Dedicato alle onde della mia vita,

che mi hanno sempre aiutata

a tornare a riva.

 

 

Ormai è un'ora che sto qui sotto la doccia. Accucciata a terra. L'acqua è bollente. Mi tengo le ginocchia con le braccia, la testa sulle gambe, e non ho nessuna voglia di rialzarmi. Il buio dentro. Un buio nero, come pece calda sul cervello. Ci si può addormentare sotto la doccia? Magari, se mi addormento, quando mi sveglio l'acqua si è già portata via tutto. Mi ha lavata e disinfettata. E mi restituisce la Rita di ieri, di solo poche ore fa. La Rita casinista con il suo mondo incasinato, imperfetto, ma non ancora diventato inferno.

Ieri. Era solo ieri… Fa caldo, le finestre sono aperte sulla serata romana fatta di chiacchiere, rumore di stoviglie, voci di ragazzi per la strada e le canzoni dell'estate che arrivano dai palazzi di fronte. Storie di tutti i giorni… Abito a Monteverde, in via Arati 24. In una casa al primo piano, dove c'è spazio solo per me, mia figlia Giulia e Lola, il nostro cagnolone che sembra un pastore tedesco. L'abbiamo trovato anni fa legato a un palo nei pressi dell'aeroporto di Torino. Amo questo quartiere. Fatto di gente vera, che magari non è nemmeno andata in vacanza, tanto a un isolato di distanza abbiamo il verde di Villa Pamphilj. C'è la vecchia Roma, qui sotto. Quella che preferisco. Il bar di Spartaco e Mirella, dove vado a fare colazione tutte le mattine, il fruttivendolo, la lavanderia, il panettiere che vende un po' di tutto, e un omino che aggiusta le scarpe dietro l'angolo della strada. Una specie di paese. Mi ci sento protetta. Una Domenica bestiale. Mi piace Fabio Concato, ma non mi piacciono le gite al lago, mi mettono sempre un po' di tristezza. Scatenano la mia claustrofobia. Quella del lago è acqua chiusa in un pozzo, non è acqua viva, non è aperta come quella del mare. Sono sdraiata sul divano del soggiorno, in pareo e a piedi nudi, a guardare un film su Rete 4 con Romy Schneider. Bella lei e bello Alain Delon. Anche se io preferisco gli uomini un po' più stropicciati. Me lo ricordo nella Prima notte di quiete, mentre camminava sul molo del lungomare di una Rimini invernale, nebbiosa. Barba lunga di tre giorni, aveva addosso un maglione a collo alto e un vecchio cappotto cammello. Quel cappotto non se lo è mai tolto, dalla prima scena all'ultima. Non deve aver fatto molti sforzi la costumista del film, per cercargli i vestiti. Mi ero quasi innamorata di lui. Poi, tanti anni dopo, l'ho conosciuto a “Scommettiamo che…?”. Sciarpa di seta bianca sulla giacca dello smoking, e una rosa rossa in mano che mi regalò alla fine della trasmissione. Quando dopo “Scommettiamo” siamo andati tutti a cena da Dante, il ristorante degli artisti aperto fino a tardi, ricordo di aver pensato, mentre lo vedevo mangiare davanti a me, che in fondo era un uomo come tanti. Più affascinante di altri, sicuramente. Ce ne fossero. Ma pur sempre uno che si metteva il tovagliolo al collo per non sporcarsi con il sugo degli spaghetti. Squilla il telefono: "Rita sei a casa? Stai bene?". È il nonno paterno di Giulia, da Capri. L'ho mandata a passare qualche giorno di vacanza dai miei ex suoceri. "Sì, certo che sto bene, ma Giulia? Le è successo qualcosa?" "No, no, volevo solo sapere come stai e se Roberto è lì con te." "No, Roberto non c'è e non so dove sia." Strana domanda, penso. Il papà di Giulia e io siamo ormai separati da anni, e lui vive da un'altra parte. Riattacco e torno a guardare la tv con un piccolo disagio dentro, che non riesco a identificare. Il telefono squilla un'altra volta. "Ciao, Rita, che stai facendo?" È Paolo, caporedattore del Tg2. Noi due abbiamo una storia di affetto adulta, pacata. Mi sta insegnando a guardare la vita da un'altra prospettiva. La sua. È un intellettuale di sinistra che vorrebbe che io fossi meno di destra. Ci siamo conosciuti a una cena e mi ha colpita la sua forte onestà intellettuale. Vive al Ghetto, nella casa di proprietà di Isabella Rossellini che, nel frattempo, si è trasferita a New York dopo “L'altra domenica”. La stessa casa dove, anni dopo, si trasferirà Mara Venier, una delle mie più care amiche. I giri strani della vita. "Perché non spegni la televisione e andiamo a mangiarci un gelato?" "Ma scusa, fra poco non c'è l'edizione di mezza sera del Tg2?" "Non ti preoccupare, rimane Mario in redazione. Tu prendi la macchina e ci troviamo all'angolo di via Teulada." Decisamente c'è qualcosa che non mi torna e non mi piace. Che comincia a farmi stare davvero male. Una sensazione strana. Paolo non molla mai il suo lavoro, quante volte siamo andati a mangiare alle 23, dopo la messa in onda del telegiornale. Mi rivesto, prendo le chiavi della mia vecchia Dyane beige, comprata di seconda mano, proprio perché era targata Palermo, e scendo.

La frazione di un attimo. L'attimo che ha fermato la mia vita. Guardo il cielo prima di aprire la portiera, e “sento” qualcosa che mi si stacca dal cuore per arrivare alla pancia. Lo “sento proprio”, fisicamente. E dico, incazzatissima, a mia madre: “Mamma, perché non l'hai protetto?”. Comincio a guidare senza rendermi conto delle strade che percorro. L'Olimpica, via Gregorio VII, piazzale degli Eroi. Per fortuna è sera e non c'è il solito traffico. È un tragitto che conosco a memoria. Mi danno fastidio i fari delle altre macchine, ho dimenticato gli occhiali a casa. Penso alla telefonata, del tutto inaspettata e finalmente liberatoria, che mi è arrivata stamattina alle 11 in redazione. Papà. "Ciao, amore, come stai?" Non lo sento da Ferragosto. Abbiamo litigato perché ho preferito mandare Giulia a Capri dagli altri nonni, e non a Palermo da lui. L'ha presa malissimo. Sicuramente pensa che sia stata una mia ritorsione di gelosia nei confronti di Emanuela. Si sono sposati due mesi fa, a Trento, nel castello di Vittorio Staudacher, un nostro amico di famiglia. Nella chiesetta del borgo antico eravamo in pochissimi. Alcuni amici, la famiglia Setti Carraro, uno dei fratelli di mio padre, zio Romeo, e io. Nando e Simona hanno preferito non venire. Li ho capiti. Non era facile neanche per me. Mi sembrava di assistere a un film dove il protagonista era una persona che non era mio padre. Ma ero stata io, in qualche modo, a dargli il “via libera” su Emanuela. Le foto del loro matrimonio, quelle uscite su tutti i giornali, gliele ho fatte io. E sono stata sempre io a dirgli, una sera, nella mia casa di Roma: "Guarda che il generale dalla Chiesa non può avere una fidanzata clandestina. O la lasci o la sposi". Un discorso che mi era costato molto, che non sapevo nemmeno se i miei fratelli avrebbero approvato, ma che capivo di dovergli fare. Eravamo nel soggiorno, lui seduto in poltrona con un gianduiotto in mano. Non si aspettava quelle parole, l'avevo preso alla sprovvista, ha rimesso il gianduiotto sul tavolino ed è rimasto in silenzio per un sacco di tempo, guardandomi negli occhi. Avvertivo il suo imbarazzo ma anche una specie di liberazione. Non doveva più nascondersi, non da noi, almeno. È stato difficilissimo accettare che Emanuela prendesse il posto di mamma. Sono convinta che sia quasi contro natura, per dei figli, tollerare che la propria madre, bellissima, amata intensamente per oltre quarant'anni, possa essere sostituita da un'altra donna. Anche se da una ragazza dolce e di classe come Emanuela. Sapevamo benissimo che si erano incontrati in stagioni della vita diverse, e che l'amore dei nostri genitori sarebbe rimasto irripetibile, unico e sacro. Ma mamma non c'era più, e mi ero accorta che papà cominciava a vivere male la sua forte solitudine. Viveva blindato, per motivi di sicurezza, in una stanza piccolissima di una caserma dei Carabinieri sulla Salaria, qui a Roma. Un letto, una libreria con la foto di mamma e un piccolo frigorifero. I suoi Carabinieri gli lasciavano sempre del latte e delle mele, ma non era vita, quella, soprattutto non era giusto che un uomo ancora così giovane, e che viveva in costante pericolo, non avesse qualcuno vicino. Aveva conosciuto Emanuela a una sfilata militare a Padova, lei era una crocerossina, era passata sotto il palco delle autorità e gli aveva regalato una rosa. Per mio padre era stata una ventata di ossigeno puro. Era molto più giovane di lui, ma la cosa non mi aveva minimamente infastidita. A me dell'età non è mai importato niente, ho sempre pensato che l'amore sia amore, punto. Non potevo rinunciare alle mie idee solo perché si trattava di mio padre e la cosa mi toccava da vicino. Per questo, dopo un anno che si frequentavano di nascosto, quella sera ho voluto farlo riflettere. Volevo che tornasse a essere un po' più sereno.

Certo, vedere Emanuela, a Ferragosto, in quella che era stata la casa di campagna dei miei nonni materni, casa che avevano ristrutturato mamma e papà insieme, a noi figli aveva creato qualche problema. Soprattutto a me, che sono notoriamente una iena gelosa e possessiva. Mi rendevo conto delle mie contraddizioni: prima avevo aiutato papà a capire i propri sentimenti, lui si era fidato della mia arrendevolezza, si era sposato, e adesso ci soffrivo e ci stavo male. Avevo sbagliato i conti con me stessa e con la mia capacità di assorbire la mancanza di mamma. Ero irritabile, nervosa, ma continuavo a essere gentile, anche se si vedeva lontano un miglio che ero falsa come la famosa banconota del Monopoli. Sorridevo, preparavo la tavola e aiutavo Simona a cucinare. Cioè, cucinava sempre lei, ma io le stavo addosso, pelando le patate e affettando le melanzane, cercando di annientare quel nodo che avevo in gola e che proprio non mi andava giù. Mi sentivo anche in colpa, perché papà, in quei primi giorni da prefetto di Palermo, aveva problemi molto più grandi, e non era proprio il caso di creargliene altri. E poi, comunque, volevo bene a quella ragazza così carina con tutti noi, che si muoveva in punta di piedi nella nostra vita. Cercava di farsi accettare. Probabilmente intuiva il nostro disagio. Mi faceva tenerezza, anche se aveva solo un anno meno di me. La studiavo, e mi ero accorta che non sembrava avere la minima percezione di cosa significasse condividere i suoi giorni con un uomo come Carlo Alberto dalla Chiesa. Il generale dalla Chiesa. Non avvertiva il pericolo reale in cui lui si muoveva, neanche quando papà, una sera, le ha detto a tavola: "Preferirei che per qualche mese tu tornassi a Milano da tua mamma, mi sentirei più tranquillo, non venire subito a Palermo, ho bisogno prima di guardarmi intorno…". Emanuela non aveva capito fino in fondo quello che papà aveva cercato di dirle. Lei aveva un'altra storia, alle spalle. Papà antiquario, i salotti della Milano bene, la vita normale di una ragazza normale. Voleva solo stargli vicina. Non poteva immaginare che l'amore per papà la stava portando verso via Carini. E che arrivati lì, in quell'angolo di strada, si sarebbero fermati insieme per sempre. Non lo poteva immaginare né lei, né nessuno di noi.

Blocco la mia macchina all'angolo del fioraio di piazzale degli Eroi. Guardo un cesto di roselline piccolissime rosa, le ho sempre chiamate le roselline dell'amore, chissà perché. Mi rendo conto che ho paura di arrivare al mio appuntamento con Paolo. In fondo mi ha solo chiesto di andare a prendere un gelato con lui, e allora che cavolo ho? Accarezzo il cagnolino di peluche attaccato allo specchietto, che mi ha regalato Giulia. Una mamma ha sempre le antenne a mille, avverte le cose prima ancora che avvengano. Quando a Ferragosto papà mi ha chiesto di mandargli qualche giorno Giulia a Palermo, per fare compagnia a Emanuela, qualcosa mi ha fatto dire un NO secco. Ho detto NO prima ancora che avessi avuto il tempo di prendere uno straccio di decisione. Un NO che mi è uscito dalla pancia, e che lo ha ferito. Me ne sono accorta da come mi ha guardata. È stato un NO per la vita di Giulia. Quel NO l'ha salvata. Se Giulia fosse stata in macchina con loro, quella sera, avrebbero ucciso pure lei, maledetti assassini. Rimetto in moto e arrivo a piazzale Clodio. I pensieri mi martellano nella testa, a raffica. Come fulmini che entrano direttamente dal finestrino abbassato della macchina. Continuo a pensare alla telefonata di papà di stamattina e a questi dieci giorni in cui non ci siamo sentiti. Nemmeno il 31 agosto, per il mio compleanno. Non era mai successo, è sempre stato lui il primo a farmi gli auguri. Invece, quel giorno, niente. Solo verso sera mi aveva chiamata Emanuela, anche se intuivo che ci fosse pure papà vicino a lei. Zitto, muto, era offeso con me. Una settimana dopo mi sarebbe arrivato il loro regalo, una bellissima camicia da notte in seta rosa. Che è ancora lì, nascosta in un angolo del mio armadio. Nessuno può immaginare cosa significhi aprire una scatola con un grande fiocco turchese e leggere un bigliettino scritto da due persone che non ci sono più. Che tre giorni prima hanno ammazzato. Soprattutto se una delle due persone è tuo padre.

Ma quanto dura questo semaforo di via Teulada? Adesso ho fretta di arrivare, ho bisogno dell'abbraccio di Paolo, del fumo della sua sigaretta, sto pensando troppo. Forse mi sto facendo dei film in testa, ho sempre avuto paura che a mio padre succedesse qualcosa. L'altra notte ho fatto un sogno orribile, ero a Napoli, sentivo sparare, aprivo gli scuri verdi di una finestra e vedevo del sangue in mezzo alla strada. Ma che c'entra papà con quel sogno? Forse davvero non c'è niente di strano, magari Paolo vuole solo mangiare un gelato. E poi papà l'ho sentito stamattina, mi ha telefonato per cancellare il mio NO di Ferragosto. Era allegro. "Buongiorno, signora Rita. Qui è la prefettura di Palermo. Le passo il signor prefetto." "Ciao, papà, finalmente… come stai? Sei più sereno? Ho visto al tg che ieri è venuto giù a Palermo il ministro Formica."

Papà voleva poter controllare i conti sospetti dei mafiosi attraverso la trasparenza nelle banche. Ne aveva parlato con Rino Formica il giorno prima. In quei pochissimi giorni passati tutti insieme nella casa di campagna, vicino Avellino, l'ho sentito più volte cercare di mettersi in contatto per telefono con “quelli” che l'hanno mandato a Palermo. Ministri e vicepresidenti del Consiglio. "Le diamo tutti gli uomini che vuole" gli hanno promesso, "ma lei deve fare con la mafia quello che ha fatto con le Brigate Rosse. Sconfiggerla." Ma come la sconfiggi la mafia, con le scartoffie burocratiche che ti impediscono di farti arrivare i superpoteri di cui parlavano tutti i giornali? Ma quali superpoteri? Dove sono finiti? In quei giorni di agosto si era accorto che lo avevano fregato. E lo ha detto, senza mezzi termini, a Giorgio Bocca, in un'intervista diventata storia. La mafia uccide quando si accorge che ti hanno lasciato solo. Aveva ragione chi mi diceva, quando fu nominato prefetto di Palermo: "Stanno mandando tuo padre a morire". Gli hanno dato in dotazione una scassatissima 500 per correre sul circuito di Montecarlo. I mafiosi in Ferrari, e lui con le armi giocattolo. I mafiosi al sicuro, e lui che va nelle scuole per insegnare ai ragazzi che i loro diritti non passano attraverso le raccomandazioni degli amici degli amici. Gli studenti, da lui, assorbono il valore della legalità, e papà è costretto a fare lo slalom fra i mille sgambetti di chi cerca di bloccarlo. Non piace questo suo rapporto con i giovani. È pericoloso per gli equilibri precostituiti. Non piace neanche agli alti vertici dell'Arma dei Carabinieri. Che, infatti, stasera non si sono visti né sentiti. Ingrano la prima. Papà, nella sua telefonata di stamattina, mi chiede del mio lavoro, si informa sugli esami da giornalista professionista che fra poco devo affrontare. Gli scritti li ho già superati. Adesso devo fare gli orali. Mi dice: "Mi raccomando, “Topino”, studia, non farmi fare brutta figura". Le sue ultime parole della nostra vita insieme. E il tono della sua voce, quel suo “Topino”, è l'unico sorriso che la mente mi strappa in quell'andare verso via Teulada. Con questo affanno sospeso fra cuore e pancia. Arrivo davanti alla Rai, vedo Paolo che mi viene incontro, la giacca tenuta con un dito sulla spalla, ha il viso strano, ma non è che le altre volte sprizzi allegria. Però ha uno sguardo che non mi convince, sfugge il mio. Sale in macchina, e mi accarezza i capelli senza dire una parola. Mi chiede solo: "Vuoi che guidi io?". E io, senza rispondergli, senza dirgli nemmeno un ciao, rimetto in moto e mi dirigo automaticamente verso il luogo di Roma che amo di più. Il Giardino degli Aranci, all'Aventino. Attraversiamo in silenzio i vialetti bui, e poi, affacciata al parapetto sul Lungotevere, con Paolo che non mi perde di vista un attimo, butto fuori tutto il mio dolore. Lo butto sui tetti di Roma, ma non piango. Sono come incapsulata nel silenzio di un urlo che dura ormai da tutta una vita. E senza che nessuno mi abbia detto niente, capisco da sola che hanno ucciso mio padre. Mentre io guardavo un film sdraiata sul divano del soggiorno, mio padre moriva.

Dal comando generale dei Carabinieri, come dicevo prima, nessuno ha avuto la sensibilità di avvertirmi, non una telefonata, né qualcuno che abbia suonato alla porta per chiedermi: "Ha bisogno di qualcosa?". Ma erano i tempi ingloriosi di un ex comandante generale che non aveva mai amato mio padre, e non ne aveva mai fatto mistero. In quegli anni, i comandanti generali dell'Arma arrivavano dall'esercito, che ne sapevano, quindi, di cosa significasse essere un Carabiniere? Per i Carabinieri, quelli della strada, il loro vero comandante era solo mio padre. Avevano passato un'intera vita a lottare e rischiare insieme. E questo dava fastidio ai piani alti. Anche a quelli della politica e della mafia, era evidente.

Le luci delle macchine continuano a passare sotto di me, quanto è bella e marcia questa città, penso, una palude impastata di melma e potere. Ma Emanuela? Come farà, adesso, Emanuela? Mi accorgo di non avere pensato a lei, fino a questo momento. Ho una sofferenza feroce che devo tenere a bada, c'è gente intorno a me, ci sono i turisti con le birre e le loro macchine fotografiche. Per loro è una sera d'estate come tutte le altre. Non posso piangere, non posso urlare. Non ho ancora detto mezza parola, da quando ho fatto salire in macchina Paolo in via Teulada. Mi giro verso di lui: "Emanuela? Come fa adesso Emanuela?". E lui finalmente trova il coraggio di dirmi che hanno ucciso pure lei. Per un attimo la rabbia è più forte del dolore. Adesso mi metto a urlare da qui i nomi di chi li ha fatti uccidere, e voglio urlare così forte che devono sentirmi fino in piazza del Parlamento, oppure spacco tutto, mi butto di sotto, mi graffio, prendo a calci il primo che mi si avvicina. "Non farmi fare brutte figure, Topino, mi raccomando" mi ha detto papà stamattina. Va bene, papà.

