativi. Ma quella volta ero nel panico totale. Cairo mi piaceva, ero affascinata dalla sua risolutezza, ma capivo anche che la mia famiglia professionale era da un'altra parte. Comunque, dopo la firma del contratto, cominciammo a fare una riunione dopo l'altra, cercando tutti insieme un'idea per il programma. Molti degli autori li conoscevo, li avevo incontrati per lavoro, ma non erano i “miei” autori, quelli con i quali per tanti anni ci eravamo divisi le giornate. Avrei voluto chiamare il programma “La settima onda”, come il titolo di un libro di Daniel Glattauer che amo molto e che ho sempre sul comodino.

 

La settima onda è un'entità inflessibile. Prima di lei ce ne sono altre sei, prevedibili e armoniose, che si condizionano a vicenda, sorgono una dopo l'altra, non fanno sorprese. Occhio però alla settima onda! È imprevedibile. Passa a lungo inosservata, partecipa all'assalto monotono, talvolta però fugge via, sempre e solo lei, perché è spensierata, ingenua e ribelle. Migliore o peggiore? Possono dirlo solo quanti, afferrati da lei, hanno avuto il coraggio di raccoglierne la sfida, di lasciarsi incantare dalla sua malia.

 

 

Ecco, la settima onda era quello che avevo in testa io. Settima come La7, settima come l'onda che scavalca le altre sei davanti a lei. Ma Cairo, che partecipava quasi sempre alle nostre riunioni, aveva dei dubbi, per il suo pomeriggio voleva qualcosa di diverso. Non un clone di “Forum”, perché è un uomo troppo intelligente per accontentarsi di una fotocopia, ma qualcosa che, anche se da lontano, ci si avvicinasse un po'. Sicuramente aveva ragione lui, il format era forte, mi piaceva, ma per me era ancora troppo presto, mi sarebbe sembrato di tradire la mia azienda. Mi rendo conto che, in un ambiente di squali cinici come quello in cui mi muovo, con un pelo sullo stomaco come un materasso matrimoniale, i miei dubbi possano far sorridere. Ma sono le regole imparate in famiglia. Appartengo alla vecchia generazione.

 

Mi confrontavo con Presta, in quel periodo, gli buttavo addosso tutte le mie ansie. Ero entrata in una specie di vicolo cieco da cui non sapevo come uscire. E a un certo punto decidemmo che, forse, sarebbe stato meglio ringraziare Cairo e lasciare La7. Non ero abituata a restare in panchina. Sono passati cinque anni, da quel giorno, e sono ancora in panchina. Ma le persone che mi vogliono bene, quelle che vogliono bene a Rita-e-basta ci sono ancora tutte. Anzi, sono molte di più di quando conducevo “Forum” ed entravo tutti i giorni nelle loro case. Per fortuna che ci sono state loro. Mi hanno dato una grande forza, soprattutto nei momenti pesantissimi che ho attraversato in quest'ultimo anno. Persone sconosciute che mi sono state più vicine di pseudoamici che pensavo di avere. Persone che spesso mi scrivono anche solo per un “Ciao, come stai?”. Che magari hanno anche loro problemi personali devastanti, ma che proprio per quello capiscono cosa sia la sofferenza. E che cercano di aiutarmi. Al loro affetto devo davvero moltissimo. Mi seguono sui social, o nelle mie ospitate televisive. Appoggiano le mie battaglie, si ricordano dell'anniversario di mio padre, mi chiedono di Lorenzo o come sta Giulia. Ogni tanto mi chiedono anche perché non torni a “Forum”, e io rispondo sempre che oggi c'è un'altra padrona di casa, Barbara Palombelli. Bravissima nell'essersi confezionata addosso una trasmissione che per tanti anni aveva avuto il mio marchio di fabbrica. E che lei ha reso suo, vincendo la sua scommessa con l'auditel.

 

E io? Me ne sono pentita? Forse. Ma lo dicevo prima, se fai la scelta sbagliata rischi di farti molto, ma molto male. Se me ne sono fatta, di male, faccio finta di non essermene accorta. Si cade e ci si rialza. L'importante è continuare a esserci.

 

Una mattina di parecchi anni fa, durante una pausa pubblicitaria di “Forum”, si presentarono dietro le quinte un ragazzo e una ragazza con un cagnolino in braccio. Una creaturina spelacchiata, tutta pelle e ossa, che di schiena sembrava una specie di zebra bianca e nera, e per il resto era tutta maculata. Francamente bruttina, ma con gli occhi dolci, tristissimi. Assomigliavano a occhi disegnati con il kajal. Un maschietto di pochi mesi. Gli ho dato una carezza e un bacio sulla testa, e sono rientrata in studio.

 

Durante la causa non ci ho più pensato, i contendenti stavano litigando come se, invece di essere in un'aula di tribunale, si trovassero al mercato. Nella successiva pausa pubblicitaria, esco fuori dallo studio per discutere della sentenza con Tina Lagostena Bassi, e il cagnolino era ancora lì, sempre in braccio alla ragazza bionda. Mi guardava con le zampette anteriori incrociate, una sopra l'altra, e io non riuscivo a smettere di accarezzargli la macchiolina bianca che aveva sulla testa. Era tenero. Chi non ha mai provato a entrare nel cuore di un cane non ha mai conosciuto l'amore assoluto. Quello di quattro occhi che si agganciano e non si staccano più. Due calamite che si sovrappongono perfettamente. Ti fanno sentire al sicuro, senza la paura che quando ti giri dall'altra parte possano dimenticarti o tradirti, come succede troppe volte con gli esseri umani a due gambe.

