Quando ho visto per la prima volta il Partenone ho pianto per l'emozione. Eravamo sbarcati la mattina a Patrasso e, mentre eravamo fermi nel traffico infernale dell'autostrada, vicino ad Atene, ho alzato gli occhi, e me lo sono trovato davanti all'improvviso, a metà collina. In mezzo alla bruttura di tutte quelle macchine che avevo intorno, ai clacson, ai grattacieli, la gente che parlava a voce altissima, l'odore forte dei souvlaki che usciva da tutte le parti, io ero piegata in due dall'emozione. Avevo un blocco allo stomaco, stavo andando incontro alla storia e alla mitologia studiata sui libri di scuola. Da lì era partito l'inizio della filosofia e del mondo.

La Grecia l'ho amata da subito. Mi è stato detto che sono più greca io di tante altre donne che ci sono nate. Un conto è girare la Grecia con gli amici, zaino in spalla, per dormire in otto sulle terrazze di Santorini. Un conto è che a fartela conoscere, fin dentro le sue viscere, sia un greco. Ogni angolo della sua storia diventa tuo. Fare il bagno di sera davanti a Itaca, per esempio, con il mare bianco fosforescente, come le sue pietre sul fondale, è uno dei ricordi più forti della mia vita. Era come nuotare verso Ulisse e Penelope, e il loro cane Argo. Verso quella vita da cui tutti noi proveniamo.

La Grecia è stato il primo passo verso la mia guarigione dalla separazione. C'è magia in quel mare antico, nei cipressi e nei pini che arrivano fin dentro il mare, nelle persone semplici e serene dei paesini dell'entroterra, nelle sedioline azzurre dei porticcioli, vicine alle barche dove i pescatori aggiustano le loro reti. Nei gerani sulle loro finestre. Nel profumo delle “piante della notte”, una pianta che ha un profumo ancora più forte di quello dei gelsomini di Palermo. Quanta feta mi sono mangiata sotto i pergolati dei ristorantini, vicino al mare. Feta al forno, feta fritta, feta con i pomodori e origano, feta nei souvlaki, feta con le patatine fritte, feta con la pasta fillo, feta piccante con il peperoncino, feta ricoperta di miele e melograni, feta con i gamberi e i pomodori al forno, feta e melanzane fritte. La cucina greca mi piace da morire, sa di estate, gli aperitivi si fanno sul molo, con il polipo essiccato al sole, che io non mangio, e pane e olive nere. Butti le briciole nel mare e arrivano decine di pesciolini verso riva a farsi l'aperitivo insieme a te. Bevi l'ouzo, e ti accorgi che, a differenza del nostro vino rosso, lo reggi benissimo.

Un giorno che ci eravamo persi, abbiamo chiesto un'informazione a un vecchio contadino seduto su un muretto, con i capelli bianchissimi, e il suo bastone accanto. Ha messo la testa dentro il finestrino della macchina, ci ha spiegato la direzione giusta da prendere, e quando gli abbiamo detto grazie, ci ha fatto una carezza sui capelli e ci ha detto "Siate felici, fratelli". Quella carezza me la porto dentro ancora adesso, perché è la dimostrazione di quanto potremmo essere tutti più sereni, fra di noi, se solo ci guardassimo negli occhi e ci riconoscessimo unicamente come uomini. Con meno paura di volerci bene.

Io avevo smesso di volermi bene da un pezzo. L'inquietudine, il non sentirmi a mio agio con me stessa mi inseguivano ormai dappertutto. Mi ero rotta dentro. La mia autostima, dopo aver perso Fabrizio e il progetto di vita insieme a lui, era precipitata ai minimi termini. Mi sentivo tagliata fuori. Ero convinta che la mia vita fosse finita lì. Non avevo nessuna voglia di rimettermi in gioco. 53 anni sono tanti; Giulia viveva ormai per i fatti suoi, davo per scontato che non sarei più riuscita a innamorarmi di nessuno.

Il lavoro, quando non sei in pace con te stessa, diventa la tua unica forza. Il mio, in quel periodo, era schizzato ai livelli più alti. Facevamo ascolti pazzeschi, e avevamo il gradimento del pubblico, che per me è sempre stata la cosa più importante. Se fai grandi numeri, ma la gente non ti ama, è come esistere solo se hai la lucetta rossa accesa su di te. Spenta quella, non sei più nessuno. Avevo cominciato a passare sempre più tempo in redazione, lì in mezzo a loro mi sentivo più tranquilla. Non avevo mai voglia di tornare a casa. Ero innamorata di quello che facevo, pur avvertendone i limiti.

Avevo molti amici, gli stessi che ho ancora oggi. Casa era sempre aperta, per loro. La chiamavano “pensione da Rita”. Si mangiava in cucina quello che c'era in frigo. Tiravamo fuori pezzi di formaggio, scatolette di tonno, pâté di olive nere, pacchi di patatine, pane abbrustolito con il pomodoro strofinato sopra, vaschette con il gelato avanzato, qualunque “schifezza” andava bene. Gianni, Marcello, Alessandra, Stefano, Massimo. Che nostalgia ho adesso di quelle serate di musica e chiacchiere normali, che finivano sempre con il basilichello, un liquore al basilico che mi regalava Rosalba. Una sera che ero senza occhiali, invece di versarlo nel solito bicchierino l'ho versato sulla poltrona, la mano e la camicia di Massimo Ranieri. "Reginé, un occhio di riserva, magari in fronte, non ce l'hai?"

La voglia di farcela era forte, non volevo che mi compatissero. “Poverina” era una parola bandita anche dalla mia testa. Per cui mi inventavo di tutto pur di liberarmi dei fantasmi. Le tavolate servivano a questo. Ma quando poi chiudevo la porta di casa, mi ripiombava addosso una solitudine brutta, melmosa. I ricordi facevano un male cane. Dolore all'osso, allo stato puro. Sono stati gli anni della sofferenza da sbattere la testa al muro, quella che ti mordeva il cuore, che non mi dava tregua neanche mentre conducevo “Forum”. Quella delle notti passate in corridoio, avanti e indietro, e ancora avanti e indietro, e così per ore e ore, con il corpo teso a percepire qualunque piccolo rumore. Aspettavo sempre di sentire la sua chiave aprire la porta di casa, come Anna Magnani nella Voce umana.

Non dormivo nemmeno più nel letto, ma sul divano del soggiorno, che era più vicino all'ingresso. Con me c'era sempre Thomas, il nostro cagnolino bianco, un Westie che ci aveva seguito per tutta Italia. Anche a Salsomaggiore per Miss Italia. Assisteva alle prove e faceva il piacione con le miss, così rimediava coccole e pezzetti di frutta. Più di quello, le povere miss non potevano mangiare. Era il loro portafortuna. È stato un cagnolino molto, molto amato, Thomas. Un piccolo “affare” peloso bianco con un carattere d'acciaio. Ricordo un viaggio, Reggio Calabria - Roma, in cui Thomas è rimasto per cinque ore in piedi, fra i due sedili della macchina, con una zampetta sulla mia spalla e una sulla spalla, più alta, di Fabrizio. In equilibrio precario e faticoso. Fece tutto il viaggio così, in mezzo a noi, guardando la strada pure lui.

Una sera presi delle gocce di un sedativo per rilassarmi. Me le aveva consigliate Paola, ma mi aveva anche raccomandato di prenderne solo cinque, perché non ci ero abituata. Verso le 22 mi telefonò sul cellulare Gianni Togni, amico da anni di Fabrizio, e suo avversario nelle loro interminabili partite di ping pong. Dopo la separazione mi aveva come adottata. Vivevo appiccicata a lui e alla sua ragazza dell'epoca. Era sempre a capotavola nelle nostre serate in cucina. In quei giorni era partito per registrare un disco a Faenza e, al mio “pronto?” si accorse che avevo la voce un po' impastata. Riattaccò immediatamente, e telefonò a Bruno, il mio medico che, dopo neanche dieci minuti, era già dietro la porta di casa. "Ma sei scema? Che ti è venuto in mente? Chi ti ha dato questa roba?" Non voleva capire che non avevo esagerato con le gocce ma che, non avendole mai prese prima, avevo solo calcolato male gli effetti. Ma Bruno non mollava. "Pensi di riprenderti Fabrizio facendolo impietosire?" Per carità, era l'ultima cosa al mondo che avrei voluto, io non volevo che Fabrizio tornasse perché gli facevo pena, ma solo per amore. Ma l'amore aveva preso ormai un'altra strada. Quella notte tornai a dormire in camera da letto, e Thomas si sdraiò sul cuscino sopra la mia testa, come per proteggermi.

E poi, nella mia vita, è arrivata Mara. Mara Venier. Ci conoscevamo da un pezzo, ma non ci frequentavamo molto, lei lavorava con Fabrizio a “Luna Park”, e ogni tanto ci scappava una cena tutti insieme. Quando mi sono separata, ci siamo ritrovate. Anche lei si era appena lasciata con Renzo Arbore, anche lei stava malissimo, ci sentivamo come due sopravvissute, cadute tutte e due in un buio pesto. Ma quando stavamo insieme chissenefregava degli uomini. Riuscivamo lo stesso a ridere, a imbrogliare la vita. Ogni tanto, ancora oggi, ci diciamo che quello è stato, malgrado la difficoltà di vivere, il periodo più pazzo e divertente della nostra vita. Lei era quello che io avrei voluto essere. Mi trasmetteva la sua allegria, la sua positività.

Tutte le sere, ma proprio tutte, uscivamo. O veniva lei a casa mia, o andavo io da lei, a Campo de' Fiori, oppure venivamo invitate a cena dagli amici. E se le dicevo no, stasera non mi va di vedere nessuno, si presentava in taxi sotto casa, e mi costringeva a scendere. Eravamo molto corteggiate, lei più di me, ma non ce ne piaceva mai veramente qualcuno. Si prese solo una cotta per un attore americano. Ogni tanto saltava su un aereo, lo raggiungeva, ma tempo una settimana era già tornata a Roma. Quelli sono stati i giorni della leggerezza e del divertimento. Di “loro” non parlavamo quasi mai.

Con noi c'era sempre anche un'altra nostra amica, Simona. Pure lei con le ossa rotte, in pieno disastro sentimentale. Ma non ci sentivamo tre sfigate. Quando stavamo tutte e tre accucciate sul divano di Mara, a gambe incrociate, in tuta e con un prosecco o un bicchiere di vino rosso in mano, non avvertivamo più il dolore. Ci portavamo a casa un cartone di pizza al taglio, accendevamo le candele sul tavolino, e partivamo con le risate. Oddio, qualche volta pure con le lacrime. Ma erano divertenti lo stesso, vissute insieme. Ci dicevamo sempre, quasi a darci forza, siamo noi la nostra famiglia. Quanto siamo state bene, quanta gente abbiamo conosciuto in quei mesi, quanto ci siamo prese in giro, quanti giri per le bancarelle di Campo de' Fiori, e quanto speravamo di incontrare un altro principe azzurro. Al mio si era sicuramente azzoppato il cavallo (cit.).

Ci eravamo appoggiate l'una all'altra, e continuavamo a credere nell'amore. L'amicizia, quando è vera, non ti permette di cadere. Fu proprio mentre eravamo affacciate alla sua finestra su Campo de' Fiori, un pomeriggio, che Mara mi parlò per la prima volta di Nicola. Stavamo ascoltando a ripetizione I Try di Macy Gray. In sintonia perfetta con quello che provavo io in quel momento. Tipo: “Può sembrare che io stia bene, che sorrida quando te ne vai, ma in realtà sto da cani”. Mentre guardavamo giù in piazza, Mara, bionda, bellissima, con la sua tuta blu mi raccontava di questa persona, conosciuta a una cena dove io non ero potuta andare. Ne parlava in un modo stranamente dolce, lei sempre così caciarona, che mi insospettì. Non era un corteggiatore come gli altri, questo era evidente. L'ho capito subito. No, Nicola rischiava di diventare qualcosa di molto di più. Fiori, telefonate dall'altra parte del mondo, ironico, attento alle piccole cose, la “pressava” con eleganza. La lasciava libera di essere se stessa, di dire le sue cavolate in libertà, non giudicava. Per un momento diventai gelosa di lui: aiuto, adesso perdo Mara. Ancora non sapevo che, invece, avrei acquistato un altro amico. Mi piaceva, era colto, mai noioso, si divertiva a ridere con noi, fumava il sigaro, e non si perdeva una partita del Milan in televisione. E poi mi aveva promesso che avrebbe trovato un fidanzato anche per me.

Fu proprio in quel periodo che nella mia vita entrò la persona di cui parlavo prima. Ma il nostro era un rapporto conflittuale, anche se forte. Non era un rapporto come quello di Mara e Nicola, lo sapevo, me ne convincevo ogni giorno di più. Perché io, con lui, non riuscivo mai a sentirmi completamente a mio agio. Non riuscivo a lasciarmi andare. Lui mi giudicava, ed era una sensazione bruttissima. Non mi rilassavo mai, avevo sempre paura di parlare, di dire qualcosa di sbagliato che lo facesse innervosire. La nostra vita era a Roma, purtroppo, non in Grecia, dove tutto era magico. Eppure, anche se a modo suo, mi faceva sentire importante, malgrado tutto. Lo sentivo come un uomo forte, una specie di “Ultimo dei Mohicani”. Bastava che mi prendesse per mano per ridiventare, ai miei occhi, l'uomo di cui avevo bisogno. Quello delle nostre vacanze in Grecia.

Ma ormai navigavo fra i dubbi. Litigavamo troppo. C'era troppa tensione, fra di noi. I nostri amici hanno assistito a scenate epiche. Mi svegliavo la notte con l'ansia, la tachicardia. Sudavo freddo. No, questo non è vivere, mi ripetevo. Ero appena uscita dal dolore, stavo cercando di superare a fatica la fase peggiore della mia rottura con Fabrizio, non potevo più permettermi di sbagliare. Avevo bisogno di ritrovare equilibrio e serenità. Mi rilassavo solo la mattina, alle 8, quando mi veniva a prendere a casa Alessandro, l'autista della produzione, per portarmi agli studi della Elios. Verso il mio lavoro, la mia isola che c'era, eccome se c'era.

Tenero Alessandro. Quanti anni abbiamo condiviso. In macchina mi fidavo solo di lui, perché guidava come piace a me. Tranquillo e prudente. Con lui riuscivo anche a leggere i giornali, o a lavorare al computer. Volevo sempre l'autoradio sintonizzata su Radio Italia Solo Musica Italiana. Mi ero messa in testa di farlo fidanzare. "Alessandro, perché non si trova una brava ragazza? Guardi quante ce ne sono di carine agli studi della Elios." "Per carità, signora, ma mi vuole male? Mica voglio andarmi a impiccare, ho il mio orto, sto tanto bene da solo." Ancora oggi, se devo andare da qualche parte, è lui che chiamo. Discreto, corretto, professionale. Quante chiamate privatissime, davanti a lui, fermi nel traffico della tangenziale. Contratti, litigate con gli autori, telefonate con la direzione a Milano, progetti per altre trasmissioni. Da lui non è mai uscita mezza parola. Discrezione e sensibilità assolute. C'è sempre stato nei momenti importanti della mia vita. Quando si è sposata Giulia è stato lui che mi ha portata in chiesa. Quando è nato Lollo è stato lui che mi ha aspettata fuori dalla clinica. E c'era anche quando sono mancati Massimo, mio genero, e Fabrizio. A suo modo, una certezza nella mia vita.

Mentre mi riaccompagnava a casa dalla Elios, la sera, io con un occhio controllavo la velocità, e con l'altro guardavo le luci delle case del raccordo. E intanto pensavo a lui, l'“Ultimo dei Mohicani”. Chissà dov'era, se era ancora al lavoro, se saremmo usciti a mangiare qualcosa: ero stanca, avevo bisogno di un bicchiere di bollicine e di rilassarmi un po'. Chissà come sarebbe andata la serata. Avevo fatto qualcosa in trasmissione che poteva avergli dato fastidio? Qualcuno mi aveva fatto un complimento? Come mi avrebbe risposto al telefono? Avrei ricevuto un sorriso o una sfuriata? Non avevo trovato messaggi, sul cellulare, strano. Pessimo segnale. Ci saremmo dati una buonanotte dolce, o avremmo litigato, come al solito, per il niente? Che brutto, però, vivere così, con questa continua incertezza. Ci si sente come in una palude, tu cerchi di camminare ma c'è sempre qualcosa che ti tira per i piedi e ti fa affondare nel fango.

Non era solo colpa sua. Non era facile starmi vicino. Ero spesso nervosa. Gli rispondevo male. Aveva lo strano potere di tirare fuori il peggio di me. Ma ero incasinata con me stessa. Avevo ancora troppe scorie, dentro, di cui non riuscivo a liberarmi. Appena riprendevo fiato, bastava che vedessi Fabrizio su un giornale o in televisione per ripiombare nel buio. Non accettavo, per esempio, di non avere più il suo spazzolino, nel bicchiere, vicino al mio. Una sciocchezza che poi tanto sciocchezza non era: quella dello spazzolino è la normale realtà di due persone che stanno insieme. Lo spazzolino, la sua valigia vicino alla mia, nel bagagliaio della macchina. Le piccole abitudini che fanno da collante al rapporto. Ecco perché non sono più riuscita a vivere con nessuno, dopo. Non sono mai più stata pronta per una convivenza. Ogni tanto, con questa persona, parlavamo anche di sposarci, a tratti ci credevo pure io, ci volevo credere. Ci volevamo bene, ma avevamo un modo profondamente diverso di camminare nella vita. Soprattutto, c'era questa cosa che non si fidava di me. Mi sarebbe bastato un suo sorriso, di quelli che ti dicono, senza bisogno di parole, vai, fai, ti aspetto, so chi sei, sono sicuro di te.

Un giorno qualcuno mi insinuò il dubbio che fosse così geloso perché, in realtà, era lui che forse si concedeva qualche distrazione. Piaceva molto alle donne e le donne piacevano molto a lui. Il sospetto, neanche tanto vago, mi aggredì una sera che era all'estero per lavoro. Il suo cellulare era sempre spento, e non sapevo in che albergo fosse. La conferma al mio sospetto la ebbi esattamente la mattina dopo. Ero sul letto, con la colazione e la mia mazzetta dei giornali vicina. In copertina su un settimanale c'eravamo lui e io, ci avevano beccati abbracciati una domenica in via del Corso. In quel periodo era normale. Vivevo con i paparazzi appostati sempre sotto casa, dietro gli alberi, forse aspettavano di sorprendermi ancora con Fabrizio. Sotto la foto c'era scritto: “Qui è con Rita, ma qualche giorno prima era con un'altra”. Come con un'altra??? Giro la pagina, e vedo una tizia spalmata su di lui a una fermata dei taxi. Erano tre scatti in tutto. Ma tre scatti abbastanza eloquenti.

Ma come, proprio tu che mi hai massacrato la vita per anni, perché magari un mio collega si è permesso di mettermi una mano sulla spalla in trasmissione, poi te ne vai in giro con un'altra tenendoti per mano. No, proprio una “così”. Ma come, proprio tu che mi dici "Stasera non ci vediamo perché sono stanco, preferisco tornare a casa, mi preparo un petto di pollo e un'insalata e vado a letto subito" e poi ti fai beccare mentre esci da un ristorante, ridendo, sottobraccio a quella? Scaravento il giornale per terra e ti chiamo. Rispondi quasi subito. Quando voglio sono davvero brava a fingere, soprattutto se sono veramente molto molto arrabbiata. Per cui faccio finta di niente, ti chiedo solo "Come stai, quando torni?". Tu mi dici: "Nel pomeriggio, tesoro. Ti va se stasera andiamo a mangiare il pesce a Fiumicino?". "Certo che mi va di andare a mangiare il pesce a Fiumicino. Come no. Intanto vienimi a prendere, che ho qualcosa da farti vedere." Ci diamo appuntamento per le 9, salgo in macchina, gli sbatto il giornale sotto il naso e gli dico: "Portaci lei a mangiare il pesce a Fiumicino".