Mi faccio riaccompagnare a casa, non sono più in grado di guidare, ma non voglio che Paolo salga. Voglio stare sola. L'acqua della doccia continua a scendere, il telefono e il citofono continuano a suonare, sotto il portone sono arrivati tutti i miei amici. Il bar di fronte rimane aperto, con la saracinesca alzata. C'è pure Paola, la mia amica di sempre. Ma anche sotto l'acqua continua questo urlo silenzioso, che mi spacca il cuore e che non vuole saperne di uscire. La firma a un dolore che non ce la faccio a tirare fuori.

In taxi verso Fiumicino, con i capelli ancora bagnati. Il buio nero della pece mi continua a colare nella testa, sui pensieri. Sono sola, non ho voluto nessuno vicino. La campagna romana è luminosa, chissà se, ripassandoci, ritroverò un giorno, impigliati su quegli alberi, i miei pensieri di questa mattina. Devo tornare a riprendermeli, mi appartengono. Stanotte non mi sono sentita al telefono nemmeno con i miei fratelli. Tanto, cosa avremmo potuto dirci? Hai saputo che ci hanno ucciso papà ed Emanuela? La crudeltà della montagna di dolore che ci è stata scaricata addosso la possiamo capire solo noi. La possiamo solo vivere in solitudine. Ognuno a modo proprio. Anche se non c'è un “modo”. Non c'è nessun “modo”, quando ne sei stato schiacciato, per affrontare una sofferenza del genere. Che ancora non sei riuscito a incanalare. Ti toglie il respiro e aspetta di esplodere.

"Buongiorno, vorrei un biglietto per Palermo, per favore." L'aeroporto è pieno zeppo di gente con le telecamere, macchine fotografiche, riconosco da lontano molti colleghi della carta stampata. "Mi spiace, signora, il volo è già pieno, non c'è più un posto libero. Vanno tutti a Palermo. Ieri sera hanno ucciso il generale dalla Chiesa." Ancora quello stacco fra cuore e pancia. Ma io quel biglietto devo trovarlo a tutti i costi. Voglio andare da papà. Ma sono una che non sa chiedere, non l'ho mai saputo fare. Basterebbe dire la prego, mi aiuti, sono la figlia, devo arrivare anch'io a Palermo. Perché dirlo significa la deflagrazione della verità. Significa ammettere che è vero, che papà non c'è più. Lì, al banco Alitalia, non conosco nessuno. Non c'è nemmeno un Carabiniere da cui farmi aiutare. Non so come fare, non mi va di passare davanti agli altri. È come se mi vergognassi del mio dolore. Ancora una volta, la voce mi esce da sola. "Per favore, sia gentile, mi stampi il biglietto, il generale dalla Chiesa “è” mio padre." “È”, non “era”. Uso il presente. Ecco, l'ho detto, e immediatamente mi si crea un muro di silenzio intorno. Mi guardano tutti. Esattamente quello che non volevo. Non voglio fare pena a nessuno. Poi me la vedrò io, con me stessa, quando sarò sola. Insieme al rispetto e al dolore che leggo nei loro occhi, mi allungano finalmente il biglietto. 110.000 lire. Ho 34 anni, una bambina, un cane, faccio praticantato in un settimanale femminile, e ho, in mano, un biglietto aereo per andare incontro a un mostro che mi porterò poi dietro per tutta la vita. Ma in questo momento ancora non lo so. Qualcuno mi si avvicina e mi abbraccia forte, a lungo. Un abbraccio denso, un profumo di famiglia. È Maria Giulia, mia cugina, la figlia della sorella di mia mamma. Abita a Palermo, fino a stanotte era in vacanza in Toscana con Stefano, suo marito. Non ci diciamo niente. Abbiamo lo stesso biglietto per lo stesso volo e lo stesso dolore. Camminiamo tenendoci per mano. Ma lei, almeno, riesce a piangere. Gli spiragli di qualche ricordo cominciano a premere sulla bolla di disperazione e incredulità nella quale mi muovo.

L'aereo decolla. “Dai Rita, dai. Ce la devi fare, devi essere forte, ti stanno solo raccontando un sacco di balle, papà ‘è' vivo, e ti sta venendo a prendere a Punta Raisi, con la sua A112.” Eccola, la sua A112. È sulla prima pagina del giornale che lo sconosciuto davanti a me sta leggendo. La stessa foto che c'è in prima pagina sugli altri quotidiani che tutti i passeggeri stanno sfogliando. Allora non è vero che papà “è” vivo. L'hanno ucciso davvero, quei maledetti bastardi. Mentre lui parlava al telefono con me, ieri mattina, e mi chiamava Topino, degli esseri immondi senza palle e senza cervello stavano decidendo di cancellarlo dalla sua e dalla nostra vita. Mi faccio prestare un giornale. Pesa fra le mie mani come il dolore che provo. Papà mio… Come vi hanno ridotti. Il suo corpo è riverso su quello di Emanuela, il suo viso è devastato dal sangue, lo stesso sangue che mi si sta ghiacciando nelle vene, non sembra nemmeno più lui, i vetri della macchina sono tutti in frantumi, la mano di lei è abbandonata fuori dallo sportello. Con il suo orologino al polso. Faccio fatica a non urlare. “Bastardi, pezzi di merda, non siete uomini d'onore, siete solo dei poveracci. Siete solo una manovalanza sottopagata. Siete il niente, contro il tutto che c'è in quella macchina. E che ci sarà per sempre. Mentre voi potreste essere fatti fuori anche domattina. Lo sapete, vero? Da quello stesso potere che adesso ride, brinda, nel carcere dell'Ucciardone. Ma c'è anche chi ride e brinda seduto sulle poltrone rosse, a Roma. Avete dormito, stanotte? Se esiste un Qualcuno vi deve fulminare. Dovete rimanere anche voi schiantati a terra. Subito. Anche se state abbracciando vostro figlio o vostra madre. Perché io e i miei fratelli nostro padre non lo riabbracceremo più. Ed Emanuela non potrà più essere abbracciata da sua madre e da suo padre, dai suoi due fratelli.”

Cresce la rabbia, l'impotenza, il non sapere se negli ultimi momenti, mentre gli spappolavano la faccia, papà ed Emanuela hanno avuto paura. Se hanno sofferto. Le moto che li seguivano hanno stretto la macchina verso il marciapiede. Quindi se ne saranno accorti. Guidava Emanuela, povera creatura. Con il suo vestitino a fiori che avevamo comprato insieme a Milano. E dietro di loro la macchina dell'agente di scorta, Domenico Russo. È ferito gravemente, scrive il giornale. Dopo dodici giorni, giorni di tentativi inutili per salvargli la vita, il 15 settembre un'altra famiglia crollerà nel nostro stesso dolore. Ecco perché mio padre non ha mai voluto la scorta. Nemmeno quando combatteva contro le Brigate Rosse. Non ha mai voluto mettere a rischio la vita dei suoi uomini, lui. Lui che la sua la rischiava davvero. Quanta gente inutile la pretende, oggi, la scorta? Più uomini di scorta hanno e più si sentono importanti. È il solo modo per loro di sentirsi qualcuno, per dire al mondo “Guardate, ci sono pure io”. Non sospettano neppure, nella loro arroganza, che al mondo, di loro, non gliene importa niente.

Riguardo la foto con la A112. Mi sento proiettata in una dimensione da sala operatoria. Asettica. Non posso provare emozioni, non adesso, almeno. Devo riflettere. Perché, per esempio, nessuno ha buttato un lenzuolo da un balcone per coprire quello scempio? Tanto lo so che eravate tutti a spiare dietro le persiane chiuse. Lo fate da sempre, qui in Sicilia. Neanche il coraggio di affacciarvi alla finestra, avete avuto. La pietà per due persone devastate dai proiettili ve la siete ricacciata in gola. E magari domani avrete pure il coraggio di andare a pregare in chiesa. Puzzate di ipocrisia, come certi democristiani, che vanno a messa tutte le mattine, e che sono orgogliosi delle loro mani sporche. E la gente che non lo sa gliele stringe pure, quelle mani. Vergognatevi, non avete lasciato a due persone perbene nemmeno la dignità nella morte. Sono lì, sotto gli occhi di tutti, sotto i flash dei fotografi, vi piacerebbe vedere vostra madre e vostro padre in quelle condizioni, pezzi di niente che siete?

Comincia la fase di atterraggio. So che, una volta che il carrello toccherà la pista, niente sarà più come ieri sera, prima della telefonata di Paolo. C'è caldo, mentre scendo la scaletta. Mi arriva una zaffata del profumo forte e buono del mare di Punta Raisi. Quante corse in macchina, da ragazza, su questa strada che porta a Palermo. Quante ginestre raccolte, quanti Rita Pavone e Al Bano e Fausto Leali ascoltati nel mio mangiadischi azzurro. Questo nostro amore, Nel sole, A chi. Canzoni e amore. Mario, il mio primo grande amore. "Perché sei arrivata così tardi? Ti ho detto mille volte che alle otto devi essere a casa." "Scusa, papà, si è rotto lo spinterogeno della macchina di Mario." Non ho mai saputo cosa fosse uno spinterogeno. E non lo so nemmeno adesso che sono in macchina con Maria Giulia per raggiungere Villa Whitaker, sede della prefettura. La prima persona che vedo, entrando nella camera ardente, è mio fratello Nando. È stravolto, ha gli occhi gonfi dal pianto, dallo strazio. Davanti a noi, due bare. Su una il berretto da crocerossina di Emanuela, sull'altra, quella di mio padre, vedo la corona della Regione Siciliana. Chi ce l'ha messa? Con quale coraggio? Succede tutto in un attimo. Acchiappo con tutte le mie forze la corona, e la butto fuori dalla porta, in corridoio. “Che c'entra la Regione Siciliana con mio padre? L'hanno ammazzato qui a Palermo, da quando era arrivato proprio voi gli avevate fatto il vuoto intorno. Ieri sera era seduto dietro quella scrivania, la vedete? Era in questa stanza, era vivo, lo sapete che significa essere vivi? No, voi siete morti da sempre, quando si è proni davanti alla politica e al potere ci si dimentica di essere liberi. Quella corona vi rappresenta, io non vi voglio.”

Arrivano due ufficiali dei Carabinieri, e i soliti zelanti dirigenti delle istituzioni. O forse è gente dei Servizi? Tentano di farmi ragionare. Io sono calmissima. Sono loro che devono temere me. Capisco che, in questo momento, c'è chi, in quella stanza, giornalisti compresi, vorrebbe vedermi perdere il controllo. Urlare, piangere, maledire. E invece no, sento una forza d'acciaio, dentro di me. Me la sta dando mio padre. Vado vicino a Nando e gli dico: "Avverti anche Simona, quando arriva. Guai a chi piange. Nessuna soddisfazione per chi ci ha ammazzato papà". Vedo un giovane capitano dei Carabinieri, con gli occhi rossi, che mi segue con lo sguardo. Forse vorrebbe abbracciare me e Nando, ma la sua divisa glielo impedisce. Ci sono regole da rispettare anche nel dolore più profondo. Gli appoggio una mano sul braccio e gli dico: "Per favore, mandi qualcuno di “voi” a casa di papà ed Emanuela. Sulla bara di mio padre voglio il tricolore, il suo berretto da generale dei Carabinieri, e la sua sciabola di ordinanza". Il “voi” significa voi Carabinieri. Voi, nostra famiglia da tutta la vita. Mio padre è morto da prefetto di Palermo, ma è sempre vissuto da Carabiniere. E quello che sto facendo adesso è sicuramente quello che vorrebbe lui. Mi guardo intorno. Fotografo con gli occhi ogni minimo particolare. Gli altri mi si fanno vicini, parlano, mi stringono la mano, alcuni piangono. Faccio “sì” e “no” con la testa, grazie per essere venuti, ma sono lontana, penso ad altro.

Non riesco a girarmi verso la bara. Tanto, lì dentro non c'è mio padre. Non c'è la mia vita vissuta con lui e con mamma che stirava in cucina. Non ci sono le divise a cui lei cuciva gli alamari sulla stoffa. Gli stessi alamari che lui era orgoglioso di portare sulla pelle… Lì dentro non ci sono i nostri trasferimenti in giro per l'Italia. Gli alloggi in caserma dove, se le case erano piccole, i mobili erano sempre troppi, o se gli alloggi erano grandi, i mobili sempre troppo pochi. Mamma era diventata bravissima ad allungare o ad accorciare le tende a seconda dell'altezza delle finestre. Ci sono state case con corridoi così lunghi che potevamo pattinarci dentro. O case così piccole dove noi tre fratelli dovevamo per forza dormire insieme. Tre lettini separati, dove la sera facevamo le gare con le canzoni del “Musichiere”. Oppure ci alzavamo in silenzio, a piedi nudi, per andare ad ascoltare dietro la porta i discorsi dei grandi, e Simona, che era la più piccola, diventava inevitabilmente vittima di scherzi feroci da parte mia e di Nando. Il divano dove i miei guardavano la televisione, tenendosi per mano, fino all'ultimo istante di vita di mia madre. Ci ha seguiti dappertutto, su e giù per l'Italia. Chissà dov'è finito, adesso, quel divano. Ho la sensazione del burrone. Di un vuoto senza fine, dove urti le rocce e tutto si sgretola. Non puoi perdere in pochi anni tutti e due i tuoi genitori e non provare, almeno per un momento, la voglia di andartene con loro. Troppo giovani loro, ma anche troppo giovani noi tre fratelli. Mi ricordo tutto e, nello stesso tempo, vorrei resettare il tempo e me. La memoria sfonda spazi aperti. I ricordi si ammucchiano, il passato non fa male, perché è stato bello. Fa solo nostalgia. I momenti felici sono stati tanti. Adesso c'è solo questo senso di impotenza nel non poter vedere oltre. Davanti a te, papà, capisco per la prima volta il significato del “per sempre”. E del “mai più”.

Niente più alberi di Natale preparati all'ultimo momento perché tu, prima, volevi andare a fare gli auguri ai tuoi Carabinieri e portare il panettone alle loro famiglie. Niente più Nutella mangiata a cucchiaiate senza che mamma se ne accorgesse. Niente più Azzurro di Celentano cantata insieme in macchina. Niente più rose rosa, le tue, per Santa Rita. Niente più giochi a calcetto con i tuoi nipotini, e tu in porta. Niente più patatine fritte. “Patatine fritte”, la nostra parola d'ordine quando mi venivi a trovare a Roma durante il periodo del terrorismo. Parlavamo in codice perché le telefonate avrebbero potuto essere intercettate. "Rita, cosa prepari per cena, stasera? Le patatine fritte?" E io capivo che stavi venendo a cena da me e Giulia, in via Arati, ai Colli Portuensi. Ti aspettavo alla finestra, sempre con la paura che ci fosse qualche brigatista nascosto sotto al portone. E tu arrivavi quasi sempre senza scorta, sulle macchine che a turno ti prestavano i tuoi uomini, compreso il generale Galvaligi. Quanto sei stato male, quando le Brigate Rosse l'hanno ucciso. Ti ho visto piangere, in un angolo del suo salotto. Abbracciato a sua moglie e a suo figlio Paolo. Era uno dei tuoi migliori amici. L'hanno ammazzato nell'androne di casa, facendo finta di andargli incontro per consegnargli un cesto di Natale. E hanno colpito di striscio anche sua moglie. Erano anni davvero senza un senso, quelli. Mi avevi insegnato a guidare guardando sempre nello specchietto retrovisore della macchina. "Se vedi qualcuno che ti segue per più di due isolati, tu vai verso il primo comando dei Carabinieri o della Polizia di zona, e fermati lì."

Avevamo ricevuto minacce pesanti, in quel periodo. Soprattutto Maria Simona che, in una notte, si era dovuta trasferire da Torino, dove abitava con Carlo e Giuseppe, a Catanzaro. E Nando, che aveva nei suoi amici e nei suoi studenti della Bocconi una rete di protezione continua. Grandi, gli amici di Nando a Milano. Rischiavano pure loro, ma gli ideali, a differenza del potere, ti rendono libero. Invece, io, ero sola. La mattina, prima di andare al giornale, accompagnavo Giulia a scuola. L'accompagnavo a piedi. Solo parecchio tempo dopo ho saputo che spesso, qualche passo dietro di noi, ma non me ne ero mai accorta, c'era anche un tuo Carabiniere, a proteggerci. Mi ci vorrebbe in questo momento, quel tuo Carabiniere vicino, papà. Perché adesso non c'è più niente.

Niente, papà. Non c'è più niente. Cosa è rimasto di noi? Non ci lasciare anche tu, già ci ha lasciati mamma, sei tu la nostra famiglia. Con la coda dell'occhio vedo una giornalista che si avvicina alla mamma di Emanuela, che è seduta su una sedia, distrutta, disfatta dalle lacrime e dal dolore. "Cosa prova in questo momento, signora?" Mi avvento su di lei, l'afferro per un braccio e le dico, strattonandola: "E tu, come ti sentiresti se avessi perso ieri sera una figlia di 33 anni, ammazzata in quel modo in macchina?". Interviene Nando, mi mette un braccio sulle spalle e mi porta via. Capisce che sto per esplodere, che non ho più la forza di azionare i freni inibitori. Che non me ne frega niente di niente delle più elementari forme di autocontrollo e buona educazione. Quella imparata a casa e quella imposta dalle suore. Mi ci hai mandata tu, a scuola dalle Marcelline, papà. Niente di più lontano dal mio carattere. Io avrei preferito continuare ad andare al Parini. Erano gli anni delle contestazioni, della “Zanzara”. Ma meglio mandarla dalle suore, devi aver pensato, con il carattere che si ritrova. Almeno limitiamo i danni. Perché, anche se sono cresciuta in caserma, in mezzo ai carrarmati e all'ordine, sono sempre stata una ribelle. Faccio fatica ad accettare le regole se non coincidono con il mio senso della libertà. E contesto, fin da quando ero piccola, ogni forma di imposizione e ipocrisia. Lo sai. Mi sento soffocare. Ne abbiamo parlato tante volte. Io ti chiedevo di poter fare una cosa, tu mi rispondevi no, e io insistevo: "E perché no?". E finché non mi spiegavi il tuo no io non mollavo.

La mia separazione da Roberto, per esempio, ti ha fatto soffrire, so di averti dato un dispiacere. Ma io non ero nata per fare la vita della signora che vive in caserma. Ero giovane, carina, ma praticamente guardata a vista, h24, soggetta al sospetto ogni volta che uscivo da sola. Per quel poco che ho resistito mi sembrava di vivere agli arresti domiciliari. Non facevo niente di male, volevo solo vivere, guardare la vita da vicino. Eppure ho amato tanto la vita fatta con te e mamma, papà. Ai circoli ufficiali con voi ci venivo, eccome, e mi divertivo pure tanto. Ma con voi ero la figlia, non la moglie. Le responsabilità e i doveri di una moglie sono diversi. E Roberto non meritava una moglie che aveva sempre voglia di scappare. Anche lui è un ufficiale dei Carabinieri, una persona seria, è il papà di Giulia, gli voglio un bene immenso, anche se mi sono voluta separare. E allora perché me lo sono sposato, se sapevo che non sarei mai stata la classica moglie “istituzionale”? Perché ero una ragazzina, me ne ero innamorata, aveva il fascino del pilota di elicottero. Con lui mi facevi uscire senza fare troppe storie, ti fidavi. E poi suonava alla chitarra le canzoni napoletane. Era romantico, e anche un bellissimo ragazzo. Un po' poco per decidere di sposarlo, lo so. Ma ero davvero troppo giovane, te l'ho spiegato tante volte, papà. "Anche io ho conosciuto tua madre quando avevo 18 anni e lei 15" mi ripetevi sempre. Ma ogni storia è diversa. Tu e mamma vi siete amati follemente per tutta la vita. Forse, quando ho conosciuto Roberto, non sapevo nemmeno io quello che volevo. Ho solo capito, a un certo punto, che non era giusto farlo soffrire con questa mia continua ansia di andare via, ero terrorizzata dalla mancanza di libertà che c'è nel matrimonio.