 

I cani, come i gatti, sono l'essenza di quello che auguro alle persone che amo. Un concentrato di bene, fedeltà, tenerezza, coraggio, compagnia, calore, intelligenza, allegria e pazienza. Nessuna aspettativa di stato sociale più alto. Un cane vuole solo te, che tu gli stia sempre vicino. Il compagno perfetto. In ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte, come promettiamo quando ci sposiamo. Con la differenza che un cane, quella promessa, la mantiene. Noi, spesso, no. Ci giriamo, tradiamo o veniamo traditi.

 

La ragazza bionda si fa coraggio, fa una specie di slalom fra gli autori che ho intorno, mi si piazza davanti e mi dice: "Sono una volontaria di un canile lager vicino a Frosinone. Questo cagnolino è l'ultimo di quattro fratellini che sono stati rinchiusi e fatti morire in una panca di legno. Lui è l'unico sopravvissuto, ma devono averlo picchiato, è troppo spaventato. Vede? Qui gli manca un dentino. L'abbiamo portato via ieri sera, ha bisogno di una persona che gli voglia un bene speciale". Mi si chiude lo stomaco, odio profondissimamente chi maltratta gli animali, è una vita che lotto per l'amore e il rispetto che dobbiamo a questi nostri amici pelosi. Che sono creature superiori, da prendere a esempio, non da maltrattare. Che hanno anche loro un'anima, come disse un giorno papa Wojtyla. Se ti reputi una persona perbene, se hai appena un po' di cuore, devi dire no ai circhi con gli animali, agli zoo, alla caccia, ai combattimenti dei cani, a tutte le gabbie che tolgono vita e dignità a chi è nato libero, agli allevamenti intensivi, alle sperimentazioni, ai gestori dei canili che si intascano le sovvenzioni dei Comuni, facendo morire di fame i cani. Mi è stato raccontato che questa gentaglia non mette neanche dei cartoni o dei giornali sul pavimento delle gabbie. Per cui, quando fa freddo, e la notte ghiaccia tutto, i cagnolini la mattina rimangono con le zampette attaccate al cemento.

 

Una guerra senza fine, questa. Mi ripugna anche chi sfrutta gli animali in nome di assurde tradizioni popolari, o chi usa gli asinelli di alcune isole del Mediterraneo per caricare sulla loro schiena i turisti e i loro inutili, pesantissimi bagagli. Stesso discorso per le carrozzelle romane. Quante volte abbiamo visto su internet i video di cavalli stramazzati a terra per il caldo e la fatica. E i turisti, tutti intorno, a scattare foto con il cellulare. Un mondo, il nostro, che spesso non è a misura né degli uomini né degli animali. È solo a misura di un'incredibile inciviltà umana.

 

Sto pensando a questo, mentre rispondo "Mi spiace, io non posso prenderlo, ne ho altri tre a casa, il condominio si ribella, come faccio?". Devo rientrare, sta ricominciando la causa. Mi guardo intorno, ci sono tanti giovani opinionisti dietro di me, forse qualcuno che può adottarlo lo trovo. Comincio a fare il passaparola sottovoce, mando messaggini con il cellulare per allertare le varie associazioni, cerco di ricordare chi mi ha detto, l'altra sera, voglio regalare un cane a mia mamma, ha appena perso il suo. Un occhio sul cellulare, e la testa che cerca di seguire quello che si urlano i contendenti. Quando il giudice si “ritira per deliberare”, rimango in studio e cerco di trovare una soluzione con il pubblico. A me non bastava che qualcuno mi dicesse lo prendo io. No, dovevo essere anche sicura che lo avrebbe trattato bene.

 

C'è una signora che vuole portarselo a casa, ma non mi convince, e se lo fa solo a favore della telecamera, per farsi riprendere, e poi lo abbandona appena esce da qui? Torno fuori a riguardarmelo per l'ennesima volta. I suoi occhi non si staccano da me. C'è qualcosa di unico, in questa creaturina. Anche se tutti i cani e tutti i gatti hanno una loro unicità. “Dove ci sono tre ciotole possono essercene quattro.” Finita la trasmissione, finiscono pure i dubbi. Lo prendo in braccio, lo porto in camerino, gli do delle fette biscottate, lo lascio lì durante la riunione di redazione, e poi ce ne andiamo a casa insieme.

 

Trema, mentre siamo in macchina. Lo accarezzo per tranquillizzarlo, è un mucchietto di ossa, gli si sentono tutte le costole, chissà che gli hanno fatto, quante botte deve avere preso. Ci siamo innamorati subito, noi due, e la nostra, dopo quasi quattordici anni, continua a essere una vera storia d'amore, malgrado gli acciacchi dell'età. È diventato la mia ombra. Se lo cercate, è sempre dietro di me. Mi ha anche fatto passare, ma non del tutto, la paura di dormire con la luce spenta, la notte, perché c'è lui accucciato sotto la panca davanti al mio letto. Giulia l'ha chiamato Pedro, per quella specie di benda nera che ha sull'occhio.

 

Per parecchio tempo, appena arrivato, era terrorizzato da tutto, anche solo dal citofono o da una finestra che sbatteva. E se entrava in casa una persona, uomo o donna, con i capelli lunghi e neri, correva a nascondersi sotto il tavolo del salotto. Forse gli ricordava qualcuno che gli aveva fatto del male. Poi, poco alla volta, ha ricominciato a scodinzolare, non camminava più con la coda fra le zampe, non si accucciava più negli angoli di casa, e se c'ero io vicina a lui accettava anche le carezze degli sconosciuti. Stava finalmente imparando a fidarsi degli uomini.