È passato tanto tempo, da quella sera, e oggi siamo tornati a frequentarci con tenerezza e allegria, quella che ci era mancata allora. Abbiamo scoperto un ristorantino greco dove ho ritrovato la mia feta fritta al miele, andiamo insieme per bancarelle di libri, giriamo per trovare vecchi album in vinile, portiamo a spasso i nostri cani. Le persone non dovrebbero mai innamorarsi, secondo me. Perché l'amore tira fuori dei meccanismi che, qualche volta, possono essere fraintesi e fare molto male. Bisognerebbe volersi bene, senza aspettarsi troppo dall'altro, così si eviterebbero la gelosia, la paura di perdersi, i sospetti, i litigi, i momenti di noia. Comunque, è strano, io sono sempre rimasta in buoni rapporti con le persone che hanno fatto un tratto di strada insieme a me, non riesco a portare rancore, mi costa troppa fatica. Ma ci sono stati mesi, in seguito, in cui ho pensato che lui non l'avrei mai più voluto vedere. Che, se l'avessi incontrato per strada, avrei cambiato marciapiede. Sapeva che uscivo da un disastro sentimentale, che aveva messo in discussione troppe cose di me. Perché farmi ancora del male?

Fra i tanti, tantissimi difetti che ho, io non racconto bugie. Non le sopporto proprio. Per me sono peggio le bugie su cui una persona si arrampica, offendendo la tua intelligenza, di qualunque tradimento. E questo vale in ogni campo. Fai quello che ti pare, ma poi dimmelo in faccia, che non è coraggio, il tuo, è solo dignità. Anche le bugie piccole, mi mandano in bestia, perché nella vita di tutti i giorni ci puoi anche inciampare. Vabbè, ti senti dire, mi ero dimenticato di parlartene, ci ho solo preso un caffè, le ho dato un passaggio in macchina, tanto abita vicino all'ufficio. Eppure, anche le bugie sceme vanno a intaccare la fiducia. Come quando costruisci le fondamenta di una casa. Non è che una sola mattonella messa male renda la casa insicura. La rende, però, non perfetta. Perdono tutto, o quasi tutto, perché non mi va di giudicare, perdo già troppo tempo a giudicare me stessa. Ma ho bisogno che mi si lasci, almeno, il valore della verità.

Fiumicino. È il luogo vicino Roma che mi somiglia di più. Quando qualcosa mi gira storto, prendo la macchina e vado a passeggiare sul molo. Amo il mare di un amore fisico, come quello per un uomo, per un amante. Amo la sua profondità e le sue tempeste perfette. Come la mia vita, una perenne tempesta, ma imperfetta. Sono sempre vissuta di mare. Me lo sento addosso anche mentre sono ferma in macchina nel traffico, e la testa vola verso di lui, nella sua direzione. Amo il mare povero, quello fatto di porticcioli e pescatori. Di baretti con le sedie sporche di salsedine. Le barche colorate con su scritto il nome della moglie o della madre. Rosalia, Maria, Assunta. Nomi che sanno, non so perché, di amore antico. Mi piace vedere i pescherecci andare via di notte, prendere l'onda verso il mare aperto. C'è quasi sempre un cagnolino a bordo.

Da bambina l'avrei voluto sposare, un pescatore. E forse anche oggi. Vorrei essere una di quelle donne che aspettano l'alba alla finestra, per vedere rientrare le barche. E che scendono sul molo per andare incontro al proprio uomo. La mia casa è piena di sassi raccolti dentro l'acqua, di libri con le foto di mare, di spiagge e di fari. Di quadri con i colori blu e turchese dell'acqua. Ho anche un cd con la musica delle onde da ascoltare prima di addormentarmi. Prima o poi ci andrò, a fare una vacanza in un faro. Con qualche libro, la mia moleskine nera, e un piumino che tenga caldo e non faccia passare l'umidità. Non so se c'è il riscaldamento nei fari. Voglio vedere le onde alte e bianche, il mare incazzato dietro le vetrate, voglio sentire il vento che le fa tremare. E poi voglio ascoltarlo quando tutto si placa, mentre torna a respirare, finalmente tranquillo, finalmente in pace con se stesso.

Una volta ho letto che c'è un faro, a Marettimo, dove la notte sostano le anime dei marinai. Non riescono ad allontanarsi da quel faro che li ha sempre protetti e illuminati mentre erano in barca. Che poi è quello il senso profondo e più vero del mare. Creare strade sicure per chi lo attraversa. Ci deve essere sempre un motivo, al di là dei venti, che noi ignoriamo, quando il mare si alza all'improvviso. Chissà cos'è che lo fa arrabbiare. Come nel film Le parole che non ti ho detto. Un film che ogni volta che passa in tv me lo rivedo, sperando che finisca in un altro modo. Ogni volta sogno di essere lei, la giornalista bionda, in jeans e maglione bianco. Ogni volta sogno di essere abbracciata e amata da lui, il restauratore di barche, Kevin Costner. Ogni volta mi piange l'anima quando lui muore per andare a salutare il ricordo della sua prima moglie morta in alto mare. E ogni volta spero che da qualche parte del mondo, in qualche pezzetto di oceano, ci sia un messaggio in bottiglia che sia stato buttato in acqua anche per me. Basta che si sbrighi ad arrivare.

Anch'io, come Kevin Costner, una volta ho passato due mesi in barca per aiutare i proprietari a ristrutturarla. Vicino a Gaeta. Volevo mettermi alla prova. Ho pulito, raschiato il sale, tolto e rimesso il silicone agli oblò e ai lavelli della cucina. Ho lavato e rimesso in ordine i gavoni. Ho cucito e messo i ganci alle tendine, ho aiutato a posizionare le viti per i piccoli televisori delle varie cabine. Anche se, secondo me, quando sei in mare non avresti bisogno di altro, perché ti dovrebbe bastare quello, e i televisori andrebbero aboliti.

A San Benedetto del Tronto c'è un monumento su cui c'è scritto “Preferisco il rumore del mare”. Avrei voluto inciderlo grande sulla fiancata della barca. Poteva anche essere un bel nome per battezzarla. Ma la barca, purtroppo, non era mia. Ho comprato lenzuola e coperte di pile, i bicchieri colorati, di quelli che non cadono in navigazione, i posacenere antivento. Ogni tanto arrivavano gli amici, ed era bello cucinare tutti insieme gli spaghetti al limone e peperoncino, o con la bottarga. Si mangiava quasi sempre al sole, le mani me le lavavo in mare, e poi me le passavo in faccia, per sentire il sale sulla pelle. E finalmente, arrivava di colpo la magia di “quel” momento. Quello solo mio, che non volevo condividere con nessuno. Lo aspettavo per tutto il giorno. Il tramonto e la prima stella della sera. Andavo a sedermi a prua, e guardavo lontano.

Ho sempre sentito il mare come uno spirito guida, c'è sempre stata un'attrazione fortissima fra lui e me. Non so quante volte ho sperato che mi leggesse dentro, per portarmi via dall'ansia, dai ricordi. Quei ricordi che non ti si scollano mai di dosso. E l'unica canzone che vorresti ascoltare, in quel momento, è The Sound of Silence. Il silenzio che ti si scava dentro quando non hai una meta da raggiungere. E io non ce l'avevo, una meta, in quei giorni. Era scomparsa dal mio radar. Puntare verso il largo, in mare aperto, sarebbe stata la forma più alta della mia libertà. Sentivo di avere bisogno di un abbraccio. Ma non sapevo più in chi, in cosa cercarlo. Guardavo l'acqua e pensavo che sarebbe stato bello conoscere tutte le storie d'amore che il mare ha vissuto, quelle che lo hanno attraversato. Dai transatlantici alle barche a vela. Quelle d'epoca, in legno blu con gli oblò di ottone, come piacciono a me. O sulle barche arroganti, un po' cafonal come i loro proprietari, dirette verso le spiagge “ricche”, piene di paparazzi. Con a bordo storie bugiarde, forse finite prima ancora di cominciare. Barche dove ci si bacia, ci si spoglia e ci si tuffa con il lato B a favore dei fotografi. Le banchine sono piene di ragazze e ragazzi di “buona volontà”, chiamiamola così, che cercano un passaggio in barca per svoltare una settimana di vacanza. A chi è molto bravo, quel passaggio in barca può svoltare anche la vita. Quante storie e voci arrivano con le onde. Basta saperle ascoltare.

Un pomeriggio di gennaio, dopo tanti giorni attraccati al molo, con i cigni che risalivano il canale e venivano a mangiare dalle mie mani, all'improvviso ho smesso di ascoltare la voce del mare e ho ascoltato la mia, di voce. E ho capito. Ho capito che non avrei mai più capito niente di niente, che le risposte che aspettavo non mi sarebbero mai arrivate, anche se la mia testa non avrebbe mai smesso di fare domande. Ho allungato un braccio, ho salutato l'acqua, sono scesa in cabina, ho rifatto il mio borsone blu, ho guardato per l'ultima volta il mare dall'oblò, e sono scesa a terra. Ho rimesso le scarpe, e mi sono allontanata da quella barca. Sapevo che non ci sarei più voluta risalire. Il viaggio dentro di me era finito. È rimasto soltanto, buttato da qualche parte, il mio alberello di Natale con tutte le sue lucette colorate. E poi il vuoto dentro, un silenzio freddo come l'aria umida di quel pomeriggio, malgrado il rumore del mare e il dondolio di tutte le altre barche intorno. “The sound of silence”, appunto. A ricordarti che la vita, qualche volta, è solo una grande bugia. Ho cominciato a camminare sulla banchina, ho attraversato il bar del porto, e non mi sono più voltata indietro.

Ti ruberò. Bruno Lauzi mi dedicò questa canzone quando avevo solo 18 anni. E fu proprio questa la canzone che, dopo parecchio tempo, venne inserita nel film che vinse il premio Oscar, La grande bellezza. Ma Bruno non c'era già più, glielo feci “sapere” io attraverso Twitter.

Quando lo conobbi, Lauzi era già un cantautore affermato, della scuola genovese dei Paoli, Tenco, Bindi. Era un poeta. Aveva appena scritto un pezzo bellissimo, Ritornerai, che era stato in radio per tutta l'estate. Quell'anno, chissà perché, i miei decisero di andare in vacanza a Bardonecchia, dove lui stava facendo il servizio militare. Mi conobbe una sera al circolo ufficiali, dove stava cantando per gli ospiti. Eravamo un gruppo di ragazzini, tutti figli di militari, seduti davanti al palco. Lui continuava a guardarmi e, a un certo punto, mi dedicò una splendida canzone di Ornella Vanoni. Senza fine. Da quella sera, con altre due mie amiche, prendemmo l'abitudine di fare finta di andare a letto, e poi, mentre i nostri dormivano, invece scavalcavamo le finestre per andare a sentirlo suonare. Spesso mi faceva cantare con lui, e in quelle serate “rubate” cominciammo a parlare per ore. Con i miei coetanei non avevo molti argomenti in comune, mi annoiavano. Lauzi, invece, aveva un'intelligenza e una sensibilità che mi facevano toccare il mondo, la vita. Mi sentivo importante, un uomo di dieci anni più grande di me che trovava stimolante parlare con una ragazzina. Non era bellissimo, non era il classico ragazzo-bene che ero abituata a frequentare a Milano. Uno di quelli che aspettavano me e le mie amiche all'uscita del liceo delle Marcelline, appoggiati alle loro Mini. No, lui aveva un'anima diversa. Potevi leggergliela negli occhi.

Finite le vacanze, noi tornammo a casa, e lui finì il servizio militare a Torino. Poi tornò a Varese, dove abitava. Ma non avevamo mai smesso di sentirci. Io ero completamente soggiogata dalla sua intelligenza. Sarei stata ad ascoltarlo per ore. Non era amore, non da parte mia, almeno. Ero presa dalla sua testa, questo sì. Fra noi, per tutto il tempo che ci siamo frequentati, non c'è mai stato nemmeno un bacio. Ma c'era forse qualcosa di molto più complesso. Ero affascinata da quello che mi raccontava, dalla poesia che metteva in ogni sua parola. Volevo imparare da lui tutto quello che sapeva. Gli uomini, fin da piccola, mi sono sempre piaciuti se avevano nel cuore quello che io chiamo “un motore di ricerca”. Mi sentivo così ignorante, davanti a Bruno, così niente. Mio padre, naturalmente, non ne voleva sapere che io lo frequentassi. Capirai, un cantante e per di più di dieci anni più grande. Ma io mi ero intestardita. Non facevamo nulla di male, ero completamente stregata dalla vita che viveva, così tanto diversa dalla mia.

Intorno a lui girava la musica. Girava la cultura. I locali di Milano. Il famoso Derby, dove cantavano anche Jannacci, i Gufi, Giorgio Gaber. Una sera mi disse che aveva deciso di andare a Sanremo con una canzone che aveva scritto per me. Il tuo amore. Era il 1965. Un regalo romanticissimo per una ragazzina che viveva in caserma, in mezzo alle regole e ai militari. Non so come, mio padre lo venne a sapere. Anche perché su un giornale di gossip, in quei giorni, era uscito un articolo che mi fece prendere un colpo: Lauzi innamorato di una carabiniera. La sera del Festival, durante la cena, avevo lo stomaco chiuso, avevo addosso un'agitazione che mi impediva perfino di deglutire l'aria. Papà parlava normalmente con mamma, e seguivano il telegiornale. Ma io sapevo che fra poco qualcuno avrebbe cantato in televisione una canzone dedicata a me. Quella canzone, anche se non avesse vinto, sarebbe rimasta nel mondo della musica per sempre, nella vita di tutti, e per tutta la vita. Si trova su internet ancora oggi che Bruno non c'è più.

Sanremo l'avevamo sempre guardato tutti insieme in soggiorno, quindi cominciai a sparecchiare e ad aiutare mamma in cucina. Quella sera, invece, papà, come comparve sul teleschermo Mike Bongiorno, si alzò da tavola e spense il televisore. Aveva già capito tutto. Panico, e adesso? Ma come niente Sanremo? E io come facevo a sentire la canzone di Bruno? Che male poteva fare una canzone d'amore? Quante ragazze non vorrebbero avere qualcuno che dedichi loro una canzone a Sanremo? Io che ce l'avevo, avevo però anche un padre Carabiniere, molto Carabiniere. Simona mi fece segno di stare zitta e di seguirla in camera da letto. Aveva rimediato, in cucina, la radiolina su cui Nando seguiva le partite di calcio la domenica. La mettemmo sotto al cuscino, per attutire la musica, e seguimmo lo stesso il Festival. Grande Simo! Vinse Bobby Solo con Se piangi, se ridi; non ricordo come si classificò Bruno, ma per me fu lo stesso un'emozione fortissima.

Se i genitori, qualche volta, riuscissero a condividere con i figli dei momenti che per loro sono importanti, molte ribellioni caratteriali rientrerebbero. Non avrebbero motivo di esistere. Perché quelle ribellioni arrivano proprio dal bisogno di respirare un'aria un po' più libera.

Bruno, ogni pomeriggio, prendeva il treno da Varese e arrivava a Milano. Passava sotto la finestra di casa mia alle 15 in punto, e aveva sempre in mano una rosa rossa per me. Io scendevo le scale di corsa, sempre con Simona di guardia, prendevo la sua rosa (che poi nascondevo dietro i libri) e tornavo a studiare. Mio padre, dalle bollette del telefono, si era accorto che c'era qualcosa che non funzionava. Erano sempre troppo alte. Allora decise di mettere un lucchetto sul disco del telefono. Molti padri, in quel periodo, lo facevano. Cercavano di arginare, in quel modo, le telefonate che noi ragazzi facevamo in teleselezione. Guardavo quel lucchetto con odio, mi stava togliendo l'unico modo che avevo per comunicare con Bruno. E adesso come faccio? Impensabile passare attraverso il centralino della caserma, l'avrebbero detto subito a mio padre. Allora mi inventai una cosa di cui oggi rido, ma di cui mi vergogno anche un po'. Mi sarei molto arrabbiata se l'avesse fatta mia figlia. Andai in una cabina telefonica, svitai il disco, me lo portai a casa, e quando la sera papà e mamma uscivano, toglievo il disco con il lucchetto e lo sostituivo con il disco “rubato”. Finito di parlare, facevo l'operazione inversa. I miei magheggi non erano sfuggiti a Nando, che cominciò a tenermi d'occhio. Mio fratello è sempre stato contro ogni forma di illegalità fin da ragazzino. E quindi anche il mio giochetto, con il lucchetto del telefono, non rientrava nelle regole. E aveva ragione lui, oggi lo capisco. Nando mi ha insegnato, fin da subito, che non ci sono illegalità piccole o grandi. C'è l'illegalità. Punto.

Ricordo ancora mio fratello durante il funerale di mio padre, a Parma. C'era stato, due giorni prima, quello di Palermo, con i politici che scappavano come topi e si chiudevano in macchina, appena usciti dalla chiesa, per sfuggire al tiro delle monetine e delle bottigliette lanciate addosso dalla folla inferocita. Vorrei abbracciare quella signora che, davanti alla chiesa, mise la testa dentro il finestrino del nostro taxi e disse, piangendo, a noi tre fratelli: "Non siamo stati noi, ricordatevelo, non siamo stati noi". Con poche parole, e con il suo dolore, una sconosciuta ci fece capire che Palermo non c'entrava “quasi” niente, con la morte di papà. Era Roma ad avere le mani sporche del loro sangue. Il giorno dopo c'era stato il funerale di Milano, imponente e composto, con tutti i nostri amici veri e la gente che l'aveva conosciuto e amato durante la sua battaglia al terrorismo. Milano, quella mattina, era un'unica, continua ala di folla, che si era creata spontaneamente ai lati delle strade, e che applaudiva al passaggio del “proprio” generale.

Il pomeriggio lo portammo finalmente a Parma. Perfino in autostrada, alla vista della bara con il tricolore, gli automobilisti suonavano per salutarlo. A Parma c'è la nostra cappella di famiglia. Quante volte papà era andato a trovare mamma, sempre di nascosto, e quasi sempre di notte. Le Brigate Rosse gliel'avevano giurata, sapevano che mamma riposava lì, e lo aspettavano. Pensavano: “Prima o poi arriva”. Il custode e un Carabiniere gli aprivano il cancello del cimitero, e lui si sedeva a parlare con lei, come se mamma potesse ascoltarlo e rispondergli. Per un attimo, ma giuro solo per un attimo, quando sono stati uccisi ho pensato che non fosse giusto seppellire anche Emanuela vicino ai miei genitori. Soprattutto vicino a mia madre. Ma quello che Dio unisce l'uomo non può dividere. Ed Emanuela l'avevano massacrata accanto a lui. Vigliacchi infami. Aveva solo 32 anni, ed erano sposati da tre mesi. Quel pomeriggio, a Parma, mentre stavamo assistendo alla funzione religiosa, con la folla che ci spingeva, e sotto gli occhi di un muro di fotografi e telecamere, Nando ha detto sottovoce: "Non finisce qui, papà. Te lo prometto".

 

 

Lettera a papà

Tre cose ti avevo promesso dentro di me il pomeriggio di quel 5 settembre a Parma, mentre ti sottraevano per sempre al sole: che avrei gridato al mondo il nome dei tuoi assassini, che avrei difeso la tua memoria dagli assalti degli sciacalli, che avrei cercato di tenere vivi gli ideali per cui eri caduto. Per quello che potevo, quella promessa l'ho rispettata.a

E da quel giorno Nando non ha smesso davvero un solo minuto di rispettare la promessa fatta a nostro padre. Gli sta dedicando la sua vita. E con lui, mia cognata Emilia e Carlo Alberto e Dora, i suoi figli. Quando qualcuno parte per la guerra, non parte da solo. C'è sempre una famiglia che aspetta.

a. Nando dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano 1985.

 

3.

La mia casa di Monteverde, con l'arrivo dell'amico della notte, si era ristretta alle dimensioni di un buco. Già era piccolissima. Il disordine che Fabrizio si era portato dietro, ma quello vero, da panico, dove a stento riuscivi ad aprire la porta per entrare in una stanza, era diventato ormai il nostro modo naturale di vivere. I comodini erano due pile alte di libri con sopra un vassoio colorato. E sopra il vassoio, il telefono con la sua prolunga. Avevo anche una cyclette, che avevo comprato per poter fare ogni tanto un po' di ginnastica. Ecco, quella era diventata un attaccapanni per i suoi giacconi. E magliette, felpe e camicie si erano ammucchiate sul mio pensatoio. Non avevo più un posto dove concentrarmi per scrivere le mie interviste. Mi aveva praticamente invaso casa. Ma io ero felice così. Avermi invaso anche la vita mi impediva di pensare troppo al dolore per quello che mi era successo a settembre. Ero sicura, e lo sono ancora, che Fabrizio fosse stato un regalo mandatomi da mio padre, per evitare che stessi troppo male, che mi sentissi troppo sola. O che combinassi troppi guai.