Un'ansia che è scoppiata definitivamente un giorno, a Napoli, in casa di sua zia Ninì. Una casa splendida sul mare, con Ischia e Capri sullo sfondo. Quelle case dell'alta aristocrazia napoletana, piene di specchi e di velluti rossi. Eravamo tutti seduti in salotto, con le cugine di Roberto, i nipoti e i miei suoceri. Ma non sentivo niente di quello che stavano dicendo, guardavo nel vuoto, e pensavo: “Ma che c'entro io con tutti loro? Che ci faccio qui?”. Non a caso, una zia di Roberto, il giorno che ci eravamo sposati, aveva detto in chiesa: "Lei è molto carina. Si chiama dalla Chiesa… E poi?". Come e poi? Forse pensava che avessi altri due cognomi, dopo il mio, come spesso succede nelle famiglie nobili. Tipo dalla Chiesa della Torre di Acquaviva. Alla risposta della mamma di Roberto "si chiama Rita dalla Chiesa e basta" commentò: "Pazienza, fa la sua figura lo stesso". Mio fratello, che era seduto vicino a loro, e aveva sentito tutto, alla fine della cerimonia corse da me per dirmi: "Rita, scappaaa". Nandù, non me lo potevi dire prima? Ormai avevo la fede al dito. Sorrido, pensando a Nando, che studiava alla Bocconi, dormiva in pensionato, mangiava solo scatolette di tonno e fagioli, e per arrotondare la sua borsa di studio andava a vendere fiammiferi allo stadio, durante le partite, o a spalare la neve. E che quando mi veniva a trovare, per risparmiare, si faceva a piedi la strada dalla stazione a casa mia, trascinandosi dietro una pesantissima valigia zeppa di libri. Torno a guardare gli abitanti del salotto, e mi accorgo che mi stanno facendo l'effetto dei pesci nell'acquario. Troppo diversi da me. Non migliori o peggiori, magari ero molto peggiore io. Ma diversi. Poi mi sono vista riflessa in uno specchio, con il mio cerchietto di velluto nero nei capelli, il kilt scozzese, le scarpe basse e un golfino verde bottiglia. Ho guardato la porta d'ingresso, e mi sono detta: “Rita, lì fuori c'è la vita. Vai”. Avevo bisogno di ossigeno, mi mancava l'aria. E pazienza se avrei dovuto fare a meno della casa di Anacapri, anche se per quella però un po' mi dispiaceva, della barca, degli amici dei miei suoceri che giravano con il libro d'oro della nobiltà in mano, le serate al circolo dei Lions o del Rotary. Avrei trovato altri stimoli, avevo bisogno di volare e di guadagnarmi da sola il mio futuro. Mi ero stufata di chiedere soldi a Roberto anche solo per comprarmi un paio di calze.

Tu non ti sei fatto sentire per tre mesi, quando ho cominciato a lavorare per Ferragamo, a Firenze. Te lo ricordi, papà? Avevo risposto a un annuncio su “La Nazione”, una sera in cui avevo più bisogno del solito di mettermi alla prova. Detesto la noia, mi uccide. “Negozio alta moda cerca direttrice, bella presenza, ottime referenze, conoscenza lingua inglese, minimo 30 anni.” Ho scritto subito, bluffando sull'età. E forse anche sull'inglese, scolastico. Avevo 27 anni e non 30.

Stavo azzardando di grosso. Stavo scegliendo una vita diversa anche per Giulia. Me l'avrebbe potuto rinfacciare, un giorno. E forse, qualche volta, è anche successo. Frasi buttate lì, fra un discorso e l'altro, che mi hanno fatto male. Nessun bambino è in grado di accettare serenamente che i suoi genitori si separino. Anche se gli si dice “Noi non smetteremo mai di volerci bene, e, soprattutto, di volere bene a te, che sei e resterai la cosa più importante della nostra vita”. Né è giusto raccontargli tutti i motivi che portano due persone alla separazione. Non li capirebbero. Nel loro piccolo egoismo affettivo, ai bambini, in fondo, non gliene importa niente se i genitori sono infelici. A loro, interessa solo che stiano insieme. "Giulia, amore, papà e mamma sono come un gelato al limone e alla crema. Se li mangi separatamente sono buonissimi tutti e due, ma insieme sullo stesso cono ti fanno venire acidità allo stomaco." Noi adulti, invece, nel nostro grande egoismo affettivo, vogliamo tagliare con tutto quello che ci fa stare male, e non ci fa sentire più a nostro agio.

Aria, respira forte, inspira, fai entrare ossigeno nei polmoni e nel cervello. Ce la puoi fare, hai questa vita, in mano, una sola, scegli. Ma avevo il diritto di cambiare direzione, senza che anche lei potesse decidere? E se le cose non fossero andate come speravo? E se, invece, non avessi lasciato suo padre, fossi rimasta con lui, e le cose fossero poi andate ancora peggio? Non si prendono mai a cuor leggero, certe decisioni, ci sono dietro mesi di insonnia, in cui ti rigiri nel letto combattendo contro te stessa. Anch'io avevo paura di quello che stavo per fare, ero giovane, e avrei dovuto crescere una figlia senza l'aiuto di nessuno, ne sarei stata capace?

A quel punto aumentarono sia i dubbi sia le discussioni con Roberto. Ormai le grandi fragilità del nostro rapporto erano diventate uno scontro quotidiano, scoppiavano all'improvviso, spiazzandomi. Eravamo diversi in tutto. Ma forse quella sbagliata ero io. Io che non accettavo le cose per come arrivavano, che non me le lasciavo scivolare addosso. Io che, mi dicevo, ho il diritto di essere felice e di vivere la vita a modo mio, senza i guinzagli dell'ambiente in cui mi muovo. Io che sentivo di avere le palle per farlo, ma avevo anche il terrore di far soffrire troppe persone. Ero egoista o solo consapevole? In fondo, aver risposto a quell'annuncio di lavoro era anche un modo per rimandare il problema. Volevo essere in grado di mantenere Giulia, da sola, il giorno che fossi veramente scoppiata.

Dopo quindici giorni ecco che arriva una lettera dalla direzione di Ferragamo. Mi danno appuntamento per un colloquio con il capo del personale, e vengo assunta. Panico. Non sarei mai stata in grado, di colpo ho paura, chi me lo fa fare di lasciare la sicurezza di casa mia, la mattina in giro con Giulia aggrappata a una mia mano, e il guinzaglio di Lola nell'altra, colazione in Borgognissanti, passeggiata sul Lungarno, e poi la spesa, il pranzo, un libro mentre Giulia dorme. Una pazza, sto buttando all'aria questa tranquilla aria di famiglia per cosa? Per la tua libertà, Rita. Per la vita che, forse, ti arriverà.

Quella del negozio, dello stare a contatto con la gente, è un'esperienza che mi ha insegnato moltissimo. Oltre che a fare dei pacchetti regalo perfetti. Ho imparato a contrastare la maleducazione delle persone, clienti che umiliavano commessi chinati davanti a loro mentre provavano un paio di scarpe. Che davano del tu e non del lei, dall'alto dell'arroganza dei loro soldi. Che facevano incetta di borse e abiti con la carta di credito del marito o dell'amante di turno. Che tentavano di fregarsi un foulard o una cintura uscendo dalla porta secondaria. Mariti che ci provavano con me mentre la moglie era in camerino a scegliere un vestito. E poi, la cosa più importante, ho imparato a non entrare mai in un negozio cinque minuti prima dell'orario di chiusura. Tipo quelli che entrano anche con la saracinesca mezza abbassata. Perché chi sta al pubblico, sempre in piedi dalla mattina alla sera, e con il sorriso stampato in faccia, anche quando ha problemi di salute o di famiglia, deve poter tornare a casa a un orario decente. Loro non hanno una macchina fuori che li aspetta. Loro sono ostaggio dei mezzi che passano e non passano, e delle ore di attesa nel traffico. Provate a guardare le facce delle persone sedute su un autobus di sera, mentre siete fermi con la vostra macchina a un semaforo. C'è la fatica, disegnata su quei volti. E ci sono le loro storie, i loro amori, le bollette da pagare, i figli che li aspettano per cena, un marito magari inesistente, qualche sogno spezzato, le preoccupazioni, l'amarezza per un'esistenza che avevano immaginato diversa.

Ecco, quella, per me, è stata una grande pagina di vita. Me l'ha cambiata proprio. Tu però, papà, ti ostinavi a non telefonarmi, ma venivi a guardarmi fuori dalle vetrine di via Tornabuoni, mentre lavoravo. Passavi con la macchina e buttavi un occhio dentro. Io me ne accorgevo, ma facevo finta di niente. Non era controllo, il tuo, era amore. E non era orgoglio, il mio. Era la voglia di farcela da sola.

Me lo dirà anche il giudice Falcone, una mattina di parecchi anni dopo. Gli avevamo consegnato i diari che scrivevi a mamma. Avevi cominciato a scriverle dalla sera dopo che se ne era andata. Ti ricordo chino su quel diario, sul tavolo della nostra sala da pranzo. Ti toglievi la divisa, infilavi un gilet, e cominciavi a parlare con lei, attraverso un'agenda. Abituato com'eri a confidarle tutto, non ce la facevi a tenerti parole e amore dentro. Le scrivevi di notte. Le raccontavi le tue giornate, le parlavi di noi, dei tuoi nipoti, le tue preoccupazioni in famiglia e nel lavoro. "Lo sai che tuo padre ti amava molto? Era preoccupato per te. Perché aveva paura che non riuscissi a crescere Giulia da sola" mi disse una volta Giovanni Falcone.

Mentre i ricordi mi premono in testa, cerco di stirare con le dita le piccole pieghe della bandiera che ho tra le mani. Nel caldo torrido di questo 4 settembre, c'è tanta gente che spinge, fuori dalla porta. Molti si asciugano gli occhi, molti fanno ad alta voce nomi e cognomi di chi ti ha mandato al macello qui a Palermo. Altri cercano un contatto, anche solo con lo sguardo, con me o Nando. Simo è rimasta a casa della suocera. Si è sentita male. Mi rendo conto che, in mezzo a tutta questa confusione, ci sono anche gli amici della mia vita precedente al matrimonio, quando tu mi chiedevi regolarmente l'albero genealogico dei ragazzi con cui uscivo. Non te ne andava mai bene uno, papà. Uno che fosse uno. Quelli che piacevano a te e mamma, non piacevano a me. Erano noiosi, troppo perbene. Ma io ero felice, in quei giorni, come forse non lo sono mai più stata dopo.

E pensare che quando ti era arrivata la notizia del trasferimento da Milano a Palermo, l'avevo presa malissimo. Ero cresciuta a Milano, mi ci trovavo bene, c'erano tutti i miei amici, era una città con il mio stesso carattere, l'amavo, amavo pure la sua nebbia, i suoi giardini nei palazzi antichi, la luce al tramonto su San Babila, i Navigli, non avevo nessuna intenzione di lasciarla. E poi, un conto era andare a passare le vacanze a Palermo, un conto era andarci a vivere. Pianti, tragedie, “Lasciami qui”, “Guarda che scappo di casa”, “Piuttosto vado a fare la commessa dal panettiere di via Moscova, ma io da Milano non schiodo”, “A Palermo non conosco nessuno e non voglio conoscere nessuno”.

Era il luglio 1966, quando siamo scesi dalla nave per raggiungere l'ennesima casa non nostra, in caserma. In corso Vittorio Emanuele, davanti alla Cappella Palatina e a Palazzo dei Normanni. Nel cuore del centro storico. Attaccata alla cattedrale. Uno dei posti più belli che abbia mai visto nella mia vita. (Oggi, a quella caserma hanno dato il tuo nome.) Ma questo l'ho capito, e ammesso, solo parecchio tempo dopo. Perché appena arrivati, non facevo che piangere, volevo tornare a Milano, non volevo nemmeno mettere il naso fuori dalla porta di casa, snobbavo tutti, guardavo tutti dall'alto in basso. Come quella che, siccome arrivava da Milano, dalla civiltà, non voleva mischiarsi con un mondo che non le apparteneva. Una vera stronza.

Una sera vi siete talmente arrabbiati con me che mi avete trascinata, quasi di peso, a un cocktail del consolato britannico, su una torre davanti al mare. Avevo un muso lungo come il piroscafo da Palermo a Napoli. Ed è stata quella sera che ho incontrato Giuliana, una ragazza che stava studiando psicologia a Padova. Te la ricordi, papà? La prima cosa che mi ha detto è stata di scendere subito dal piedistallo e di togliermi dalla faccia quell'aria da ragazzina annoiata e viziata. Te la faccio conoscere io Palermo, e vedrai che te ne innamorerai. Ci ha messo tre mesi per convincermi, ma alla fine l'ha avuta vinta lei.

Grazie a Giuliana, nel giro di quei tre mesi avevo già conosciuto tutto il bello e tutta l'ansia che si può nascondere dietro una città come quella. Contraddizioni fortissime che vivevano all'interno del vero centro del Mediterraneo, la capitale della cultura araba e normanna. Ogni casella culturale era al suo posto. Ville antiche, palazzi nobiliari un po' sfatti, da restaurare, ma bellissimi, pieni di fascino e di storia. Vicoli, artigiani, intellettuali veri, scrittori. E ho smesso di rompervi le scatole con il mio ricatto del “Voglio tornare a Milano, qui non resto un giorno di più”.

Il 1967 è stato l'anno più bello, in assoluto, della mia vita. Erano giorni leggeri, fatti di mare e di amici, tanti, a Mondello. Di corse in macchina a guardare da vicino le antenne di Monte Pellegrino. Di notti passate a ballare A Whiter Shade of Pale a Villa Boscogrande, con il profumo dei gelsomini che mi entrava nella pelle. O sdraiata sulla spiaggia, vicino alle cabine colorate, a indovinare le stelle. E anche altre cose che non hai mai saputo. Ma erano tutti amori platonici, tranquillo. E tu che mi dicevi sempre: "Guarda che se torni a casa tardi, poi non esci per una settimana". In ascensore mi toglievo in fretta la solita gonna da suora al ginocchio e, tempo due piani, rimanevo con la minigonna che mi ero infilata sotto di nascosto. Le mie amiche la portavano tutte, ma tu non volevi, inutile insistere, discorso chiuso. Ritardavo, sempre, è chiaro. L'espressione del piantone quando rientravo in caserma la diceva lunga sull'orario. Infilavo piano la chiave nella serratura, mi toglievo le scarpe, e anche se entravo in punta di piedi, Bambù mi sentiva e mi veniva incontro abbaiando. Passavo davanti alla vostra camera da letto, trattenendo il respiro, e vedevo filtrare da sotto la porta una luce che si accendeva, e che poi si rispegneva subito. Eri tu che controllavi l'orologio. E già sapevo che il giorno dopo sarebbe successo un casino. Te lo ricordi, papà?

Eravamo felici. Papà, mi senti? Intorno c'è il delirio. Ma io non guardo nessuno, non voglio sentire frasi di circostanza, non voglio che gli altri si avvicinino a te. Ecco, è arrivato il presidente Pertini, rimane in fondo alla stanza, in silenzio, a capo chino. Io non lo saluto. Eppure gli voglio bene. Rimango immobile vicino a te, con le mani sul tuo berretto, non alzo nemmeno la testa. Signora Rita, venga di là, il presidente le vuole parlare. No, non vengo, mi scusi ma non mi alzo da qui, sono io che non voglio parlare con lui, non voglio parlare con nessuno.

Ne ho visti troppi, di questi rituali, ai telegiornali. Familiari che piangono l'uccisione di un loro caro, e le Istituzioni che abbracciano, consolano, fanno carezze sulla testa dei bambini. No, con me non funziona così, io da loro non voglio niente, sono tutti “complici” di chi ha assassinato te ed Emanuela, papà. Siamo in molti a sapere che tutto questo poteva essere evitato. Ti hanno lasciato solo, mentre tu rimanevi fedele allo Stato. E allora ci resto io, vicino a te. Il tricolore e il tuo berretto da generale sono stati appoggiati, dal capitano dei Carabinieri, con gli occhi rossi, su questa “cosa” di legno che nasconde quello che non hai più. La tua vita. Quella che ti hanno tolta ieri sera. Mi accorgo soltanto adesso che sulla bandiera stridono le mie unghie laccate di rosso. Cerco di nasconderle, mi vergogno. Le mie unghie rappresentano un momento della mia normalità di prima. Ma non c'è più niente di normale, nella mia vita, in questo momento. E mi chiedo se ci sarà mai più qualcosa di normale, per tutto il resto dei miei giorni. Anche questo maledetto smalto rosso. Che non ho mai più messo.

Suona il telefono sulla mia scrivania bianca e rossa comprata alla Upim. Il mio pensatoio, come lo chiamo io, ricavato in un piccolissimo angolo del salotto. Ci sono i giornali, la mia macchina da scrivere, la risma di fogli bianchi, e una poltroncina da regista, anche lei rossa e anche lei comprata alla Upim. Non rispondo. Sto finendo di scrivere un'intervista a Sandra Milo. E devo pure sbrigarmi, perché l'ho registrata a casa sua oggi pomeriggio, e poi sull'autobus devo avere toccato qualche tasto sbagliato, e si è cancellata tutta. Per fortuna ricordo ogni singola parola. Mi affascina questa donna, solo apparentemente svagata, ancora piena di sogni, con una vita dove gli uomini sbagliati sono una costante dei suoi giorni. Mi parla con amore di Federico Fellini, e a me fa tenerezza la complicità sofferta di Giulietta Masina. Domattina, prima di andare al giornale, e dopo aver accompagnato Giulia a scuola, devo ricordarmi anche di andare a fare la spesa.

Risquilla il telefono: "Ciao, sono il tuo amico della notte. Posso farti un po' di compagnia?". Questo non è normale, penso. Ma come gli viene in mente di chiamare una persona all'una e mezzo di notte? "Sono sotto casa tua. Ti va di andare a mangiare dei cornetti caldi?" "No, scusa, non mi va, e poi mia figlia dorme, non posso lasciarla sola." "Allora vado io, tu mi apri il cancello e te li lascio fuori dalla porta. Così ci fate colazione domattina." "No, grazie, un'altra volta." Fra l'altro questo tizio lo conosco solo da una settimana. L'ho incontrato in uno studio televisivo, dove conduce una trasmissione per ragazzi. È buffo, alto, con gli occhiali, ha una testa piena di ricci, e gira in vespa con una borsa di tolfa a tracolla. Ci manca solo lui, con tutti i problemi che ho. La settimana prossima devo scendere a Palermo a parlare con Falcone e Chinnici. Sono passati pochi mesi dai giorni della pece nera sul cervello. E me la sento ancora tutta appiccicata addosso.

I corridoi del Palazzo di Giustizia di Palermo, stamattina, sono invasi dagli odori delle friggitorie vicine. Sono arrivata alle sette, con il traghetto da Napoli. Mi è sempre piaciuto guardare dal ponte della nave la sagoma di Monte Pellegrino che si avvicina. Palermo, la mattina presto, ha la luce liquida e azzurra di un acquarello. Riconosco le strade, i palazzi di via Emerico Amari, le banchine del porto.

Da quel porto, una sera di tanti anni fa, salutai il mio primo grande amore che era stato trasferito in Belgio. Avevo 19 anni, lui si chiamava Mario, ed era un tenente dei Carabinieri, tanto per cambiare. Ci conoscevamo da bambini. Nei miei sogni c'erano il matrimonio con lui e una vita come quella di mio padre e mia madre. Con Mario, forse, non avrei sentito il bisogno di superare la porta di casa per andare a cercare un'altra Rita. Lui ero io. Ma poi, chi lo sa. Quello che non è stato ce lo immaginiamo sempre come vogliamo noi. Bellissimo. Questo nostro amore, di Rita Pavone, era la nostra canzone. Mia sorella, una sera, minacciò di farmi volare il 45 giri giù dalla finestra. Non ne poteva più. Lo mettevo e rimettevo nel mio mangiadischi turchese mentre pensavo a lui e a tutte le ginestre che mi aveva regalato, tagliandole con le chiavi della macchina. Poi, quando mi arrivò una lettera da Bruxelles, in cui mi diceva di essersi innamorato di una tedesca bella come Julie Christie nel Dottor Živago, fu la volta di Al Bano a rischiare di essere buttato fuori dalla finestra da Simona. Dormivamo insieme, lei e io, in due letti vicini e gemelli. Io di notte scrivevo a Mario fiumi di lettere che il giorno dopo non spedivo mai. Scrivevo e piangevo, ascoltando in loop Nel sole. Finiva e la rimettevo. Finiva e la rimettevo. Così per ore intere. Non avrei mai potuto immaginare che, tanti anni dopo, Al Bano sarebbe diventato uno dei miei migliori amici. Ce l'ho ancora, nella libreria, quel suo 45 giri, con la copertina dell'epoca.