 

Adesso è cicciottello, una specie di tavolino, non gli si vedono più le costole, è una palla di pelo bianco e nero che non muove un solo passo senza di me, ed è diventato il mio stalker ufficiale. Brontolone quando accarezzo Nina e Lady prima di lui, si offende se esco senza portarmelo dietro, e salta sul parapetto della terrazza, rischiando ogni volta di cadere di sotto, appena sente il rumore della mia macchina che arriva al cancello. Con lui, quando parto per lavoro, devo fare la valigia di nascosto, chiusa in bagno, perché appena vede che tiro giù il trolley dall'armadio cade in depressione, e non mi rivolge più la “parola”. Ma la cosa che mi piace di più di lui è che è un romantico come me. Quando siamo al mare ci sediamo vicini vicini sulla mia scaletta di legno e aspettiamo il tramonto insieme. Poi andiamo a farci una lunga passeggiata sulla spiaggia. Appiccicato addosso come neanche un marito geloso.

 

Anche adesso, che ho il pc sulle ginocchia, e sto scrivendo, dorme con la testina appoggiata sui miei piedi. Se ho le scarpe è sempre in ansia, si mette di traverso sulla porta della mia camera da letto con l'aria di quello che pensa “Non mi muovo da qui, vedi mai che mi addormento, e questa esce senza che me ne accorga”. Ma se sono a piedi nudi, come in questo momento, si rilassa e russa. E quanto russa…

 

 

26 MARZO 2018, “CIAO, FABRI”

 

Conosco delle barche

 

che restano nel porto per paura

 

che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

 

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto

 

per non avere mai rischiato una vela fuori.

 

Conosco delle barche che si dimenticano di partire

 

hanno paura del mare a furia di invecchiare

 

e le onde non le hanno mai portate altrove,

 

il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

 

Conosco delle barche talmente incatenate

 

che hanno disimparato come liberarsi.

 

Conosco delle barche che restano ad ondeggiare

 

per essere veramente sicure di non capovolgersi.

 

Conosco delle barche che vanno in gruppo

 

ad affrontare il vento forte al di là della paura.

 

Conosco delle barche che si graffiano un po'

 

sulle rotte dell'oceano ove le porta il loro gioco.

 

Conosco delle barche

 

che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,

 

ogni giorno della loro vita

 

e che non hanno paura a volte di lanciarsi

 

fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.

 

Conosco delle barche

 

che tornano in porto lacerate dappertutto, ma più coraggiose

 

e più forti.

 

Conosco delle barche straboccanti di sole

 

perché hanno condiviso anni meravigliosi.

 

Conosco delle barche

 

che tornano sempre quando hanno navigato.

 

Fino al loro ultimo giorno,

 

e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti

 

perché hanno un cuore a misura di oceano.a

 

 

Dedicata a te, che hai avuto un cuore a misura d'oceano.

 

 

a. Jacques Brel, Conosco delle barche.

 

 

28 MARZO 2018, “CIAO, FABRIZIO”

 

Mio fratello ha voluto ricordare Fabrizio così, per come l'ha conosciuto e gli ha voluto bene lui:

 

Nel 1984 ci fu la prima manifestazione nazionale degli studenti contro la mafia e contro la droga. Non era mai successo prima che i giovani arrivassero da tutta Italia. C'è una foto di Stefano Montesi che riprende me e mia sorella Rita alla fine della manifestazione, con il palco ormai smontato. Sulla destra si vedono l'avvocato Alfredo Galasso e il giornalista dei “Siciliani” Antonio Roccuzzo. In mezzo, tra me e Rita, c'è Fabrizio Frizzi. Proprio coì. Aveva “sposato” la causa di Rita, da poco conosciuta, ed era venuto anche lui, così come venne due anni dopo al maxiprocesso di Palermo. Per amore e per senso di giustizia. Non voglio arruolare Fabrizio nell'antimafia. Voglio invece dire che aveva un istinto innocente, naturale, per le cause giuste. Le fiutava, le faceva sue senza tornaconti. Grandi e piccole, conosciute o destinate a restare ignote.

 

Io ho ricordi bellissimi legati alle tante estati passate insieme ora per ora, fino a notte fonda. Era una meraviglia sentirlo raccontare le barzellette. Per lui mica erano battute, erano un'arte sociale, teatro puro. Nel villaggio (non turistico, ma di condomini) di Sellia Marina, sullo Ionio, teneva sveglie decine di famiglie, dai bambini ai nonni, tutti seduti intorno a lui, narrando, letteralmente narrando, barzellette. Sapeva di regalare uno spettacolo ogni sera, e lo faceva volentieri. Spettacolare quella sul cavallo morto in via Pordenone. Irresistibile la batteria sui paracadutisti dilettanti. Una volta si fecero le 3, e lui chiese di poter smettere, il pubblico avrebbe fatto l'alba per godersi ancora la sua contagiosissima allegria.

 

Fabrizio era un uomo Rai, del servizio pubblico, orgoglioso di esserlo (anche se ne ebbe ingiuste e lunghe umiliazioni). Una di quelle estati, credo fosse il 1986, lo vidi alzarsi in piedi per una telefonata ricevuta a casa di mia sorella Simona da Silvio Berlusconi. Berlusconi voleva convincerlo a passare alle sue tv. Fabrizio era imbarazzato ma resisteva. Si chinava sulla difensiva con la cornetta in mano. L'interlocutore insistette per circa quaranta minuti. Non ho mai saputo che cosa il grande persuasore gli stesse offrendo, ma certo molto. Lui spiegava di rimando che era affezionato alla Rai, che ringraziava molto, ma non poteva. Finì quella telefonata estenuato, sudato, ma soddisfatto di se stesso.