I suoi amici erano diventati i miei amici. Le sale di incisione, dove suo fratello Fabio componeva musiche per film, o la band di musicisti rockettari che tiravano notte a suonare, erano il mio rifugio dopo la pesantezza di tanti momenti, una boccata di ossigeno. Certo, erano quasi tutti più giovani di me e delle persone che frequentavo prima di conoscere lui. Ma molto, molto più divertenti. In mezzo a loro mi risentivo viva. Mi sedevo sui gradini ad ascoltarli; Fabrizio, a un certo punto, andava a comprare pizze e patatine fritte per tutti, e si ricominciava a cantare.

Fu in quel periodo che ho scoperto di avere un'anima rock. Ci avevo provato, una volta, a portare Fabrizio con me a una serata tipo “terrazza romana”. Età media parecchio alta. Lui, solo, 25 anni. Non dovevo volermi bene neanch'io, in quel periodo, pensai in seguito. Ma quanto era noiosa quella gente che avevo frequentato, prima di conoscere il mio amico della notte? Jeans, mocassini senza calze e l'immancabile pullover rosso o blu sulle spalle, gli uomini. Jeans, maglietta a righe rosa e verde chiaro, e scarpe da ginnastica, lui. Lunghissimi e incomprensibili discorsi sul niente, travestiti da impegno politico, i loro. Anche se, qualche volta, i discorsi scivolavano pure su quale marca di rubinetti fosse meglio mettere nei bagni delle loro case di Capalbio. Sguardi complici e silenzi divertiti, i nostri. Ogni tanto si giravano a osservarci, con il loro sigaro in bocca o il bicchiere di vino in mano. Fabrizio e Rita, la strana coppia. “Chi è lui?” “Ma davvero fa una trasmissione per ragazzi?” “Non è troppo giovane per Rita?” “E lei non è troppo vecchia per lui?” “Ma lei non aveva una storia con un giornalista del Tg2?”

Li guardavo, e mi facevano un po' pena. Ne conoscevo le mogli ufficiali. E le fidanzate, o i fidanzati, che la sera non avevano accesso ai salotti che frequentavano. Li avevo bazzicati anch'io per tanto tempo, quei signori. Il famoso girone dantesco del generone romano. Politici, giornalisti, registi di cinema e teatro. Persone note, un mondo fatto anche di belle menti. Un mondo dove si legge molto, è vero, ma dove si fa anche finta di avere letto molto…

A un tratto Fabrizio, che era stato pericolosamente zitto fino a quel momento, se ne uscì con "Ma secondo voi c'entra qualcosa Yoko Ono con la morte di John Lennon?". Gelo, silenzio. L'ho adorato, in quel momento. Se ne fregava dei discorsi intellettuali. Era uno spirito libero, come me. Fuori dagli schemi. Ho visto alcune teste girarsi verso di noi, di uomini e donne, e a quelle teste mi sono ritrovata a dire: "Ma voi, una sana risata non ve la fate mai?". Chaplin diceva che ogni giornata senza un sorriso è una giornata persa.

In seguito, alcune di quelle stesse persone hanno fatto carte false per essere invitate a cena a casa nostra, e per essere presenti al nostro matrimonio. Se quella sera ci avessero accompagnati in strada, si sarebbero accorti che, in quel periodo, Fabrizio e io giravamo su una scassatissima 127 azzurra e che, al posto del finestrino del passeggero, che si era rotto, Fabrizio aveva messo un sacchetto di plastica del supermercato, bloccato dallo scotch marrone. Quello che si usa per chiudere gli scatoloni. Un genio.

Vita spericolata: era la prima canzone che gli avevo sentito cantare a “Tandem”. La cantava e mi guardava fisso. E, in realtà, a pensarci bene, anche la nostra vita è stata, fin dall'inizio, sul filo di una vita spericolata. In tutti i sensi.

La mia personalissima vita spericolata era seguire Fabrizio in tutti i suoi spostamenti. Molti avvenivano di notte, per raggiungere i posti dove, la sera dopo, avrebbe dovuto presentare qualche evento o trasmissione. Per la Rai o per beneficenza. Aveva una guida veloce e sicura, forse un po' troppo sportiva per i miei gusti. Arrivava come una scheggia sulla macchina che ci precedeva, e poi scartava di colpo. “Vai piano, attento a quello che mi sembra ubriaco, metti la freccia, smettila di stare sulla corsia di sorpasso, aiuto, quel tir sbanda, ma quando arriva l'autogrill che voglio prendere un caffè?” Una rottura di scatole infinita. Io, naturalmente. Partivamo spesso dopo che aveva finito di condurre tre ore e passa di trasmissione, senza aver mangiato niente, e con l'adrenalina addosso ancora a mille.

Una notte, dopo “Europa Europa”, ci mettemmo in macchina per raggiungere Saint-Vincent. Doveva presentare, la sera dopo, una trasmissione con Heather Parisi, tipo “Disco dell'estate”. Dopo Genova beccammo una nebbia feroce, quella nera e pesante che non ti fa vedere nemmeno la linea tratteggiata sulla strada. Io, ripeto, avevo il terrore dei tir, ogni volta che ne superava uno chiudevo gli occhi fino a quando non l'aveva sorpassato. Mi diceva sempre: "Tira giù il sedile e cerca di dormire". Così non gli rompevo le scatole, è chiaro. Ma io non cedevo, guardavo lui e guardavo la strada. Se mi accorgevo che abbassava il finestrino e si metteva in bocca una gomma da masticare, voleva dire che cominciava a sentire la stanchezza. Per fortuna non era un incosciente, accostava la macchina in una piazzola e dormiva per qualche minuto.

Mi ero inventata un trucco per tenerlo sveglio. Senza che ci fosse un motivo serio cominciavo a litigare. Ma litigavo di brutto. "Chi era quella tizia che hai salutato con un bacio dopo la trasmissione?" "A chi stavi telefonando all'uscita dal Delle Vittorie?" "E perché quella giornalista ti ha regalato un peluche"? "Guarda che se voglio scopro tutto subito." Montavo dal niente delle litigate furibonde, così era costretto a rispondermi, gli tenevo alto il livello di allerta, e non si addormentava. Quando qualche tempo dopo mi ha sgamata, perché non potevo essere così scema da litigare per ogni minima cosa, ha cominciato a farmi parlare a vuoto senza rispondermi, e ad alzare il volume della radio per non sentirmi. Cosa che mi faceva incavolare ancora di più.

E poi c'è stata la volta in cui, mentre tornavamo a Roma da Salsomaggiore, dopo una delle tante edizioni di “Miss Italia”, con la macchina carica di lambrusco, parmigiano e culatello regalati dagli sponsor, mi sono fatta prendere da una vera e propria crisi di nervi perché correva troppo. Continuavo a ripetergli rallenta, vai più piano, ho paura, ma aveva fretta di tornare a casa, non c'erano ancora i limiti di velocità, mi diceva stai calma, dopo Bologna ci sono i lavori, devo rallentare per forza. Allora gli ho intimato di lasciarmi alla stazione di Bologna per proseguire in treno. Rideva, non ci credeva, ma quella volta mi sono impuntata e l'ho fatto per davvero. Volevo tornare da Giulia, senza che mi venisse prima un infarto. Sono scesa incavolata nera, e gli ho lasciato in macchina pure Thomas.

Quando è nata Giulia avevo 23 anni. Ancora troppo figlia, e con addosso ancora troppa voglia di divertirmi. Non avvertivo nessun particolare senso materno. I bambini mi piacevano poco, non li avevo mai frequentati, non avevo ancora amiche sposate, per cui il loro era un mondo che non conoscevo. Almeno fino a quel 29 giugno. Avevo vissuto i famosi nove mesi con un misto di incoscienza e insofferenza, ma anche con una grande nostalgia per la vita che avevo fatto fino all'anno prima. Avrei voluto tornare a vivere a Palermo, dove c'erano ancora mamma e papà, ma soprattutto mia sorella e i miei amici. Roberto era stato trasferito al centro elicotteri Carabinieri di Collegno, a Torino. Non conoscevo nessuno, Torino era triste, non era la Torino bellissima di oggi, passavo le mie giornate da sola, con lui sempre in volo. La vita, poi, mi ha insegnato a stare bene anche in una stanza sola con me stessa, senza nessuno vicino. Ma a 23 anni ero ancora troppo giovane, mi sembrava di avere un tempo illimitato davanti, che non sapevo come riempire.

Sposandomi, avevo tagliato le gambe a tutti i miei progetti di ragazza. Mi sentivo come una che va in barca a vela senza vento. Compravo tanti libri di cucina per imparare a cucinare, ma più che altro mi piaceva guardare le foto delle ricette. Non sapevo neanche fare uno spaghetto decente, a casa aveva sempre fatto tutto mamma. E, contrariamente a mia sorella che le stava sempre intorno per imparare, e poi si scriveva tutto su un quaderno, io mi limitavo a mangiare. Il mio metabolismo di allora funzionava alla grande. Pesavo 47 chili e portavo la 38 di taglia. Potevo anche mangiare pane e peperoni imbottiti, freddi di frigorifero, della sera prima, che non ingrassavo di un etto. E soprattutto non mi rimanevano sullo stomaco. Se lo facessi oggi mi dovrebbero portare di corsa al pronto soccorso, con codice giallo.

La sera in cui Roberto invitò a cena per la prima volta il suo comandante con la moglie, sono stata presa dal panico. A stento sapevo fare un uovo fritto. Ma perché li aveva invitati a casa? Non potevamo portarli al ristorante? No, dobbiamo cominciare a ricevere ospiti anche a casa, come fanno tutte le persone normali. Era la mia prima cena da sposata. Non volevo fargli fare brutta figura, mia madre era a Palermo, impossibile pensare di farmi cucinare qualcosa da lei. E allora comprai al supermercato due buste di un risotto liofilizzato, ai funghi porcini. Volevo spacciarlo come fatto da me al momento. Aggiunsi della panna, in quel periodo si usava molto, e venne fuori una poltiglia immangiabile. Guardavo Roberto, mi veniva da ridere, non osavo immaginare cosa stesse pensando lui. Sarebbe stato meglio l'uovo fritto, forse. Ma i nostri ospiti mangiavano facendo finta di niente. Avevano capito il mio imbarazzo e, credo, apprezzato lo sforzo.

Da quella sera imposi a me stessa di imparare a cucinare. Dovevo vincere io. Comprai il famoso Cucchiaio d'argento, un librone pieno di ricette, ce l'aveva pure mamma. Avevo solo bisogno di un po' di tempo per sperimentare e di un “assaggiatore” che mi aiutasse a migliorare. Imparai a fare la besciamella, la pasta al forno con le melanzane e, soprattutto, i pansotti con le noci. Una tipica ricetta ligure. Sono dei grossi ravioloni con la ricotta e gli spinaci, conditi con basilico pestato nel mortaio, mollica di pane strizzata nel latte, e tante noci. Ci andrebbe anche un po' di aglio, ma io non lo amo, preferisco farne a meno. Si frulla tutto, e si butta la salsa sui pansotti appena scolati, aggiungendo un mestolo di acqua di cottura e il parmigiano.

In pochi mesi Roberto era ingrassato di 8 chili. L'unica cosa che, per tutta la vita, mi sono sempre rifiutata di imparare a preparare, sono i dolci. Preferisco comprarli. Ci avevo anche provato, una volta che era venuto a trovarci a Torino il papà di Roberto. Avevo preparato una torta di mele. Ma quando li ho visti tutti e due berci sopra un litro d'acqua per farla andare giù, ho capito che non era il caso di insistere. D'altra parte le pasticcerie esistono per questo. Per le imbranate come me.

Ormai, a differenza di Roberto, io non mi pesavo neanche più. Avevo cominciato a mangiare per due. La mia pancia stava prendendo la forma di un piccolo cocomero, mi sembravo strana, ero sempre stata magrissima, mi mettevo di profilo davanti allo specchio e cercavo di trattenere il respiro per vedermi come ero prima. Ma un bimbo vuole avere spazio, nella pancia della mamma, deve crescere, scalciare, muoversi, girarsi, non gliene frega niente se senza di lui pesavi solo 47 chili. Passavo ore al telefono con mia mamma e Simona, il loro era l'unico numero che potessi fare in quelle freddissime giornate torinesi. Tanto fredde che per aprire la macchina dovevo prima far sciogliere il ghiaccio con l'accendino, se no non potevo far entrare la chiave. Fissavo il telefono e volevo far girare quel disco con il dito, tanto per parlare con qualcuno. Anche solo per dire “Scusi tanto ho sbagliato”. Una voce umana. Ma chi avrei potuto chiamare? Non conoscevo nessuno. Avevo nostalgia di tutti gli amici lasciati a Palermo. Mi faceva tristezza non avere un'amica con cui uscire, anche solo per andare a prendere un caffè o a fare la spesa insieme. Ogni tanto scendevo dalla parrucchiera sotto casa, pur di parlare con qualcuno. Non sempre mi facevo fare la piega, i capelli ero abituata a lavarmeli da sola, ma mi piaceva chiacchierare con lei e le sue clienti. Almeno passavo il tempo, mentre Roberto era in volo. E poi dopo andavo a ingozzarmi di enormi meringhe con la panna nella pasticceria vicina. Ogni tanto me le portavo pure a casa, e ci scioglievo sopra la cioccolata fondente.

Non credo fosse solo perché ero incinta. È che mi sentivo sola e avevo un po' paura. “Cosa succede quando nasce un bambino?” “Davvero la notte non potrò più dormire?” “E non potrò più uscire?” “Non potrò più passare il pomeriggio ad ascoltare musica, non avrò più il tempo di leggere tutti i libri che voglio?” “E poi, come si tiene in braccio un bambino?” “E se mi cade?” “E come faccio ad accorgermi se fa pipì, pupù, se ha bisogno di fare il ruttino, se piange per capriccio o perché sta male, se ha caldo o freddo, se lo devo coprire o scoprire, e se quando mi giro gli viene un rigurgito nella culla?” “E il mio corpo? Come reagirà? Quanto ci metterò a rientrare nei miei vestiti?” E il pensiero tornava sempre là, a mia sorella, a Palermo, alle mie estati al mare, ai miei bikini, alle corse in macchina, ai mazzetti di gelsomini che mi venivano regalati quando andavo a mangiare la pizza con gli amici. Con un bambino nessuno mi avrebbe più corteggiata.

Oddio, mi sentivo soffocare. Lo so, era un pensiero ridicolo, chi e perché avrebbe dovuto corteggiarmi? Ero sposata, ormai fuori gioco. La mia libertà stava diventando prigionia. Dovevo darci un taglio, la Rita di prima non esisteva più, me ne dovevo inventare un'altra. Ma la volevo un'altra Rita? Ero pronta? Mi mancavano troppe cose: se fossi potuta tornare indietro, a quel giorno in chiesa, avrei dato retta a mio fratello e sarei scappata. Mi ero sposata troppo giovane, senza aver prima capito cosa volessi davvero dalla vita. Però, adesso, avevo capito che non era quella la vita che volevo.

Una sera, seduta in macchina sul lungomare di Salerno, aspettando Roberto che si era andato a comprare il tabacco per la pipa, sento un piccolo movimento sul fianco. Una specie di toc. Mina stava cantando alla radio Amor mio. Io e quel toc, appena annunciato, eravamo insieme davanti al mare. Insieme davanti alle luci della Costiera Amalfitana. Con le mani sulla pancia, in quel preciso momento ho capito il significato della vita che mi portavo dentro. Che stava crescendo dentro di me. E che voleva imporsi sui miei dubbi. Toc, e mi sono subito innamorata di lui. O di lei. E ho trovato di botto la strada che non sapevo ancora di volere. Sono arrivati suoni, colori, identità, certezze, e chi se ne frega di tutto il resto. Mi sembrava di aver aspettato i miei 23 anni solo per avere un figlio. Niente altro, né prima né dopo. Chissà perché pensavo che sarebbe stato un maschietto. Si muoveva troppo. Tirava dei calci che ero sicura mi avrebbero sfondato la pancia.

Più la pancia cresceva, più avevo cominciato a passare pomeriggi interi sul prato del centro elicotteri Carabinieri. Anche se Roberto non c'era. Mi sentivo più sicura, i miei abitavano ancora a Palermo, e se avessi avuto bisogno di qualcosa, qualcuno di loro, in poco tempo, mi avrebbe portata all'ospedale. L'avremmo chiamato Carlo, non c'era scelta. Carlo mio padre, Carlo il padre di Roberto. E invece, il 29 giugno arriva lei, Giulia. Alle 9.30 del mattino, e non senza fatica, dopo un giorno e mezzo di doglie. Roberto mi lascia in sala parto con l'ostetrica per andare a telefonare a sua madre, per dirle che era nata Flora. Voleva darle il suo nome. Io, ancora intontita ma vigilissima, guardo l'ostetrica e le dico: "Non gli dia retta, sul braccialetto scriva Giulia. Come mia nonna". Neanche tre ore dopo mio padre era già a Torino, con le sue rose rosa. Aveva letteralmente mollato a terra mia madre, che voleva imbarcarsi sull'aereo con lui. No, vado prima io, tu mi fai perdere tempo, le aveva detto, raggiungimi con il volo successivo. Credo che mamma, questa cosa, non gliel'abbia mai perdonata. Ma Giulia era la sua prima nipotina, e lui era andato fuori di testa dalla gioia.

Anche quando ci fu un violentissimo terremoto ad Ancona, mio padre fu il primo ad arrivare per prendersi Giulia e portarla a Palermo da loro. Roberto era stato trasferito in pochi giorni da Torino a Falconara Marittima proprio per creare un nuovo centro elicotteri che portasse soccorso alle zone colpite. Facemmo il trasloco in fretta e furia, con Giulia ancora piccolissima. Non mi era dispiaciuto lasciare Torino, se non per il fatto di aver conosciuto, negli ultimi mesi, quello che poi sarebbe diventato mio cognato Carlo, il marito di mia sorella. Faceva parte del mio giro di amici di Palermo, anche se non ci eravamo mai incrociati. Era stato trasferito da poco a Torino, e siccome non conosceva ancora nessuno, la sera veniva spesso a cena a casa nostra. Era uno psichiatra dell'ospedale di Collegno e mamma diceva che uno psichiatra in famiglia serve sempre.

Il trasferimento a Falconara era scivolato via senza intoppi, avevamo trovato una casa in collina, finalmente potevo rivedere il mare. Prima di andare a letto, la sera, mi affacciavo sempre alla finestra per guardare le luci della costa e della ferrovia. Sapevo a memoria tutti gli orari dei treni che passavano per la Puglia o verso il Nord. Era un modo di evadere, di viaggiare anch'io. Forse volevo solo scappare. Una sera che eravamo ad Ancona, a cena da un collega di Roberto, mentre stavamo mangiando, sentimmo arrivare dal mare una specie di boato. Un rumore forte e cupo. D'improvviso si spensero tutte le luci e la casa cominciò a tremare in modo violentissimo. Tremava, tremava, una nausea allo stomaco, si muoveva tutto, eravamo instabili anche noi. Cadde un mobile, una specie di credenza piena di piatti. Ne sentimmo il rumore, ma non vedevamo niente, eravamo totalmente al buio. Terrore puro. E io feci quello che mi hanno sempre detto che non si deve mai fare in quei momenti. Scappai con Giulia in braccio e Lola per le scale, e raggiunsi la strada. Il palazzo aveva ferite profonde, come se fosse stato spaccato in due. La gente urlava, un urlo nel quale riconoscevo la mia stessa paura. Roberto mi lasciò lì, su un muretto, con Giulia sulle ginocchia, e scappò di corsa, con il suo collega, verso una galleria dove si stava formando una coda di macchine impazzite. Suonavano tutti, le persone stavano cercando di fuggire senza capire che quella galleria poteva diventare pericolosissima. Le scosse proseguivano: davanti alla terra che si ribella e tenta di espellerti, ti senti impotente.