Quello di Mario è stato il primo tradimento della mia vita. Ce ne sono stati altri, poi, forse molto più grandi. In cui ho sofferto anche di più. Ma di fronte a quello non avevo armi per difendermi. Ero una ragazzina, mio padre non mi avrebbe mai permesso di andare a Bruxelles da lui, per cercare di fargli cambiare idea. Anche se a Mario voleva molto bene perché era figlio di un suo amico, generale dei Carabinieri anche lui. Ma c'erano le famose regole da rispettare, e per rispettarle io ho perso il mio primo amore. Tutte le sere, quando in caserma suonavano il silenzio, uscivo in terrazza a guardare le antenne di Monte Pellegrino, e pensavo a lui. Era così lontano.

Stavo male, dei miei amici non me ne importava più niente, avevo smesso di uscire, qualunque cosa mi ricordava che con Mario ero stata felice, mi guardavo allo specchio per capire se ero così diversa da Julie Christie. Sì, lo ero, e anche tanto, ma non me ne facevo una ragione lo stesso, che aveva “quella” più di me, che ne sapeva, lei, di quello che ci eravamo giurati io e Mario davanti al mare di Mondello? Solo con il tempo ho imparato, invece, che tutto può succedere, che nessuno è di nessuno, e che nessuno è proprietario dei sentimenti dell'altro.

La nave comincia le manovre per l'attracco. È presto, ho voglia di fare colazione, penso che mi ci vorrebbe un pane e panelle di quelli che mangiavo con i miei amici, per la strada, quando tutto era bello e semplice. Quelle panelle fritte nello stesso olio dove avevano già fritto di tutto. Cavolfiori, melanzane, arancini, crocchette di patate. Un olio schifoso, pesantissimo, un macigno per lo stomaco, ma proprio per questo più buono. Il panellaro ci aggiungeva solo un pizzico di sale e qualche goccia di limone, e ti allungava, con le mani unte e in un tovagliolo di carta, il panino tondo con il sesamo sopra. Lo addentavi e ti bruciavi la lingua per quanto erano bollenti le panelle. Rinuncio all'idea del panino, prendo un caffè al baretto del porto e vado direttamente al Palazzo di Giustizia.

E adesso sono seduta davanti a un uomo dagli occhi profondi e buoni, che ha in mano le agende di papà. E vuole sapere cose che non so, che non ricordo. Circostanze, nomi, date. So soltanto che, in quei diari, c'è l'amore infinito di mio padre per mamma, e la sua disperazione per averla persa. “Dora, amore mio, rispondimi, è la prima volta che ti chiamo e non mi rispondi.” Aveva solo 52 anni, mamma, quando il suo cuore si è stancato di essere sotto pressione per la continua ansia per papà. Quando lui era lontano, lei viveva aspettando le notizie del telegiornale, sempre con la stessa paura. Quella di sentir dire che gli era successo qualcosa. Una domenica pomeriggio di febbraio, dopo pranzo, il suo cuore ha detto basta, e ha smesso di battere. Il vescovo di Torino l'ha definita, durante l'omelia, “una vittima silenziosa del terrorismo”. Nessuna chiesa, per salutarla, troppo pericoloso. Ma una messa nel garage supersorvegliato della Legione Carabinieri. Intorno a lei solo corone sciupate, violate dalle mani degli uomini di papà che dovevano vegliare sulla nostra sicurezza. Volevano assicurarsi che non ci fosse esplosivo nascosto tra i fiori. Qualche tempo dopo, nelle tasche di due brigatisti arrestati a Torino vennero trovati i nomi dei nostri amici che avevano partecipato ai funerali di mia madre. Erano già pronti a colpire di nuovo.

Di mamma non riesco a parlare. Ho come un blocco dentro. Lei è stata una donna, una moglie e una madre immensa. Un sorriso e due occhi neri splendidi. Papà si era innamorato di lei quando avevano lui 18 anni e lei solo 15. Abitavano nella stessa caserma, la Legione Carabinieri di Bari. Un posto magico, sul lungomare. Ancora oggi, ogni volta che ci passo davanti per andare a lavorare a Radionorba, a Conversano, guardo quella caserma, le faccio una foto dalla macchina, e penso che tutto è nato lì dentro. I miei due nonni, quello paterno e quello materno, erano stati trasferiti a Bari nello stesso periodo. Uno con il grado di generale e l'altro di colonnello. Papà, una sera, passando sotto le finestre aperte dell'appartamento di mamma, ha sentito qualcuno che suonava al pianoforte. Si è fermato ad ascoltare, ha riconosciuto Chopin, e il giorno dopo ha chiesto informazioni. In caserma ci si conosce sempre tutti, e mamma non passava certo inosservata, bella com'era. Da quella sera, per mio padre non c'è stata che una donna nella sua vita. Lei, la sua Doretta. Che lo ha aspettato per tutti gli anni della guerra, che gli scriveva due lettere al giorno, e che aveva giurato a santa Rita, la santa delle cause impossibili, che se papà fosse tornato a casa sano e salvo e avessero avuto una figlia l'avrebbero chiamata Rita.

Mamma l'avevo sentita alle 14 di quella domenica pomeriggio al telefono, era felice perché per pranzo, con Simona e Nando, era arrivato anche papà da Roma. Aveva cucinato la polenta. In un solo, piccolo attimo se ne è andata. Neanche il tempo di chiedere aiuto. Era passata in camera da letto a prendere un libro, Radici. Ed è rimasta lì, con la cornetta del telefono buttata sul letto, come se avesse voluto chiedere aiuto al centralino. È pazzesco come siano stati gli “attimi” a portarsi via tutti e due i nostri genitori.

Quando sono arrivata a Torino, con Roberto e Giulia, dopo un lunghissimo viaggio in macchina, ancora speravo. C'era stata solo una telefonata da parte di un collaboratore di papà, mentre eravamo a pranzo a casa di amici, a Roma: "Venite, mamma non si è sentita bene". Ci fermavamo a ogni Autogrill per chiamare casa e avere notizie. Avevo comprato una montagna di gettoni. Non mi aveva insospettita il fatto che a rispondere al telefono non fosse mai papà, o Simona, ma sempre lo stesso ufficiale. Che ci dava sempre la stessa risposta: "C'è di là il medico". Ma cos'ha avuto? Si è ripresa? Cavolo, ma nessuno sa niente, nessuno mi dice niente? Ero io che non volevo capire. Nessuno vorrebbe mai capire quello che la mente ti sta dicendo, ma che tu rifiuti di accettare. Poi è stata la spinta di qualcuno che era nel corridoio di casa a buttarmi all'improvviso nella sua camera da letto. Una spinta che non ho più dimenticato. Non ero preparata. E l'ho vista. Sul suo letto, bella e dolce come sempre, con i suoi capelli neri, e con papà vicino che continuava a dirle "Dora, amore mio, perché non mi rispondi?". La guardavo, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, perché speravo che tornasse a respirare. Ogni tanto, guardandole il vestito, all'altezza del seno, mi sembrava che si muovesse.

No, di lei non riesco a parlare. Ma penso a lei mentre devo rispondere alle mille domande di Giovanni Falcone. Vuoi un caffè, Rita? Mi guarda con dolcezza, intuisce quanto sia difficile per me essere lì davanti a lui. Il suo ufficio è una specie di bunker guardato a vista. Mi accorgo che anche un caffè è un problema. Infatti, poco dopo, entra un poliziotto, ha in mano un vassoio con dieci tazzine. Ma nella stanza siamo solo in due. Guardo Falcone con un punto interrogativo stampato in faccia, e lui alza un sopracciglio con un mezzo sorriso: "Non si sa mai". E penso subito al caffè avvelenato di Sindona in carcere.

Dopo due ore passate a decifrare i diari di papà, a prendere appunti, a sentirci anche a disagio, imbarazzati nel leggere le sue parole d'amore per mamma, chiude i diari e mi accompagna nell'ufficio di Rocco Chinnici. Vuole parlarmi pure lui. Non l'ho più visto, dopo quella nostra chiacchierata. Il 29 luglio, tre mesi dopo, anche il giudice Chinnici fu fatto saltare in aria con la sua scorta. Un altro grande uomo di giustizia che veniva strappato alla sua vita e alle indagini. Altre famiglie che rimanevano da sole nella disperazione. Anche quella del portiere dello stabile dove il giudice abitava. Saltò per aria pure lui, che non c'entrava niente. Quanto affetto e gratitudine mi porterò per sempre dentro, per questi Uomini che hanno lottato fino all'ultimo perché la legge diventasse un diritto per tutti. Ma anche quanta rabbia. Il nipote di Rocco Chinnici, il figlio di Caterina, diventata magistrato come il padre, in quei giorni era un giovanissimo ufficiale dell'Arma. Mi si è presentato, una sera, a una cerimonia della Scuola ufficiali Carabinieri di Roma, si è messo sull'attenti e mi ha detto: "Questa divisa, signora Rita, l'ho voluta indossare in onore di suo padre".

Sono sul vagone letto di ritorno a Roma. Mangio un panino mentre guardo fuori dal finestrino. Monte Pellegrino si allontana sempre di più. Un mio amico mi ha raggiunta in stazione con una pianta di gelsomini da interrare sul terrazzo di casa. Speriamo che prendano, questa volta. Forse sbaglio l'esposizione, perché dopo un po' mi muoiono tutti. Sono stanca, ho solo voglia di rivedere Giulia. Mi sento svuotata, i pensieri vagano sugli agrumeti, davanti al mare, che costeggiano i binari. Ho lasciato una gran parte di me a via Carini. Ci sono ancora i segni delle pallottole sul muro. Ho cercato per terra, vicino al marciapiede, qualcosa da portarmi via. Anche solo un pezzetto dei vetri dei finestrini della macchina. Ma sono passati sette mesi, non ho trovato più niente.

Arrivo alla stazione Termini con due ore di ritardo, e trovo ad aspettarmi Paolo. Prende la sacca blu mentre io stringo al petto i miei gelsomini. "Chi te li ha regalati?" "Fabrizio, il nipote del giudice Terranova. Ti ricordi? Anche lui è stato ucciso dalla mafia." "E perché te lo ha regalato?" Cerco di spiegargli che quando si è attraversato lo stesso tipo di dolore si creano legami fortissimi, anche se ci si frequenta poco. È come se ci si riconoscesse fratelli di cuore.

Lui e Giuseppe Di Piazza, che in quegli anni era un coraggioso cronista dell'“Ora” di Palermo, diventato poi un famoso giornalista e scrittore, sono stati per me un punto di riferimento importante in quei mesi passati ad andare avanti e indietro dalla Sicilia. E sono rimasti nella mia vita per sempre. Non ne sono mai usciti. Un legame affettivo, fra noi, che niente e nessuno è mai riuscito a rompere. A fine giornata, quando scendevo a Palermo per parlare con Falcone, Fabrizio e Giuseppe, per farmi distrarre, mi portavano sempre a qualche cena organizzata a casa con i loro amici. Serate in cui stavamo seduti in circolo su dei grandi cuscini bianchi, sul pavimento, a parlare e ad ascoltare musica. Erano i giorni dei Matia Bazar e di Vacanze romane. Ogni tanto mi alzavo, andavo alla finestra, guardavo le luci del porto, e pensavo a mamma e papà, a quanto avevano amato quella città.

Da piccoli abitavamo a Milano, e d'estate, finite le scuole, ci mettevano tutti e tre sul treno per Palermo e ci spedivano, con la nostra tata Rosa, dai nonni materni. Nonna Giulia e nonno Fernando. Nessuno della nostra famiglia è siciliano, ma la Sicilia ha fatto da collante alle nostre vite. Ci ha fatto tanto male, ma noi l'abbiamo sempre amata come se fosse la nostra terra. L'ultima sede di mio nonno, da generale dei Carabinieri, infatti, era stata proprio Palermo, e lì avevano comprato casa per viverci l'età della pensione. Il viaggio in treno durava un giorno e una notte. Quelle ore non passavano mai. Nando e io non facevamo che litigare, leggere “Topolino”, “L'Intrepido” e “Il grande Blek”, e mangiare i panini con il prosciutto e la frittata che ci aveva preparato mamma. Simona era la più tranquilla, a lei bastava giocare con “Tata”.

La felicità cominciava quando il treno saliva sul traghetto da Villa San Giovanni per Messina. Il treno sulla nave era la cosa più eccitante di tutto il viaggio. La gente lasciava i vagoni per andarsi ad affacciare sul mare, o per salire al bar a mangiare le più buone arancine di tutta l'isola. Eccolo, il profumo del sole e del mare della Sicilia. Appena il traghetto toccava terra, con Nando tiravamo giù il finestrino dello scompartimento e cominciavamo a cantare a squarciagola. Eravamo convinti che non ci sentisse nessuno. E continuavamo a cantare, con il vento caldo in faccia, fino a quando il treno non entrava nella stazione di Palermo. Arrivavamo sporchi, sudati. Nonna ci portava subito a casa, ci buttava, letteralmente, nella vasca da bagno, e ci lavava. Anzi, ci disinfettava. Quante volte avrei voluto risentire, nella vita, quell'odore buono di borotalco che nonna Giulia ci metteva addosso. E dopo il bagno, tutti in sala da pranzo. Grande, con un tavolo rettangolare al centro e le persiane semiaccostate per non far entrare il caldo del sole. E, sopra la tovaglia di lino bianco, c'era immancabilmente una zuppiera di ceramica colorata con la mitica caponata di melanzane di nonna. Mai più trovata, mai più mangiata, una caponata così. Era il sapore dell'infanzia felice.

Il giorno dopo, nonno Fernando ci caricava tutti in macchina, una Opel nera, e ci portava al mare a Mondello. Me lo sognavo tutto l'anno, quel mare turchese. Mi tuffavo con la maschera, e andavo alla ricerca delle piccole meduse trasparenti che arrivavano fino a riva. Nonno si sedeva sotto l'ombrellone, con il suo giornale in mano, e con vicino gli accappatoi di spugna per asciugarci dopo il bagno. Non c'era anno che non mi scottassi, e di brutto, naso e spalle. Rifiutavo ogni crema solare.

Con noi c'era anche Maria Giulia, la figlia di zia Lydia, la sorella di mamma. Zia si era sposata con un ingegnere tosco-siciliano, ed erano andati a vivere con i miei nonni. Giorni di vacanze semplici, di krapfen giganteschi con lo zucchero, mangiati caldi sulla spiaggia. Di pomeriggi passati con altri bambini al Giardino Inglese, a mangiare per merenda la brioche con il gelato. Per me sempre di nocciola e panna. La panna di Palermo ha un sapore unico, perché è densa e dolce. Cremosa. Mica come quella che fanno a Roma o Milano, senza zucchero, e che sembra “vuota”. Eravamo tenuti d'occhio da zia Lydia e dalla tata Rosa. Guai a spostarci di un metro.

Fu in uno di quei pomeriggi, di qualche anno dopo, che notai un ragazzino biondo, con gli occhi azzurri, che non mi lasciava un secondo con lo sguardo. Marcello. Si metteva vicino al jukebox del bar e, monetina su monetina, cercava di comunicare con me attraverso le canzoni di Peppino di Capri. Voce 'e notte, Nun è peccato, Malatia. Una piccola, tenera storia fatta di musica e di occhi che si incontravano e poi si abbassavano di colpo. Io diventavo anche rossa, per fortuna con l'abbronzatura non si vedeva. Avevo 13 anni, lui 15. Solo l'ultimo giorno di vacanza ha trovato il coraggio di avvicinarsi e chiedermi l'indirizzo di Milano. Ti posso scrivere? Sì, ma da una mia compagna di scuola, mio padre mi controlla anche la posta. Ripartimmo con la nave, la sera dopo, con mamma e papà che erano scesi a prenderci a Palermo. Vidi Marcello, nascosto fra la folla, che seguiva le manovre del piroscafo per uscire dal porto. Mi mandò un bacio di cui, per fortuna, mi accorsi solo io. Per tutta la traversata il cuore volava, mi faceva i famosi salti nello stomaco. Era questo l'amore? Che ne potevo sapere, avevo solo 13 anni. Marcello… mi piaceva pure il suo nome.

Un giorno di ottobre esco da scuola e lo vedo lì, fermo sul marciapiede di fronte. Mi è preso un colpo, e questo adesso da dove spunta? Che belli i suoi occhi e il suo sorriso. Lo stesso di quando mi guardava vicino al jukebox del Giardino Inglese. Oddio, come mi sono vestita? Ho i calzettoni bianchi, la coda di cavallo, gli piacerò ancora? Neanche il tempo di attraversare la strada e avvicinarmi a lui, dirgli ciao, che mia mamma, che lo aveva riconosciuto, mi prende per un braccio e mi riporta come una scheggia a casa. "Torno sempre a casa da sola, proprio oggi ti viene in mente di venirmi a prendere? Aspetta, fammelo almeno salutare." Niente, non l'ho mai vista così arrabbiata. "Mamma, ma anche tu hai conosciuto papà che avevi solo 15 anni. Che differenza c'è?" Arrivate in caserma, avverte subito papà, che, a sua volta, chiama immediatamente i genitori di Marcello, per tranquillizzarli. Alle 17 Marcello viene rispedito a Palermo.

Certo, poi con il tempo li ho capiti; se l'avesse fatto Giulia, scappare di casa a 15 anni per amore, sarei diventata una belva anch'io. In più il povero Marcello aveva avuto la sfiga di prendersi la sua prima cotta proprio per la figlia di un Carabiniere come mio padre. La vita me lo ha fatto incontrare di nuovo, tanti anni dopo, al teatro Manzoni, durante una convention di Publitalia. Ci siamo seduti vicini, ormai sposati tutti e due. E abbiamo riso per tutta la sera perché, malgrado tutto il casino che avevamo scatenato, non ci eravamo mai dati neppure un bacio.

Paolo capisce che non è aria, sono nervosa, e mi porta direttamente al giornale, in via Bissolati. Sono stata via tre giorni, ho lasciato in sospeso delle interviste che devo consegnare entro lunedì e sono stanca morta, sia per il viaggio in treno sia per il mio incontro con Giovanni Falcone. Diciamo che mi sento un po' persa. La vita fa fatica a riprendere normalmente, vorrei avere vicini almeno i miei fratelli. Ma Simo è a Catanzaro e Nando a Milano. Ci sentiamo tutte le sere al telefono per darci la buonanotte, come faceva con noi nostro padre. Loro due sono sempre stati la mia zattera di salvataggio. Anzi, la cassaforte dei miei ricordi più belli. Ma anche il rimpianto per non aver saputo costruire nella mia vita una famiglia solida come le loro. Quando mi sono separata da Roberto avevo messo in conto che non sarebbe stato facile andare avanti da sola, ma non fino a questo punto. C'era ancora papà, e mai avrei immaginato che poi avrei dovuto affrontare quest'inferno.

Il tic tac delle mie dita sulla macchina da scrivere spezza il silenzio notturno del soggiorno. Giulia sta dormendo con Lola vicina. E io non dormo da non so più quanti giorni. Non posso permettermi di mollare il lavoro, prendo 800.000 lire al mese, e con quelli devo pagare la scuola di Giulia, l'affitto di casa e tutto il resto. Non voglio chiedere niente a Roberto, sono stata io a volermene andare, e sarebbe scorretto se adesso pretendessi da lui un aiuto economico. Anche se l'orgoglio, davanti a un figlio, qualche volta dovrebbe essere messo da parte, perché le responsabilità morali ed economiche spettano a tutti e due. Pazienza, ce la faccio da sola. Mio padre è stato ammazzato con in tasca il suo stipendio da prefetto. 1.500.000 lire. Quando ci hanno restituite le sue cose, oltre all'orologio, alla catenina e a un'immaginetta di Padre Pio, c'erano anche quei soldi fatti a pezzi dai colpi di kalashnikov. Sporchi di sangue.