 

Abbiamo fatto insieme interminabili partite a calcio nel campetto in terra battuta di Sellia, ormai trasformato in parcheggio. Lui, io e Carlo, il marito di Simona, dovevamo per forza stare nella stessa squadra. E questo, alla fine, ci condannava a essere un po' più deboli di altre squadre. Si rimediava con la tattica. Con Fabrizio ogni sera era dedicata a due ore di studio della tattica per la partita del giorno dopo. Era quasi più divertente che giocare. Prima della partita che avrebbe deciso il torneo, fatta la tattica, gli dissi "Domani vinciamo". Lui se ne convinse, anche se l'avversario era molto più forte di noi. Così il giorno dopo, all'una, sulla spiaggia lo comunicò anche a Mario, nostro compagno, un delizioso fiorista di Benevento. Mario lo guardò incredulo. "Vinciamo???" Fabrizio disse di sì, e Mario si convinse. Potenza della televisione. Vincemmo davvero. Grazie a lui. Gli lanciai la palla dal fallo laterale, lui non so come la prese, con la fronte ma con le spalle alla porta, con una scoordinazione assoluta, misteriosa. La palla passò incredibilmente dietro di lui e finì nell'angolino in alto. Un gol indimenticabile.

 

Quando ho saputo del suo male gliel'ho ricordato. Tornerai a fare quel gol, gli ho scritto, sperando di tirarlo su di morale. Ma credo di esserci riuscito solo in parte. Mi rispose: “È vero, la tattica è rimasta la stessa… Continuo a cercare di sfondare e vincere…”. Non ho qui lo spazio per raccontarvi dell'amore per il suo pubblico, delle tante ragazzine che gli chiedevano l'autografo. Mentre mangiava in pizzeria, e lui sorridente che lo faceva a tutte. Delle sue imitazioni a bruciapelo di Sordi o Mike Bongiorno, della strepitosa bravura a ping pong. Della sua generosità senza confini. Solo una cosa aggiungo. Un tizio, il solito critico del “Corriere della Sera”, ha scritto che non era un genio. È vero, se il genio è solo quello scientifico, artistico, politico, militare, filosofico. Ma mettiamo che esista anche il genio della comunicazione umana, di come usare la comunicazione per costruire relazioni, per fare sentire meglio le persone, per rendere un'atmosfera sociale (piccola o grande) più piacevole, per immettere il garbo nella vita altrui. Il genio, rarissimo, fatto di istinto, di studio duro e vocazione naturale, come tutte le forme di genio. Questo, Fabrizio lo ha avuto. E io, qui, ricordando quel suo geniale, pazzesco colpo di testa, ve lo sto testimoniando senza alcun dubbio. Proprio il classico genio che non si impara a scuola o all'università. Ma che ti nasce dalla vita e rende speciale la tua vita e quella degli altri.

 

Ciao, Fabrizio.

 

Nando

 

 

Mai avere, nei pomeriggi di pioggia, la malsana idea di mettere in ordine la libreria. La mia casa è piena zeppa di libri, cd, vecchi dischi a 45, 78 e 33 giri, raccolte di settimanali degli anni Cinquanta e Sessanta, “Oggi”, “Epoca”, “La Domenica del Corriere”, le prime pagine del “Corriere della Sera”, videocassette con dentro la memoria storica di tanti anni di tv e di lavoro, mio e di Fabrizio, e cassetti che non si chiudono per le troppe fotografie. Un casino di ricordi che dovrei lasciare lì tranquilli, senza andarli a sfruculiare. Perché so già che mi si riverserebbe addosso una secchiata di vita mai dimenticata, un tempo infinito di momenti belli, amici, persone amate, bigliettini d'amore, biglietti di concerti, di navi per le vacanze, foto paparazzate in spiaggia con il pareo e il mollettone in testa, o mentre leggo i giornali sulla mia sediolina di plastica rossa in riva al mare. Ecco, in quel preciso momento bisognerebbe fiondarsi in cucina e far fuori un pacchetto gigante di Rodeo, piuttosto che farsi salire il magone fino al cervello.

 

Mai aprire le stanze della mente, io le chiamo così. Sono come le scatole dove metti i vecchi cartoncini degli auguri di Natale, i tappi delle bottiglie di prosecco bevute in chissà quali occasioni, ma se li tieni lì un motivo ci sarà. Le polaroid scolorite che non ti va di inserire nell'album di famiglia, ma che non ti va neanche di buttare via perché ti sembra brutto, i nastrini di qualche regalo di compleanno che per te deve avere avuto un significato speciale, ma quale? Non te lo ricordi neanche più, pensa quanto doveva essere speciale, quel regalo. Insomma, tutto quello che un giorno ti sembrava indispensabile e che invece si è rivelato totalmente inutile. Non ne hai memoria. Fino a quando, il famoso pomeriggio di brutto tempo, apri una di quelle scatole e ti casca giù una montagna di cose che non pensavi nemmeno più di avere. Come quando cerchi di prendere l'ultimo golf della pila nell'armadio, e ti cadono per terra tutti gli altri. Quei golf, in realtà, sono i ricordi che il tuo inconscio, io lo chiamo istinto di sopravvivenza, ha voluto chiudere da qualche parte.