Dopo due ore, Roberto tornò a prenderci con la nostra macchina, ci portò al sicuro nel cortile della caserma e corse nuovamente fuori con i suoi Carabinieri.

Avevo già vissuto quel terrore, quell'essere “parcheggiata”, nel cortile di una caserma, con la terra che ondeggiava sotto i piedi e non si fermava mai. Era il 15 gennaio 1968. Stavo finendo la traduzione di un testo di psicologia dall'inglese, a Palermo, per un mio amico. Non so come, a un certo punto ci siamo ritrovati a correre per i corridoi della facoltà, per scappare in strada e raggiungere casa. C'era già stata, nella notte, una scossa, ma non così violenta. Papà, quando rientrai, era già partito, con una colonna di uomini e mezzi, per portare aiuto alle zone più colpite. La Valle del Belice era stata rasa al suolo, non esisteva quasi più. Si erano aperte le strade, inghiottendo tutto quello che c'era sopra. Gibellina, Montevago, Salaparuta, Santa Margherita erano diventate solo macerie. E sotto quei massi la vita e la storia di centinaia di famiglie smembrate, distrutte. Quel terremoto cambiò per sempre la toponomastica del territorio.

Papà non lo vedemmo per oltre due settimane. Anche lui, con i suoi Carabinieri, era lì a scavare con le mani fra le macerie. Le notti, Simona e io, le passavamo in macchina, nel grande cortile della caserma. Mamma, invece, non ne voleva sapere di lasciare casa e il suo telefono sul comodino. Quel telefono era l'unico mezzo che aveva per comunicare con papà. Per quello che fece in quei giorni, per l'aiuto che diede alle popolazioni devastate dal sisma, mesi dopo a mio padre venne data la cittadinanza onoraria. Pensavo a questo, mentre mi tenevo Giulia stretta in braccio e la terra continuava a tremare. Lei non doveva accorgersi che avevo una maledetta paura. Non volevo trasmettergliela.

Il giorno dopo arrivò mio padre, avrebbe voluto che andassi anch'io a Palermo con lui e Giulia, ma non potevo lasciare Roberto da solo, non mi sembrava giusto. Vidi Giulia partire con la sua tutina gialla in braccio al nonno, e sentii uno strappo. Era la prima volta che mi separavo da lei. Mi venne un magone che durò per tre mesi, fino a quando con Roberto, a emergenza finita, salimmo su un aereo per andarcela a riprendere. Mentre eravamo in volo mi disse: "Preparati, non ci rimanere male, non piangere se non ti riconosce, è ancora troppo piccola e non ci vede da mesi". Non c'era bisogno che me lo dicesse, lo sapevo anch'io. Suonammo alla porta di casa, con le gambe che mi si piegavano per l'emozione, e mamma ci venne ad aprire con il mio Pulcino biondo in braccio. Questa volta aveva una tutina rosa. Due occhi azzurri si fissarono nei miei solo per un secondo. E poi… "Mamma" e tese le braccine verso di me. Guardai Roberto con aria di sfida. Visto? Ero la sua mamma, non mi aveva dimenticata. Ci sto ripensando adesso che scrivo, ma credo che quella sia stata la gioia più grande della mia vita.

I Carabinieri sono sempre stati la mia vera casa, la mia vera famiglia. Ogni volta che vedo una gazzella blu mi si allarga il cuore. Vorrei fermarla, salutarli, offrire loro un caffè. Sto con loro, e mi sento immediatamente più sicura. Se potessi entrerei in tutte le caserme che incontro sulla mia strada. Ci sono nata, in caserma, sul tavolo della cucina di Casoria, un grosso paese vicino a Napoli. Mio padre comandava la tenenza. Quel 31 agosto di un bel po' di anni fa, mia mamma aveva vicino mia nonna Giulia e la moglie del maresciallo. Più l'ostetrica. E due cagnoloni, adottati da papà, che aspettavano fuori dalla porta.

Ecco perché ogni volta che vedo l'insegna “Carabinieri” su un portone mi viene voglia di mettere dentro la testa. Così, giusto per salutarli, per rivedere quelle divise nere che rappresentano non solo lo Stato, ma anche tutti noi cittadini. Perché in quelle caserme vivono uomini che hanno fatto del proprio lavoro un modo costante per rispettare, e far rispettare, i valori che dovrebbero essere quelli di tutti noi. Uomini che non hanno paura di morire pur di dare a noi la possibilità di vivere. Uomini che hanno mogli, fidanzate, figli che li abbracciano, prima di uscire, di giorno o di notte, e che sorridono anche se hanno il terrore di non vederli più tornare a casa. Qualche volta dovreste entrare in una di queste case. Vi rendereste conto dell'infinita dignità che le abita. Morale e materiale. Non credo sia facile accettare il pensiero di non esserci più, domani, magari con dei figli ancora piccoli da crescere, solo perché sei chiamato a difendere qualcuno che neanche conosci. Che fino a quando non ha bisogno di te, e della tua vita in cambio della sua, neanche ti dedica uno sguardo, un sorriso, se lo incroci in macchina o per strada. Che alza le spalle infastidito se gli si ricorda il tuo stipendio. L'ha scelto lui di fare il Carabiniere, nessuno l'ha costretto. Chiedigli di farci vivere la sua famiglia con quello che prendi tu al mese. E chiedigli anche se i suoi colleghi si autotasserebbero per far studiare i suoi figli, se mai gli dovesse succedere qualcosa. Come fanno, invece, tutti i Carabinieri con gli orfani dell'Arma. Da ogni stipendio, a partire da quello del Carabiniere più giovane, fino a quello del comandante generale, ogni mese viene prelevata una cifra da donare all'ONAOMAC.

Volevo fare la Carabiniera anch'io, da piccola. Ma in quegli anni le donne non potevano ancora indossare la divisa. Oggi ce ne sono tante, di Carabiniere, e tutte molto belle, con lo sguardo fiero, anche ai posti di comando. Io mi accontento di stare in mezzo a loro, e di avere la mia divisa nel cuore. Scrissi un post su Fb, una notte prima di Natale, di qualche anno fa. C'è dentro tutto il mio amore per loro.

È tardissimo, sono tornata a casa adesso dopo una cena da amici. Scendendo dalle Mura vaticane, siamo stati fermati da una pattuglia di Carabinieri, per un controllo dei documenti. Noi al caldo di una macchina, fra chiacchiere e risate, loro al gelo in mezzo alla strada. Ero seduta dietro, li guardavo, “sentivo” la loro fatica, il freddo che potevano avere. Erano lì per proteggerci, per assicurare a noi cittadini un sonno tranquillo. Guardavo le loro divise, i loro visi giovani e seri, consapevoli di ciò che potrebbe purtroppo accadere in qualunque momento e in qualunque angolo di strada. Mi sono chiesta se non hanno paura. Ho pensato alle loro famiglie, così uguali alla famiglia che ho avuto io. Ho pensato al loro stipendio, una vergogna per chi rischia la vita ogni secondo. E a quella cifra che, ogni mese, donano tutti, dal Carabiniere al Generale, agli orfani dei loro colleghi che non ci sono più. E ho capito, per l'ennesima volta, nella mia vita, di amarli moltissimo. E di essere sempre più orgogliosa di essere cresciuta in mezzo a loro.

Nei secoli fedele, papà. Me lo hai insegnato tu.

Mia mamma mi ha insegnato, fin da piccola, che se una persona chiede l'elemosina, chiunque essa sia, bisogna sempre regalare un soldino, accompagnato da un sorriso. Perché, mi spiegava, nel dubbio è sempre meglio essere presi in giro che negare aiuto a qualcuno che ha bisogno davvero. Una grande lezione di vita che non ho mai dimenticato. Non è generosità, ma rispetto per un essere umano che è in difficoltà. Mi sono sentita spesso dare della “buonista”, per le mie idee o i miei atteggiamenti. Una definizione che detesto, soprattutto perché utilizzata da chi non ha altri argomenti per affrontare il proprio “io” arido, egoista. Che non vede mai oltre il proprio squallore di vivere. Di gente così ne ho conosciuta tanta, anche amiche, amici, che hanno tradito da un giorno all'altro. Sono state delusioni che ho superato con molta fatica, perché io credo nel bene dell'amicizia e nell'onestà dei rapporti. Credo negli uomini. Negli abbracci mentali.

Non conosco l'invidia professionale, per esempio. Certo, non mi stanno tutte simpatiche, le mie colleghe. Alcune le trovo francamente insopportabili. Ma non mi permetterei mai di parlarne male, non aggiungerebbe niente a me e non toglierebbe niente a loro. Fabrizio, per esempio, odiava ogni tipo di pregiudizio, di pettegolezzo. Eppure è stato fregato anche lui, e diverse volte, anche da chi non se l'aspettava. L'ho visto star male, molto, e non capire il “perché”. Ma era talmente perbene che ha sempre dato a chi lo tradiva una seconda possibilità. Io no, io chiudo. E non dimentico. Quindi, tanto buonista non sono.

IO NON DIMENTICO. Ore 17.50 del 23 maggio 1992, un sabato. Sono appena tornata a casa dal supermercato. Ho fatto la spesa per tutta la settimana, così fino a sabato prossimo non ci penso più. Butto tutto in frigo, senza nessun ordine. Metto croccantini e umido nella ciotola di Thomas, e corro a cambiarmi. Devo sbrigarmi, devo ancora farmi una doccia, mettere in lavatrice i soliti jeans, infilarmi un tubino, prendere la mia Micra rossa e volare al Delle Vittorie. Stasera c'è l'ultima puntata di “Scommettiamo che?”. Sento dal bagno il telefono che sta suonando, ma non faccio in tempo a rispondere. Meglio, sono già in ritardo. Ma il telefono riprende a squillare dopo cinque minuti. È Fabrizio, ha una voce strana, un po' roca. "Rita, ma sei ancora a casa?" "Sì, ho fatto la spesa, sono tornata adesso, sto riprendendo fiato. Mi sembra ancora presto per venire. Comunque dai, mi cambio e arrivo." Tanto, prima della trasmissione, Fabrizio non si accorge nemmeno se ci sono o no. Il suo camerino è attaccato a quello di Milly Carlucci, e l'ingresso è sempre pieno zeppo di gente. Sembrano tante formichine che corrono da una parte all'altra. Autori, ospiti, uffici stampa, trucco e parrucco, Michele Guardì con la scaletta in mano. È la tensione del prime time, che si taglia come burro. Meglio girare al largo. Con Angelo, il marito di Milly, cerchiamo di arginare alcune persone del pubblico che vogliono entrare a tutti i costi a salutarli. Ecco perché, da un pezzo, ho preso l'abitudine di arrivare all'ultimo minuto. Così mi salvo la pelle.

Capisco, però, che oggi mi tocca andare, e subito. "Che c'è, Fabri, tutto bene?" "Per favore, Rita, siediti. E cerca di stare calma. Rita? Mi hai capito? Ma sei sola, non c'è nessuno in casa?" "No, non c'è nessuno, solo Thomas che dorme sul letto." Mi siedo vicino a lui, con la mano sulla sua testolina bianca, quasi mi ci aggrappo. Ho paura di quello che mi sta arrivando addosso. "Rita, poco fa hanno ucciso Falcone. Ti prego, prendi un taxi, e raggiungimi qui." Tutto come dieci anni fa. Stesso tipo di telefonata, stessa strada da percorrere verso gli studi della Rai, stesso dolore sordo che sale dallo stomaco al cervello, e stessa reazione. Niente, vuoto assoluto, nessuna lacrima. Solo i suoi occhi neri, con il sopracciglio alzato, davanti ai miei. Falcone sul palco del “Maurizio Costanzo Show”, durante la serata contro la mafia, e io che gli chiedo: "Mica ci abbandona, adesso che è stato trasferito a Roma al ministero?". E lui che si gira sulla sedia e mi fissa serio, piantando i suoi occhi nei miei: "No, Rita, certo che no".

Non vedo altro, non vedo la strada, non sento la radio e il tassista che, sconvolto anche lui, parla della strage di Capaci, non vedo le guardie sulla porta del Delle Vittorie. Ma vedo Fabrizio. Salgo le scale, c'è un muro umano davanti a lui. E dietro al muro umano c'è lui che, stravolto, con le lacrime agli occhi, dice: "No, non possiamo andare in onda, non possiamo fare questo a Falcone". Mi vede, si alza e mi abbraccia strettissimo. "Come stai? Vuoi dell'acqua? Scusami, non volevo essere io a darti quest'altro dolore."

Mi siedo sul divano del suo camerino, e i ricordi mi vengono incontro a ondate. Le onde a schiaffo, non quelle dolci che, da bambina, chiamavo cavalloni. "Lo sai che tuo padre ti amava molto?" "Sei stanca dal viaggio? Lo vuoi un caffè?". E di caffè ne arrivavano dieci. E i diari di papà davanti a lui. E Falcone che scriveva a mano tutto quello che gli dicevo, che gli raccontavo, foglio dopo foglio, con i miei dubbi, le mie quasi-certezze, alcuni nomi di politici dell'epoca, comandanti generali che pensavano che il proprio potere potesse essere offuscato dal generale dalla Chiesa. Certo che ne erano offuscati. E lo odiavano, mentre la base lo amava. Come adesso, in questo camerino, io sento di amare Falcone, sua moglie, e tutti gli uomini della sua scorta. Saltati per aria mentre io facevo la spesa al supermercato, a comprare broccoletti e melanzane.

"Ho detto che non vado in onda, chiamate chi volete, ma stasera la trasmissione salta. Stasera l'Italia non ha voglia di ridere." Michele Guardì cerca di calmare Fabrizio, ma è indeciso pure lui. Da siciliano doc avverte quanto la sua terra, stasera, stia pagando un prezzo altissimo. "Inutile continuare a parlarne, niente messa in onda, abbiate rispetto anche per il dolore di Rita, che è qui in mezzo a noi." Fabrizio mi tiene per mano, e non si arrende. Mi è vicino da quasi dieci anni, ha vissuto con me e i miei fratelli troppe cose e troppe battaglie, per non sapere quello che sto provando in questo momento. "Ma come cavolo facciamo?" chiede qualcuno. "Sono già arrivati tutti, ci sono tutti i finalisti, ci sono gli ospiti, e il pubblico è già entrato." "Pazienza, capiranno anche loro. Io non posso andare in onda facendo finta che non sia successo niente. Chiamate chi volete, ma la Rai stasera non può fare una figura del genere."

Si affaccia in camerino Milly, mi abbraccia piangendo, nessuno se la sente di fare un affronto alla memoria di Falcone e dei suoi uomini ridendo e scherzando in un varietà televisivo. Guardì è attaccato al telefono, cerca tutti, parla con tutti, urla con tutti. "No, non si può, magari registriamo e la mandiamo in onda in un'altra serata." Fabrizio ha la testa fra le mani, non ne vuole sapere, si sente in colpa per me, che sono lì e ascolto e vedo tutto. Mi viene in mente una serata di “Miss Italia”, a Salsomaggiore. La prima “Miss Italia” presentata da lui. Quella dove vinse Nadia Bengala. Era un 3 settembre, una data per me dolorosissima. Rimasi in albergo con Thomas, non avevo nessuna voglia di mescolarmi al carrozzone dello spettacolo, e guardai la “sua prima volta a ‘Miss Italia'” dal televisore della camera, mangiando un toast. Con il pensiero a Palermo. Dopo la proclamazione della Bengala spensi la luce, per cercare di dormire. Ero sicura che Fabrizio sarebbe andato alla cena di fine produzione, non ce l'avrei fatta ad aspettarlo sveglia. Dopo nemmeno mezz'ora era lì, che bussava alla porta della camera. Sudato per la diretta, e con un piatto di frutta in mano, la sua cena. Non voleva che restassi sola perché sapeva perfettamente che non stavo passando una serata facile. Questo era Fabrizio. Io non dimentico.

Anche adesso, nel casino dell'“andiamo in onda lo stesso”, “non ci penso neppure”, “la direzione generale ha deciso di sì”, “ma io ho deciso di no”, Fabrizio sta “sentendo” tutto il mio dolore. Alla fine, il braccio di ferro lo vince l'ottavo piano di viale Mazzini, Fabrizio e Milly si cambiano di corsa, e uno smoking e un abito da sera si presentano davanti alle telecamere. Loro non ci sono, dentro quegli abiti, loro sono da un'altra parte, lo so. Due persone per bene in mezzo ad altre milioni di persone che stanno piangendo, stasera, per un giudice fatto saltare in aria con sua moglie e la sua scorta, mentre stavano tornando a casa per il fine settimana.

Il giorno dopo tutti i quotidiani attaccano la scelta della Rai, ma a essere massacrato di critiche è soprattutto Fabrizio. Proprio lui che fino all'ultimo si è rifiutato in tutti i modi di andare in onda. Proprio lui che si è opposto con tutte le sue forze alla regola che lo spettacolo deve andare avanti lo stesso. Ma quello che lo fa soffrire di più, e che lo farà soffrire moltissimo anche nei mesi successivi, è il commento del giudice Antonino Caponnetto, che guida il pool antimafia. Sacrosantamente indignato, il giudice Caponnetto che, con la morte di Falcone, e due mesi dopo con quella di Borsellino, viene privato in modo atroce dei suoi due affetti più cari, parla di Fabrizio come di una persona superficiale, che non va più in là dei suoi frizzi e lazzi. Per Fabrizio è un colpo duro. È il suo magone quotidiano. La vive come un'ingiustizia, sta pagando lui per tutti. Erano in tanti nel suo camerino del Delle Vittorie, quella sera, ma nessuno alza un dito per difenderlo. Vorrei farlo io, io c'ero, ero lì con lui, so cosa è successo davvero, ma Fabrizio mi impedisce di parlarne con chiunque. È la sua dignità, che parla per lui. Sono profondamente amareggiata, consapevole che non ha bisogno di una mia difesa pubblica, ma capisco anche che sta troppo male. Non so cosa fare per aiutarlo. È l'unica persona di questo ambiente che non merita tutto quello di cui lo stanno accusando.

Una sera passa Nando da Roma per la presentazione di un suo libro, viene a dormire da noi, e dopo cena li lascio soli nel soggiorno. Si vogliono un gran bene, ma devono parlarsi, anche Nando c'è rimasto molto male perché è andato in onda la sera della morte di Falcone. Parlano fino all'una di notte e Nando, amico fraterno di Caponnetto, gli promette che spiegherà lui al giudice come sono andate realmente le cose. Ma a Fabrizio non basta. Vuole scusarsi lui, personalmente. Ci pensa su tutta la notte, e la mattina dopo, prima che Nando riparta, gli consegna una lettera per Caponnetto. Non ho mai saputo cosa gli abbia scritto. Ma qualche mese dopo arriverà a Fabrizio una bellissima risposta del giudice. Con buona pace di Aldo Grasso, il primo ad averlo messo in croce sulle pagine del “Corriere”. Ecco perché dico che io non dimentico. Non auguro mai il male a nessuno, ma a nessuno permetto di farne a me o alle persone che mi sono vicine.

Ogni tanto, ancora adesso, mi prende la giornata della mia camera chiusa a chiave. Me ne accorgo da come mi sveglio la mattina. Mi alzo, tiro su le serrande, faccio colazione, leggo la mazzetta dei giornali e guardo Roma attraverso il verde dei pini. Ed è in quei momenti che decido se, dopo la doccia, metterò i miei soliti jeans e le scarpe da ginnastica, o me ne resterò tappata in camera, senza voler vedere e sentire nessuno. Magari fino al giorno dopo. È uno di quei giorni pieni di malinconia, come quelli cantati dalla Vanoni.

Ecco, uguale. Mi prende una strana sensazione di bisogno di solitudine, di restare aggrappata alle mie cose più intime. Tipo i libri sul comodino. Ma non è un malessere. No, è proprio che non ho voglia di uscire di casa, ma nemmeno di scendere in cucina o nel soggiorno. Nemmeno di sentire la musica. Come se, nel silenzio totale che mi creo intorno, mi sia più facile raccogliere i pezzi rotti, e rimetterli al loro posto. Deragliamo anche noi, qualche volta, con i pensieri.