Continuo a battere sui tasti, e a raccontare alle lettrici di “Gioia” il mio incontro con un grande attore, Franco Nero. Quello che aveva interpretato il capitano Bellodi ne Il giorno della civetta, tratto dal libro di Sciascia. Anche il capitano Bellodi veniva da Parma, come la mia famiglia paterna. Un giorno, passando a salutare papà, trovai Leonardo Sciascia nel suo ufficio. Era andato a portargli una copia del libro. Ci confermò che per il personaggio del suo romanzo si era ispirato proprio al giovane capitano Carlo Alberto dalla Chiesa. Il capitano Bellodi, insomma, era papà. Da qualche parte, fra le casse dei libri di casa nostra, dovrebbe esserci ancora una copia con la sua dedica.

Franco Nero è introverso, chiuso, non rilascia facilmente interviste. E poi si è appena lasciato con Vanessa Redgrave. Dall'inizio del nostro incontro, fino alla fine, mi parla solo di lei. Di come si sono conosciuti, e di come sia stato forte il loro amore. La stanza è piena delle locandine dei suoi film e delle loro foto. Si vede che sta male, che soffre. Ogni tanto, mentre parla, si blocca, e io non riesco a insistere più di tanto, ho sempre avuto rispetto per il dolore che provoca la fine di una storia. Non si è ancora tolto dal dito il grosso anello d'argento con le loro iniziali intrecciate. È il simbolo di quello che hanno vissuto insieme. Non se lo toglierà mai, quell'anello. In tutti i suoi film, se ci fate caso, quell'anello è sempre al suo dito. Penso che non c'è niente da fare, la sofferenza, in amore, è uguale per tutti. Anche se spesso siamo convinti che celebrità o ricchezza possano salvare una persona da ogni tipo di dolore. Non è vero, soffriamo tutti nello stesso modo.

Il mio telefono rosso comincia a squillare. Se continua così finisce che sveglia Giulia. "Ciao, sono sempre il tuo amico della notte." "No, senti, forse non hai capito, ma io non voglio amici della notte. Non ho tempo di star dietro a queste cavolate. Sto scrivendo, e con quello che scrivo ci mantengo la mia famiglia. Mia figlia, un cane e io." "Ahò, ma mica ti ho detto cotica. Sei sempre così acida?" "Sì, quando vengo chiamata a quest'ora di notte e sto lavorando." Riattacco, ma mi viene da ridere. Sono stanchissima. Per andare al giornale devo prendere da Monteverde due autobus ogni mattina. Altri due quando stacco alle 13, per tornare a casa a mangiare con Giulia, e ancora due quando la lascio con la baby sitter per tornare in redazione a “Gioia”. Ogni giorno uguale all'altro, con le giornate che corrono insieme a me, ma che mi lasciano in regalo i tramonti rosso fuoco su Roma, mentre l'autobus arranca verso il Gianicolo. Non posso fare diversamente, sto male per non poter vivere il mio tempo con Giulia quanto vorrei, lei è la mia priorità, il mio bene più prezioso, ma per darle un presente e un futuro decente non ho scelta. Devo lavorare, lavorare e ancora lavorare. Come milioni di altre mamme nel mondo. Ma, almeno, ho la fortuna di amare moltissimo quello che faccio. Mi sento una privilegiata. Malgrado tutto il dolore che ho dentro e questa voglia di piangere che non mi lascia mai. Ma il mio è un lavoro nel quale bisogna sorridere sempre.

Spengo la luce del pensatoio, e me ne vado a letto. La mia camera è tutta azzurra. Una scelta strana, per me, che nell'arredamento amo i colori accesi. Il rosso, l'arancio e il turchese. Il copriletto mi è costato poco, l'ho comprato su una bancarella di Ponte Milvio. Mi piace perché ha il colore del mare. E dal copriletto è partito tutto questo pseudoarredamento della camera da letto. Due comodini, un armadio bianco e tante stampe con il mare alle pareti. I mobili di valore, della casa in cui abitavo con Roberto, li ho lasciati tutti a lui. Erano della sua famiglia. Quando e se vorrà, e spero proprio che lo vorrà, li lascerà a Giulia.

Mentre mi sdraio sul letto rifletto: “Ma stasera non ho mangiato niente?”. E poi: “Ma da quant'è che non mi faccio una vera risata? Di quelle risate che mentre rido mi piangono gli occhi? Quant'è che non provo la leggerezza di un'uscita con qualcuno che non mi parli di mafia e di Palermo? Da quanto tempo non mi metto un vestito a fiori? Un paio di tacchi?”. Sicuramente dal tempo delle unghie laccate di rosso.

Ed è quello che sto pensando anche in questo momento, davanti a un'insalata, a Paolo, e agli altri nostri amici. Tutti un po' radical chic. Quelli con l'aria annoiata di chi frequenta i giri “giusti” di Capalbio. C'è anche Joe Marrazzo, bravissimo giornalista che per le sue inchieste al Tg2 ha avuto due macchine bruciate dalla camorra, e che sta raccontando qualcosa sull'università di Arcavacata, in Calabria. Mi alzo, l'insalata mi fa tristezza, vorrei una pizza di quelle che grondano sugo, olio e mozzarella. Vado in terrazza, ho bisogno di respirare a pieni polmoni. Mi avvicino a Enzo Aprea, altro giornalista che si è occupato di cronaca in Sicilia, e che sta suonando alla chitarra una canzone napoletana. C'è Paola, accanto a lui. È la sua compagna e, ancora oggi, la mia migliore amica. Bionda, molto carina, somiglia alla Virna Lisi di “Carosello”: “Lei, con quella bocca, può dire ciò che vuole”.

Anche Paola è separata, con due figli dell'età di Giulia. Ci vogliamo bene da anni, di un bene intenso e complice. Nessuna competizione fra di noi. Siamo una la spalla dell'altra. Abbiamo condiviso troppe cose, insieme, troppa vita. Ha conosciuto mio padre e mia madre, e sarà la mia testimone di nozze, anni dopo, con mio cognato Carlo, al mio matrimonio con Fabrizio. Ci guardiamo, lei capisce al volo che ho voglia di scappare, che quella sera c'è nell'aria qualcosa che non va per il verso giusto. Il momento della ribelle, starà pensando. Troppa pressione dentro e fuori di me, la notte dormo ancora con la luce del bagno accesa, ho paura del buio, dei sogni che potrei fare. Per anni ho girato con le lucette che si inseriscono vicino alle culle dei bambini in valigia, da mettere nelle camere d'albergo.

La morte di papà ed Emanuela ha lasciato, oltre che in noi, pesanti segni anche nella società e nella politica. Ferite che chi li ha uccisi, forse, non si aspettava. Non avevano fatto i conti con la ribellione delle persone oneste. Che poi sono la maggior parte. Non c'è giorno che qualche approfondimento tv non ne parli. Una sera, dopo tre giorni dalla strage di via Carini, ad Andreotti venne chiesto: "Come mai lei è stato l'unico politico a non andare ai funerali del generale dalla Chiesa?". Lui rispose: "Perché io preferisco andare ai battesimi che ai funerali". Io preferisco non commentare. Ricordo, invece, che una sera venni invitata a Milano in una trasmissione di Enzo Biagi. Durante la ricostruzione della notte del 3 settembre la figlia Bice mi portò fuori dagli studi televisivi. Una passeggiata a piedi intorno all'isolato, al freddo, perché io non vedessi, per l'ennesima volta, le immagini della A112 crivellata di colpi.

Penso a questo e a tanto altro, mentre guardo le luci di Roma dal terrazzo di Monte Mario. Mi giro e osservo gli amici di Paolo, giornalisti che scrivono della vita degli altri da una scrivania, senza mai scendere per la strada. Mi sale un groppo in gola, ma resisto, per tutti gli anni che ho vissuto dopo, fino a oggi, non ho mai voluto cedere all'immagine di una donna che ha perso troppe cose. Ho sempre pensato che a nessuno dobbiamo permettere di piegarci. Eppure ho avuto mazzate in testa che avrebbero stroncato un elefante.

È tardi, non ho più voglia di stare qui. Chiamo un taxi e torno a casa, senza aspettare Paolo. Giulia è dal papà, lui può venire a casa nostra o portarla a casa sua quando vuole. Ha ancora le nostre chiavi. È giusto così, nessuno può e deve avere la “proprietà” unica di un figlio. I figli si fanno in due, si devono amare in due, si devono mantenere e si devono lanciare nella vita in due. Metto su un 33 giri di De Gregori, e ascolto Generale. E penso che anche io rivorrei la sensazione di quasi casa e quasi amore.

La storia con Paolo è agli sgoccioli. È colpa mia, o forse è solo colpa del disastro che mi trovo a vivere. Sto camminando fra le macerie. Lui mi ha aiutata moltissimo, sia nell'affrontare il panico di questi mesi sia nell'insegnarmi a guardarmi dentro, a non farmi sconti di alcun genere. È stato lui che mi ha fatto innamorare di questo lavoro, che mi ha insegnato a divorare libri e giornali. È stato lui il primo a dirmi “Dai che ce la puoi fare”. Lui, che anche quando era in viaggio per lavoro, in territori non facili, trovava sempre il modo di farmi una telefonata, per starmi vicino. E, in quel periodo, non c'erano ancora i cellulari. Lui, che mi ha portato un braccialetto d'argento dall'Afghanistan, che per anni non mi sono più tolta. Lui, che, per la prima volta, mi ha fatto conoscere New York e il Canada, tenendomi abbracciata per tutte le otto ore di volo, perché ero terrorizzata dall'aereo. Lui, che mi ha coccolata e protetta come fossi una bambina. Lui, che non mi ha mollata un attimo quando hanno ucciso mio padre. Lui, che era vicino a me, quella sera al Giardino degli Aranci. Che è stato male insieme a me. Che ha guidato tutta una notte per portarmi da Roma a Palermo in macchina, quando siamo dovuti andare a riprendere gli oggetti personali di papà ed Emanuela in prefettura.

Ma adesso sento che sto per lasciargli la mano. Sono stanca, sta pagando lui per tutto quello che sta succedendo a me. Lo so che non è giusto, magari fra qualche tempo me ne pentirò. Mi mancherà. Persone come Paolo non si dovrebbero mai perdere, se sono riuscite a migliorarci. Ma ho sempre pensato che se voglio sbagliare devo poterlo fare, senza renderne conto a nessuno. La libertà è anche questo. Tanto poi piango da sola.

Oggi sono entrata alla Coin per comprare delle T-shirt bianche per Giulia. L'occhio mi è caduto su una camicia a quadri, rossa e nera, nel reparto uomo. Ho pensato che starebbe bene al mio amico della notte. “Ma tu sei tutta scema, Rita, ma come ti viene in mente? Che c'entra lui, adesso? E poi a te le camicie a quadri non sono mai piaciute. Fanno tanto vacanza in montagna. A te, invece, piace il mare.” La camicia a quadri diventa la mia ennesima sfida. Sono nata sotto il segno della Vergine. Razionale, precisa. Praticamente una rompiscatole in servizio permanente effettivo. Ma ho l'ascendente in Cancro, e quindi non vivo e non respiro se non ho il sogno. Ho bisogno del sentimento, amo le persone che mi danno subito la sensazione dell'abbraccio e della cuccia. Per me sono sempre quelle giuste. Anche nell'amicizia. Le due Rite litigano spesso furiosamente fra di loro. E stanno litigando anche adesso davanti a una camicia in flanella, che lei vede perfetta per quel ragazzo buffo, alto e con gli occhiali. “Gliela regalo o lascio perdere? Ma poi, perché gliela devo regalare? Chi è, chi lo conosce, è solo uno che mi fa le poste sotto casa, per costringermi ad andare a mangiare con lui i cornetti caldi.” Vince la Rita del segno del Cancro. Gliela regalo.

Da quel momento le due Rite non hanno mai smesso di litigare, nemmeno oggi che conduco una trasmissione di successo, e che vivo una bellissima storia d'amore con il mio “amico della notte”. Alla fine ha vinto lui, con i suoi appostamenti sotto casa e con la sua testa dura. Con la sua allegria e la sua faccia tosta. Ha vinto lui sulla mia paura della differenza d'età, sui pettegolezzi dei corridoi della Rai, sui miei dubbi, legittimi, per un futuro che non riuscivo a vedere, e che invece è durato sedici anni. Su Giulia, che non sapevo come l'avrebbe presa. Sulle perplessità degli amici, sull'amarezza e la sofferenza di Paolo. Che continuava a chiamarmi, e mi diceva ripensaci, Rita, che stai facendo, è solo un ragazzino.

Ogni volta, dopo che ci eravamo sentiti, mettevo giù il telefono sempre più confusa, forse era vero che stavo sbagliando tutto. Nessuno può avere in mano la certezza del proprio futuro, mi dicevo. Guarda quante coppie finiscono a gambe all'aria e sono invece partite con i requisiti giusti. E quali sarebbero, poi, i requisiti giusti? Perché questa “cosa”, che mi sembra così assurda, non dovrebbe invece essere quella vincente? Ma potevo mettere la mia vita, in quel momento completamente devastata, nelle mani di un ragazzo che, per quanto perbene e innamorato, era più giovane di me di dieci anni, e conduceva una trasmissione per ragazzi? Come avrebbe potuto aiutarmi a superare tutto il dolore che avevo dentro? O, forse, era proprio di lui che avevo bisogno, di qualcuno che mi aiutasse a pensare meno, e a vivere di più? Di qualcuno che mi facesse ridere, e con lui ridevo tanto.

Non è stato per niente facile accettare che questa storia invadesse la mia vita. Ha buttato all'aria tutte quelle che pensavo fossero le mie certezze, consolidate dall'abitudine e dalle persone che mi stavano intorno. Ha spazzato, con un colpo di mano, un puzzle che mi era costato fatica costruire. I pezzi erano caduti tutti per terra, si erano sparpagliati, ma io non avevo nessuna voglia di raccoglierli e rimetterli al loro posto. Volevo un puzzle nuovo. Costruito con lui. Mio padre non c'era più da qualche mese, e lui mi aveva afferrata per i capelli. Mi aveva impedito di farmi male. Sulla sua vespa, con l'adesivo di Ezechiele Lupo sul manubrio, abbracciata a lui, ero tornata ragazzina. Il vento addosso rappresentava la mia nuova libertà. Aveva vinto il suo sorriso. La sua tenerezza. La sua ostinazione. Fosse durato solo un momento, io quel momento lo volevo vivere.

Con lui ho ricominciato a lasciarmi avvolgere dalla leggerezza. Fabrizio c'era sempre, per me, e c'è stato subito anche per i miei fratelli. Ero terrorizzata dal loro giudizio, stavamo combattendo delle battaglie difficilissime, avevo paura che pensassero che mi ero bevuta il cervello. Invece loro l'hanno accettato e amato da subito. Era con noi ai maxiprocessi, a Palermo. Era con noi alle fiaccolate in memoria degli uomini uccisi dalla mafia. Era con noi ai comizi politici, quando protestavamo in piazza. Era con noi anche quando Nando si è candidato come sindaco di Milano, contro Formentini. Mi accompagnava in giro per i mercati di Milano a fare volantinaggio. Era con me quando andavo a trovare gli orfani dei Carabinieri. Lui, che veniva da tutt'altre esperienze di vita. La radio, il suo grande amore. La musica con suo fratello Fabio. “Tandem”, la trasmissione per ragazzi, ancora oggi mai dimenticata.

Ce ne fossero ancora di trasmissioni e conduttori così, che mirano alla semplicità e al cuore della gente. Aveva solo 17 anni quando la sera, finito di studiare, andava a RAM, una radio privata, che trasmetteva da una stanzetta dell'Hilton a Monte Mario. Si metteva lì, accanto al DJ, con la cuffia in testa ma senza parlare. Voleva capire le regole di un lavoro che per lui era una passione vera. Una sera il DJ lo accontentò, e lo lasciò da solo, a mettere musica per tutta la notte. Una prova di fiducia per questo ragazzo con la testa dura e i riccioli ribelli. A un certo punto, però, il DJ, sintonizzato da casa, si accorse che la musica che stava andando in onda era sempre la stessa. Il nastro girava a vuoto. Si precipitò a RAM e trovò Fabrizio addormentato sulla consolle, con la testa sul braccio. Ecco, questo era il mondo del mio amico della notte.

Ma aveva anche un altro mondo, dentro. Grande, immenso, generoso. Gli altri se ne sono ricordati solo dopo. Ma Fabrizio era questo, e anche tanto di più.

"Signora dalla Chiesa? Qui è la Fininvest. Il dott. Arrigo Levi le vorrebbe parlare." Levi è un mito del giornalismo italiano. Prendo tempo. "Per che cosa?" "Non lo so, se non le spiace dovrebbe fare un salto qui al Centro Palatino." Immagino subito che voglia farmi l'ennesima intervista su mio padre. Invece vuole offrirmi di passare dalla Rai, dove ho appena finito di condurre con Fabrizio “Pane e marmellata”, a Canale 5. Sua moglie mi seguiva tutti i giorni in televisione, le piacevo, ed è stata lei a suggerirgli il mio nome. Chiamo mio fratello, ho bisogno di un consiglio. Ho una bambina, uno stipendio in Rai con un articolo 2, da collaboratore fisso, e una collaborazione con “Gioia”.

Che faccio? La televisione commerciale mi incuriosisce, è una bella sfida, ma ho il terrore di sbagliare scelta. Già la mia vita è abbastanza complicata così. Nando mi dice di buttarmi. Parlano di Silvio Berlusconi come di un grande imprenditore, e la sua televisione sta crescendo sempre di più, sembra che possa diventare la realtà del futuro. A Milano, mi dice Nando, sanno tutti che ci sono grosse probabilità che si radichi presto in tutta Italia. Non è un salto nel buio, continua mio fratello. E poi sono passati alla Fininvest anche Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno, Corrado, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. Vuol dire che è un'emittente affidabile.

Allora chiamo anche Costanzo. Gli voglio bene, assorbo come una spugna il suo modo di fare interviste, la sua ironia, il suo rapportarsi, semplice e diretto, con il pubblico. Ci conosciamo da anni. Mi piace come fa giornalismo. Quando mio fratello scrisse Delitto imperfetto, dopo la morte di mio padre, un libro scomodo, dove Nando faceva nomi e cognomi, l'unico a chiamarlo per parlarne in televisione fu Costanzo. Tutte le altre porte gli erano state sbattute in faccia. Il “Costanzo Show” andava ancora in onda dal Sistina. Quella sera, appena Maurizio si è accorto che quello che mio fratello stava raccontando era un atto di accusa molto duro, pesantissimo, sul sistema politico di quel periodo, ha fatto uscire tutti gli altri ospiti e ha tenuto sul palco solo lui. Un segno di grande rispetto per il nostro dolore che non ho mai dimenticato. La gratitudine non appartiene al mondo dello spettacolo, è un sentimento praticato da pochi.

"Allora, Maurizio, secondo te che devo fare? È meglio che resti in Rai o passo qui da voi?" "Ne hai parlato con Fabrizio? Lui che dice?" In realtà gliene ho appena accennato, non voglio prendere una decisione se prima non gli riconfermano il contratto per “Tandem”. Ma Costanzo è sicuro del mio futuro in Fininvest. Dovrei occuparmi di una rubrica all'interno del nuovo settimanale giornalistico di Canale 5 “Tivù Tivù” ideato da Arrigo Levi.

Non ci mette molto a convincermi. Le sfide mi piacciono, sarei una pazza a non accettare. Ma non voglio nemmeno rimanere con le spalle scoperte. Ho comunque una figlia da far studiare. Decido di parlarne con Fabrizio. La sera, mentre ceniamo, tiro fuori tutti i miei dubbi, amo la competizione, soprattutto con me stessa, ma i salti nel vuoto, senza paracadute, mi fanno paura. Lui, con la sua calma, e quella generosità che lo ha reso così speciale, annulla ogni incertezza. Mi spinge a non perdere un'occasione che capita poche volte nella vita. Difficile che lo stesso treno ripassi sullo stesso binario, mi dice. Già, i famosi treni che passano una volta sola.