 

Ma sei proprio una cretina masochista, lo sapevi, perché hai aperto la scatola? Adesso stai male, stanotte non ci dormi. La guardo, la mia vita vissuta, sparsa sul pavimento, e posso decidere se lasciarla lì ai miei piedi, o raccoglierla alla rinfusa e ricacciarla nel cassetto della mente. Ma se decidi che è arrivato il momento di rimetterci le mani, ecco, lì cominciano i guai seri. Perché le stanze della mente, a differenza dei cassetti, si ricordano tutti i rumori e le parole dell'amore e della sofferenza. E te li ributtano addosso senza rispetto. Poi ci sono anche le stanze della mente, e a me è successo di aprirle e accorgermi che sono completamente vuote. Solo lenzuola bianche che però non proteggono nessun mobile dalla polvere. I mobili non ci sono più. Non c'è più niente, neanche un chiodo alle pareti. Eppure tu credevi di averle arredate, ci avevi messo passione nello scegliere poltrone, lampade e libri da leggere insieme. L'avevi riempita di progetti, di plaid per stare al caldo, di musica e quaderni con la copertina nera dove annotare date, emozioni. Qualcuno ha fatto un trasloco a tua insaputa, e si è portato via tutto, anche il suono di una risata e di una canzone rimasta nell'aria a metà. Con la moka arancione, in cucina, tutta bruciacchiata sul manico, testimone di un caffè preparato e poi dimenticato sul fuoco. Perché ti era arrivato un abbraccio più forte che ti aveva impedito di spegnerlo.

 

In quel pomeriggio di pioggia e di freddo, con l'amaro in bocca di quel caffè non preso, richiudi piano la porta della stanza vuota, e prometti a te stessa che la prossima volta arrederai le altre stanze della mente con i mobili dell'Ikea. Divertenti, colorati, che se anche te li porteranno via non ci starai troppo male, perché saprai in anticipo di averci investito poco. Come il poco o il niente che valeva “quel” cassetto vuoto della mente. E mi viene in mente Nuovo cinema Paradiso, per me il film più bello della mia vita. Ci sono dentro sentimenti che bruciano. Nostalgia, rimpianti, amore, attaccamento al cielo della Sicilia, ai colori di una terra che non fa sconti a nessuno. La struggente tenerezza per un passato che ci siamo volontariamente, o involontariamente, persi. La scena finale con lui, in quella sala vuota del cinema, che ricerca se stesso attraverso i baci tagliati dagli spezzoni dei film, è l'essenza di tutti noi. Chissà quale bacio della nostra vita avremmo voluto salvare.

 

 

C'è stato un periodo in cui, per addormentarmi, prendevo una pillola che mi procurava incubi, altro che sonni sereni. La buttavo giù e, mentre aspettavo che facesse effetto, mi mettevo a rispondere ai WhatsApp che mi erano arrivati durante la giornata. Oppure scrivevo qualcosa sui social. E anche quando mi sembrava che la tastiera del cellulare diventasse marrone e tutta storta, io andavo avanti lo stesso, continuavo a scrivere, anche se gli effetti della pillola cominciavano a farsi sentire.

 

Una notte, l'ultima di quella maledetta pillola, ho fatto al telefono una proposta di matrimonio a un mio amico: "Senti, ma perché non ci sposiamo noi due?" "Amore, volentieri, ma ti sei dimenticata che ho già un fidanzato da quasi quarant'anni?" Angelo e Umberto. I miei amici di sempre, che infatti si sono sposati l'anno dopo.

 

L'allarme rosso, quando scrivevo qualcosa di pericoloso, me lo lanciava sempre Paola, una mia amica che si è trasferita a Barcellona dopo la sua separazione. Mica scema, lei, altro che lacrime, le è cambiata proprio la vita. Paola, ribattezzata “La Lucidi”, appena si accorgeva che stavo scrivendo qualche idiozia su Facebook mi chiamava subito a casa per dirmi: "Ma porca miseria, ancora con quelle pillole? Buttale via, spegni subito il cellulare e dormi. Domattina prendi un aereo e raggiungimi a Barcellona. Te lo trovo subito io il modo per farti dormire. Sangria e la compagnia giusta, altro che pillole". Ho buttato via le pillole, ho spento il cellulare, ma a Barcellona non ci sono ancora andata.

 

Neanche la televisione mi aiuta, stasera. Stanno litigando tutti sul niente, cioè sulla politica. Di quello che vogliono i cittadini non gliene frega niente a nessuno, questo lo abbiamo capito da un pezzo. Cambio canale, metto Sky, e già dalla musica di sottofondo capisco che è un film dell'orrore. Sangue e morti ammazzati. Mai un bel film d'amore. Quelli che stabiliscono la programmazione dei film bisognerebbe mandarli da uno psicologo. Nessuno gli ha ancora spiegato che di notte non vogliamo traumi, ma vogliamo addormentarci sereni, senza pugnali che sbucano dal buio, senza sparatorie, omicidi, ma sognando una bella storia d'amore. Anche un drammone che finisce male, ma che sia d'amore. E sulla parola amore, spengo.

 

Mi viene in mente La notte di Arisa, tanto per restare in tema. Credo che questa sia stata una delle canzoni che, in assoluto, ci abbia resi tutti più solidali e complici nelle nostre personalissime sofferenze d'amore. Se non siamo ipocriti, possiamo tranquillamente confessarci che, in quella “notte”, ci siamo buttati e riconosciuti tutti. E con le stesse identiche modalità del dolore che ci si attacca allo stomaco. Non ci sono né vincitori né vinti, siamo tutti sconfitti a metà. Balle. Per essere sconfitti, anche solo a metà, bisogna prima combattere. Qualcuno ti deve avvertire che c'è una guerra in atto. Qualcuno ti deve dare un'arma, anche spuntata, perché tu ti possa difendere.