Per scelta, da alcuni anni vivo sola. No, non è vero, non è che l'ho scelto io, è inutile fare le fighe quando siamo solo sfigate. È la vita che ha scelto per me. Ci sono sere, poche per fortuna, che non è facile ritrovarsi con un vassoio sulle ginocchia a mangiare da sola davanti alla televisione. Quasi sempre le stesse cose, di una tristezza infinita. Il massimo dello sfizio sono due pizzette surgelate che metto in forno con l'aggiunta di sottilette e peperoncino. Poi mi lamento che ingrasso. Certo, nessuno mi rompe le scatole per cambiare canale, nessuno mi vede con i calzettoni di peluche perché ho sempre freddo ai piedi, nessuno mi chiede di spegnere la luce sul comodino mentre sto leggendo, nessuno mi dice di mettere una cuffia se voglio ascoltare la Callas all'una di notte, nessuno si lamenta se in camera c'è troppo caldo e il piumone è troppo pesante, nessuno si infastidisce perché Pedro russa ai piedi del letto, però nessuno mi prende per mano se ho paura del buio. Nessuno si sveglia con me se di notte suona l'allarme all'improvviso, e mi accompagna a fare il giro del terrazzo (a parte Pedro). Nessuno mi dà il buongiorno mentre bevo il primo caffè del mattino. Nessuno mi abbraccia prima che cominci un'altra giornata di lavoro.

Qualche amica ha provato a dirmi “Ma beata te che sei da sola, pensa a me che mi ritrovo a fargli da badante, ora che è invecchiato”. Già, ma quando era più giovane e ricco, malgrado la differenza di età, te lo sei sposato di corsa, portandolo via alla fidanzata storica. È vero o no? Allora adesso stai zitta, ti tieni i suoi soldi e ti tieni anche i suoi acciacchi. Oppure, al maschile. “Pensa che bello, tu puoi fare notte con chiunque, mentre io, cascasse il mondo, sempre con lei devo tornare a casa e sempre con lei mi ritrovo nel letto.” A parte il fatto, caro amico, che io è da un pezzo che non “faccio notte” con nessuno. Ma sbaglio, o quella che ti ritrovi nel letto è la stessa che va a fare la spesa tutti i giorni per tua madre, e che la porta a fare fisioterapia perché tu sei troppo occupato con il lavoro? Che ti prepara il baccalà il venerdì, che ti piace tanto, anche se a lei fa schifo il pesce? Che raccoglie i tuoi calzini e le camicie sparse per casa? Che ti svuota la borsa del tennis o del calcetto e ti mette le mutande e le magliette in lavatrice?

Ecco, forse, io oggi non ce l'avrei più quel tipo di pazienza. Forse è vero che la libertà è l'arma migliore per vivere la vita a modo proprio. Almeno da una certa età in poi. Ma lo devo decidere io, non mi deve essere imposta. La mia porta chiusa a chiave, quindi, è probabilmente un modo per fare le verifiche al motore, e capire se la bilancia delle mie scelte pende ancora dalla parte che mi sembra giusta. O quella che mi mette al riparo dalla noia o dalla sofferenza. Che bella la mia porta che, quando la riapro, mi ributta nella vita. Anche da sola, ma sempre felice di esserci.

È mezzanotte passata da un pezzo. "Mamma, sei sveglia? Posso entrare?" Giulia si siede sulla panca a fiori che ho davanti al letto. È tornata a casa adesso, pantaloni neri, maglione nero e scarpe basse. Minimal che più minimal non si può. A Roma, dove tutto, nell'abbigliamento, è esagerato, tacchi, colori, orecchini, lei è una specie di ufo. "Devo dirti una cosa." Oddio, penso io, aiuto. "Massimo mi ha chiesto di sposarlo" "E tu?" "Ho detto sì." "Come hai detto sì? Vi conoscete solo da pochi mesi. Per carità, Giulia, non fare anche tu l'errore che ho fatto io con tuo padre, che ci siamo conosciuti e sposati nel giro di sei mesi. Ma ne sei proprio così innamorata?" "Sì." Ecco, “sì” e basta. Ritento. "Ma aspettate un bambino?" "No, mamma, perché? Si deve per forza aspettare un bambino se ci si vuole sposare? Noi vogliamo semplicemente andare a vivere insieme. Hai presente la chiesa, gli invitati e l'abito bianco? Ecco, quello."

Perfetto. Me lo guardo, il mio Pulcino con i capelli biondi e lo stesso broncio di quando era bambina. È bella, molto bella. Ma non ha per niente un carattere facile. Ha preso un po' da me e un po' dal padre. E ci mette anche del suo. Si accende una sigaretta, e cominciamo subito a litigare. "Quante volte ti ho detto di non fumare? Che cosa aggiunge alla tua vita una sigaretta?" "Mamma, piantala." "Spegnila, che ti fa male." Parole buttate via. Non ce la fa, è più forte di lei e della sua intelligenza. Spegnerà, per sempre, quella sigaretta solo dopo la nascita di Lorenzo. "E papà lo sa che ti vuoi sposare? Gliel'hai detto?" "No, l'ho detto solo a te." Diritto di priorità. "Ma quando?" "A giugno." "A giugnooooo????? Ma sei matta? Siamo sotto Natale, come faccio a organizzare ogni cosa per giugno? Lavoro tutto il giorno, dove lo trovo il tempo?" "Ma guarda che vogliamo un matrimonio semplice, con poche persone. Dobbiamo solo scegliere l'abito da sposa e il menu. Tanto il ricevimento lo facciamo nel giardino della casa di Massimo." "Ma come poche persone? Massimo ha sei fratelli, cognati e cognate, nipoti, un sacco di parenti fra Roma e Foggia. E poi i vostri amici, i suoi, i tuoi e i miei? E i vostri colleghi della Rai e i miei di Mediaset? E i miei parenti sparsi per l'Italia? E quelli di tuo padre? Nonni, cugini di Napoli e Bergamo, gli zii, i tuoi fratelli? E poi c'è la famiglia di Fabrizio. No, o vi sposate da soli in pizzo a una montagna, o dobbiamo invitare tutti. E tutti sono tantissimi."

Soltanto una mamma che ha cresciuto sua figlia da sola può capire fino in fondo cosa stavo provando io in quel momento, con lei seduta ai piedi del letto. Da un lato ero felice nel vederle quella luce negli occhi, innamorata di una persona perbene, simpatica, con una bella famiglia alle spalle. E dall'altro stavo affrontando, per la prima volta, il dolore per il distacco. Vabbè, non è che si sarebbe trasferita poi così lontana, solo dieci minuti da casa nostra, ma eravamo cresciute insieme, sempre appiccicate, come busta e francobollo. Avevamo affrontato insieme i grandi dolori della nostra vita, mia mamma, mio papà, la separazione e la lontananza da suo padre. E la mia separazione da Fabrizio. Non aveva avuto una vita facile, amore mio, anche per colpa mia.

Chissà se ero stata una buona mamma. Ho sempre avuto paura di chiederglielo. Paura della sua risposta. Magari quello che mi era sembrato giusto per me, per lei era stata la scelta sbagliata. Le mamme giovani, come lo ero io quando è arrivata Giulia, sono destinate a commettere un'infinità di sbagli. Anche se fatti in buona fede. Chissà quali sono quelli che non mi ha mai perdonato. Chissà cosa provava quando mi sentiva litigare con suo padre o con Fabrizio. Anche se le discussioni avvenivano sempre quando lei era già andata a letto. Ma le pareti delle case sono sottili, dovremmo sempre ricordarcelo. I bambini non dovrebbero mai avvertire tensioni in famiglia, bisognerebbe pensare soprattutto a loro quando si alza la voce con il proprio compagno. Magari i motivi per cui si litiga sono spesso assurdi, basati sul niente. Ma i bambini non lo sanno, non lo capiscono, e ci stanno male. Come stanno male per i silenzi a tavola, i musi lunghi, o le porte sbattute. I genitori non sono santi, sono esseri umani estremamente fragili nei sentimenti. E se sorridi anche quando hai voglia di piangere loro se ne accorgono, e accumulano insicurezze per la loro vita futura. “Che c'è, mamma, hai pianto?” “No, tesoro, mi fa male la schiena. O la testa.” In realtà ti fa male il cuore, ma non puoi dirglielo.

Giulia, per esempio, ha sofferto moltissimo quando mi sono lasciata con Fabrizio. Era ancora piccola quando è venuto a vivere con noi, e spesso lei si sbagliava e lo chiamava “papà”. E lui lo è stato davvero, un papà, per tutti gli anni che è durato il nostro matrimonio. E anche dopo. Ha continuato a essere sempre presente ai suoi compleanni, ai miei, arrivava di corsa la vigilia di Natale carico di regalini per tutti, e poi scappava via. E in seguito, quando è nato Lorenzo, ha cominciato a venire anche ai suoi, di compleanni. Al suo battesimo, alla sua prima Comunione, con Stella e Carlotta. Lollo all'inizio non capiva bene chi fosse, perché per lui il nonno ufficiale era Roberto. Che però aveva un'altra moglie, Elena. E Fabrizio un'altra moglie, Carlotta. E allora io che c'entravo con loro due?

Fino al giorno in cui, aveva 3 anni ed eravamo in spiaggia, Lollo mi ha chiesto: "Nonna, ma tu sei mai stata sposata?". Ho cercato con gli occhi qualcuno che mi aiutasse a rispondergli. Ma c'era solo il mare, davanti a noi. Come glielo spiegavo a un bambino così piccolo che mi ero sposata due volte? Mai che ci sia Giulia, quando ho bisogno di lei. E allora ho deciso per la sincerità. "Sì, amore, sono stata sposata prima con nonno Roberto. Ma non andavamo molto d'accordo. E poi mi sono risposata con Fabrizio." "Anche con lui non andavi d'accordo?" Domanda legittima. "No, tesoro, questa è un'altra storia, un po' lunga, poi un giorno te la racconto." Avevo paura di quello che avrebbe potuto rispondermi o domandarmi. Non è normale, per la testa di un bambino, avere una nonna che si è sposata due volte, e che, pur avendo avuto due mariti, non ne ha neanche mezzo vicino. Invece mi ha spiazzata: "Non è vero, secondo me non ti sei mai sposata con nessuno, non hai nemmeno una fede al dito". Come, non mi sono mai sposata? L'anello di nonno Roberto l'ho perso in mare e quello di Fabrizio l'ho messo in un cassetto. Mi guardava come se gli stessi raccontando un sacco di balle. A quel punto l'ho preso in braccio e ci siamo buttati in acqua insieme, non sapevo più che dirgli. Avrei tanto voluto essere la classica nonna con un solo marito, in quel momento. Nonno-nonna, come telefono-casa.

Appena tornati a Roma sono corsa da un gioielliere a comprarmi una sottile fede d'oro, e me la sono infilata all'anulare sinistro. Sono andata da Lorenzo e gliel'ho messa sotto il naso. "Lo vedi che anche nonna è stata sposata?" "Ma questa non è mica una fede da matrimonio, c'è un brillantino, è diversa da quella di mamma e papà." Partita persa, Lollo 1 - nonna 0. Ma da quel giorno, questa piccola fede che porto sempre al dito rappresenta l'amore che ho per lui.

Giulia è qui, ai piedi del mio letto, Lollo non è ancora nato, e lei continua a parlarmi del suo matrimonio con Massimo. Chissà cosa pensa di me, e degli errori che fanno le mamme. Solo quando entrano nel mondo adulto, i figli riescono, forse, a capire e a perdonarci. Quando anche a loro succede, perché qualche volta succede anche a loro, di camminare nelle sabbie mobili. E allora cercano in noi consigli e confronto, una mano che li riporti a galla. La guardo e mi rendo conto che c'è sempre stato un amore grandissimo, fra noi, ma, in mezzo, ci sono sempre stati anche la mia inesperienza, e la mia voglia di correre incontro alla vita. Il mio lavoro era importante, ci permetteva di vivere senza grosse preoccupazioni. Ma le portava via tutto il tempo che avrebbe voluto passare con me. E mi perdevo tante cose importanti della sua crescita, anche se non smettevo un solo istante di tenerla d'occhio, seppur da lontano. Avevo nella testa una specie di telecamera fissa incorporata. Puntata ininterrottamente su di lei. Non avevo nonni o parenti che potessero seguirla mentre mancavo da casa. E, allora, le avevo messo vicino una tata che non mollava mai la presa, Pierina, che mi raccontava per filo e per segno tutto quello che faceva. Anche della prima sigaretta fumata di nascosto con una sua amica sul terrazzo, per paura che io, rientrando a casa, sentissi la puzza del fumo. Chiaro che Giulia non la sopportasse, mi rimproverava di averle messo in casa una spia, che ero troppo chioccia, invadente, che non la lasciavo respirare. Se sentivo passare un'ambulanza la chiamavo subito per sapere dove fosse e che non le fosse successo niente. "Mamma, ma sei paranoica, piantala di buttarmi addosso tutta la tua ansia e i tuoi problemi."

Ansia da sensi di colpa, l'ho capito in seguito. Avevo il terrore che frequentasse giri sbagliati, che qualche ragazzo approfittasse della situazione, che le offrissero alcol o canne. Quando ha compiuto i 18 anni ricordo di aver pensato “Grazie a Dio l'ho sfangata”. Il periodo peggiore, quello dei pericoli dell'adolescenza, era passato. Giulia era cresciuta in modo sano, pulito, con amiche normali, simili a lei. Passava i pomeriggi con Giorgia e Amelia, le stesse amiche che l'hanno seguita dai banchi di scuola a oggi. Non si sono mai lasciate. Ascoltavano per ore, chiuse in camera, le prime musicassette che Giorgia registrava con la sua voce sulle canzoni di Whitney Houston. Quella ragazzina, con gli occhi neri bellissimi e un fisico esile, minuto, aveva grinta e voce straordinarie. La sua speranza di farcela, di acchiappare il sogno e vincere era supportata dalla passione e dal tifo di Giulia e Amelia. Nessuna gelosia, fra loro. Ma solo striscioni con il suo nome, in prima fila, quando Giorgia ha cominciato a fare i primi concerti. Belle anime, che vivevano di musica e dei loro primi amori. Oggi, quando le guardo, ognuna con la propria vita, con i propri dolori, ognuna diventata mamma, che si parlano e si raccontano ridendo, piangendo, ma sempre insieme, che portano i loro figli e figlie ai megaconcerti di Giorgia, come facevano da ragazze qualche anno fa, ringrazio il cielo e chi lo abita per non averci mai lasciate sole. Per averci sempre tenuto una mano in testa. Mia figlia ha potuto conoscere da subito il senso profondo dell'amicizia. Non ho mai saputo dire grazie a Giulia per essere cresciuta così. Generosa e profondamente onesta dentro. Essere madre e padre contemporaneamente è qualcosa di molto complesso. Devi intuire anche quello che tua figlia non dice, devi imparare a decifrare i suoi silenzi, i suoi cambiamenti di umore, i suoi scatti, le sue ribellioni, ma anche il suo bisogno di tenerezza. Momenti rari, ma ci sono anche quelli. E soprattutto devi darle quella sicurezza che, spesso, neanche tu hai. Ma che devi fingere di avere.

E adesso è qui, davanti a me, che dice che si vuole sposare. "Scusa, ma Massimo non viene a parlarne anche con me? Tuo padre andò a chiedere la mia mano a tuo nonno, con l'anello di fidanzamento in tasca." "Mammaaa, ti prego! Quella è preistoria. Se ti va, domenica vieni a pranzo a casa loro, alla Giustiniana, così conosci sua madre e i suoi fratelli. Ma non azzardarti a parlare né di fidanzamento né di matrimonio. Quella è una cosa solo mia e di Massimo. E vedi di non fare comunicati stampa con i tuoi amici e parenti." "Ma non lo posso dire neanche a zia Simona?" "A lei sì." "Neanche a zio Nando?" "Anche a lui, ma poi basta." Il giorno dopo lo dissi a tutta Italia durante una puntata di “Forum”.

Nevicava a Roma il giorno che vidi Giulia, per la prima volta, con un abito da sposa. Mi aveva portata in un atelier sul lungotevere, un loft ovattato tutto di moquette bianca, pieno di abiti da sera e da cerimonia. In mezzo alla stanza c'era una poltroncina grigia, per la mamma della sposa. Strano, mi sentivo quasi intimidita. Giulia era stata, come al solito, molto chiara: "Mamma, per favore, tu non intervenire, scelgo io, e non cominciare a dire ti sta meglio questo o ti sta meglio quello. È il mio matrimonio, quindi, quando scelgo, poi non mi far venire dubbi".

Era scomparsa con la proprietaria dell'atelier nella stanza accanto. Non sapevo che fare, guardai qualche abito che potesse stare bene anche a me, ma erano troppo “da matrimonio”. Volevo qualcosa di più semplice. Più milanese. Mi avvicinai a una grande finestra sul Tevere. Roma e il Cupolone erano completamente imbiancati dalla neve che continuava a cadere, in sottofondo c'era Norah Jones che cantava Come Away with Me, “vieni via con me”, e in quel preciso momento sulla porta mi è apparsa lei, il mio Pulcino biondo, vestita di bianco. L'abito era splendido, non proprio minimal come pensavo lo scegliesse, ma era perfetto per lei, le somigliava molto. Un concentrato di donna. E ho cominciato a piangere. Fra lei, la neve e Norah Jones qualcosa di forte mi si era sciolto dentro. Nella frazione di un secondo mi era passata davanti la mia vita, le persone che ne avevano fatto parte, la bellezza di essere diventata mamma, e la fatica per averla cresciuta da sola, senza aver mai chiesto aiuto a nessuno. In quella stanza, in quel momento, c'eravamo lei, io e la nostra vita affrontata insieme. Avevamo vinto? Quel giorno pensavamo di sì.

Naturalmente, come avevo previsto, quello che doveva essere un matrimonio semplice diventò una specie di delirio di fioristi, decorazioni, fotografo, partecipazioni, scelta della chiesa, delle musiche. E poi, preventivi di menu, aperitivo e cena, ma quante portate per non fare scappare gli invitati? Andavano di moda le “isole”. Quindi, l'isola dei fritti, quella delle pizze, quella della carne, che io avrei evitata, quella dei formaggi con marmellatine e miele, quella con la fontanella del cioccolato fondente con le fragole, il menu vegetariano. La disposizione dei posti ai tavoli. Le bomboniere? No, le bomboniere non vanno più di moda, solo ai testimoni, meglio il carretto dei confetti, e quello dei gelati. I punti luce nel giardino, sugli alberi ma anche nei vialetti? E certo, vogliamo inciampare tutti? E poi gli inviti, la distribuzione dei posti ai tavoli, un incubo.

Quell'elenco di parenti e amici che si trasformava, si allungava e cambiava ogni mattina. Ma se invitiamo Tizio poi dobbiamo invitare anche Caia, no Caia no, hanno litigato di brutto due anni fa. Però a me non me ne importa niente se hanno litigato, Caia è amica mia e la invito lo stesso. No, non si può, non ci mettere in imbarazzo. Ogni nome un problema. E chi chiamiamo per suonare al dopocena? Ti sei informata di che colore è il vestito delle tue cognate? E quello di tua suocera? Non è che poi arriviamo vestite uguali? Non vorrei fare il bis, una volta a un cocktail, in via Condotti, Barbara D'Urso e io siamo state fotografate vicine con lo stesso tailleur blu di Gai Mattiolo addosso.

"Mamma, ha chiamato Fabrizio, ha detto che porta Carlotta per farcela conoscere." "Bene." "Papà viene con Elena, Giorgia viene con Manuel, così lo conosci pure tu. E tu, mamma, vieni da sola?" "Ci sono già due ex mariti, non vi basta?" No, non bastava, mica potevo fare la figura della sfigata. E allora mi sono presentata con il mio compagno di quegli anni, diventato poco tempo dopo un ex anche lui. Ma che adesso mi ritroverò, per sempre, seduto dietro di me, in tutte le foto dell'album del matrimonio.