"Ti ricordi quando siamo andati insieme a Milano a cercare lavoro?" mi chiede. "Certo che me lo ricordo, eravamo partiti con la sicurezza che non ci avrebbe dato retta nessuno, e così era stato. Tanti appuntamenti, e altrettanti ci risentiamo, vi facciamo sapere." Era successo l'anno prima. Lui era rimasto senza il contratto per “Tandem”, cancellata dal palinsesto malgrado gli ascolti altissimi, e io senza “Vediamoci sul due”, il primo talk di intrattenimento della Rai. Ci eravamo guardati in faccia e ci eravamo chiesti: "E adesso? Che si fa?". Abbiamo preso un treno per Milano e siamo andati a parlare con qualcuno della Fininvest. Più che altro eravamo preoccupati per Fabrizio, perché io, per fortuna, avevo mantenuto il mio contratto con la Rusconi. Vivevamo insieme, e dividevamo le spese di casa. Se non puoi tu, ti aiuto io. È stato importante, per noi, affrontare insieme quel momento di insicurezza nel lavoro. Ci ha insegnato a rimanere sempre con i piedi per terra, tenendoci per mano, e facendo sempre il tifo l'uno per l'altra. Tornati a Roma, comunque un po' demoralizzati, dopo nemmeno quindici giorni ci è arrivata la proposta di condurre insieme “Pane e marmellata”.

"Ecco," mi dice Fabrizio "dobbiamo imparare ad acchiappare al volo i treni che passano. Sempre che ci piaccia la destinazione." Da quel momento abbiamo sempre rispettato le nostre rispettive scelte e decisioni professionali.

Quando sono passata in Fininvest, ci siamo fatti una promessa che abbiamo mantenuto anche quando ci siamo lasciati. Tu lavori in Rai, io ti seguo, vengo con te, frequento i tuoi colleghi, i direttori di rete, assisto alle prove, andiamo tutti a cena insieme, ascolto le vostre discussioni o i vostri progetti, ma dalla mia bocca non uscirà mai mezza parola. E la stessa cosa dovrai fare tu con la Fininvest, che allora non era ancora diventata Mediaset. Niente pettegolezzi su quello che sentiamo nei corridoi delle nostre rispettive aziende. Diciamoci tutto, parliamo di tutto, ma deve restare fra di noi. Discorso inutile, eravamo due persone responsabili e per bene. Ma le cose è sempre meglio metterle in chiaro, soprattutto quando si è complici, nella vita e nel lavoro.

Il giorno dopo torno al Palatino e firmo un contratto che è durato tutta la mia vita. O quasi. I miei anni a Mediaset si sono intrecciati con quelli della mia vita privata. Avevo una famiglia a Canale 5 e Rete 4, e una famiglia a casa. Uscivo la mattina alle 8 e rientravo la sera tardi. Aspettavo anche l'una di notte per cenare con Fabrizio. Pure lui tornava dalle prove a orari impossibili.

Quella dello studio di “Forum” era l'unica aria che respiravo. Con l'aria condizionata a palla, un problema che non siamo mai riusciti a risolvere. E che una volta mi fece pure litigare con Ambra, ai tempi di “Non è la Rai”. Loro, con cui dividevamo lo studio, cominciavano le registrazioni dopo “Forum”, e volevano che lasciassimo l'aria gelata, ghiacciata. Erano giovani, ballavano, cantavano, si muovevano continuamente, chiaro che il caldo desse fastidio. Noi facevamo due dirette al giorno, una su Canale 5 e una su Rete 4, poi un'altra puntata registrata sempre per Rete 4, e, di corsa, le telepromozioni dei materassi o delle pentole da inserire in trasmissione. Poi ancora redazione per scegliere le cause da trattare il giorno dopo. E, finalmente, arrivava anche il momento del cazzeggio.

Anna, la produttrice, conoscendomi bene, a una certa ora del pomeriggio mandava a prendere al bar patatine e gelati per tutti. E nel suo ufficio parlavamo, ci confrontavamo, avevamo anche scontri feroci. Erano belli, i nostri scontri, adesso mi mancano molto. Bracco e Marco arrivavano quasi sempre per ultimi. Sprofondavano nelle poltroncine rosse, e si buttavano su ciò che trovavano in giro di commestibile. Sapevamo tutto l'uno dell'altro, il mio camerino era diventato una specie di “sfogatoio”, le nostre storie d'amore non avevano segreti per nessuno, volavano fuori dalle finestre aperte, ognuno commentava, diceva la sua. Era vita. Abbiamo attraversato insieme dolori, matrimoni, separazioni, preoccupazioni personali, malattie, gioia per la nascita di un bambino, la scomparsa del giudice Santi Licheri, il simbolo di “Forum”. E quella di Tina Lagostena Bassi. Ma c'era sempre un abbraccio a tenerci uniti.

Nel nostro gruppo di lavoro non abbiamo mai usato la parola “io”, ma sempre il “noi”. E il “noi” è vincente, quando si ha un progetto in comune. Fare squadra era il nostro modo per affrontare le tante ore di lavoro insieme, l'ansia da share, la paura di deludere il pubblico, e poi la gratificazione degli ascolti alti il giorno dopo. Non si ha mai idea di quanta gente lavori dietro a una telecamera. Di quanta professionalità e fatica ci siano. Nessuno di loro saprà mai quanto li ho amati, uno per uno, e quanto mi manchino ancora. Quel periodo mi piace definirlo con il titolo di una canzone degli anni Sessanta: I miei giorni felici. O, anche, I migliori anni della nostra vita.

Ancora oggi incontro molte persone che mi chiedono "Ma perché hai lasciato “Forum”?". Oppure mi scrivono sui social: “Basta con tutta questa nostalgia per ‘Forum', non parlarne più, sei tu che te ne sei voluta andare”. Come sempre la verità è a metà. Qualche volta succede che non sia la verità vera quella che uno legge sui giornali o che ci viene raccontata. Semplicemente, c'è stato un momento in cui sembrava che “Forum” non sarebbe più andato in onda. E io l'ho presa malissimo. Come avrebbe fatto chiunque al mio posto.

Luglio 2013. Sono già tre mesi che stiamo lavorando alla nuova edizione di “Forum”. Autori, redazione, produzione e io. Anna, Gigi, Luca, Stefano, Alberto, Paoletta, Francesco, Gloriana. Giorni di caldo feroce, passati intorno a un tavolo a leggere le storie dei nostri “contendenti”, a cercare facce nuove per gli opinionisti, a scegliere gli argomenti per le cause di settembre.

Tutti i pomeriggi, poi, devo scendere in studio per registrare le solite telepromozioni da inserire nelle nuove puntate. Quelle non vanno mai in vacanza, per fortuna. Quindi camerino, trucco, parrucco e cambio abiti. Ivan mi porta sempre la frittata di maccheroni alla napoletana, bruciacchiata come piace a me, fatta da lui. O la torta caprese, più buona e morbida di quelle che mangio a Capri. E litiga con Gaetano, il mio costumista, che non vuole che le mangi, perché poi ingrasso, e non mi vanno più i vestiti.

Il mio camerino è la mia seconda casa. Stessi colori bordeaux per il divano, e stesso genere di stampe alle pareti. C'è il mare dappertutto. C'è anche il famoso faro della Bretagna sommerso dal mare in tempesta. C'è il libro con le poesie di Hikmet, il poeta turco, che scrive dalla sua prigionia politica bellissime pagine d'amore alla sua donna: “Il più bello dei mari / è quello che non navigammo … E quello / che vorrei dirti di più bello / non te l'ho ancora detto”. Ne ho una copia in tutte le stanze di casa. Dove mi sposto mi porto anche Hikmet. E compro sulle bancarelle tutte le vecchie copie che trovo, una specie di fissazione, non riesco a lasciarle lì, magari non sarebbero amate come le amo io.

Allo specchio, quello con tutte le lampadine intorno per il trucco, ho infilato le foto di Giulia, di Lollo, di un ex amore e dei miei cani. E poi una montagna di animaletti di peluche che mi porta in regalo il pubblico. Che bello, il loro affetto. Consolatorio. Quando fai il tuo lavoro con passione impari anche ad amare le persone che ti permettono di farlo. Le “mie” signore mi mandano di tutto, centrini all'uncinetto, braccialetti di perline colorate, cuscini a forma di cuore, e pure dolci, ciambelline al vino, cannoli. Ma quelli me li sequestra subito Gaetano, sempre per lo stesso motivo di cui sopra. E cioè che poi deve farmi allargare gonne e pantaloni.

La redazione e gli autori, per un mio compleanno, mi hanno fatto trovare in camerino un piccolo stereo compatto. Così, mentre Ivan mi trucca, posso ascoltare le mie playlist preferite, fatte da me, roba da tagliarsi il cuore a pezzetti. E lui e Gaetano sono costretti ogni giorno a sorbirsi, a seconda dell'umore, Vecchioni, Vasco Rossi, Biagio Antonacci. Ogni tanto guardo le loro facce attraverso lo specchio e scoppio a ridere. Malgrado le mie playlist, che loro detestano, mi vogliono bene.

Loro mi sono stati vicini, in quel camerino, anche quando ho combattuto una battaglia che mi ha lasciato dentro ferite profonde, che ancora bruciano, bruciano forte. Quanti pianti, quanta rabbia, quanti “perché” abbiamo cercato insieme. Quanti abbracci mi hanno regalato. Tutto per colpa di una contendente che era venuta a “Forum” a raccontare di essere stata vittima di un terremoto, quello dell'Aquila, che invece non l'aveva neanche sfiorata. Non le era caduta nessuna casa addosso, non aveva perso nessun negozio di abiti da sposa, non aveva vissuto nessun lutto devastante come quello che, purtroppo, aveva colpito tante famiglie, quella notte. Un'attrice da Oscar. L'avevo ascoltata parlare davanti al giudice, la guardavo, stavo male per lei, sapevo fin troppo bene cosa significasse un terremoto che ti distrugge la vita. Lei era assolutamente credibile nel dolore che ci stava rappresentando. Solo che non era vero, ci aveva imbrogliati tutti, ci aveva presi in giro. Chi le aveva fatto il provino le aveva creduto. Ci siamo cascati come degli imbecilli, autori, produzione, redazione. E ci sono cascata anch'io. Che, siccome rappresentavo la faccia del programma, ho pagato per tutti. Mi si è scatenato addosso l'inferno, in tanti anni di lavoro non mi era mai successo di rischiare di mettere così seriamente a rischio la mia credibilità. I giornali mi hanno sbattuta, come il famoso mostro, in prima pagina. Più cercavo di giustificarmi, spiegando quella che era l'unica verità che conoscevo, e cioè che noi di “Forum” non ne sapevamo niente, più mi massacravano. Anche per la strada, anche in pizzeria. Per giorni mi sono vergognata a uscire di casa, non volevo mettere in imbarazzo i miei amici che intervenivano per difendermi, trovavo tutto così assurdo, così ingiusto.

Avevamo bloccato la normale messa in onda della trasmissione per dare continuamente informazioni sulla Croce Rossa, sui centri raccolta cibo e vestiti, sulle strade che erano state interrotte e quelle che si dovevano percorrere, per dare spazio alle voci di persone che, dall'estero, volevano avere notizie dei loro parenti. Avevo denunciato una banca che voleva far pagare la commissione sui conti correnti che avevamo creato con il Tg5. Eppure, sulla mia testa, si era creato un vero e proprio caso politico. I partiti mi “usavano” per la loro becera propaganda. E allora, un giorno in cui l'incubo è diventato più pesante, insopportabile da vivere, sono andata alla Polizia postale per cercare di bloccare chi mi mandava messaggi di morte. Per me e per mia figlia. Quando, poi, la “signora” ha pensato bene di farsi invitare in una trasmissione della mattina su Rai 3, per ripetere la stessa sceneggiata, hanno fatto tutti marcia indietro. Non eravamo stati noi di “Forum” ad avere speculato sul dolore terribile e devastante di un'intera comunità, ma era la “signora” che era una mitomane. Ma a me il danno “dentro” è rimasto, e fa ancora molto male. Ci ripenso mentre stiamo decidendo le prime cause da far andare in onda a settembre.

Anche questo pomeriggio, quindi, lascio la riunione a metà, passo dal camerino e scendo in studio. C'è Piero che mi aspetta, è il direttore di studio, la mia sicurezza quando siamo in onda. Sembra burbero, diventa rosso paonazzo quando si arrabbia con i ragazzi del pubblico, che non ne vogliono sapere di stare zitti durante la trasmissione, ma io lo adoro. "Rita, ti hanno detto che dobbiamo registrare 28 telepromozioni?" "Sì, lo so, ma tu mi fai abbassare l'aria condizionata, per favore? Qui dentro si gela." Marco Senise e io finiamo le telepromozioni alle 19, senza più fiato. A parlare velocissimamente non ti entra quasi più ossigeno nel cervello.

Torno su da Anna per salutarla. Siediti, Rita, dobbiamo dirti una cosa. È con Stefano. Hanno una faccia che mi mette in allarme, una faccia da codice rosso. C'è un'aria strana in questa stanza, un'aria pesante. Si guardano e mi guardano, capisco che stanno per dirmi qualcosa che mi farà male, molto male. Alla fine la verità viene fuori. "Ci hanno telefonato da Milano riferendoci che le registrazioni di “Forum” finiranno a novembre." "Come a novembre? Ma non andiamo avanti fino a giugno?" Un pugno nello stomaco terribile, improvviso. "Dai, non è vero, mi state prendendo in giro, se è uno scherzo è di pessimo gusto." Ma loro non fanno scherzi di pessimo gusto, sono persone serie, ci vogliamo bene. Sono l'altra mia famiglia. "Non ci credo, ma siete tutti impazziti, ma perché, non è possibile, e i contratti già fatti agli autori? Siete sicuri, non è che poi ci ripensano? Chi è che vuole il “nostro” mezzogiorno?" Faccio domande a raffica, mi sento come un pugile suonato, svuotato, un sacco che cinque minuti fa era pieno e adesso è floscio. E loro sono sotto botta quanto me.

Scendo dal ring con la sensazione di una sconfitta grande. Eppure la stagione è andata benissimo. Ci siamo dati del filo da torcere con Antonella Clerici, la mia dirimpettaia alla “Prova del cuoco”. “Forum” è “Forum”. Me lo sono cucita addosso, un abito sartoriale, non acquistato nel primo negozio che capita. È la colonna del mezzogiorno di Mediaset. Intere generazioni di avvocati sono cresciuti a pane e “Forum”. "Che cavolo è successo, Anna?" Ci guardiamo in silenzio, non lo sa neanche lei. Io non so se essere imbestialita nera o delusa. Certo sono ferita, proprio nel profondo. Possibile che tutto sia successo mentre facevo le telepromozioni dei materassi? Tutto in due ore?

Afferro la borsa, sbatto la porta dell'ufficio di Anna, corro giù per le scale, mi infilo nella macchina di Alessandro, l'autista della produzione, e comincio a piangere. Un pianto che ancora oggi non so definire. Ma come, dopo più di trent'anni a Mediaset nessuno mi avverte di una decisione del genere? Non è possibile, fra me e l'azienda c'è un rapporto troppo forte. Di affetto profondissimo. Ci amiamo. Non sono solo una che lavora PER loro, io lavoro CON loro. E da un'infinità di anni. Abbiamo pure vinto 4 Telegatti, con “Forum”. C'è stima, ci sono i tanti ricordi che ci legano, le battaglie fatte insieme quando ci volevano oscurare, quando volevano chiudere Rete 4. Mi sono inimicata mezzo mondo politico quando ho litigato con D'Alema in una trasmissione di Santoro, su Rai 3, per la difesa dei posti di lavoro a Mediaset. Mi ha dato della populista, e io gli ho risposto per le rime. Avrebbe dovuto salvarli lui, i lavoratori, invece di fare salotto da Santoro. Ma siccome appartenevano alla parte “sbagliata” della politica, se anche fossero stati licenziati per la chiusura di Rete 4, pazienza. Bisognava abbattere Berlusconi. Ma la censura, questa volta, non aveva vinto.

Mentre Alessandro mi riportava a casa sentivo crescere dentro di me una sofferenza enorme. La mia vita privata era stata, fino a quel momento, intrecciata con la loro. Un grandissimo amore professionale. Se vogliono chiudere “Forum”, allora basta, me ne vado, non ci sto. Ma perché cavolo non mi hanno chiamata, perché non mi hanno avvertita? Purtroppo, ma l'ho scoperto solo dopo, non bisogna mai, per nessun motivo, agire di pancia. Mai. Bisogna fermarsi a riflettere, fare un lunghissimo respiro, resettare i pensieri negativi, lavare con la varichina il cervello e pulirlo dalle scorie di ogni istinto di rivalsa. Bisogna mediare fra rabbia e dolore. Avrei dovuto alzare il telefono e prendere un Frecciarossa per correre a Milano. Avrei dovuto parlare con i piani alti. Avrei dovuto aspettare, chiedere, capire. Non l'ho fatto, ero troppo ferita.

Sono stata un'imbecille. L'orgoglio è la forma più alta dell'imbecillità. Ho accettato, per ripicca, un altro contratto, come si fa in amore. Chiodo scaccia chiodo. Ma poi non me la sono sentita di fare su La7 una trasmissione simile a quella che avevo fatto per tanti anni in quella che continuavo a considerare la mia azienda. E sono andata via anche da lì. Mi è sempre mancato quel pelo sullo stomaco che abbonda invece in tanta altra gente. Ripeto, nessuno di loro saprà mai davvero quanto li ho amati. Uno per uno, malgrado tutto.

"Rita, sta arrivando al Palatino il presidente Berlusconi, puoi togliere la macchina dal cortile?" La “macchina” è una vecchia Micra rossa, che amo quasi quanto amo i miei cani. A chi può dare fastidio? Con tutto il casino che fanno le ragazze di “Non è la Rai” figurati se si accorgono proprio della mia Micretta rossa. Sospendo le telepromozioni, salgo in camerino, prendo le chiavi e corro fuori. E, naturalmente, vado a sbattere contro il presidente. Sta arrivando con Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Scende dalla macchina, e si ferma a salutare le guardie giurate, all'entrata. Questa è una cosa che gli ho copiato. Inutile tirarsela come se esistessi solo tu, piccolo uomo o piccola donna. E ce ne sono anche troppe, nel nostro ambiente, di queste piccolissime persone. Tu esisti perché hai intorno tutti loro, ricordatelo. Niente è tuo. Nemmeno il tuo successo. Tecnici, macchinisti, registi, sarte, trucco e parrucco, autori, redattori, direttori delle luci, scenografi, costumisti, vigili del fuoco e guardie giurate. Questo, Berlusconi lo sa e lo ha insegnato a tutti, c'è chi ha imparato, e chi continua a credere che tutto gli sia dovuto.

Entra in studio e ricorda il nome di ognuno di loro. Si informa sulle loro famiglie, sui loro figli. Più di una volta è intervenuto personalmente per risolvere qualche loro grosso problema di salute. Quante litigate ho fatto, per difenderlo. E quante ne faccio ancora. Anche sui social. Mi hanno buttato addosso fango e livore. Mi hanno scritto cattiverie senza senso, che mi hanno ferita profondamente. E alcuni, i famosi leoni da tastiera, nascosti dall'anonimato e con profili aperti solo per offendermi, continuano a farlo ancora adesso. “Se tuo padre sapesse che lavori con il capo della mafia, si rivolterebbe nella tomba.” “Se lavori a Mediaset vuol dire che sei mafiosa come lui.” Non sono mai arretrata di un centimetro, perché so che non è vero, che la mafia va cercata da altre parti. A Montecitorio, per esempio. Lo sapevano tutti, in quel periodo, ma faceva comodo addossare a lui ogni nefandezza possibile. Non entro nel merito o demerito politico. Parlo solo di un uomo che ha dato lavoro, dignità e benessere a tanta gente.

Ci siamo sempre dati del lei. "Rita," mi diceva all'inizio "non stia davanti alle telecamere con le braccia incrociate. È un segno di chiusura verso gli altri. Si muova, stia proiettata verso chi le parla. E ascolti quello che l'ospite le sta dicendo. Si dimentichi delle telecamere. E sorrida, sorrida sempre." Una delle poche persone che non è riuscito a portare a Mediaset è stato Fabrizio. Lo voleva, lo voleva a tutti i costi. Erano gli anni dei suoi grandi successi del sabato sera con Michele Guardì. “Europa Europa”, “Scommettiamo che?”, “Per tutta la vita…?”. Gli anni de “I fatti vostri”, della staffetta Frizzi - Alberto Castagna. Di “Telethon”, “Miss Italia”.