 

Invece, il più delle volte, fanno tutto da soli, se ne vanno in punta di piedi, con le scarpe in mano per non farsi sentire, e sono pure capaci di colpevolizzarci perché siamo stati noi a non capire che era già finita. Neanche la fatica di dircelo. “Ma come, non te ne eri accorta?” “No, mi ero distratta, guardavo da un'altra parte, evidentemente. Vivevo un'altra storia, con la stessa persona, che a me sembravi tu, ma forse mi sbagliavo. Perché era migliore di te.” “Però possiamo rimanere amici.” Frase del cavolo, nella mia vita ho sempre deciso io chi avere vicino come amico, e chi no. E adesso lui può fare quello gli pare, con chi gli pare, e tu non puoi nemmeno permetterti di dire “ma chi, quella??? Che appena scende dal tacco 15 tocca con il sedere per terra? Che la sera deve venire a letto truccata, perché senza le extension ciglia, e le extension capelli, domattina manco la riconosci? Ah, e già che ci sei, un consiglio da amica, l'hai detto tu che ormai siamo rimasti solo amici, no? Dai un'occhiatina alle cicatrici sotto al seno e vicino allo zigomo, e pure al lato B. Oggi usano dei fili fantastici per tirarlo su”. Lo so, alla faccia della solidarietà femminile…

 

Ma in amore il rispetto per l'altra non è contemplato, non è un obbligo, anzi. La cosa più bella, comunque, arriva dopo, quando ti accorgi di quanto poco valga quella persona lontano da te. E provi un senso di liberazione, di respiro largo. Non ti senti più sconfitta a metà. Hai vinto tu, punto. Senza botulino e con tutte le tue rughe.

 

 

Tanto tu sei forte, mi hanno sempre detto. Vedrai che riuscirai a superare anche questo momento. Ma che ne sanno, loro, del buio nel quale sto camminando in questo momento, di quello che sto passando, della paura che ho, questa volta, di non farcela? Non è che una nasca strutturata per parare tutti i colpi della vita. Adesso basta, quando sono troppi sono troppi. Non sai più come schivarli, non puoi scappare, non puoi nasconderti, ti inseguono dappertutto. Non hai scelta, e se vuoi sopravvivere devi continuare a mettere un piede dietro l'altro per coprire i chilometri che ti separano dalla porticina della luce. Quanti chilometri ho fatto, io, in tanti anni di vita? Quante porticine della luce ho dovuto raggiungere, che magari mi si richiudevano davanti appena mi avvicinavo, o dietro subito dopo averle attraversate? Me ne sono resa conto l'altro giorno.

 

Perché io sono una che se non si fa del male da sola non è contenta. "Nonna?" Lollo bussa alla mia camera da letto, non è andato a scuola, lui e Giulia si sono svegliati tardi, e lei è dovuta correre subito al lavoro. Appoggio sul letto la mazzetta dei giornali, e faccio colazione con lui. "Sai, amore, che facciamo stamattina? Prima fai i compiti, così mamma quando torna non rompe, poi andiamo a farci un giro a Villa Pamphilj, al laghetto dei cigni." Mi guarda strano, con quei suoi bellissimi occhi verdi, non mi sembra molto convinto. Sai che allegria, la nonna e il laghetto dei cigni. Ma c'è il sole, e io ho voglia di farmi una passeggiata in macchina. Voglio allontanarmi da questo quartiere di Roma Nord. Che non amo in modo particolare. Ci sono capitata per caso, tanti anni fa, quando cercavamo casa con Fabrizio, ma non sono mai riuscita a sentirlo veramente mio. Qui girano solo sui suv, hanno solo borse e scarpe firmate, si portano addosso facce “lavorate” come il pongo dai soliti due, tre chirurghi da salotto. C'è una sola libreria, perché vedi mai che facesse male al botox leggere un po' di più, e incontri donne già perfettamente truccate e pettinate, fin dalle 8 del mattino, per accompagnare i figli a scuola. Viva mia figlia e poche altre che si infilano il cappotto sulla tuta e poi tornano subito a casa per farsi una doccia e correre al lavoro.

 

Metto i miei soliti jeans pure io e mi dirigo con Lorenzo verso Monteverde. Mentre guido, mi rendo conto che la mia Micretta rossa si sta dirigendo, quasi da sola, verso via Luigi Arati, la casa dove Giulia e io siamo vissute per tanti anni, appena arrivate a Roma. Già sento un blocco allo stomaco. Sei sicura, Rita? Fai marcia indietro, tanto lo sai che niente torna più, nella vita. Stamattina stai facendo, in senso contrario, la stessa strada che troppe volte ti ha portata ad affrontare un dolore. Verso via Teulada, quando hanno ucciso tuo padre. Ti aspettava Paolo. Verso il Delle Vittorie, quando hanno ucciso Falcone. Ti aspettava Fabrizio. Lo so, ma forse ne ho bisogno. Sono troppi mesi che vado avanti senza esplodere. Sono una polveriera, ho dentro “quell'urlo silenzioso” che dura da quasi quarant'anni, e che ancora adesso non mi esce dalla gola. Un urlo che ha condizionato tutta la mia vita. Le ho sempre strozzate sul nascere le mie emozioni più intime, per pudore, per vergogna. Non mi sono mai potuta permettere di mostrarmi a nudo. Ho fatto vedere di me solo quello che volevo. Il mio cognome è orgoglio e peso. Onore e sofferenza. Dignità anche quando soffri.

 

Eccola qui, via Arati. Fermo la macchina all'angolo, al numero 24, dico a Lollo di non muoversi e di chiudersi dentro con la sicura, e scendo con il cellulare in mano. Voglio fotografare ogni mattone, ogni finestra di quella casa al primo piano. Voglio fotografare ogni minuto della mia vita fra quelle mura. Il terrazzino di mattoncini rossi è sempre lì. Ci rivedo, come se ce l'avessi davanti in quel momento, papà che gioca con Giulia. Papà che abbraccia mamma. Lola sdraiata a prendere il sole. Paola che fotografa me e papà vicini a Giulia nel giorno della sua prima Comunione. Comincio a scattare le prime foto.