Quel 17 giugno era cominciato con la pioggia. Giulia si sarebbe dovuta sposare alle 18 in un'antica chiesa della salita del Grillo, dietro piazza Venezia. Eravamo sul terrazzo di casa, lei, io e Stefano Bongarzone, che doveva curarle il trucco e i capelli. Ma che è soprattutto un nostro amico da sempre. Nei giorni duri o in quelli più sereni, lui c'è sempre stato. Uno degli amici che avevano accesso libero alla mia cucina per mangiare con me gli avanzi, quando mi sentivo sola. Stavamo con il naso in su a guardare il cielo, e quasi contavamo le nuvole. Questa è nera, porta pioggia, ma lì in fondo verso il mare il cielo è azzurro, forse la scampiamo. Comincia a scendere qualche goccia, aiuto, come facciamo, e se poi la pioggia ci costringe a togliere i tavoli dal giardino, dove li mettiamo tutti gli invitati? Massimo, da casa sua, decide di chiamare il colonnello delle previsioni del tempo di “Uno mattina” in Rai, e ci rassicura. Calmatevi, che per le 18 torna il sole. Aveva ragione lui.

Alle 18 in punto, malgrado il traffico di Roma, Giulia è entrata in chiesa al braccio di suo padre. Lei bella, bella, bellissima, nel suo abito bianco scelto in una giornata di neve. Lei, l'amore grande di tutta la mia vita. La scommessa vinta con me stessa, ce l'avevo fatta. E ce l'avevo fatta da sola. Roberto, con la sua divisa nera di gala, era emozionatissimo, mentre attraversava con Giulia la navata della chiesa. In fondo, vicino all'altare, c'era Max in tight. C'era il suo sorriso innamorato e felice. Avevo promesso a Giulia che non avrei pianto."Mamma, ti prego, non piangere, non roviniamoci il trucco e la giornata, che se poi ti vedo piangere piango anch'io, non fare come le altre madri che stanno con il fazzoletto in mano, è un giorno di gioia, mica parto per l'altra parte del mondo, ci vediamo lo stesso ogni volta che vuoi." Ma le mamme, su alcune cose, non dovrebbero mai promettere. Il cuore è più forte di ogni promessa. Perché, a un certo punto, a sorpresa, senza che ne sapessi niente, sento provenire dall'alto la voce di Al Bano che intona l'Ave Maria di Gounod. Non ho pianto, come mi aveva proibito Giulia. Giuro. No, a quel punto ho proprio cominciato a singhiozzare. Singhiozzi che non riuscivo a frenare. Al Bano era arrivato qualche ora prima a Roma dalla Russia, con Cristèl e Romina jr., e si era catapultato dall'aeroporto alla sacrestia della chiesa, passando dalla porticina secondaria perché nessuno lo vedesse. Poi, nel silenzio della navata, aveva voluto regalare con la sua voce una preghiera a Giulia e Massimo.

L'amicizia, dicono tutti, è una forma d'amore. Per me è più forte ancora dell'amore. Se mi tradisci ti cancello. È un sentimento che ti permette di rimanere te stesso, senza doverti per forza mettere una maschera per compiacere l'idea che l'altro si è fatto di te. Come spesso succede quando ti innamori. In amicizia ci si annusa, come fanno gli animali, ci si riconosce, non ci sono i colpi bassi che ti tolgono il fiato. Con un amico apri tutte le porte, anche quelle che ti fanno più paura, sfidi gli altri, ti senti protetto, anche quando lo sbrani per un'idea diversa dalla tua. Gli vuoi bene lo stesso, ci metti un secondo a fare pace. Nella mia vita, senza gli amici, non sarei mai andata troppo lontano. Hanno colorato anche i giorni più bui. Ho sempre preferito gli amici “maschi”, come dicevo da piccola. Più veri, più diretti. Sono il pianeta sul quale vorrei vivere, mi divertono i loro discorsi, senza troppi fronzoli. Forse dipende dal fatto di essere cresciuta in caserma, in mezzo ai Carabinieri. Di aver passato i pomeriggi allo spaccio, o in mezzo ai cavalli. Stare con gli uomini è come mangiare una fetta di pane casereccio con il pomodoro e l'origano. La mia merenda preferita. La più semplice in assoluto. E continuo a pensarla così, anche oggi.

I miei amici, negli anni, hanno sempre avuto a che fare con la musica. Se un uomo non ama la musica e gli animali non può entrare in sintonia con me. Gianni Togni, Al Bano, Massimo Ranieri. Per un lungo periodo ho frequentato, con Fabrizio, anche Antonello Venditti. Erano gli anni di Ci vorrebbe un amico. Mi disse una volta che scriveva le sue canzoni sedendosi davanti al muro bianco della sala d'incisione, e che poi sfondava quel muro su Roma con le emozioni che gli nascevano dentro in quel momento. Probabilmente fu davanti a quel muro che scrisse anche Grazie Roma, la canzone che Lollo canta ogni volta che va allo stadio a seguire la sua squadra. Anche se, senza Totti, dice che non è più la stessa cosa.

 

La musica crea le forme del mio vivere e del mio muovermi in mezzo alla gente, come succede con il mare. Senza di loro mi manca l'aria, l'ossigeno per il cervello. La prima cosa che faccio appena mi sveglio la mattina è accendere la radio, se becco una canzone che mi piace sarà una giornata fortunata. Amo le voci di Giorgia e Alessandra Amoroso. Mi ritrovo nelle parole delle loro canzoni, e in quel Comunque andare che non mi ha mai fermata, malgrado le montagne di pietre che mi sono rotolate sulla strada. Nel Dove sono i colori, che per un lungo periodo si erano spenti nella mia testa. Era diventato tutto grigio e nero, avevo un torpore mentale che azzerava ogni voglia di parlare, di leggere, di guardare la televisione. Facevo fatica a tirare su le tapparelle della stanza la mattina, fatica ad alzarmi, a guardarmi allo specchio, a uscire di casa. E allora tornavo a letto, nascondevo la faccia sotto il piumone, solo in quel modo mi sentivo al sicuro. Non è sano, mi dicevo, non è da te, datti una mossa, quello che stai facendo è uno schiaffo in faccia a chi vorrebbe vivere e non può. Devi reagire anche per loro. Non riuscivo più neanche a fare la solita telefonata a Paola: "Ci andiamo a prendere un caffè?". Un'apatia che cercavo di contrastare in tutti i modi senza riuscirci. Mi addossavo la colpa di tutto. Sono io che sono inadeguata, sono io che non so più amare, è colpa mia se ho perso il lavoro, faccio sempre le scelte sbagliate, voglio un abbraccio che non tornerà più, ci sarà ancora un po' di serenità anche per me? Un uomo che mi dica, stai tranquilla, ci sono io vicino a te, penso a tutto io, appoggiati a me.

 

Forse mi erano caduti sulle spalle, all'improvviso, tutta la fatica e il dolore di quegli anni affrontati sempre davanti alle telecamere, facendo finta di vivere, mentre in realtà mi stavo solo salvando la pelle. E me la stavo salvando da sola. Guardavo gli alberi davanti alla mia finestra con la certezza che non avrei mai più rivisto il mondo a colori. E invece una mattina mi si è tirata su la saracinesca nel cervello. Pioveva, ma io vedevo il riflesso dell'arcobaleno nelle gocce sui vetri. Rivedevo i colori. Ce l'avevo fatta, per l'ennesima volta. Ero stata più forte io. Ho incrociato le gambe sul letto e ho ricominciato a fare il mio solito giro mattutino di telefonate alle amiche. "Che facciamo, andiamo a mangiare al mare?"

 

Amiche… una parola preziosa, ma spesso complicata. Qualche delusione l'ho beccata anch'io. A volte si creano strani meccanismi, fra donne, di competitività stupide, sia nel lavoro sia quando si tratta di uomini. A me non è mai successo di innamorarmi dell'uomo di un'altra donna, per esempio. Me ne sono sempre tenuta alla larga, perché sono, per principio, dalla parte delle mogli. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, lo ripeto continuamente, proprio perché a me di male ne è stato fatto tanto e ho pagato pure con gli interessi. Mi piacciono le strade che uniscono, non quelle con il bivio dove ci si perde, una che va da una parte e una dall'altra. Le donne, quando si uniscono, potrebbero davvero fare muro contro il mondo. E invece ho scoperto che la solidarietà fra donne, nel lavoro, fa fatica a esistere. Quando dopo la scalata raggiungono i vertici, si comportano esattamente come gli uomini, scattano gli stessi meccanismi, è quasi impossibile che aiutino una collega a farsi strada. Hanno paura dell'eterno Eva contro Eva. È più facile ritrovartele vicine, invece, quando stai male, o ti senti uno straccio perché lui ti ha lasciata, per esempio. Se ti ha tradito. Se ti vedono piangere, per qualunque tipo di dolore. Allora ce le hai tutte intorno, pronte a raggiungerti anche di notte, se le chiami perché hai un attacco di panico. Hanno la pazienza di ascoltarti per ore al telefono. Nella tua disfatta si sentono più forti e generose. Non rappresenti un pericolo per la loro autostima. Più difficile vedertele intorno quando vivi un successo professionale, quando ti intuiscono nuovamente sicura di te stessa, magari con un nuovo fidanzato vicino, e la voglia di ributtarti nella mischia, dopo i mesi passati a sentirti una perdente.

 

Che poi non è vero che siamo perdenti. Siamo solo sotto botta. I colpi li prendiamo, ci facciamo anche male, ma dobbiamo imparare a metterci i cerotti da sole. Ecco, alcune amiche non sopportano che tu ti metta i cerotti, vogliono vedere la ferita. Ma quelle sono amiche a metà. Poi ci sono le amiche che pensavi di avere perso per strada e che qualche volta ritornano. E sono i ritorni più belli, finché durano. Perché le cose rotte, rimangono rotte, difficile aggiustarle per sempre. Infine ci sono le amiche sorelle, quelle che, per difenderti, diventano guerriere. Tre nomi per tutte, nella mia vita. Paola, Mara e Alessandra. Porto le unghie corte, ma graffio, e graffio da far male, per difendere le mie amicizie. Non voglio metterci solo il cuore, ci metto anche la faccia. Sono una che non si tira mai indietro, che fa squadra. Soprattutto con le donne sole come me, perché le loro fragilità, anche se qualche volta sono travestite da arroganza, sono uguali alle mie. Non ho ancora imparato a neutralizzare le fregature dietro l'angolo, me ne accorgo sempre troppo tardi, ma ormai ho imparato a dirmi “Lascia perdere, Rita, c'è di peggio, non è un problema tuo”.

 

 

Quando ho incontrato M., non ero certo in cerca di rogne. Mi bastavano tutte quelle che avevo già avuto. Ma lui era un uomo che sapeva fin troppo bene come usare il suo fascino su di me. Un creativo, in mezzo a una marea di persone creative come lui. Un uomo risolto, pensavo, quindi solido nelle sue certezze. Mi ci sarei potuta appoggiare. Quello giusto per aiutarmi, in quel momento della mia vita. Dovevo ricostruire un pezzo della nuova Rita. L'ennesima nuova Rita. Mi sono reinventata un sacco di volte. Di mazzate sui denti ne ho prese tante, nel lavoro e nella vita privata. Ma le ringrazio, quelle bastonate, perché mi hanno sempre dato la consapevolezza della mia voglia di non arrendermi, di non farmi mangiare dai cannibali che via via mi ritrovavo davanti, e di rialzarmi sempre. Non è stato facile, ma ogni volta che qualcuno ha tentato di distruggermi si è sempre trovato di fronte una donna diversa, e più forte di prima. E quello che mi rende orgogliosa del lavoro che ho fatto su me stessa, perché si è trattato di un vero lavoro, è che non ho mai avuto bisogno di appoggiarmi a nessuno, per rinascere. Non c'era mai nessuno, in quei momenti. Mi è costato, mi sono anche fatta male da sola, ma ho sempre detestato piangermi addosso. E non sopporto chi lo fa. I piagnistei attirano solo negatività. “Come stai?” “Benissimo” sorrido e passo ad altro. Perché come sto, in realtà, lo so soltanto io. Per molti il come stai è solo una domanda buttata lì, un modo banale di approccio.

 

Lui mi ha incontrata, che mi ero appena reinventata per l'ennesima volta, una sera di settembre a una cena dove non volevo nemmeno andare. E mi ha chiesto, appunto, "Come stai?". Che gliene importa, a questo, di come sto, ho pensato subito sulla difensiva, non ci siamo mai visti prima. Da quella sera, dove mi ha tenuta a parlare per tre ore in un angolo della terrazza, e mi sono ammazzata di freddo pur di non rientrare a prendere il mio scialle, non ci siamo più lasciati per due lunghissimi anni.

 

Non ho mai passato la mia vita a flirtare con gli uomini, l'ho sempre trovata una perdita di tempo. Però se uno mi interessa davvero mi innamoro. E le mie storie le porto avanti, anche contro me stessa, e non fa niente se capisco, fin dall'inizio, che sono storie sbagliate. Non rinnego mai niente di quello che ho vissuto, l'ho sempre detto anche nelle interviste. Sono stata molto amata, e ho molto amato anch'io, il problema però è che non ho mai perso l'abitudine di scegliere gli uomini sbagliati. Tranne uno. Uno solo. Ma lui era un'altra cosa.

 

Alla fine dei due anni con M., arrivo a una notte di Ferragosto di qualche anno fa, con i fuochi d'artificio sul mare, il profilo di Monte Pellegrino davanti alla finestra e tante barche in rada. È la prima volta che dormo qui, nella mia nuova microcasa di Mondello, sopra il porticciolo dei pescatori. L'ho desiderata da quando ero una bambina, una casetta come questa. Seduta sotto l'ombrellone, dicevo a mio nonno: "Un giorno ce l'avrò anch'io una casa qui, per guardare il mare". Da quei giorni pieni di azzurro, di cui ricordo tutto, la vita, poco alla volta, mi ha portato via i pezzi più importanti della mia famiglia. I miei nonni e i miei genitori. E poi lavoravo tanto, c'era Giulia da crescere, “Forum”, il mio matrimonio con Fabrizio. Ma c'era sempre anche questo chiodo fisso di una casetta a Mondello. Non me lo toglievo mai dalla testa. Ho messo in croce per anni i miei amici di Palermo perché me ne cercassero una, ma niente, nessuno vendeva. E io, che non potevo stare senza quel mare e quei profumi, ogni tanto scendevo a Mondello per passare qualche giorno alla Torre, un albergo a strapiombo sul mare, di proprietà di carissimi amici della mia famiglia. Lo stesso albergo dove stavano andando a cenare papà ed Emanuela quella maledetta sera del 3 settembre di tanti anni prima.

 

A ripensarci adesso, la mia ostinazione nel volere proprio una casetta a Mondello era forse un modo inconscio di mandare un messaggio a quei bastardi che li avevano ammazzati. Avete fermato loro, ma io ci sono ancora. Io porto quel cognome che a voi continua a dare così fastidio. Io amo questa terra, questa città, malgrado voi. E i palermitani perbene amano me e i miei fratelli, sempre malgrado voi. Io qui ritrovo la memoria della mia famiglia, qui ci sono le tavolate della domenica sera a casa dei miei nonni, con gli zii e i miei cugini. Qui c'è l'ultimo respiro di papà ed Emanuela. E io non smetterò mai di maledirvi per il male che avete fatto a loro e a noi. Io vi starò fra i piedi per ricordarvi, con la mia presenza, quanto vi odio. Molti miei amici mi hanno detto: "Ma come ti viene in mente di voler comprare una casa nella città dove hanno ucciso tuo padre? Tu non sei normale, ti rendi conto che vai a cacciarti in un casino di bruttissimi ricordi?". Pazienza, con il dolore avevo imparato a farci i conti da molto tempo, prima di quella sera.

 

Ma questa è la città dove ho messo un po' delle mie radici, anche se nessuno di noi è siciliano. Questi sono i posti dove ho vissuto con papà e mamma gli anni più belli della mia vita, qui posso mettere a fuoco le immagini delle nostre estati. Posso rivederli sulla spiaggia, seduti vicini, sulle sdraio delle cabine del reparto militare. Posso guardarli mentre si sorridono e chiacchierano davanti al mare. Giro la testa e rivedo mamma che passeggia per Mondello con zia Lydia e Bambù al guinzaglio. Ed è lì, davanti al circolo del Lauria, che ci sono le mie serate che sapevano di gelsomino. Vicino al Baretto venivo a mangiare le caldarroste con il sale sopra. "Rita, ma adesso è cambiato tutto, quei tempi non ci sono più, la vedi la spazzatura che si sta mangiando la strada?" La vedo, la spazzatura, sembra quella di Roma. Ma vedo anche il mare, che è sempre quello turchese di quando nonno ci comprava i krapfen pieni di zucchero da mangiare dopo il bagno. Questo paese di pescatori deve ritrovare fiducia in se stesso. O forse sono proprio io che voglio ritrovare fiducia in me stessa e nella mia vita. Se riesco a trovare questa benedetta casa sul mare porterò qui i miei amici cantanti, e faremo musica tutti insieme sul molo, vicino alle barche che hanno i nomi di una donna. Se qualcuno ci crede, come ci sto credendo io, potremmo creare degli eventi, in estate, cercheremo di riaccendere le stradine e le ville liberty con la cultura, faremo mostre, metteremo bancarelle di libri dappertutto, venderemo sul lungomare le vostre splendide ceramiche blu e gialle, e porteremo i turisti a mangiare pane e panelle sui gozzi colorati al largo, in mezzo al mare.

 

Erano solo sogni, è chiaro, anche se a Palermo, purtroppo, non sempre c'è posto per i sogni. I sogni di una bambina, che non si è mai arresa, innamorata di un posto dove aveva scavato nella sabbia, tanti anni prima, la cassaforte dei suoi ricordi più belli. Non le era rimasto altro. Fino a quando una sera, mangiando pesce in un ristorantino con le sedie blu, tipo quelle della Grecia, Piero, il proprietario, mi disse che c'era un pescatore che stava vendendo la sua casa, piccolissima, proprio nella piazzetta vicino alla Torre Saracena. “Nonno, un giorno anch'io avrò una casa, qui a Mondello, per vedere il mare…” La mattina dopo ero già lì, in casa del pescatore. Era all'ultimo piano, il terzo, di una palazzina con i gradini sgangherati, l'intonaco malandato, pochi metri vivibili, ma con una vista da mozzarmi il fiato. Quello sarebbe diventato il mio rifugio per il futuro, pensavo, seduta sull'unica sedia che c'era sul terrazzino, affondando gli occhi nel mare. Una distesa infinita di blu e turchese, fino a Cefalù. Ne vedevo anche il faro. Non mi interessava altro. Avevo deciso. Volevo solo tornarci con M., quello che avevo conosciuto una sera che non volevo uscire. Quello di cui mi ero profondissimamente innamorata. Quello sbagliato. Volevo che la vedesse finita, doveva essere la continuazione del mio sogno da bambina che, forse, poteva diventare anche un nostro progetto di vita.

 

Condividere, molto spesso, è più bello che vivere. Ma noi donne, quando siamo innamorate, siamo bravissime a farci i film che vogliamo vedere. Diventiamo totalmente ottuse. Ho fatto un rapido giro del soggiorno, camera da letto, bagno e cucina, mi è stato detto che era tutto a posto, mi sono fidata, ho lasciato una caparra, una stretta di mano e sono ripartita per Roma. Impazzita d'amore per la mia casa di Mondello. Non ho voluto ascoltare i consigli di nessuno: "Lascia perdere, ma sei matta, sei una donna sola, se ne approfitteranno, non ne capisci niente, ti gonfieranno i preventivi, tu vivi a Roma, come farai a controllare i lavori? Con il carattere che ti ritrovi litigherai con tutti. Ne sei sicura, ma proprio sicura sicura? Non è più semplice se te ne affitti una o vai alla Torre, quando scendi a Mondello?". "No, voglio un posto solo mio." Ormai mi ero intestardita. Mi sono fatta quattro conti (ho scoperto dopo che ne avrei dovuti fare molti di più…), ho chiesto a un mio amico architetto di Palermo, il più bravo, se poteva restaurarmela e, siccome preferisco non prendere l'aereo, è cominciato l'incubo dei viaggi in vagone letto, avanti e indietro, per andare a seguire i lavori. Se mi fossi sforzata con quel benedetto aereo, sarei potuta scendere giù più spesso, in un'ora sarei arrivata, e mi sarei evitata tanti problemi.