Il presidente ci invitò una sera a cena a casa sua, abitava ancora in via dell'Anima. C'erano Confalonieri, Corrado e Gianni Letta. Vicino al nostro piatto trovammo due astucci con due orologi da polso uguali. Bellissimi. E, davanti a un risotto, cominciò a fare la corte a Frizzi. Gli offrì un contratto pazzesco, gli disse: "Le do quello che vuole, qui c'è un foglio bianco, scriva lei la cifra". Io guardavo Fabrizio con la faccia di chi pensa: “Se non accetta è matto”. Fabrizio non accettò. Voleva restare in Rai, nei secoli fedele, come i Carabinieri. Non si vendette, non giocò su più tavoli, come poi ho visto fare a tanti suoi altri colleghi e colleghe. Ero orgogliosissima di lui. Resistette anche al pressing a casa, la domenica pomeriggio. Rispondevo sempre io, al telefono. "Buonasera Rita, c'è suo marito?" "Presidente, ma lei non si arrende mai? Perché non chiama mai me, qualche volta, per farmi i complimenti per “Forum”?" "Perché la sua trasmissione va bene, Rita, non ce n'è bisogno. Mentre io, adesso, ho bisogno di Frizzi." Arrivò anche a mettere, per scherzo, una penna in mano alla signora Rosa, sua mamma, durante una serata dei Telegatti. "Mamma, convincilo tu, lui non ne vuole sapere, a te non può dire di no." Niente, testardi tutti e due, sui due fronti opposti.

Fabrizio e io ci regalammo qualche giorno in montagna, come i bambini che non vanno a scuola per fare la settimana bianca. E anche lì, in quel piccolissimo paese vicino a Courmayeur, continuarono ad arrivare le telefonate del presidente. Francesca Assumma, avvocato di Fabrizio, un giorno ci chiamò per dirci che Paolo Vasile, braccio destro di Berlusconi su Roma, stava arrivando, in elicottero, contratto in mano, per farglielo firmare. Fabrizio non arretrò di un centimetro, non ci fu niente da fare. "Fabri, pensaci, mi hai sempre detto tu che certi treni non passano mai la seconda volta. Perché quello che deve valere per me non vale per te?" Al presidente rimasi in eredità io. Ma senza un contratto come quello proposto a Fabrizio…

In seguito ho capito che, spesso, fedeltà e correttezza, in quest'ambiente, pagano poco. E non parlo solo per me, parlo soprattutto per Frizzi.

Mentre scrivo mi chiedo se sia giusto che io parli di Fabrizio. Non c'è più, purtroppo, manca tanto a tutti, e devo pesare bene ricordi e parole. Non voglio mancare di rispetto a Carlotta e Stella, la sua splendida bambina, il suo grande amore. L'aveva desiderata così tanto. Appena è nata mi ha chiamato subito, pazzo di gioia, sapevo cosa significava per lui quel regalo preziosissimo che gli aveva fatto Carlotta. Quel giorno Lorenzo, mio nipote, ha mandato a Stella i primi fiori della sua vita. Un cesto con dentro tante roselline rosa.

Ripeto, forse per qualcuno non è giusto che io racconti, in questo libro, anche il mio percorso con Fabrizio. Ogni volta che mi azzardo a nominarlo sui social c'è sempre qualche leone da tastiera che mi aggredisce, che mi ricorda che la vedova è Carlotta, che non posso e non devo sostituirmi a lei, che io sono “soltanto” la sua ex moglie, e che se ne parlo è solo per avere qualche minuto di visibilità. A parte il fatto che lavoro in televisione da talmente tanti anni da non avere certo bisogno di quel tipo di pubblicità. A parte il fatto che la nostra era ormai una “vecchia” coppia storica, tipo quella di Al Bano e Romina, che ha continuato ad appassionare il pubblico anche quando ci siamo lasciati. A parte il fatto che davanti a un dolore così forte è di pessimo gusto parlare di ex, perché non è una gara a chi ha diritto a soffrire e chi no. A parte il fatto che la causa della nostra rottura non si può certo dire che sia stata squisitamente privata, visto che ci sbattevano sui giornali tutti i giorni, e che Carlotta è entrata nella sua vita soltanto tre anni dopo. A parte il fatto che quando ci si è voluti bene fin da ragazzi, come ci siamo voluti bene noi, condividendo ogni giorno la fatica per raggiungere le nostre rispettive mete, nel più grande rispetto per i sogni dell'altro, si creano zone invalicabili che gli estranei non devono permettersi di varcare. E a parte un'infinità di troppe altre cose che sono appartenute solo a noi, mi è veramente molto difficile tracciare un profilo della mia vita senza parlare anche di lui.

Sto cercando di parlarne solo per la mia parte di vita vissuta insieme. Per il rispetto che devo ad altre persone, non parlo né del quando né del come mi ha chiesto di sposarlo, né del periodo del nostro fidanzamento, né del nostro matrimonio nella sua villa a Bassano Romano. Posso solo raccontarvi che i fotografi si erano affittati perfino i balconi e gli alberi delle case di fronte per avere un'esclusiva. Ma Fabrizio e io, che non abbiamo mai amato le esclusive, abbiamo chiesto a tutti i direttori di giornale di fare un'offerta all'ONAOMAC, l'associazione che si occupa degli orfani dei Carabinieri. Era un modo indiretto per avere vicini anche i miei genitori.

Mi è stato detto: "Sbagli, Rita, non ti tirare indietro, parla di Fabrizio quanto vuoi, siete cresciuti insieme, guarda quanto continua ad amarlo la gente. È stata anche la tua vita, perché ti devi autocensurare?". È vero, ma la memoria del Fabrizio privato non appartiene solo a me. C'è tutta un'altra parte della sua vita che ha vissuto con un'altra persona, con sua moglie e con sua figlia. Da un certo giorno in poi, il cammino di Fabrizio è stato al fianco di Carlotta, che lui ha amato moltissimo. Una donna alla quale anch'io voglio bene, che stimo infinitamente. E non mi permetterei mai di attraversare la loro strada.

Lo conosco da trentacinque anni. Voglio continuare a parlarne al presente, come faccio con tutte le persone che ho amato e che, purtroppo, non ci sono più. Ha fatto parte della mia vita per sedici anni, come compagno e marito, e poi ha continuato a farne parte fino al 26 marzo 2018, sempre vicino a me e Giulia, come amico, fratello, “famiglia”. Fino alla fine. Trentacinque anni di affetto alla luce del sole, davanti a tutti. Trentacinque anni cominciati subito dopo la perdita di suo padre, di mio padre e di tutto quello che, in quel periodo, stavo vivendo. Mi ha aiutata lui a uscirne viva, non posso dimenticarlo. Non posso azionare il freno a mano ogni volta che un ricordo lo sfiora. Non sarebbe giusto né per me né per lui, sarebbe Fabrizio il primo a non volerlo. Vivevamo in totale complicità, anche se i ruoli e i sentimenti erano cambiati. Ma la complicità, no, era rimasta. Quando lo rivedo in televisione, penso subito “Io quel giorno o quella sera c'ero”. Conoscevo ogni parola dei copioni che si scriveva al computer la mattina, in cucina. Seguirci nei nostri rispettivi lavori era l'unico modo che avevamo per stare un po' insieme, visto quanto stavamo in onda tutti e due. Trentacinque anni, vissuti in quel modo, sono stati tanti, valgono una vita intera, far finta che non siano esistiti sarebbe come buttare nella spazzatura tutto quello che c'è stato e che abbiamo costruito insieme. Sarebbe come mancare di rispetto a un vissuto che nessuno potrà mai eliminare.

La mia presenza accanto a lui e il nostro matrimonio, invece, da alcuni sono stati cancellati. Chissà, forse è giusto così, non lo so. So soltanto che ognuno si è appropriato del suo ricordo, ognuno ne parla come se fosse stato il suo migliore amico, ognuno può scrivere che gli manca, in ogni trasmissione fanno rivivere le sue immagini, ognuno ha un aneddoto da raccontare, anche persone che con lui non hanno mai avuto niente a che fare. Fabrizio continua a “fare ascolto”. Hanno intitolato a lui gli studi della DEAR. La sua foto è all'ingresso di via Teulada, insieme a quella di Sandra e Raimondo. Hanno istituito una borsa di studio intitolata a lui. A lui che proteggeva e aiutava chiunque avesse un dolore nella vita. Ricordiamoci infatti che Fabrizio, tra le tante cose belle che ha fatto, ha donato il suo midollo osseo a una ragazza che oggi, grazie a lui, si è anche potuta sposare. Era davvero una persona speciale, l'hanno amato tutti.

Anch'io l'ho amato, quando ancora non era nessuno e andavamo in giro sulla sua 127 azzurro metallizzato, con un finestrino rotto. Mi diceva: "Ma non ti vergogni a salire con me su questa macchina?". No, ne ero orgogliosa. Come sono stata orgogliosa di averlo sposato. Ed è stato bello che anche lui, dopo la nostra separazione, abbia continuato a parlare di me, di noi, nelle interviste in televisione, sui giornali. Con estrema delicatezza nei confronti di tutti. Mi aveva sempre detto: "La persona che starà con me dovrà accettare anche te e la nostra storia". Non è un concetto così difficile da capire. Per molta gente, purtroppo, la separazione è un modo per far pagare all'altro conti che tanto, ormai, non torneranno più. Per vendicarsi instillano l'odio nei loro figli. Vanno in giro sputando veleno sull'altro coniuge, con il coltello fra i denti. Cercano di spillare più soldi che possono. E se non ci sono soldi, ma un semplice stipendio, si cerca di mettere in mutande l'altro, negandogli ogni possibilità di rifarsi una vita.

Sapete come abbiamo firmato la nostra separazione, Fabrizio e io? Questo lo voglio dire. Tenendoci per mano. L'amore è anche lasciare libero l'altro, nel momento stesso in cui se ne vuole andare. Per cui consiglio il silenzio ai tanti che puntano il dito senza sapere. Li lascio nel vuoto delle loro esistenze. Con tutti i dolori e i casini che ho avuto, non cambierei mai la mia vita con la loro. Una vita senza amore, questo è evidente. Una vita arida. Mentre sarebbe così importante, ogni tanto, praticare un po' di sana pietas umana.

 

Un giorno l'onda chiese al mare: "Mi vuoi bene?". Ed il mare le rispose: "Il mio bene è così forte che ogni volta che t'allontani verso la terra, io ti ritiro indietro per riprenderti fra le mie braccia. Senza te la mia vita sarebbe insignificante. Sarei un mare piatto, senza emozione. Tu sei l'essenza del mio esistere". L'onda fu felice, fra le braccia del mare. Facendo finta, ogni volta, di volare via, per dare quel senso di precarietà alle cose, che le rende più preziose. E ogni volta il mare la riprendeva, con le sue braccia grandi, per riportarla a sé. Raccontano che in una notte in cui la luna illuminava il mondo, l'onda bianca, lentamente, in un ballo infinito, scivolasse tra un prendersi e lasciarsi, col mare che le tendeva le braccia per poi ritirarle… facendo finta, a volte, di non poterlo fare, perché anche l'onda assaporasse anch'essa quella precarietà che rende le cose preziose. L'onda e il mare sono ancora lì, nel gioco infinito delle emozioni. E fanno finta che sarà l'ultima volta che l'onda partirà verso la terra, per non tornare mai più. Ma poi, alla fine, è più forte il bisogno di riprendersi. Nel sogno di un bene senza fine.

 

TONY KOSPAN, Petali di luce

 

2.

Sto dormendo, è l'una di notte, e mi squilla il telefono di casa. Il numero lo conoscono in pochi, mi preoccupo subito, ho i miei fratelli lontani, per cui il cuore mi fa un salto in gola. È Fabrizio, il mio vecchio amico della notte. Siamo già separati da tre anni, ma continuiamo a sentirci quasi tutti i giorni. "Che c'è, Fabri? È successo qualcosa?" "No, non riesco a dormire, volevo che sapessi da me, prima che dai giornali, che ho una storia con una persona a cui tengo molto." "Scusa, ma mi svegli a quest'ora, per dirmelo?" "Sì, perché credo di essermi innamorato." "Perfetto, sono felice per te." "Avevo bisogno di sentirti, Rita, non so cosa fare." "E chi sarebbe, questa persona?" Curiosa come una scimmia, non mollo l'osso. È la prima volta che, dai tempi della nostra storia, gli sento dire di essersi innamorato di un'altra. Un conto sono le storielle, un conto è la parola “innamorato”. Una parola grossa, che Fabrizio aveva usato solo per me. Una piccola puntura di spillo la sento, è normale.

"Insomma, come si chiama, dove l'hai conosciuta? E perché dici che non sai cosa fare?" A questo punto voglio sapere tutto. Si chiama Carlotta, e l'ha conosciuta l'anno scorso a Miss Italia. "E ci hai messo un anno a capire che è quella giusta per te?" "E dai, smettila. L'anno scorso durante il concorso neanche ci siamo parlati. Quest'anno le hanno fatto fare i collegamenti da studio, e l'ho conosciuta meglio. Mi piace moltissimo." "E, allora, perché dici che non sai cosa fare?" "Perché forse è un po' troppo giovane per me." Troppo giovane quanto? "Un po'…" "Scusa, ma quando mai ti sei fatto problemi sull'età, Fabri? Anch'io ero più grande di te, te lo sei dimenticato? E a te non è mai importato niente. Adesso posso tornare a dormire? Domani ti chiamo e ne parliamo meglio, buonanotte."

Dopo nemmeno un minuto dalla fine della telefonata, ero già davanti al computer per cercare questa Carlotta sul sito di Miss Italia. Bella, ho pensato quando l'ho vista, è proprio carina, dove glielo trovo un difetto a questa ragazza? Come faccio a distruggergliela? Fabrizio mi diceva sempre che ero bravissima nel massacrare tutte quelle che gli giravano intorno, e su qualcuna avevo avuto ragione da vendere.

Carlotta Mantovan, seconda classificata. Ingrandisco la foto, alla ricerca di un particolare che non mi piace, qualcosa che magari è sfuggito a Fabrizio. Niente, e che le vuoi dire? Ha classe, un bellissimo sorriso. Torno a letto, lo richiamo subito, e lui risponde al primo squillo. Rideva. "Stavo contando i secondi, lo sapevo che mi avresti richiamato. Scommettiamo che ti sei subito messa a spulciare notizie su internet?" Presa in castagna, mi conosce come le sue tasche. In seguito ho scoperto che non è solo bella, Carlotta, ma è anche una ragazza tosta e intelligente. Non ha mai cercato di dividerci, di metterci contro, eppure avrei potuto essere una figura ingombrante, nella vita di Fabrizio. Lei, invece, è sempre stata sicura del suo amore e della mia totale lealtà e correttezza nei loro confronti. Una delle mie regole basilari… non fare a un'altra quello che è stato fatto a te… E, infatti, anche grazie a Carlotta e alla serenità che ci trasmetteva, con Fabrizio abbiamo potuto continuare a lavorare insieme, tranquillamente e senza problemi, per un sacco di tempo.

Ci siamo incontrati a moltissime serate di beneficenza in giro per l'Italia, ci siamo ritrovati spesso ospiti delle stesse trasmissioni, e poi tutti a mangiare insieme dove capitava. Abbiamo anche condotto, nell'estate del 2015, per Rai 1, “La posta del cuore”. Quando Barbara Boncompagni mi ha chiamata per chiedermi se ero disposta a farla, ero in Sicilia, a Mondello, seduta in spiaggia a guardare il mare. La prima cosa che le ho domandato è stata: "Ma Fabrizio che dice, lo sa che dobbiamo lavorare insieme?". "Guarda che è stato lui a dire alla produzione che vuole te." La sera dopo ero già sul mio solito vagone letto per tornare a Roma. Preferisco non prendere aerei.

Quello è stato un periodo di grande divertimento, anche per le persone che lavoravano con noi. Ci guardavano come fossimo dei marziani, si indovinava in loro la curiosità di rivederci insieme. Litigano, non litigano? Ma questi due ci sono o ci fanno? Magari si aspettavano qualche tensione, qualche scazzo, ma per noi era normale prenderci in giro, ci conoscevamo bene, facevamo leva sulle corde più “sensibili” dell'altro e sapevamo bene dove colpirci. Come i pugili sul ring. Non è che di colpo ti sparisce la complicità che hai costruito per trentacinque anni. Abbiamo fatto un sacco di servizi fotografici insieme, ridevamo quando i fotografi ci dicevano “mettetevi più vicini”, e io rispondevo no, adesso lui è sposato. Era un gioco, una risata continua.

Gli avevo chiesto, prima di cominciare: "Ma Carlotta che dice, è d'accordo, non è che le dà fastidio?". Ragionavo come Rita, in base a quello che avrebbe dato fastidio a me. Avrei rinunciato anche alla trasmissione pur di non andarmi a scontrare contro i suoi sentimenti. Ma lui era tranquillo, il nostro amore era finito da tanti anni, ora c'era solo questo grande affetto, fra noi, che ci faceva stare bene. E, soprattutto, non mi sarei mai permessa di far soffrire a Carlotta quello che, in passato, avevo sofferto io. Non sono mai stata Rebecca la prima moglie, per intenderci. Ecco perché faccio così fatica ad accettare che molta gente non capisca che, anche quando la coppia scoppia, possa rimanere fra due persone un affetto profondo. Un grande amore non può essere cancellato senza cercare di salvare almeno quello che di più bello c'è stato. Significherebbe ammettere un fallimento che invece fallimento non è. Se avessi coltivato il rancore, allora sì che mi sarei sentita una fallita. A un certo punto la vita si trasforma, ci trasformiamo anche noi, un giorno ci guardiamo allo specchio e non ci riconosciamo più, quindi figurati se non si trasformano i sentimenti. Ma tutto questo non cambia la realtà del bene che ci si è voluti. Non cambiano i ricordi, i momenti in cui l'altro ci ha fatto innamorare, e pazienza se quando ci si lascia uno dei due piange più dell'altro. Fa parte delle regole del gioco.

Detesto la parola “ex”, lo dicevo anche prima. Che significa “ex”? Se non ti rispetti, e non rispetti gli altri, puoi davvero rimanere un ex a vita. Siamo stati impastati degli stessi sentimenti per anni, e i sentimenti non diventano mai ex. Logico, i primi tempi che ci siamo lasciati non sono stati facili, anzi. Il nostro dolore era sbattuto quotidianamente in prima pagina. In alcuni ambienti romani si diceva: “Per forza, lei era troppo vecchia per lui”. Fabrizio smentiva, si imbestialiva se qualcuno si azzardava a toccarmi, a fare commenti al veleno su di me o su di lui. Faceva l'impossibile per proteggermi. Ci ha messo tre anni prima di togliersi la fede dal dito. Gliel'ho tolta io. E lui l'ha tolta a me. E sono passati tre anni prima di chiedermi la separazione.

Vivevamo con i paparazzi appostati giorno e notte sotto casa. Me li ritrovavo anche in chiesa, o al mercato mentre facevo la spesa. Appostati dietro gli alberi. In quel periodo stavamo cambiando casa. Da quella di Monteverde ci stavamo trasferendo a Vigna Clara. Fabrizio voleva una casa più grande, per invitare i nostri amici a cena e poter fare musica con loro. Avevamo allargato gli spazi e abbattuto tutti i muri divisori, così la casa girava intorno a un grande salone pieno di luce, sui pini di Roma, e con un piccolo soppalco per la batteria. Gliene avevo fatta arrivare una dall'America per il suo compleanno. Ma non avevamo fatto i conti con la vita. Ci separammo proprio quando la casa era ormai stata ridotta dai muratori a un cumulo di macerie. Non potevo rivenderla, in quelle condizioni, né tornare nella mia di prima, già data in affitto a un'altra famiglia. Il classico momento dello stallo, quando un aereo non può più tornare indietro né andare avanti. Puoi essere solo fortunato a trovare un aeroporto di emergenza, ma è difficile in mezzo all'oceano. E noi eravamo in mezzo all'oceano.