 

Torno verso la macchina, Lorenzo ha abbassato il finestrino. "Vedi, amore? Lì c'era la cameretta di tua mamma, l'altra finestra era camera mia, e lì sotto, dove c'è la finestra più piccola, c'era il mio pensatoio." "Il tuo pensatoio???" "Sì, era una scrivania rossa dove, mentre tua mamma dormiva, scrivevo le interviste per “Gioia”." E dove, ma questo non gliel'ho detto, mi arrivavano le telefonate del mio amico della notte.

 

A proposito del mio amico della notte. Mi giro verso il bar d'angolo, e mi accorgo che c'è ancora la scritta “SPARTACO”. Il bar dove facevo colazione con il caffè prima di andare al giornale, ma soprattutto quello dove mi faceva le poste Fabrizio, la sera, per convincermi a uscire con lui. Rimaneva un'infinità di tempo appoggiato contro il muro, vicino alla sua Vespa, con l'espressione imbarazzata di chi sta pensando “Ma io che ci faccio qui? Tanto quella a mangiare i cornetti caldi con me non ci verrà mai”. Ripeto a Lollo di non muoversi dalla macchina, e ricomincio a scattare foto su foto. Voglio che le foto mi riportino indietro nel tempo, che mi restituiscano la mia vita, giusta o sbagliata che sia stata, voglio che rimangano impressi sul cellulare i volti delle persone che ho amato, gli occhi, gli abbracci, la mia Dyane beige parcheggiata davanti al cancello, le corse che facevo ogni mattina per andare a prendere l'autobus per via Bissolati, per andare al lavoro. Scatto una foto alla finestra del soggiorno da cui la sera aspettavo papà. Lo rivedo arrivare in borghese per non essere riconosciuto dai brigatisti rossi che avrebbero potuto aspettarlo anche sotto casa mia. E poi risento lo stridio delle gomme della sua scorta, quelle poche volte che si faceva accompagnare da loro. Sportelli sbattuti, un uomo a ogni angolo della strada. Spartaco che controllava tutto dal suo bar. E papà che si infilava di corsa nel cancello, saliva la prima rampa di scale e trovava sul pianerottolo Giulia che lo aspettava con le braccia tese.

 

Voglio risentire il profumo di mia madre, “Femme”, e rivederle al collo la sua collana di perle. Voglio rivedere, nelle foto che sto scattando, anche i miei giorni belli e incasinati. Anche i giorni più duri, fatti di impotenza e disperazione. Voglio rivedermi, giovane e con il cerchietto di velluto nero fra i capelli, affacciata alla finestra della cucina, mentre guardavo gli alberi della strada, che in primavera diventavano tutti rosa. Voglio riascoltare le canzoni e il suono delle stoviglie dagli appartamenti vicini. Voglio tornare a prendere il caffè al bar con in mano sacchetti della spesa dei negozietti sotto casa, non con quelli di un qualunque supermercato. Dove trovo tutto quello che voglio, ma dove nessuno ti rivolge la parola, a nessuno puoi chiedere un consiglio. Scusi, dove lo trovo lo stracchino? Lì in fondo, sulla sinistra. Senza un sorriso, una chiacchiera, un come sta, signora?

 

Voglio, fortissimamente voglio, tornare a vivere in quella casetta di mattoncini rossi. Il simbolo della vita che avrei voluto continuare ad avere. Una casa semplice, di un quartiere che ha ancora un cuore, Monteverde. La continuo a guardare e a fotografare. Ridammi la vita di allora, ti prego. Perché la vera Rita non è mai stata quella che vive nell'attico di Vigna Clara. Quella dei servizi fotografici nella casa tutta rossa e arancio con vista su Roma. Io sono questa, la Rita di via Arati, ai Colli Portuensi. Sono figlia di un Carabiniere, sono rimasta la figlia di un Carabiniere, e non me ne sono mai dimenticata. Ho ancora addosso i sacrifici dei miei per farci studiare tutti e tre, il calore della cucina con mamma che faceva i salti mortali per metterci nel piatto qualcosa di diverso ogni giorno, ingegnandosi con ingredienti che costassero poco. Le case dove abitavamo erano case di caserma, che non erano mai nostre, non le potevamo mai scegliere, case dove erano passate prima di noi altre famiglie, con altre storie.

 

Quante volte, in tutti questi anni, ho sentito il rimpianto di non aver potuto regalare a mamma e papà un viaggio, una vacanza in un bellissimo albergo davanti al mare, qualcosa solo per loro, che li facesse sentire felici. Un dono d'amore per ringraziarli, in minima parte, per tutto quello di cui si erano sempre privati per noi. Per darci il nostro futuro, che oggi è il nostro presente.

 

Mentre penso a loro, un magone mi chiude la gola. Continuo a scattare. Come se a ogni scatto qualcuno mi restituisse un pezzo della mia vita. Lollo mi segue con lo sguardo dal finestrino della macchina, non so cosa stia pensando, a parte che sua nonna non è del tutto normale. Ma questo l'ha sempre saputo. Mentre gli dico di avere pazienza ancora un minuto, che poi andiamo a mangiarci un gelato da Tony, il più buono di tutta Roma, escono dalla porta del bar Spartaco e sua moglie Mirella. "Rita, ma sei tu, ma che ci fai qui?" Non li vedo da trentatré anni. E con loro è un abbraccio infinito, di lacrime e affetto mai passato, di tante cose vissute insieme, di ricordi veri, non condizionati dal mio “personaggio”. Loro mi hanno conosciuta quando scrivevo, non quando ero quella della tv. Dentro mi si stanno finalmente sciogliendo tanti nodi. Spartaco e Mirella c'erano, con il loro bar aperto, anche quando sono rimasta tutta la notte accucciata sotto la doccia del bagno, quel 3 settembre dell'82. Eccola, la finestra del bagno. Quell'acqua non mi ha mai tolto la pece nera che avevo nel cuore. Ha ghiacciato la mia vita, me l'ha cambiata per sempre.