 

La volevo tutta bianca e turchese, con i termosifoni a parete che me la tenessero calda per l'inverno, e con “due” poltroncine rosse davanti alla finestra per guardare insieme il mare. Ma insieme a chi? È la mia prima sera in questa casa, e avresti dovuto esserci anche tu, M. Me l'avevi promesso. Sai quanto l'ho voluta e la fatica che mi è costata. Le arrabbiature prese, le infiltrazioni di acqua dal tetto quando pioveva, fin da subito, che mi allagavano il pavimento. Il condomino che si è accorto, solo dopo che l'ho comprata io, che il pescatore aveva trasformato il terrazzino in una cucina, con il tetto di amianto, e non l'aveva mai fatta abbattere né condonare, perché ormai lui stava lì da vent'anni, e nessuno gli aveva mai detto niente. Le riunioni di condominio urlanti, ostili. In tanti anni di cause a “Forum”, e di riunioni di condominio a Roma, non avevo mai assistito a niente del genere. Ma mi chiamo Rita dalla Chiesa, mi vedono in televisione e pensano di potermi fregare come vogliono. In più il mio cognome, a qualcuno, dà ancora fastidio visto che ogni tanto mi passano a salutare anche i Carabinieri. E poi, sono una donna sola. Mi avevano avvertita i miei amici, avevano ragione loro.

 

E in tutto questo casino che sto vivendo, tu sei sparito da due mesi. "Il nostro rapporto sta diventando troppo importante" mi hai detto, abbracciandomi una mattina, dopo il caffè. E allora, se un rapporto diventa importante uno che fa, scappa, secondo te? E, sempre secondo te, io mi sarei mai messa con uno che mi avrebbe mollata come un quotidiano letto sul sedile del Frecciarossa, senza sapere dove, se e come sarebbe finita la sua corsa? Alla tua età, che è quasi la mia, come si fa a dare un calcio a un amore bello che ci è stato regalato, quando sappiamo tutti e due, per esperienza, che la vita toglie molto di più di quanto regali? Avevamo fra le mani un amore che ci faceva stare bene, era la nostra forza, anche nei silenzi e nelle nostre stanchezze. Ma tu, anche quando ti innamori, vuoi continuare a fare quello che ti pare, sei tosto, e sei stato abituato così. Ecco perché non ti sei mai sposato. Bisogna sempre diffidare di quelli che non hanno mai avuto matrimoni o lunghe convivenze alle spalle. Mi hai sempre detto: "Per un uomo la storia di una notte è come bere un bicchiere di vino, la mattina dopo neanche te la ricordi più".

 

Una sera ti ho chiamato, dovevi essere a una cena di lavoro con dei tuoi colleghi. In due ore mi avevi telefonato una volta di troppo, e mi ero insospettita. "Che fai, sei a casa?" Sì, ero a casa, non mi ero appostata fuori dal ristorante, non rientra nelle mie abitudini. Ma le mie antenne non sbagliano mai, così, dopo mezz'ora, ti ho ritelefonato io con una scusa. Mi hai risposto dopo qualche squillo ma, attraverso il cellulare, non ho sentito il solito rumore tipico dei ristoranti. Però ho sentito la tua voce in un silenzio strano, che risuonava con l'eco, come se fossi stato in una stanza vuota. Lo sento ancora, quel pugno nello stomaco. "Scusa, ma dove sei?" Ancora quel silenzio. "Perché non parli? Chi c'è vicino a te, sei con qualcuna?" Sì, eri in una camera d'albergo con una che ti aveva raggiunto durante la cena. "È un'amica che non conta, fai finta che non esista, non esiste nemmeno per me."

 

Nella tua immensa imbecillità di quel momento, almeno non ti eri inventato storie, eri stato sincero. Stavamo insieme da soli tre mesi, e già mi tradivi. "Non è un tradimento, è il nulla, io amo te." E perché io devo stare male per il nulla, come lo chiami tu? C'è un'età in cui si ha bisogno di certezze, non di umiliazioni. Avevo ragione io, quando non ne volevo sapere di mettermi con te. "Mi inguaierò la vita, lasciami perdere" ti avevo detto seduti in macchina, di fronte a un cancello in piazza dei Giuochi Delfici. "No, sei tu che inguaierai me, fidati, per una volta lasciati andare, insieme possiamo essere molto felici."

 

Con estrema cautela, e zittendo le voci nella pancia che mi dicevano “occhio, questo ti frega” ho voluto vivermi questa storia. Perché, a modo suo, era anche molto bella. Abbiamo riso tanto. Sei riuscito a tirare fuori la mia parte più folle, quella meno razionale. Tutto mi sembrava nuovo, con te, mai vissuto prima. Ti sentivo “uomo”, e io mi sentivo libera. Le notti in macchina a girare per Roma ad ascoltare le playlist delle nostre canzoni, tenendoci per mano. I libri letti insieme abbracciati sul divano. Le discussioni politiche, i ricordi di quando eravamo ragazzi, ce li scambiavamo come le figurine. Volevamo appropriarci l'uno del passato dell'altra. Due materie che volevano diventare una cosa unica. Il mio era amore. Sei stato l'unico uomo di cui mi sia innamorata davvero, dopo la fine della mia storia con Fabrizio. Mi hai amata molto, lo so, anche se stare con te significava vivere perennemente con il cuore in gola, come sulle montagne russe.

 

Da donna del Nord, facevo fatica a capire l'uomo del Sud. Fascino e contraddizioni. Sicuramente è stata una grande passione. Ci siamo inseguiti per tutta Italia, pur di passare qualche ora insieme. Ecco, quelli sono i viaggi che non smetterei mai di fare. Anche se, qualche volta, solo nella mia testa. Ne ho fatti tanti, anche dentro di me. E sono stati quelli meno facili. Ti ricordi quando una notte abbiamo incontrato, in campagna, le luci di un presepe accanto a una chiesetta? Mi hai abbracciata stretta, in silenzio, e io ho pregato che quel momento durasse per sempre. Ma poi, appena mi rilassavo, e speravo di averti “bloccato”, ricominciavi a sparire per giorni interi, a dimenticare il cellulare in macchina proprio mentre ti stavo cercando per darti la buonanotte, o a lasciarlo a casa quando portavi fuori Arturo per la sua passeggiatina serale. Lunghissime pipì, quelle di Arturo.

 

Anche stasera, che avresti dovuto essere qui con me, stai usando il silenzio perché siano ben chiare le tue regole. Stiamo insieme perché ti amo, me l'hai ripetuto tante volte, ma senza rotture di scatole e scadenze. Libertà per te, ma circuito chiuso per me. Nel senso che quello che vale per te non vale per me. Perfetto, adesso te la do io una notizia, e non ti piacerà. Anch'io ho le mie regole, sai? Forse più dure delle tue. Stasera, in questa casa nuova, sto facendo il rewind della nostra storia. E mi accorgo di sorridere, pensando a te. E poi di ridere. Rido di me che ci sono cascata con tutte le scarpe, rido sul tuo profumo che ho comprato qui a Mondello, e che ho messo in bagno accanto al mio, per spruzzarlo la sera sul cuscino. Rido sul terrazzo davanti al mare lasciato così com'era, perché a te era piaciuto con le mattonelle vecchie. “Non ti azzardare a toccarle, sono belle così.” E io non le ho toccate. L'uomo del Sud ha sempre ragione. Rido perché sono rimasta al tuo fianco più tempo del dovuto, avendoti “sgamato” fin dal primo giorno, e ora ho deciso che basta, voglio darmi un'altra opportunità. Subito, immediatamente. Me la merito. Sono al mondo per essere qualcosa, non certo per vedermi passare la vita davanti.

 

Resetto tutto, anche se non sarà facile. Mi affaccio alla finestra, e poi mi rigiro a guardare la mia casetta bianca e turchese, con le due poltroncine rosse comprate all'Ikea. È Ferragosto e fuori c'è il mondo. La vita che rivoglio e di cui ho bisogno. Ci sono i fuochi d'artificio che, chissà perché, mi commuovono sempre. Respiro profondamente, cercando nell'aria il profumo amico dei gelsomini. E mi regalo un altro sogno. Un uomo che mi dedichi le parole di Frida Kahlo: “Ti meriti un amore che spazzi via le bugie, che ti porti il sogno, il caffè e la poesia”. Ci sarà sempre un altro amore dietro l'angolo. Io non mollo, non mollerò mai. Ma stasera ho deciso di mollare te. Mi spiace solo per Arturo.

 

 

Comunque andare: questa è una canzone che ho sentito subito profondamente mia. Una canzone di Alessandra Amoroso, che mi somiglia come poche altre. Se avessi chiesto a un'amica di descrivermi non avrebbe saputo farlo nello stesso modo. Davanti all'amore, a un sogno, come davanti a un'ingiustizia, non mi arrendo mai. Cerco sempre un appiglio, una speranza, che mi faccia “comunque andare”. Non sto zitta, anche se qualche volta ci hanno provato, a impedirmi di parlare. Non avevano fatto i conti con la mia testa dura e la mia dignità. La mia libertà passa attraverso le mie idee, che non sono mai quelle del gregge, quelle che devono per forza andare in un'unica direzione. Non appartengo a un partito, appartengo a me. Io sono le mie idee, ripeto sempre. Sono nata libera, e libera voglio rimanere.

 

Quando Giorgia Meloni, un pomeriggio, mi ha chiesto di incontrarci per un caffè da Ciampini, ci sono andata felice di poterla abbracciare, aspettava la sua bambina, ed era tanto che non la vedevo. Lei mi è sempre piaciuta molto, mi è sempre stata simpatica, è una donna cazzutissima, una che non ha mai fatto politica in punta di piedi camminando sulle uova. Ha il coraggio di rendersi impopolare, qualche volta, ma anche di fregarsene alla grande, se crede in quello che dice. Eccola che arriva, con la sua assistente e con i suoi occhi azzurri senza un filo di trucco, i capelli sulle spalle, allegra, sui tacchi alti che sfidano i sanpietrini. Mi si siede davanti, e mi chiede: "Vorrei che, al posto mio, corressi tu come sindaco di Roma". Ricordo di aver buttato la testa indietro e di aver preso una testata contro il muro. "Giorgia, ma scherzi, sei matta? Ma mi ci vedi sindaco di questa città? Ma non ci penso nemmeno, sarebbe un suicidio per me e per i romani. Scusa, ma perché non lo fai tu?" "E come faccio, aspetto un bambino, sono anni che sacrifico la mia vita privata per la politica, in questo momento preferisco pensare solo a lui." E si accarezza la pancia appena arrotondata.

 

Mi fa tenerezza, ha l'età di mia figlia, ma mi sta facendo una di quelle proposte che proprio non posso accettare. Amo la politica, sto sempre con il telecomando in mano a fare zapping fra un talk e l'altro, tutte le mattine ho sul letto la mia brava mazzetta di giornali per capire che aria tira, ma un conto è avere e manifestare le proprie idee, un conto è andarsi a sedere sulla poltrona del Campidoglio. "E poi lo sai che non la penso sempre come voi, non vi potrei rappresentare, ci sono molte cose che ci uniscono, ma anche tante che ci dividono, e un sindaco deve essere il sindaco di tutti, non solo di una parte." Penso alle mie battaglie per i diritti civili, per i gay, contro la caccia, contro le armi, contro le pellicce, contro lo sfruttamento degli animali nei circhi e negli zoo, il rispetto per l'essere umano di qualunque razza, religione o orientamento sessuale, per la solidarietà e l'accoglienza. Sono battaglie che, chi mi segue in tutto quello che faccio, in televisione o sui social, conosce da sempre, le porto ormai avanti da tanti anni, dai primi tempi di “Forum”.

 

Ma Giorgia Meloni è un osso più duro di me. Non molla la presa. "Almeno pensaci, ci potresti davvero dare una grossa mano. C'è bisogno di persone pulite." È vero, ha ragione Giorgia, c'è bisogno di persone pulite, ma ce ne sono tante in giro, che nessuno conosce. Gli eroi della quotidianità, incorruttibili, e che potrebbero davvero rivoltare Roma come un calzino. Il mio caffè è diventato freddo, lo lascio lì, che già sarà difficile dormire stanotte. "Scappo, devo tornare in aula, promettimi di non scartare per principio quello che ti ho detto. Almeno pensaci."

 

Torno a casa e mi prendo dieci gocce di xanax. Ho il cuore che mi batte a mille. Penso a mio padre, a mio fratello Nando, dopo lo chiamo, ne parlo con lui. Non sono strutturata per la politica, non so mettere le mani “in pasta”, e poi non voglio che si facciano speculazioni sul mio cognome. Quello vero, privato, non quello televisivo. Mi attaccherebbero tutti, da destra e da sinistra, non hanno mai capito bene da che parte stia, la libertà di pensiero non sta esattamente in un partito unico, e io già so che non sarei in grado di reggere l'urto.

 

Il giorno dopo parto per Milano, devo andare a “Mattino Cinque” per un'intervista con Federica Panicucci. Non lavoro per Mediaset da tre anni, ma per me, loro, continuano a essere la mia casa, la mia famiglia. Mi sento come E.T. telefono-casa. Ogni volta che mi ritrovo davanti all'ingresso di Cologno mi emoziono, rivedo tutta la mia vita, alzo lo sguardo verso i loghi di Canale 5, Rete 4 e Italia 1, e penso alla genialità di Silvio Berlusconi, che ha creato tutto questo. Mentre sono in camerino a truccarmi, bussano, una redattrice apre la porta, ed entra Giorgia Meloni. Ancora tu??? Ride, si siede su una poltroncina e riattacca da dove avevamo interrotto due giorni prima. Solo che io oggi sono più debole, mi trovo nell'azienda che amo, sto per scendere negli studi che conosco da trent'anni. Cavolo, forse non è vero che non ce la farei. "Più tardi ti chiamerà anche il presidente." Colpo basso, lei lo sa.

 

Scappo giù con la scusa della trasmissione. Parlo con Federica, ma la testa va per i fatti suoi. Il problema vero è che, tanto per cambiare, non può aiutarmi nessuno. Nessuno può aiutarmi a prendere una decisione così difficile. Da un lato c'è comunque la gratificazione per essere stata chiamata a un ruolo così importante, sfido chiunque a non esserne tentato. Dall'altro c'è la consapevolezza che ognuno dovrebbe fare solo quello che sa fare, non ci si improvvisa sindaco solo perché così il tuo ego schizza alle stelle. Io il sindaco non lo saprei fare. Nemmeno in un paesino di cinque anime. Almeno ho l'onestà di ammetterlo.

 

Mi ritrovo sul Frecciarossa verso Roma, come al solito con l'aria condizionata a palla, e quindi con golf, piumino e sciarpa in testa per difendermi dal freddo. Appena passata la stazione di Reggio Emilia, mi chiama il presidente Berlusconi, e gli prometto che ci saremmo visti il giorno dopo per parlarne. Ma io, dentro di me, sapevo già che la mia risposta sarebbe stata negativa. Solo che non sapevo ancora come dirlo, il mio no. Eppure, quel no l'ho detto, sentendomi in colpa per la fiducia che mi era stata data da Giorgia Meloni, e per averla messa nei casini mentre aspettava il suo bambino. Ma ci sarebbe voluto molto più coraggio, o incoscienza, ad accettare un incarico che sentivo troppo grande per me. L'avevo detto, ai miei fratelli. Se mai avessi deciso per il sì mi sarei circondata solo di Carabinieri, magistrati, poliziotti, e ufficiali della Guardia di Finanza. Ma soprattutto di persone abituate a fare i conti con le spese di tutti i giorni per arrivare a fine mese, sicuramente più brave a fare quadrare bilanci di qualunque assessore o ministro dell'Economia. Ma, secondo voi, me l'avrebbero mai fatto fare?

 

A quel punto, Giorgia si arrende, un po' incavolata, ma si arrende. Mi chiede, però, di inaugurarle almeno la campagna elettorale al Pincio. Accetto, glielo devo. Le ricordo che non la penso come lei su alcuni dei temi che affronterà nell'intervista con Antonello Piroso, le dico ridendo che si sta mettendo nelle mani di una scheggia impazzita, mi infilo un cappottino rosso, e salgo sul palco. Davanti a me vedo una distesa di tricolori, che mi allargano il cuore, che mi fanno immediatamente ritornare alle mie radici, dove mi è stato insegnato il valore dell'Italia e della patria. Ma, in mezzo a loro, riconosco anche una percentuale di persone che non mi piacciono. E io, lo so, non piaccio a loro, per fortuna.

 

Non faccio nemmeno in tempo a dire buon pomeriggio che questi cominciano subito a fischiarmi. Così, per principio. E allora li provoco. Provoco la loro ignoranza, la loro arroganza che ho sempre detestato. E parlo di unioni civili, dei diritti dei gay, di solidarietà e accoglienza, rivendico il rispetto per chiunque non la pensi come loro. Viene fuori un casino dal quale non mi sottraggo. Più mi insultano e più rispondo a tono perché so di avere ragione. Perché l'uguaglianza dovrebbe essere il passaporto per accedere a ogni società civile, la prima regola da insegnare ai nostri figli, a casa e a scuola. Sotto al palco c'è chi arriccia il naso, avverto il malumore, riconosco facce di politici che incontro spesso anche in casa di amici, e sono proprio loro quelli che protestano in modo più rumoroso. “Ma questa che dice, qualcuno la interrompa, fatela scendere, ma è matta?” Dal loro punto di vista stavo rovinando tutto. Non era certo quello che si aspettavano. Ma io l'avevo detto fin dall'inizio che il sindaco di Roma, e non solo, avrebbe dovuto occuparsi di tutti i cittadini, ma proprio di tutti tutti, e non solo di quelli di una determinata area politica, la propria.

 

È questo che non ho mai digerito. Io “sono” le mie idee, lo ripeto per l'ennesima volta, non quelle degli altri. Mi salva Matteo Salvini. Non ci credo, non è possibile, un esponente della Lega che mi difende. È la prima volta che lo incontro. Sale sul palco, si mette vicino a me, prende il microfono e dice: "Adesso basta, fatela finita. Se io vado da un dentista, a me interessa che sia bravo, non me ne frega niente del suo orientamento sessuale". Non mi sarei mai aspettata che mi venisse in soccorso proprio lui. Lo ringrazio, scendo, c'è Irene Pivetti che mi abbraccia, gli altri sono incavolati neri, ma pazienza. Sono loro ad avere dei problemi, non io. Brutta cosa il non sapersi confrontare senza urlare o offendere. Mi butto in macchina, e torno subito a casa. Mi sento libera. Dopo parecchi giorni, finalmente, non ho più bisogno dello xanax. Sono sempre più convinta di aver fatto bene a dire quel no. Anche se poi è stato difficile farlo capire a Giorgia Meloni.

 

Alla fine, la campagna elettorale, con tutto il casino delle liste che cambiavano continuamente, Bertolaso, Marchini, e qualche attrito con Berlusconi, se l'è dovuta fare lei. E da donna mi è spiaciuto moltissimo. Non si è nemmeno potuta godere il momento magico dell'attesa di un figlio. Le ho visto fare la campagna elettorale portandosi dietro il suo pancione, qualche volta le leggevo in faccia la stanchezza, e mi faceva una grandissima tenerezza. Avercene di lottatrici come lei. Non ha vinto, anche se si è battuta come una leonessa, ma le è nata una splendida bambina, Ginevra. Per lei, umanamente, la sua vittoria più bella. Io me la sono cavata con un post su Fb in cui ringraziavo i tanti che, in quei giorni, mi avevano sostenuta. L'ho scritto l'11 febbraio, un giorno importante, per me, il giorno del compleanno di mia mamma.