Lui tornò a vivere per qualche tempo a casa di sua madre, e io mi rifugiai in albergo. Feci il trasloco da sola, senza rendermi nemmeno conto che, dalla mattina alla sera, mi si era sbriciolata la vita. C'erano ancora troppe cose in sospeso, fra di noi. Cose che avremmo dovuto trovare il coraggio di affrontare, non ultimo il dubbio che forse stavamo sbagliando, e che avremmo dovuto provare a regalarci un'altra possibilità. Cercavo di aggrapparmi alla sua famiglia, che era diventata anche la mia, ma quando hai un problema il problema resta tuo. Lo puoi condividere, ma non puoi dare agli altri la responsabilità di risolvertelo.

Purtroppo stavamo vivendo la nostra crisi sotto i riflettori, tutti si sentivano in dovere di intervenire, ognuno dava la propria spiegazione sul caso Frizzi - dalla Chiesa, le trasmissioni del pomeriggio ospitavano solo persone che parlavano di noi senza conoscerci. Ricordo un sottotitolo che passava continuamente durante “La vita in diretta”, condotta all'epoca da Michele Cucuzza: Fabrizio torna a casa. Eravamo sfiniti, divorati dalla curiosità dei giornalisti e del pubblico. Cercavamo di incontrarci di nascosto, nella macchina di qualche amico per dare meno nell'occhio, ma dopo neanche dieci minuti eravamo già nel mirino di qualche teleobiettivo. Fabrizio si innervosiva, cominciava a correre come un pazzo per tentare di seminarli, ma alcuni avevano moto potenti, rischiavamo di farci del male, noi e loro. Io piangevo, gli urlavo basta, Fabri, rallenta, fermati, chissenefrega se ci fotografano, non dobbiamo rendere conto a nessuno. Siamo marito e moglie, non sono la tua amante. Ma tutta quella pressione mediatica, sicuramente, non ci ha aiutati a ricucire il matrimonio. Forse, e questa è una quasi-certezza, se nessuno l'avesse saputo, se non fosse uscito quel maledetto comunicato stampa, che Fabrizio era stato costretto a fare per mettere a tacere le troppe voci che circolavano su di noi, ci saremmo potuti riavvicinare. Ma in edicola c'erano già le copertine dei giornali con Fabrizio a cena o in macchina con una che non ero io. Per fortuna, in quei giorni, potevo contare sull'amicizia di un collega leale, Alfonso Signorini. Avevamo lavorato insieme per Silvana Giacobini, sapeva quello che stavo passando, sapeva probabilmente anche molte più cose di me, e cercava di parare i colpi avvertendomi: "Guarda che domani escono queste foto sui vari settimanali. Non starci troppo male".

Almeno ero preparata. Fabrizio e io non abbiamo praticamente avuto il tempo di riflettere, di guardarci in faccia e dirci “Ma che ci sta succedendo?”. Un incubo da togliere il fiato, mi sembrava impossibile che stesse accadendo proprio a noi. Mi sento male ancora adesso, dopo tanti anni, solo a ricordarlo.

Decidemmo di lasciare Roma per qualche giorno. Andammo all'Argentario, posto neutro e neutrale. Davanti al mare, fra un tornante e l'altro, da Porto Ercole a Porto Santo Stefano, ho pianto l'inimmaginabile. Volevo a tutti i costi salvare il nostro matrimonio, ma non sapevo come fare, che argomenti usare. Da dove cominciare. Il mio bene per lui era sempre quello di quando ci eravamo conosciuti e di quando era diventato il mio amico della notte. Avevamo attraversato altre crisi, in sedici anni è quasi normale, c'era stato un altro momento molto difficile, fra noi, ma l'avevamo superato. Quella volta gli avevo detto che se voleva del tempo per riflettere, forse avrebbe fatto meglio ad andare in albergo per qualche giorno. Anche in quel caso si scatenarono i giornalisti, nessuno aveva creduto alla storiella che Fabrizio si era allontanato da casa perché stavano facendo dei lavori nel soggiorno. Quella volta non aveva nemmeno fatto in tempo ad arrivare al residence, che già aveva riflettuto. I litigi, quando ci sono stati, si scatenavano spesso anche per colpa mia, mica mi tiro indietro. Ho sempre avuto un carattere difficile, ero gelosa, lui mi diceva esci, fatti la tua vita, quando finisco le prove ti raggiungo, non aspettarmi sempre a casa, che poi ti senti sola e te la prendi con me. Ma io non mi muovevo dal nostro divano del soggiorno, aspettavo lui per mangiare, anche in piena notte. Avevo paura di perderlo. E invece ho imparato sulla mia pelle che è proprio quando abbiamo così paura di perdere qualcuno che allontaniamo le persone che amiamo.

L'anno della nostra separazione si era invaghito, o aveva creduto di invaghirsi, di una tizia che, ancora oggi, deve girarmi al largo, perché se la incontro l'asfalto di brutto. Sono contraria a ogni forma di violenza, però ci vuole un minimo di intelligenza e di classe anche nel portare via il marito a un'altra. Lui, in quel nostro girare senza meta all'Argentario, continuava a ripetermi che la “signorina” non c'entrava niente, che lei o un'altra sarebbe stata la stessa cosa. Stava solo attraversando un momento di confusione. La cosa incredibile è che, al di là della mia sofferenza e dei crampi allo stomaco che non mi facevano respirare, io lo capivo. Aveva ragione lui. L'avevo conosciuto che era un venticinquenne, e in tutto quel periodo non solo si era preso cura di me, ma anche di Giulia. Le aveva fatto da padre, in tutti i sensi. Dal correre di notte in farmacia a prenderle le medicine per il morbillo agli orari serali del rientro a casa, al controllo delle sue amicizie. Si era assunto, per l'età che aveva, delle responsabilità molto più grandi, di cui tanti uomini, e padri, non si fanno carico in tutta la vita.

Lo comprendevo, quindi, quel suo momento di ribellione e stanchezza. Avevo nei suoi confronti una specie di senso materno, che mi portava a perdonargli molte cose. Mi faceva una grande tenerezza. Forse perché avevo dieci anni più di lui. Era sempre stato sotto pressione. Dopo tanti anni di gavetta, fatiche, studio e sacrifici di tutti i generi, era diventato “Frizzi”, l'uomo di punta di Rai 1. L'uomo del giovedì sera e del sabato sera. Lavorava come un pazzo tutti i giorni, fino a notte fonda, perché era uno che doveva avere sempre tutto sotto controllo, non dava tregua a se stesso né a chi gli stava vicino. Il suo habitat naturale era il silenzio della cucina, lui e il suo computer davanti. Non sapevamo cosa fosse un fine settimana fuori, se capitava era solo per lavoro. O per seguire Max Biaggi al Gran Premio di Imola. I quindici giorni di agosto che riuscivamo a ritagliarci, gli unici, li passavamo nella nostra casetta sulla spiaggia, vicino Anzio, con Fabrizio perennemente al telefono con gli autori per preparare “Miss Italia”.

Ma, soprattutto, Fabrizio non ha mai avuto un solo santo in paradiso, né se lo è mai cercato. Non era uno che frequentasse i piani alti di viale Mazzini. Come invece facevano altri suoi colleghi. Lui era lui. Quello che era diventato lo doveva solo a se stesso, alla sua simpatia, alla cocciutaggine e alla capacità che aveva, davvero unica, di interagire con il pubblico. Era perbene, pulito, e la gente l'aveva capito. Come succede sempre in questi casi, più cresceva il suo successo e più aumentavano le ragazze che si inventavano numeri da circo per farsi notare. Sicuramente, gliene giravano intorno di bellissime, e non è che io facessi proprio i salti di gioia. In quei momenti mi sentivo tradita dai dieci anni in più che avevo, erano sberle alle mie insicurezze. Non era un problema suo, però, era un disagio solo mio. Ho visto padri, a Miss Italia, buttargli addosso le loro figlie, senza un minimo di ritegno e di rispetto per me che ero lì davanti, ed ero sua moglie. Non mi vedevano proprio, non gliene importava niente, come fossi trasparente. Ma Fabrizio non lasciava spazio agli equivoci. Era gentile con tutte, ma riservato, corretto. Un “ufficiale e gentiluomo”, come lo definivo sempre io, il primo film che avevamo visto insieme.

Quell'anno conduceva “Domenica in”. Si era rotto una spalla cadendo in moto su una macchia d'olio, una sera, a piazza del Gesù. Davanti alla sede della Democrazia cristiana. Stava tornando a casa da una cena con Max Biaggi. Il suo migliore amico, un ragazzo per cui io provavo una tenerezza infinita. Ricordo la mia corsa in taxi al Santo Spirito, quella notte, con il cuore in gola che non voleva saperne di rallentare i battiti. Mi aveva chiamata la Polizia. Un'infermiera mi consegnò il suo orologio. Glielo avevo regalato io quando il Bologna era stato promosso in serie A. Con il quadrante rosso e blu, come la maglia della sua squadra. Quella notte in ospedale, con la testa appoggiata al muro, pregavo. Signore, se non si è fatto niente di serio, giuro che, se me lo chiede, mi tolgo dalle scatole. Ero innamoratissima e terrorizzata all'idea di perderlo. Difficile da spiegare, ma perdere lui sarebbe stato come perdere un'altra volta mio padre.

Però la magia si era rotta. Dovevo imparare a farci i conti. Non ho mai amato le storie che devono andare avanti per forza. Detesto la tristezza dei silenzi a tavola. Dirgli "Va bene, Fabri, se non sei più felice forse è meglio che ci separiamo" è stata la più grande prova d'amore che potessi dargli. Credo che lui non sarebbe mai riuscito a chiedermelo. Ci volevamo ancora troppo bene.

E poi è arrivata la sera che ha aperto, con un borsone, la porta di casa nostra. Quando ho sentito che la richiudeva dietro di sé sono corsa a guardarlo fuori dallo spioncino. Il dolore mi stava facendo scoppiare la testa. Non ci volevo credere. Era fermo sul pianerottolo. Guardava verso la nostra porta e poi guardava le scale, e poi riguardava la nostra porta. La potevo riaprire, quella porta, forse non ci saremmo lasciati. Siccome non l'ho fatto, non lo saprò mai. Ma quando ha cominciato a scendere le scale ho capito che aveva scelto. Non una nuova donna, ma la sua nuova vita. La mattina dopo sono andata lo stesso a “Forum”, avevo la diretta delle 11, e ho detto a Fabrizio Bracconeri, prima di andare in onda: "Da oggi non nominare più Frizzi". Bracco ha guardato i miei occhi gonfi, malgrado il trucco più pesante del solito, e mi ha abbracciata stretta. Tutto doveva andare avanti come prima.

Come mi ha detto una volta Carlotta, lei e io abbiamo amato lo stesso uomo in periodi e modi diversi. Ma tutte e due abbiamo sempre avuto un grandissimo rispetto l'una per l'altra. Perché, principalmente, avevamo un forte rispetto per lui, per la sua vita, e per le sue scelte. Mi hanno invitata anche al loro matrimonio, ma ho preferito non andare. Quello era il loro giorno più importante, la mia presenza sarebbe stata di pessimo gusto. Avrebbe solo alimentato, per l'ennesima volta, i pettegolezzi dei fotografi e degli invitati. Carlotta meritava di mettere il suo bellissimo abito bianco senza la presenza dell'ex moglie. In questo caso il termine ex ci sta benissimo.

Sono andati Giulia, Massimo e Lorenzo, ed è stato più giusto così.

Ogni volta che Fabrizio veniva a sapere di qualche mia storia paparazzata, vera o presunta che fosse, mi chiamava per chiedermi: "Ma chi è questo tizio, cosa fa nella vita? L'hai avvertito che se ti tratta male poi deve vedersela con me?". "Ma di che ti impicci" ridevo io. "So difendermi benissimo da sola." Non si fidava, e allora si informava con le mie amiche più care. Mara, Paola, mia sorella. Non voleva che soffrissi.

Solo su una persona aveva avuto dei dubbi. Gli dicevo che era prevenuto, perché era bello e con gli occhi azzurri, e invece, alla lunga, ha avuto ragione lui. Era una storia complicata, lo è stata fin dall'inizio. Forse per colpa mia, non ero pronta, mi trascinavo ancora dietro i miei problemi e le mie malinconie. I primi tempi mi sembrava strano perfino che un altro mi tenesse un braccio sulle spalle per la strada. O andare al ristorante in due, io e lui da soli. Lui, invece, avrebbe voluto da me una leggerezza diversa, voleva che dimenticassi, tutto e subito. Come se non accettasse che avessi avuto un'altra vita prima di conoscerlo. Soprattutto non riusciva a capire il mio rapporto ancora così stretto con Fabrizio. Avevamo caratteri e aspettative diversi. Un bellissimo uomo, un po' ruvido, ma generoso come pochi, molto tenero. Se avevo freddo si toglieva la sua giacca per coprirmi, mi apriva lo sportello della macchina, mi teneva sempre per mano. Con lui mi sentivo protetta.

Mi destabilizzava solo la pessima opinione che aveva sulle donne. Era come disincantato, aveva conosciuto molte signore che si “distraevano” facilmente dai propri mariti o compagni. E aveva più che ragione, sai quante ce ne sono, quante ne ho conosciute anch'io, nei salotti di Roma e Milano. Per cui si fidava solo di se stesso. Mi amava molto, lo sapevo, e me lo dimostrava in mille modi, ma aveva sempre questo tarlo, che io potessi essere come le altre, quelle che aveva conosciuto prima di me. Tipo l'amore infedele. E quindi era geloso, ma proprio tanto. E pensare che a me erano sempre piaciuti gli uomini gelosi. Mio padre lo era di mia madre, e lei di lui.

La gelosia di Fabrizio era allegra, mi faceva ridere, non ci credeva neppure lui che lo potessi tradire. Solo una volta, per una copertina in cui ero in posa, per un servizio fotografico, con un modello polacco molto, ma molto, ma molto figo, aveva dato fuori di testa. E il magazine era finito nelle acque di un canale di Venezia. Un'altra volta si arrabbiò moltissimo perché Al Bano, per il mio compleanno, mi aveva regalato un ulivo che aveva fatto arrivare dalla Puglia. Lo piantò lo stesso Al Bano nel giardino della nostra casa al mare. E io, per fare spazio all'ulivo, feci fuori il tavolo da ping pong di Fabrizio. E pure il suo biliardino. Ne uscì un casino pazzesco, ma aveva ragione lui, non potevo dargli torto, per cui più di tanto non mi ero potuta giustificare.

Ma questo mio nuovo compagno aveva un senso del possesso che, se anche in qualche modo mi gratificava, dall'altro, però, faceva a pugni con quella che ero io nella mia quotidianità. Fare televisione era un lavoro che mi piaceva moltissimo, è vero, ma era un lavoro come un altro. Non era un modo per cercare un fidanzato. Però lui non ci credeva. Non sopportava l'ambiente dello spettacolo, le pubbliche relazioni, non capiva che facevano parte del gioco. È solo lavoro, continuavo a ripetergli io. Non tolgo niente a te. Appena si spengono le telecamere torno a essere io, una come tante. Infatti, la prima cosa che facevo, dopo la trasmissione, era correre in camerino a cancellarmi il trucco dalla faccia, e a rimettermi i miei jeans e le scarpe da ginnastica. Ma niente serviva a rassicurarlo. A un certo punto, erano cominciati a diventare problemi anche i soliti inviti agli eventi, alle cene, gli abbracci con i colleghi, i “ciao amoreee come staiii” esagerati. False manifestazioni di affetto, che si sprecano con chiunque, di facciata, che danno fastidio anche a me. Mica sono scema, lo so pure io che fanno parte del circo quotidiano dello “spettacolo”.

Dall'altra parte c'era l'amore del pubblico. Gli autografi per la strada o al ristorante. Le richieste di foto con il cellulare. "Signora Rita, può parlare al telefono con mia mamma, che la segue tutti i giorni a “Forum”?" "Per favore, può fare gli auguri alla mia fidanzata che l'ammira tanto?" "Rita, scusa, la bambina vorrebbe farsi una foto con te." La bambina in questione era quasi sempre una creaturina di 2, 3 anni, tenuta in braccio dalla mamma, e che giustissimamente non sapeva nemmeno chi fossi.

Qualunque cosa distogliesse la mia attenzione da “noi” era una specie di nemico da abbattere. Cercavo di spiegargli che, per me, il pubblico, il mio pubblico, ha la priorità su tutto. Quello che ero, quello che avevo, la sicurezza economica, il fatto di aver potuto tirare su Giulia senza preoccupazioni lo dovevo solo a loro. A quelle persone che ogni giorno sceglievano “Forum” per seguirmi, e magari non avevano una briciola di quello che avevo io. Molte di loro non avevano neanche la salute, lottavano contro malattie serie, ero la loro compagnia. Persone che, anche se fanno fatica a far studiare i figli e a pagare l'affitto di casa, mi vogliono bene lo stesso, senza nessuna invidia, perché sanno che, malgrado tutto, sono una di loro. Ragazzi che seguivano “Forum” mentre erano iscritti a legge, per imparare il senso della giustizia dalle sentenze dei nostri giudici. E che ancora adesso mi fermano per strada e mi dicono che, in qualche modo, li abbiamo aiutati anche noi con la nostra trasmissione a diventare avvocati, magistrati.

Non ho mai sopportato i colleghi o le colleghe che sono scortesi con la gente. Quelli che se la tirano. Quelli che, appena finisce la trasmissione, escono dalle porte laterali per evitare i selfie. Quelli che girano con le guardie del corpo, anche quando vanno in un centro commerciale, anche se non se li fila nessuno. Quelli che prima chiamano i paparazzi per il finto scoop concordato, e poi si arrabbiano per le foto. Si ricordassero, invece, quanto dobbiamo, della nostra popolarità, anche ai paparazzi. E quanto è bello stare in mezzo a chiunque, e non solo a quelli che ti fa comodo conoscere. L'abbraccio di chi ti fa una carezza mentre sei in fila al supermercato e ti dice grazie perché entri tutti i giorni a casa sua. Nella sua vita. O ti ferma per strada per raccontarti qualcosa di personale, e ti chiede un consiglio perché per lui sei una di famiglia. A me questo piace, non mi sottraggo mai, imparo tanto dagli altri, c'è uno scambio di energia positiva fra me e loro, che avverto sincero.

Ma stavo male perché capivo che era difficile creare con lui, che non faceva il mio stesso lavoro, un rapporto di comprensione. Avrei voluto che condividesse con me quella specie di sottile follia che è un po' il motore del mio mondo. Invece, cambiava umore anche se mi squillava il cellulare mentre eravamo a cena. Aveva ragione, quello doveva essere un momento solo nostro, ma la gente dello spettacolo è abituata a chiamarsi anche all'una di notte. Io ero abituata con Fabrizio, per noi erano cose assolutamente naturali, non ci facevamo nemmeno caso. Non parliamo poi degli appuntamenti di lavoro. Perché devi andare tu a Milano? Non possono venire loro a Roma? Perché dovete andare a pranzo per parlare del contratto, non potete parlarne in ufficio? Allora ti accompagno, vengo anch'io. Ma che c'entri tu, non posso presentarmi con te, non è normale, mi metti in imbarazzo. Ti piacerebbe se io ti venissi dietro nei tuoi appuntamenti d'affari?

Ogni uomo con cui parlavo, che fosse un autore o un amico, diventava un potenziale fidanzato. All'inizio, dopo il disastro del “giorno disumano” della mia separazione, ero felice, quasi incredula, di aver trovato una persona che si fosse innamorata così tanto di me. Amavo la sua selvaggeria, sapevo che qualunque cosa mi fosse successa lui ci sarebbe stato. A modo suo, ma ci sarebbe stato. Insieme abbiamo fatto viaggi bellissimi, mi ha insegnato ad amare la Grecia, la sua terra. Quando partivo con lui mi arrivava regolarmente la telefonata di Giulia che mi diceva: "Mamma, ma non ti sei ancora stancata di stare in giro, quando torni?". Sapeva sempre quando partivo, ma mai quando sarei tornata. Io mi ci sarei fermata a vivere per sempre, in una di quelle isole. Una casetta con il pontile sul mare e un gozzo attraccato. Cefalonia, la più amata, in assoluto. La più italiana. E poi Skiathos, Idra, Santorini, Paros, il Peloponneso, Corfù, e Atene, la sua città.

Rita Dalla Chiesa - Mi salvo da sola
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