 

Chissà chi ci abita, adesso. Chissà se lo sanno che in quella casa, fra quelle mura, ci sono stati il generale dalla Chiesa e Fabrizio Frizzi. Che lì dentro c'è stato l'amore. E che ci è vissuta una ragazza, io, che non si è mai arresa. Con la sua bambina e un cane.

 

Chi è oggi Rita? Me lo domando spesso. Una donna che ha avuto tanto, ma che quel tanto l'ha dovuto pagare con penali altissime. Una donna che qualche volta si sente sola, perché la vita ha scelto per lei. Ma tanto, non serve contrastarle le scelte della vita, vince sempre lei. Come non serve contrastare le rughe. Me le tengo così come sono. I dolori sono stati tanti, quelli non si cancellano con qualche punturina. A volte, quando mi guardo allo specchio alla mattina, e mi vedo un po' stropicciata, penso pazienza, la vita mi ha segnata, ma le persone che mi vogliono bene mi accettano anche così. Vedono oltre. Però vorrei ancora un abbraccio, perché la mia avventura in mezzo agli altri non è finita e rimarrò innamorata dell'amore per le poche o tante estati che mi restano. A un'emozione non rinuncerò mai. Ho imparato anche questo. Il sorriso schiaccia il dolore. Il sorriso è forza.

 

Lorenzo si è stancato di stare seduto in macchina e mi viene vicino. Ci diamo il cinque, guai a fargli una carezza in pubblico, ormai si sente grande. Lo guardo, l'amore mio. Quanto dolore nascosto deve avere dentro, anche lui. È forte, Lorenzo, a volte faccio fatica a ricordarmi che ha solo 11 anni. Per lui voglio continuare a essere, anche a novant'anni, la nonna de Il tempo delle mele. Truccata, creativa, dissacrante, e perennemente alla ricerca del fidanzato “giusto”. Fallo, Rita, piangi, butta fuori tutto quello che hai dentro, con rabbia, con dolore, ma con rispetto per te stessa. Tanto, nel limbo, ci siamo passati tutti. Apri la porta dell'inferno, ma anche quella del paradiso, perché hai attraversato tutti e due. Sei stata anche tanto felice. L'amore degli uomini che hai amato, di Giulia, quello della tua famiglia, dei tuoi nipoti, dei tuoi fratelli. Il successo nel tuo lavoro, il bene immenso del tuo pubblico, e dei tuoi amici. Non trattenerle più le lacrime. Quelle rappresentano il mondo che hai dentro. Che solo tu conosci.

 

Guarda che ce l'hai fatta, Rita, devi essere orgogliosa di te, sei ancora qui che vuoi imparare il tango e il flamenco. Che ti commuovi quando senti cantare Casta Diva da Maria Callas, perché ti ricordi le litigate con tuo padre che preferiva la Tebaldi. Che balli in camera da sola, quando ti guarda solo Pedro. Che sogni sempre un uomo che ti porti una notte a dormire in un faro. Ti salvi sempre, Rita. Malgrado tutto.

 

Porto Lorenzo al bar, lo lascio in compagnia di Spartaco per qualche minuto, e torno sotto le finestre di casa. Arriva finalmente l'onda della mia tempesta imperfetta. Mi travolge, con tutta la forza dei ricordi. E piango. Rivoglio indietro la mia vita, rivoglio indietro tutte le persone che ne hanno fatto parte, voglio risalire la rampa di scale fino al primo piano, e ritrovare la Rita che sta guardando, sdraiata sul divano, con le finestre aperte e le canzoni dell'estate dell'82, il film con Alain Delon. Ma questa volta lo vuole vedere fino alla fine.

 

Ho fatto a pugni con il dolore, ma non mi ha mai messo all'angolo. Non ci è mai riuscito. Mi sono sempre salvata da sola.

 

 

Non ti arrendere mai,

 

neanche quando la fatica si fa sentire,

 

neanche quando il tuo piede inciampa,

 

neanche quando i tuoi occhi bruciano,

 

neanche quando i tuoi sforzi sono ignorati,

 

neanche quando la delusione ti avvilisce,

 

neanche quando l'errore ti scoraggia,

 

neanche quando il tradimento ti ferisce,

 

neanche quando il successo ti abbandona,

 

neanche quando l'ingratitudine ti sgomenta,

 

neanche quando l'incomprensione ti circonda,

 

neanche quando la noia ti atterra,

 

neanche quando tutto ha l'aria del niente,

 

neanche quando il peso del peccato ti schiaccia.

 

Invoca il tuo Dio, stringi i pugni, sorridi…

 

e ricomincia.

 

PAPA SAN LEONE MAGNO

 

 

Mentre la vita mi prendeva a pugni, io prendevo a pugni lei. L'importante era rimanere in piedi. Non so se ho vinto io, i lividi ci sono, ma non mi sono mai fatta mettere all'angolo. Vi amo, Giulia e Lollo. Vi amo, Nando e Simona. Amo i ricordi e la grande forza di tutta la nostra bellissima famiglia. Grazie all'amore dei miei cani. Grazie alla musica e al mare. Grazie a “quelle” barche che hanno già affrontato l'oceano.

 

Rita Dalla Chiesa - Mi salvo da sola
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