 

Ringrazio per tutta la stima e per l'affetto, oltre ogni aspettativa, con cui avete accolta, in questi giorni, la notizia della mia candidatura a sindaco di Roma. Dopo aver pensato a lungo alla possibilità che mi è stata offerta di essere portavoce delle richieste dei cittadini di questa città, che amo molto, ho deciso di non accettare. Ho capito che le mie priorità continuano a essere la mia famiglia e la mia professione. Questo non toglie che continuerò a lottare per le “battaglie” in cui credo, e che ho sempre portato avanti sui giornali, in televisione e sui social. Grazie a chi mi ha sostenuta ancora prima di cominciare. Sono stati giorni infernali. Ho rinunciato alla proposta che mi era stata fatta, perché voglio continuare a vivere come ho fatto fino a oggi. Io sono fuori dalle logiche dei partiti. Non voglio “colori” sulla mia pelle. Non voglio tessere. Non appartengo a nessuno schieramento. Sono trasversale. Ho votato sempre le persone, mai i partiti. Sono una che non baratterebbe mai le proprie idee per una poltrona. Tanto meno per quella di sindaco di una città come Roma, ormai allo sbando totale. Non per colpa dei romani, che meriterebbero maggior rispetto, ma per colpa di una politica buia, litigiosa, attenta più ai propri egoismi e personalismi, che al benessere e alla dignità dei cittadini. Grazie a tutti voi che mi avete espresso stima e fiducia. Grazie a chi mi ha attaccata e che mi ha fatto riflettere. Grazie alla mia famiglia, la cosa più preziosa che ho. E grazie a Umberto, un mio amico, che era all'estero per lavoro e che è corso subito a Roma, per capire in quali casini mi stessi mettendo. Da domani si ricomincia.

 

 

Sono passati quasi tre anni, non mi sono mai pentita, anche se ancora adesso, ogni tanto, mi sento chiedere per strada “Ma perché ha rinunciato? L'avremmo votata in tanti”. Meglio i rimpianti che le certezze, qualche volta.

 

 

Il mio cacciatore di stelle è nato alle 9 di mattina, un giorno d'ottobre di undici anni fa. C'era stato già qualche falso allarme, nei giorni precedenti. Corse di notte in ospedale e il ci siamo, mamma, stavolta ci siamo, ma non c'eravamo mai. Ogni volta ritornavamo a casa con la valigetta, preparata per l'emergenza, intatta. Per cui avevo avvertito la produzione di “Forum”. Per favore, registriamo una puntata in più, perché quando nasce mio nipote voglio stare vicina a Giulia. Sapevamo che era un maschietto, ma non avevano ancora deciso, lei e Massimo, come l'avrebbero chiamato. La scelta era fra Lorenzo, Gabriele e Filippo. Dipende dalla faccia che ha, dicevano. Evidentemente aveva la faccia da Lorenzo.

 

Amore mio piccolo, quanto piangeva quando l'hanno portato fuori dalla sala parto. Disperato per aver dovuto lasciare la sicurezza del pancione della mamma in cui era vissuto per nove mesi. Urlava, sembrava già arrabbiatissimo con il mondo intero, era paonazzo, con i capelli neri dritti in testa, i pugnetti chiusi, e io che lo guardavo perplessa. Cercavo qualcosa, in lui e dentro di me, che mi facesse sentire quel famoso amore grandissimo che una nonna dovrebbe provare per un nipotino. Tutti mi avevano detto: “Vedrai, l'amore per un nipote è molto più forte di quello per un figlio”. Invece niente, io ero solo preoccupata per Giulia, che stesse bene lei.

 

All'ultimo momento, il ginecologo che l'aveva seguita per tutta la gravidanza non si era presentato, forse perché avevamo preferito l'ospedale alla clinica, e lei era stata presa “in consegna” da un altro medico. Che non aveva mai visto prima. Una mancanza di professionalità e sensibilità inaccettabili. Quando sono cominciate le doglie era terrorizzata, e io più agitata di lei. Per la prima volta nella nostra vita insieme, mi sentivo impotente. Non mi avevano nemmeno fatto entrare in sala parto per tenerle la mano. Sono rimasta fuori dalla porta con Massimo, che non ricordava neanche il proprio nome, tanto era agitato pure lui. Non le sarei stata di nessuna utilità e aiuto, lo so da sola. Sarei stata probabilmente tutto il tempo con la testa girata dall'altra parte, mi conosco, ma almeno le avrei potuto tenere una mano sui capelli per tranquillizzarla.

 

Intanto guardavo le facce delle persone intorno alla culla di Lorenzo. Intuivo cosa stavano pensando, ma quanto è bruttino questo bambino. Belli voi, avrei voluto dire, vi siete mai visti allo specchio la mattina appena svegli? Sfido chiunque a superare il trauma della nascita, e presentarsi al mondo con i capelli in ordine, e un aspetto decente. Alla spicciolata stavano arrivando anche tutti i fratelli di Massimo. Ognuno trovava una somiglianza diversa. Il naso, la bocca, il taglio degli occhi. Per me, invece, è stato da subito uguale a Giulia, e non ho mai cambiato idea.

 

Di quel giorno ricordo la confusione nel corridoio del reparto maternità, la curiosità delle altre neomamme per i volti “noti” che sostavano davanti alla nostra stanza, i fiori che non sapevamo più dove mettere, e l'insofferenza di Giulia per chiunque tentasse di avvicinarsi al bambino. Alle 9 di sera mi sono ricordata che non mangiavo dal giorno prima. Massimo è sceso di corsa con suo fratello a comprarmi un pezzo di pizza, che ho mangiato di nascosto nel bagno per evitare di farmi vedere da mia figlia. Non mi sembrava carino, mi avrebbe mandata a quel paese se mi avesse sorpresa con la pizza in mano, a lei non avevano nemmeno permesso di bere un tè, era piena di dolori e aveva, dalla mattina, la flebo al braccio.

 

Il primo regalo che Lorenzo ha ricevuto, non mi ricordo più da chi, è stato un pallone della Roma. Ricordo benissimo, però, che quel giorno mi sono sentita finalmente importante per me stessa. Guardavo Lollo e Giulia, ed ero orgogliosa, perché finalmente avevo la certezza di aver costruito qualcosa di bello, nella mia vita. Tutto tornava e aveva un senso. La mia “nonnitudine”, termine bruttissimo che detesto, ma non ne trovo un altro, è cresciuta poco alla volta. Avevo paura di romperlo ogni volta che lo prendevo in braccio. "Giulia, credo che abbia fatto la pupù, posso cambiarlo?" "No, lo faccio io." "Giulia, credo che abbia sete, posso dargli il biberon con l'acqua?" "No, glielo do io." "Giulia, forse ha freddo, gli posso mettere la copertina?" "No, mamma, i bambini non hanno mai freddo." Mi sentivo totalmente inadeguata.

 

Per fortuna c'era lui, il mio cacciatore di stelle. Più mi seguiva con gli occhi, più mi stringeva il dito con la manina, più mi sembrava che sorridesse quando mi avvicinavo alla culla, e più mi innamoravo di lui. Ho registrato con il cellulare ogni momento dei suoi primi mesi, il suo primo bagnetto nel lavandino, la sua prima pappa con il cucchiaio. E poi correvo a casa a scaricare tutto sul computer per paura che mi rubassero il telefono, o mi si cancellassero dalla memoria.

 

Mi piaceva portarlo in carrozzina, anche se Giulia, tanto per cambiare, non si fidava, le prendeva l'ansia, c'era sempre qualcosa di sbagliato in tutto quello che facevo. Un giorno, per strada, abbiamo litigato in modo duro, perché mi aveva tolto la carrozzina dalle mani. Lo porto io, mi aveva detto. Aveva paura che non sapessi attraversare sulle strisce. E allora l'ho mollata lì, in mezzo al traffico, e sono tornata a casa a piedi. Mi aveva fatto sentire una deficiente nel ruolo di nonna. Ma scusa, a te chi ti ha tirata su?, le avrei voluto dire. Sei cresciuta più che bene, mi sembra. Ti è mai successo qualcosa? Vabbè, a parte quella volta che ti ho fatto cadere dal tavolo della sala da pranzo. Ti stavo cambiando, mi sono girata un attimo per prendere il pannolino pulito, tu ti sei mossa e sei caduta per terra. Hai fatto un botto… Piangevo io, piangevi tanto pure tu, amore mio, che spavento ci siamo prese. Ma quanto ti amavo già da allora.

 

Che poi, proprio tu che non volevi che portassi Lollo in carrozzina, non hai mai saputo che un pomeriggio tardi siamo usciti lui e io per andare in libreria. Quella volta che avevi accompagnato Massimo a Foggia, dalla mattina alla sera, te lo ricordi? Ecco, adesso lo sai. Gli ho fatto fare il bagnetto, gli ho messo il pigiamino, gli ho infilato la sciarpa e il piumino, e poi, siccome dovevo andare a comprare un libro che mi serviva il giorno dopo in trasmissione, l'ho caricato in macchina e l'ho portato con me. Sul sedile davanti, con la cintura di sicurezza, e Pedro che gli faceva da cuscino sotto i piedini. Se mi avesse beccato un vigile l'avrei nascosto per terra. Una pazza incosciente da galera, me lo dico da sola.

 

Ma lui con me si è sempre divertito. Ha imparato a camminare sul tappeto del mio soggiorno, aggrappandosi ai miei cani. Max aveva un po' di diffidenza nei confronti dei cani, non ne aveva mai avuti, e Lorenzo è stato, fin da piccolo, la mia “vendetta”. Faceva a metà dei suoi biscotti con Pedro, e quando Giulia lo portava a spasso, lui si sporgeva dalla carrozzina per accarezzare tutti i cagnolini del quartiere. Oggi, davanti a lui, non si può uccidere nemmeno una zanzara. Grande Lollo.

 

Altra cosa che mi faceva sentire una nonna declassata dalla serie A alla serie B era la mamma di Massimo, nonna Giulia. È sempre stata una mia terribile competitor, perché lei sa cucinare, e io no. Per cui Lorenzo è cresciuto con il mito delle sue crostate, dei suoi ciambelloni e della pizza pugliese. Quella con le patate nell'impasto. Ogni tanto ci provavo anch'io ad andare in una famosa panetteria di Ponte Milvio a comprargli dei dolci. Baravo, glieli spacciavo come fatti da me, dicevo a mia figlia, visto che ci sono riuscita pure io? E lei, regolarmente: "Non ci provare, mamma, non sei mai stata capace di fare nemmeno quelli che sono già pronti nelle buste". Così, nonna Giulia è diventata ufficialmente la nonna dei pranzi della domenica, e delle cene della vigilia di Natale, io la nonna della televisione e delle battaglie animaliste, quella che non voleva che mamma e papà lo portassero al circo e allo zoo.

 

Il primo Natale che Massimo e Giulia stavano insieme avevo proposto: "Il 24 sera da me e il 25 da tua madre". Per me la vigilia è sempre stata più importante del giorno di Natale. Ed è rigorosamente di magro. Per cui spaghetti con le vongole, pesce finto con la maionese, sogliole al burro, insalata di rinforzo e panettone allo scoccare della mezzanotte. Massimo aveva accettato, anche se non era proprio così convinto. Mai inimicarsi la suocera prima ancora di essermi sposato, deve aver pensato. E aveva rinunciato, per amore di Giulia, alla sua cena pugliese, con la mamma, i fratelli, le sorelle, i cognati e i nipoti. Io ero da sola, i miei fratelli festeggiano con i figli, uno a Milano e l'altra a Catanzaro, non potevo offrirgli una grande famiglia, ma qualcosa contavo anch'io, o no? La famiglia di Giulia eravamo sempre state lei e io. Noi due sole, una famiglia formato bonsai.

 

Quella sera ho fatto un errore imperdonabile. Come antipasto ho avuto l'idea malsana di far preparare da Oti, la tata filippina che sta con me da una vita, fin da quando vivevo con Fabrizio, gli spring rolls, gli involtini primavera, quelli con la verza dentro. E la salsa in agrodolce. A me piace unire piatti di tradizioni diverse. Lo trovo di buon augurio, mi rende allegra, lo faceva anche mia mamma. Peccato che per colpa degli spring rolls e della salsa in agrodolce quella sia stata l'unica vigilia di Natale passata a casa mia da Massimo. Che continuava a brontolare con Giulia, ma che razza di Natale è questo, con gli spring rolls, e senza le pettole pugliesi, le mandorle atterrate e le cartellate al vincotto di mia madre? Non riusciva a capire il mio spirito etnico, chiamiamolo così. Per me le tradizioni non sono solo le nostre, mi piace provare anche quelle degli altri.

 

Mia cognata Emilia dice sempre che la vera radical chic della famiglia non è lei, non sono i loro amici di Capalbio e Stromboli, ma sono io. Tipo la ex moglie francese del film Come un gatto in tangenziale. Forse, ma molto forse, ha ragione lei. Da quella sera, comunque, sono stata gentilmente invitata ad andare io da loro, senza possibilità di scelta. E, quindi, niente più spring rolls, ma notti di Natale piene di voci, di confusione, di giochi dei bambini, di caminetto acceso e di tutto quello che la mia consuocera comincia a cucinare, da una settimana prima, in puro stile foggiano. L'ho sempre ammirata, lei riesce a mettere a sedere a tavola, senza scomporsi, anche trenta persone all'ultimo momento. Suo marito, il migliore amico di Renzo Arbore, e coautore di “Quelli della notte”, “volante uno, volante due”, dopo la trasmissione portava tutti a casa sua, e lei, anche se stava dormendo, si rivestiva, scendeva in cucina e si metteva a preparare chili di spaghetti al sugo. L'opposto di me che, invece, vado nel panico se devo cucinare per più di tre persone.

 

Il momento più bello della vigilia di Natale, a casa loro, è sempre stato quello della mezzanotte. Dopo cena usciamo tutti fuori in giardino, a pregare davanti al presepe nascosto sotto l'ulivo che ho regalato a Lorenzo quando è nato. Adulti e bambini, con un freddo cane, l'odore della legna dei camini nell'aria, la paura di scivolare sul ghiaccio, e quel pizzico di tristezza che mi si piazza sempre al centro della gola. E fa fatica ad andare giù. Quanti ricordi belli. Quanta nostalgia, soprattutto adesso che Massimo non c'è più. E quanta voglia di tornare indietro nel tempo, ai Natali con i miei genitori e i miei fratelli. Li passavamo in caserma, sotto un grande tendone dove ascoltavamo la messa, in mezzo ai Carabinieri e alle loro famiglie. E al momento della cioccolata calda e del panettone, papà distribuiva i regali a tutti i bambini. Era un Natale che aveva ancora il sapore della verità e della semplicità. Un Natale d'amore. Dove il presepe che facevano Nando e papà aveva come laghetto, per i pastori, lo specchietto da borsetta di mia mamma. Dove niente, oggi, può sostituire una carezza sui capelli, la tenerezza di un padre e di una madre, di un pezzo di panettone nel piatto, e il profumo dei mandarini vicini alle noci. Ci sto pensando adesso. Forse i miei spring rolls erano solo un modo per esorcizzare la malinconia. Perché il Natale fosse meno Natale.

 

 

Il cacciatore di stelle. L'ho soprannominato così appena è nato. San Lorenzo, 10 agosto, la notte delle stelle cadenti, dei desideri che vorresti si avverassero, tutti con il naso all'insù per cercare di catturarne qualcuna. Ricordo una notte, su un pontile di Favignana, davanti al faro, che allungavo un braccio e le stelle mi piovevano tutte addosso. Non volevo altri sogni, in quel momento, avevo già tutto quello di cui avevo bisogno. L'amore. Ma le luci delle stelle, su quel mare, non le dimenticherò mai. Erano così tante e così vicine da sembrare un'unica grande stella. Un cielo illuminato a giorno.

 

Lorenzo ama il mare come me, e guarda il cielo come me. Da piccolissimo gli avevo regalato una tartaruga di peluche azzurra che proiettava le stelle sul soffitto. Con quella tartaruga ha imparato a conoscere quasi tutte le costellazioni. Adesso che è più grande, la sera, quando il cielo è terso, ci mettiamo tutti e due in terrazza per guardare con il mio telescopio i crateri della luna. E per cercare le nostre stelle. Lui quella del suo papà. Io le mie. Che belle le nostre serate nella mia casa al mare. Si sedeva con me sui gradini della scaletta di legno sulla sabbia, e stavamo in silenzio a guardare il sole che si tuffava nel mare. Quei tramonti sono stati i più belli della mia vita. Mi chiedeva: "Ma dove va il sole? Va a dormire?". E io gli rispondevo quello che rispondevo a Giulia, quando anche lei era piccola, e guardavamo i tramonti dal giardino della casa di Capri. E cioè che il sole si era messo il rossetto e stava andando a nuoto a svegliare i bimbi che dormivano nell'altra metà del mondo.

 

Quello era anche il momento del nostro aperitivo. Lui con il suo succo di frutta e le patatine, e io con la mia aranciata, corretta con le bollicine. Da lontano vedevamo passare le luci delle navi, e io riflettevo sul carico di vite e di storie che si portavano dietro. Viaggiavano per amore, per vacanza, tornavano a casa dalle loro famiglie, chi erano, erano felici, si portavano dietro un dolore, che libri avevano in valigia? Lorenzo, vedendomi assorta, correva dentro casa seguito da Pedro, che si scrollava di dosso tutta la sabbia, e prendeva il cannocchiale per controllare quanto fossero grandi quelle navi. Erano navi da crociera, yacht di lusso o pescherecci? "Nonna, ma ci sono le balene lì in fondo?" "No amore, a stento ci sono le meduse." "E dove vanno quelle navi?" "In Sicilia" gli rispondevo sempre, perché era un posto che conosceva anche lui. Ci eravamo stati, l'anno prima, con Giulia e Massimo.

 

Pur di prolungare il nostro aperitivo sulla spiaggia, e di continuare a guardare il mare che cambiava colore, mi inventavo storie di viaggi che non avevo mai fatto. Gli raccontavo delle case scavate nel ghiaccio, dove dentro però fa caldo come se ci fossero i termosifoni, e di quelle di legno, costruite sugli alberi delle foreste, per guardare dall'alto gli elefanti e i leoni. Lo incuriosiva il fatto che, essendo il mondo rotondo, noi non cadessimo nel vuoto. Non gli ho mai detto, però, che questa cosa non l'ho ancora capita nemmeno io. E non gli ho mai confessato che non sono mai stata né nelle case di ghiaccio né in quelle sugli alberi. E che le isole con gli squali e le barriere coralline di cui gli parlavo le avevo viste solo su Discovery Channel. Non gli ho nemmeno mai raccontato della mia paura di volare, di prendere l'aereo. Perché voglio che lui, così curioso di tutto, il mondo lo conosca davvero, e non solo attraverso la televisione. Non so cosa farà da grande, ma vorrei che fosse lui, un giorno, a raccontarmi i suoi viaggi e le storie della gente che incontrerà, e che non conosco. Vorrei che mi dicesse che si è innamorato e che è felice. Ma stando sempre seduti vicini su quella scaletta di legno davanti al mare.

 

 

Oggi Lorenzo ha 11 anni, è un bambino sensibile, e a parte la sua continua voglia di partire e conoscere ogni pietra di questa Terra, è fissato con il meteo, fa un tifo sfegatato per la Roma, ma un pezzetto del suo cuore tifa anche per il Foggia. La città di Massimo e della sua famiglia. Un grande amore, ma proprio immenso, e una grande complicità, interrotta troppo presto, quella fra Massimo e Lorenzo. Raramente ho visto un padre e un figlio volersi così bene. Massimo lo ha amato con tutta la forza che aveva. Chissà, forse inconsciamente “sentiva” di dovergli dare tutto subito, perché poi non avrebbe potuto vederlo crescere.

 

Erano anche amici, loro due, una bellissima amicizia fra il gigante e il suo bambino. Scappavano spesso a mangiare al mare da soli, lasciando Giulia a casa, con la scusa che tanto a Giulia il pesce non piace. O andavano a comprarsi le orecchiette e le cime di rapa da un contadino sulla via Cassia, per cucinarsele insieme la sera. A fine ottobre erano già in giro per negozi ad acquistare gli addobbi di Natale. "Voi siete pazzi" rideva Giulia, "mancano ancora due mesi." "L'albero si fa l'8 dicembre", insistevo io, "se lo fate prima si perde la poesia." Ma sai quanto gliene importava, a quei due. Era da Ferragosto che Max cominciava a dire che bello, adesso arriva il freddo e arriva Natale.

 

Rita Dalla Chiesa - Mi salvo da sola
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